XV

Si udivano i colpi delle scuri nella foresta e si vedevano le spire del turno salire tra gli alberi. La colonia dei carbonai ci salutò. Federico interrogava i lavoratori intorno all'andamento delle opere, li consigliava, li ammoniva, osservando con occhio esperto i fornelli. Tutti stavano davanti a lui in attitudini di reverenza e lo ascolvano attenti. Il lavoro d'in torno pareva esser divenuto più fervido, più facile, più giocondo, come il crepitio del fuoco efficace. Gli uomini correvano qua e là a gittar terra dove il fumo usciva con troppa copia, a chiudere con zolle i varchi aperti dalle esplosioni; correvano e vociavano. Gridi gutturali d'abbattitori si mescevano a quelle voci rudi. Rimbombava nell'interno lo schianto di qualche albero caduto. Fischiavano, in qualche pausa, i merli. E la grande foresta immobile contemplava i roghi alimentati dalle sue vite.

Mentre mio fratello compiva l'esame delle opere, io mi allontanai lasciando al cavallo la scelta dei sentieri che si diramavano pel folto. I rumori si affiochivano dietro di me, gli echi morivano. Un silenzio grave scendeva dalle cime. Io pensavo: "Come farò per risollevarmi? Quale sarà la mia vita da domani in poi? Potrò seguitare a vivere nella casa di mia madre col mio segreto? Potrò accomunare la mia esistenza con quella di Federico? Chi mai, che cosa mai al mondo potrà risuscitare nella mia anima una scintilla di fede?" Lo strepito delle opere si spegneva dietro di me; la solitudine diventava perfetta. "Lavorare, praticare il bene, vivere per gli altri…. Potreioraritrovare in queste cose il vero senso della vita? E veramente il senso della vita non si ritrova pieno nella felicità personale ma in queste cose soltanto? L'altro giorno, mentre mio fratello parlava, io credevo di comprendere la sua parola; credevo che ladottrina della veritàmi si rivelasse per la sua bocca. La dottrina della verità, secondo mio fratello, non sta nelle leggi, non sta nei precetti, ma semplicemente e unicamente nel senso che l'uomo dà alla vita. Mi pareva d'aver compreso. Ora, d'un tratto, sono ritornato nel buio; sono ridiventato cieco. Non comprendo più nulla. Chi mai, che cosa mai al mondo mi potrà consolare del bene che ho perduto?" E l'avvenire mi apparve spaventoso, senza speranza. L'imagine indeterminata del nascituro crebbe, si dilatò, come quelle orribili cose informi che noi vediamo talvolta negli incubi, ed occupò tutto il campo. Non si trattava d'un rimpianto, d'un rimorso, d'un ricordo indistruttibile, d'una qualunque più amara cosa interiore, ma di un essere vivente. Il mio avvenire era legato a un essere vivente d'una vita tenace e malefica; era legato a un estraneo, a un intruso, a una creatura abominevole contro di cui non soltanto la mia anima ma la mia carne, tutto il mio sangue e tutte le mie fibre votavano un'avversione bruta, feroce, implacabile fino alla morte, oltre la morte. Pensavo: "Chi avrebbe potuto imaginare un supplizio peggiore per torturarmi insieme l'anima e la carne? Il più ingegnosamente efferato dei tiranni non saprebbe concepire certe crudeltà ironiche, le quali sono soltanto del Destino. Era presumibile che la malattia avesse resa sterile Giuliana. Or bene, ella si dà a un uomo, commette il suo primo fallo, e rimane incinta, ignobilmente, con la facilità di quelle femmine calde che i villani sforzano dietro le siepi, su l'erba in tempo di foia. E, a punto mentre ella è piena delle sue nausee, io mi pasco di sogni, m'abbevero d'ideale, ritrovo le ingenuità della mia adolescenza, non m'occupo di altro che di cogliere fiori…. (Oh quei fiori, quegli stomachevoli fiori, offerti con tanta timidezza!) E, dopo una grande ubbriacatura tra sentimentale e sensuale, ricevo la dolce notizia—da chi?—da mia madre! E, dopo la notizia, ho un'esaltazione generosa, faccio in buona fede una parte nobile, mi sacrifico in silenzio, come un eroe di Octave Feuillet! Che eroe! Che eroe!" Il sarcasmo mi torceva l'anima, mi contraeva tutte le fibre. E di nuovo, allora, mi prese la follia della fuga.

Guardai davanti a me. In vicinanza, tra i fusti, irreale come un inganno di occhi allucinati, brillava l'Assoro. "Strano!" pensai, provando un brivido particolare. Non m'ero accorto, prima di quel momento, che il cavallo senza guida s'era inoltrato per un sentiero che conduceva al fiume. Pareva quasi che l'Assoro mi avesse attirato.

Stetti in forse, per un istante, tra il proseguire sino alla riva e il ritornare indietro. Scossi da me il fascino dell'acqua, e il cattivo pensiero. Voltai il cavallo.

Un grave accasciamento succedeva alla convulsione interna. Mi sembrò che a un tratto la mia anima fosse divenuta una povera cosa gualcita, avvizzita, rimpicciolita, una cosa miserabile. Mi ammollii; ebbi pietà di me, ebbi pietà di Giuliana, ebbi pietà di tutte le creature su cui il dolore imprime le sue stimate, di tutte le creature che tremano abbrancate dalla vita come trema un vinto sotto il pugno del vincitore inesecrabile. "Che siamo noi? Che sappiamo noi? Che vogliamo? Nessuno mai ha ottenuto quel che avrebbe amato; nessuno otterrà quel che amerebbe. Cerchiamo la bontà, la virtù, l'entusiasmo, la passione che riempirà la nostra anima, la fede che calmerà le nostre inquietudini, l'idea che difenderemo con tutto il nostro coraggio, l'opera a cui ci voteremo, la causa per cui moriremo con gioia. E la fine di tutti gli sforzi è una stanchezza vacua, il sentimento della forza che si disperde e del tempo che si dilegua…." E la vita m'apparve in quell'ora come una visione lontana, confusa e vagamente mostruosa. La demenza, l'imbecillità, la povertà, la cecità, tutti i morbi, tutte le disgrazie; l'agitazione oscura continua di forze inconscienti, ataviche e bestiali nell'intimo della nostra sostanza; le più alte manifestazioni dello spirito instabili, fugaci, sempre subordinate a uno stato fisico, legate alla funzione d'un organo; le transfigurazioni istantanee prodotte da una causa impercettibile, da un nulla; la parte immancabile di egoismo nei più nobili atti; la inutilità di tante energie morali dirette verso uno scopo incerto, la futilità degli amori creduti eterni, la fragilità delle virtù credute incrollabili, la debolezza delle più sane volontà, tutte le vergogne, tutte le miserie m'apparvero in quell'ora. "Come si può vivere? Come si può amare?"

Risonavano le scuri nella foresta: un grido breve e selvaggio accompagnava ogni colpo. Qua e là negli spiazzi i grandi mucchi, in forma di coni tronchi o di piramidi quadrangolari, fumigavano. Le colonne del fumo si levavano dense e diritte come i fusti arborei, nell'aria senza vento. Per me tutto era simbolo, in quell'ora.

Diressi il cavallo verso una carbonaia vicina, avendo riconosciutoFederico.

Egli era smontato; e parlava con un vecchio di alta statura, dalla faccia rasa.

—Oh, finalmente!—mi gridò, vedendomi.—Temevo che tu ti fossi smarrito.

—No, non sono andato molto lontano….

—Vedi qui Giovanni di Scòrdio, un Uomo—disse, mettendo una mano su la spalla del vecchio.

Guardai il nominato. Un sorriso singolarmente dolce apparve su la bocca appassita di colui. Non avevo mai veduto sotto una fronte umana occhi tanto tristi.

—Addio, Giovanni. Coraggio!—soggiunse mio fratello, con quella voce che pareva avere talvolta, come certi liquori, la potenza d'elevare il tono vitale.—Noi, Tullio, possiamo riprendere la via della Badiola. È già tardi. Ci aspettano.

Rimontò a cavallo. Salutò di nuovo il vecchio. Passando presso ai fornelli, dava qualche avvertimento ai lavoratori per le operazioni della notte prossima in cui doveva apparire ilgran fuoco. Ci allontanammo, cavalcando l'uno a fianco dell'altro.

Il cielo si apriva sul nostro capo, lentamente. I veli dei vapori fluttuavano, si disperdevano, si ricomponevano, così che l'azzurro pareva di continuo impallidire come se nella sua liquidità un latte di continuo si diffondesse e si dileguasse. Era vicina quell'ora medesima in cui, il giorno innanzi, a Villalilla, io e Giuliana avevamo guardato il giardino ondeggiante in una luce ideale. La boscaglia in torno cominciava a dorarsi. Gli uccelli cantavano, invisibili.

—Hai osservato bene Giovanni di Scòrdio, quel vecchio?—mi chieseFederico.

—Sì—risposi.—Credo che non dimenticherò il suo sorriso e i suoi occhi.

—Quel vecchio è un santo—soggiunse Federico.—Nessun uomo ha lavorato e sofferto quanto quel vecchio. Ha quattordici figliuoli e tutti a uno a uno si sono distaccati da lui come i frutti maturi si distaccano dall'albero. La moglie, una specie di carnefice, è morta. Egli è rimasto solo. I figli l'hanno spogliato e rinnegato. Tutta l'ingratitudine umana s'è accanita contro di lui. Egli non ha esperimentata la perversità degli estranei ma quella delle sue creature. Intendi? Il suo stesso sangue s'è inviperito in altri esseri ch'egli ha sempre amato ed aiutato, che ama ancora, che non sa maledire, che certamente benedirà nell'ora della morte, anche se lo lasceranno morir solo. Non è straordinaria, quasi incredibile, questa pertinacia d'un uomo nella bontà? Dopo tutto quel che ha sofferto, egli ha potuto conservare il sorriso che tu gli hai veduto!Farai bene, Tullio, a non dimenticare quel sorriso….

L'ora della prova, l'ora temuta e desiderata a un tempo, si approssimava. Giuliana era pronta. Ella aveva resistito fermamente al capriccio di Maria; aveva voluto rimanere sola nella sua stanza ad aspettarmi. "Che le dirò? Che mi dirà ella? Quale sarà la mia attitudine verso di lei?" Tutte le prevenzioni, tutti i propositi si disperdevano. Non mi restava se non un'ansietà intollerabile. Chi avrebbe potuto prevedere l'esito del colloquio? Io non mi sentivo padrone di me, non delle mie parole, non dei miei atti. Soltanto sentivo in me un viluppo di cose oscure e contrarie che al minimo urto dovevano insorgere. Mai come in quell'ora avevo avuto chiara e disperata la conscienza delle discordie intestine che mi straziavano, la percezione degli elementi irreconciliabili che si agitavano nel mio essere e si soverchiavano e si distruggevano a vicenda in un perpetuo conflitto, ribelli a qualunque dominio. Alla commozione del mio spirito si aggiungeva un particolare turbamento del senso, promosso dalle imagini che in quel giorno mi avevano torturato senza tregua. Io conoscevo bene, troppo bene, quel turbamento che meglio d'ogni altro rimescola il fango infimo nell'uomo; conoscevo troppo bene quella bassa specie di concupiscenza da cui nulla ci può difendere, quella tremenda febbre sessuale che per alcuni mesi m'aveva tenuto avvinto a una donna odiata e disprezzata, a Teresa Raffo. Ed ora i sentimenti di bontà, di pietà e di forza, che m'erano necessari per sostenere il confronto con Giuliana e per insistere nel proposito primitivo, si movevano in me come vapori vaghi su un fondo limaccioso, pieno di gorgogli sordi, infido.

Mancava poco a mezzanotte, quando io uscii dalla mia stanza per andare verso quella di Giuliana. Tutti i rumori erano cessati. La Badiola riposava in un silenzio profondo. Stetti in ascolto; e mi parve quasi di sentir salire nel silenzio la respirazione calma di mia madre, di mio fratello, delle mie figliuole, degli esseri inconsapevoli e puri. Mi riapparve il volto di Maria addormentata, quale io l'avevo veduto la notte innanzi; Mi apparvero anche gli altri volti; e in ciascuno era un'espressione di riposo, di pace, di bontà. Un intenerimento subitaneo m'invase. La felicità, nel giorno innanzi per un momento intraveduta e scomparsa, ribalenò al mio spirito immensa. Se nulla fosse accaduto, se io fossi rimasto nella piena illusione, che notte sarebbe stata quella! Sarei andato verso Giuliana come verso una persona divina. E quale cosa avrei potuto desiderare più dolce di quel silenzio intorno all'ansietà del mio amore?

Passai per la stanza dove la sera innanzi avevo ricevuto dalla bocca di mia madre la rivelazione improvvisa. Riudii l'orologio a pendolo che aveva segnata l'ora; e, non so perché, quel tic tac sempre eguale aumentò la mia ambascia. Non so perché, mi parve di sentir rispondere alla mia l'ambascia di Giuliana, a traverso lo spazio che ancora ci divideva, con un'accelerazione di palpiti concorde. Camminai diretto, senza più soffermarmi, senza evitare lo strepito dei passi. Non picchiai all'uscio ma d'un tratto l'apersi; entrai. Giuliana era là, d'avanti a me, in piedi; con una mano poggiata all'angolo di un tavolo immobile, più rigida di un'erma.

Vedo ancora tutto. Nulla mi sfuggì allora; nulla mi sfugge. Il mondo reale era completamente svanito. Non restava più se non un mondo fittizio in cui respiravo ansioso, col cuore compresso, incapace di profferire una sillaba, ma pur tuttavia singolarmente lucido, come d'avanti a una scena di teatro. Una candela ardeva sul tavolo, aggiungendo evidenza a quell'aspetto di finzione scenica poiché la fiammella mobile pareva agitare intorno a sé quel vago orrore che lasciano nell'aria con un gran gesto disperato o minaccioso gli attori d'un dramma.

La strana sensazione si dissipò quando al fine, non potendo più sopportare quel silenzio e l'immobilità marmorea di Giuliana, proferii le prime parole. Il suono della mia voce fu diverso da quel che credevo al momento d'aprire le labbra. Involontariamente, la mia voce fu dolce, tremula, quasi timida.

—M'aspettavi?

Ella teneva le palpebre abbassate. Senza sollevarle, rispose:

—Sì.

Io guardavo il suo braccio, quel braccio immobile come un puntello, che pareva sempre più irrigidirsi su la mano poggiata all'angolo del tavolo. Temevo che quel sostegno fragile, a cui era affidata tutta la persona, da un momento all'altro cedesse ed ella stramazzasse di schianto.

—Tu sai perché io sono venuto—soggiunsi, con estrema lentezza, svellendomi dal cuore le parole a una a una.

Ella tacque.

—È vero—seguitai—è vero…. quel che ho saputo da mia madre?

Ancora tacque. Parve raccogliere tutte le sue forze. Strana cosa: in quell'intervallo io non credetti assolutamente impossibile che ella rispondesse no.

Rispose (più tosto che udire le parole io le vidi disegnarsi su le labbra esangui):

—È vero.

Ricevei in mezzo al petto un urto che forse fu più fiero di quel che m'avevan dato le parole di mia madre. Già tutto io sapevo; avevo già vissuto ventiquattro ore nella certezza; e pure quella conferma così chiara e precisa mi atterrò, come se per la prima volta mi si rivelasse la verità incommutabile.

—È vero!—ripetei, istintivamente, parlando a me stesso, avendo una sensazione simile forse a quella che avrei avuta se mi fossi ritrovato vivo e conscio in fondo a una voragine.

Allora Giuliana sollevò le palpebre; fissò le sue pupille nelle mie con una specie di spasmodica violenza.

—Tullio—disse—ascoltami.

Ma la soffocazione le spense la voce nella gola.

—Ascoltami. Io so quel che debbo fare. Ero risoluta a tutto per risparmiarti quest'ora: ma il destino ha voluto che fino a quest'ora io vivessi per soffrire la cosa più orribile, la cosa di cui avevo uno spavento folle (ah, tu m'intendi) mille volte più che della morte: Tullio, Tullio, il tuo sguardo….

Un'altra soffocazione l'arrestò, nel punto in cui la sua voce diveniva così straziante che mi dava l'impressione fisica d'un dilaceramento delle fibre più segrete. Io mi lasciai cadere su una sedia, accanto al tavolo; e mi presi la testa fra le palme, aspettando ch'ella seguitasse.

—Dovevo morire, prima di giungere a quest'ora. Da tanto tempo dovevo morire! Sarebbe stato meglio, certo, che io non fossi venuta qui. Sarebbe stato meglio che, tornando da Venezia, tu non m'avessi più trovata. Io sarei morta, e tu non avresti conosciuta questa vergogna; mi avresti rimpianta, forse mi avresti sempre adorata. Io sarei rimasta forse per sempre il tuo grande amore, il tuounicoamore, come dicevi ieri…. Non avevo paura della morte, sai; non ho paura. Ma il pensiero delle nostre bambine, di nostra madre, m'ha fatto differire di giorno in giorno l'esecuzione. Ed è stata un'agonia, Tullio, una agonia inumana, dove ho consumato non una ma mille vite. E sono ancora viva!

Soggiunse, dopo una pausa:

—Com'è possibile che, con una salute così miserabile, io abbia tanta resistenza a soffrire? Sono disgraziata anche in questo. Vedi: io pensavo, consentendo a venire qui con te, io pensavo: "Certamente mi ammalerò; quando sarò giunta là, mi dovrò mettere a letto; e non mi leverò più. Sembrerà che io muoia di morte naturale. Tullio non saprà mai nulla, non sospetterà mai di nulla. Tutto sarà finito." In vece, mi veggo ancora in piedi; e tu sai ogni cosa; e tutto è perduto, senza riparo.

Era sommessa la sua voce, debolissima, e pure lacerante come un grido acuto e iterato. Io mi stringevo le tempie e sentivo il battito così forte che n'avevo quasi ribrezzo come se le arterie fossero scoppiate fuori della cute e aderissero nude alle mie palme con la loro tunica molle e calda.

—La mia unica preoccupazione era di nasconderti la verità, non per me, ma per te, per la tua salvezza. Tu non saprai mai quali terrori mi abbiano agghiacciata, quali angosce mi abbiano soffocata. Tu, dal giorno che siamo giunti qui fino a ieri, hai sperato, hai sognato, sei stato quasi felice. Ma imagina la mia vita qui, col mio segreto, accanto a tua madre, in questa casa benedetta! Mi dicesti ieri a Villalilla, mentre eravamo a tavola, raccontandomi quelle cose tanto dolci che mi straziavano, mi dicesti: "Tu non sapevi nulla, non t'accorgevi di nulla." Ah, non è vero! Tutto sapevo, tutto indovinavo. E, quando sorprendevo nei tuoi occhi la tenerezza, mi sentivo cadere l'anima. Ascoltami, Tullio. Ho nella bocca la verità, la pura verità. Io sono qui, d'avanti a te, come una moribonda. Non potrei mentire. Credi a quel che ti dico. Non penso a discolparmi, non penso a difendermi. Oramai tutto è finito. Ma voglio dirti una cosa che è la verità. Tu sai come ti ho amato dal primo giorno che ci vedemmo. Per anni, per anni, ti sono stata devota, ciecamente, e non negli anni della felicità soltanto ma in quelli della sventura, quando in te s'era stancato l'amore. Tu lo sai, Tullio. Hai potuto sempre fare di me quel che hai voluto. Hai trovato sempre in me l'amica, la sorella, la moglie, l'amante, pronta a qualunque sacrificio per il tuo piacere. Non credere, Tullio, non credere che io ti ricordi la mia lunga devozione per accusarti; no, no. Né pure una stilla di amarezza ho nell'anima per te; intendi? né pure una stilla. Ma lascia, in quest'ora, che io ti ricordi la devozione e la tenerezza durate per tanti anni e che io ti parli d'amore, del mio amorenon interrotto, non cessato mai,intendi?,non cessato mai. Credo che la mia passione per te non sia stata mai così intensa come in queste ultime settimane. Tu mi raccontavi ieri tutte quelle cose…. Ah se io potessi raccontarti la mia vita di questi ultimi giorni! Tutto sapevo di te, tutto indovinavo; ed ero costretta a fuggirti. Più di una volta sono stata per caderti nelle braccia, per chiudere gli occhi e lasciarmi prendere da te, nei momenti di debolezza e di stanchezza estrema. L'altra mattina, la mattina di sabato, quando tu entrasti qui con quei fiori, io ti guardai e mi sembrastiquello d'una volta, così acceso, com'eri, sorridente, gentile, con gli occhi lucidi. E mi mostrasti le scalfitture che avevi nelle mani! Un impeto mi venne, di prenderti le mani e di baciartele…. Chi mi diede la forza di contenermi?Non mi sentivo degna.E vidi in un lampo tutta la felicità che tu mi offrivi con quei fiori, tutta la felicità a cui dovevo rinunziare per sempre. Ah, Tullio, il mio cuore è a tutta prova se ha potuto resistere a certe strette. Ho la vita tenace.

Ella pronunziò quest'ultima frase con una voce più sorda, con un accento indefinibile, quasi d'ironia e d'ira. Io non osavo alzare il viso e guardarla. Le sue parole mi davano un'atroce sofferenza; e pure io tremavo quando ella faceva una pausa. Temevo che ad un tratto le mancassero le forze e che ella non potesse più continuare. E io aspettavo dalla sua bocca altre confessioni, altri lembi d'anima.

—Grande errore—ella continuò—grande errore non esser morta prima del tuo ritorno da Venezia. Ma la povera Maria, ma la povera Natalia, come le avrei lasciate?

Ella esitò un poco.

—Te anche, forse avrei lasciato male…. Ti avrei lasciato qualche rimorso. La gente ti avrebbe accusato. Non avremmo potuto nascondere a nostra madre…. Ella ti avrebbe domandato: "perché ha voluto morire?" Sarebbe giunta a conoscere la verità che le abbiamo nascosta fino ad ora…. Povera santa!

Le si chiudeva la gola, forse; perché la sua voce si affiochiva, prendeva un tremolìo di pianto contenuto. Lo stesso nodo serrava la mia gola.

—Ci pensai. Anche pensai, quando tu volesti condurmi qui, che ero divenuta indegna di lei, indegna d'essere baciata su la fronte, d'essere chiamata figliuola. Ma tu sai come noi siamo deboli, come facilmente ci abbandoniamo alla forza delle cose. Io non speravo più nulla; sapevo bene che, fuori della morte, non c'era altro scampo per me; sapevo bene che ogni giorno più il cerchio si stringeva. E pure, lasciavo passare i giorni a uno a uno, senza risolvermi. E avevo un mezzo sicuro per morire!

Ella s'arrestò. Obedendo a un impulso repentino, io levai il viso e la guardai fissamente. Un gran fremito la scosse. E tanto fu manifesto il male che io le facevo guardandola, che di nuovo abbassai la fronte. Ripresi la mia attitudine.

Ella stava ancora in piedi. Sedette.

Seguì un intervallo di silenzio.

—Credi tu—ella mi domandò, con una timidezza penosa—credi tu che la colpa sia grave, quando l'anima non consente?

Bastò quell'accenno allacolpaper rimescolare in me d'un tratto il torbido fondo che s'era quietato; e una specie di rigurgito amaro mi salì alla bocca. Involontariamente mi uscì dalle labbra il sarcasmo. Dissi, facendo segno di sorridere:

—Povera anima!

Apparve sul volto di Giuliana un'espressione di dolore così intensa che io subito provai una fitta di pentimento acutissima. M'accorsi che non avrei potuto farle una ferita più cruda e che l'ironia in quell'ora, contro quella creatura sommessa, era la peggiore delle viltà.

—Perdonami—ella disse con l'aspetto di una donna colpita a morte (e mi parve proprio ch'ella avesse l'occhio dolce, triste, quasi infantile che avevo veduto qualche volta ai feriti adagiati nelle barelle)—perdonami. Anche tu ieri parlasti di anima…. Tu pensi ora: "Queste sono le cose che le donne dicono, per farsi perdonare." Ma io non cerco di farmi perdonare. So che il perdono è impossibile, che l'oblio è impossibile. So che non c'è scampo. Intendi? Volevo soltanto farmi perdonare da te i baci che ho presi da tua madre….

Ancora era sommessa la sua voce, debolissima, e pure lacerante come un grido acuto e iterato.

—Mi sentivo su la fronte un peso di dolore così grande che non per me, Tullio, ma per quel dolore, soltanto, per quel dolore accettavo su la fronte i baci di tua madre. E se io ero indegna, quel dolore era degno. Tu puoi perdonarmi.

Ebbi un moto di bontà, di pietà ma non cedetti. Io non la guardavo negli occhi. Il mio sguardo andava involontariamente al grembo, come per scoprire i segni della cosa tremenda; e facevo sforzi enormi per non contorcermi negli accessi di spasimo, per non darmi ad atti insensati.

—Certi giorni differivo d'ora in ora l'esecuzione del mio proposito; e il pensiero di questa casa, di ciò che sarebbe accaduto dopo in questa casa, mi toglieva il coraggio. E così svanì anche la speranza di poterti nascondere la verità, di poterti salvare; perché fin dai primi giorni la mamma indovinò il mio stato. Ti ricordi tu di quel giorno che là alla finestra, per l'odore delle violacciocche, ebbi un disturbo? Fin da allora, la mamma se ne accorse. Imagina i miei terrori! Io pensavo: "Se mi uccido, Tullio avrà la rivelazione dalla madre. Chi sa fin dove giungeranno le conseguenze del male che ho fatto!" E mi divoravo l'anima, giorno e notte, per trovare il modo di salvarti. Quando tu domenica mi domandasti: "Vuoi che andiamo martedì a Villalilla?", io acconsentii senza riflettere, mi abbandonai al destino, mi affidai alla forza del caso, alla ventura. Ero certa che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno. Questa certezza mi esaltava, mi dava una specie di demenza. Ah, Tullio, ripensa alle tue parole di ieri e dimmi se comprendi ora il mio martirio…. Lo comprendi?

Ella si chinò, si protese verso di me, come per spingermi dentro l'anima la sua domanda angosciosa; e, tenendo le dita intrecciate, si torceva le mani.

—Non m'avevi mai parlato così; non avevi mai avuta quella voce. Quando là, al sedile, tu mi domandasti: "È troppo tardi, forse?", io ti guardai e il tuo viso mi fece paura. Potevo risponderti: "Sì, è troppo tardi?" Potevo spezzarti il cuore a un tratto? Che sarebbe accaduto di noi? E allora volli concedermi l'ultima ebrezza, diventai folle, non vidi più che la morte e la mia passione.

Ella era divenuta stranamente rauca. Io la guardavo; e mi pareva di non riconoscerla, tanto era trasfigurata. Una convulsione contraeva tutte le linee del suo viso; il labbro inferiore le tremava forte; gli occhi le ardevano d'un ardore febrile.

—Mi condanni?—domandò rauca ed acre.—Mi disprezzi per quel che feci ieri?

Si coprì il viso con le mani. Poi, dopo una pausa, con un accento indefinibile di strazio, di voluttà e di orrore, con un accento venutole chi sa da quale abisso dell'essere, ella soggiunse:

—Iersera,per non distruggere quel che di te m'era rimasto nel sangue, indugiavo a prendere il veleno.

Le mani le ricaddero. Ella scosse da sé la debolezza, con un atto risoluto. La sua voce divenne più ferma.

—Il destino ha voluto che io vivessi fino a quest'ora. Il destino ha voluto che tu sapessi da tua madre la verità: da tua madre! Iersera, quando tu rientrasti qui, sapevi tutto. E tacesti, e d'avanti a tua madre mi baciasti la guancia che io ti offrivo. Lascerai che prima di morire io ti baci le mani. Non ti chiedo altro. T'ho aspettato per obbedirti. Sono pronta a tutto. Parla.

Io dissi:

—È necessario che tu viva.

—Impossibile, Tullio; impossibile—ella esclamò.—Hai tu pensatoa quel che accadrebbe se io vivessi?

—Ho pensato. È necessario che tu viva.

—Orrore!

Ed ella ebbe un sussulto violento, un moto istintivo di raccapriccio, forse perché sentì nelle sue viscerequell'altra vita, il nascituro.

—Ascoltami, Tullio. Oramai tu sai tutto; oramai non debbo uccidermi per nasconderti una vergogna, per evitare di ritrovarmi innanzi a te. Tu sai tutto; e siamo qui, e possiamo ancora guardarci, possiamo ancora parlare! Si tratta di ben altro. Io non penso di eludere la tua vigilanza per darmi la morte. Io voglio anzi che tu mi aiuti a scomparire nel modo più naturale che sia possibile per non destare sospetti qui nella casa. Ho due veleni: la morfina e il sublimato corrosivo. Forse non servono. Forse è difficile tener celato un avvelenamento. E bisogna che la mia morte sembri involontaria, cagionata da un caso qualunque, da una disgrazia. Intendi? In questo modo noi raggiungeremo lo scopo. Il segreto rimarrà fra noi due….

Ella ora parlava rapidamente, con una espressione di serietà ferma, come se ragionasse per persuadermi ad accettare un accordo utile non un patto di morte, non una parte di complice nell'attuazione d'un proposito insensato. Io lasciavo ch'ella continuasse. Una specie di fascino strano mi faceva rimaner là a guardare, ad ascoltare quella creatura così fragile, così pallida, così malata, in cui entravano onde di energia morale così veementi.

—Ascoltami, Tullio. Ho un'idea. Federico m'ha raccontato la tua follia di oggi, il pericolo che hai corso oggi su l'argine dell'Assoro, m'ha raccontato tutto. Io pensavo, tremando: "Chi sa per quale impeto di dolore s'è gittato a quel rischio!" E, ancora pensando, m'è parso di comprendere. Ho avuta una divinazione. E tutte le altre tue sofferenze future, mi si sono affacciate all'anima: sofferenze da cui nulla ti potrebbe difendere, sofferenze che aumenterebbero di giorno in giorno, inconsolabili, intollerabili. Ah, Tullio, certo tu le hai già presentite e pensi che non potresti sostenerle. Un solo mezzo c'è per salvare te, me, le nostre anime, il nostro amore; sì, lasciami dire:il nostro amore. Lasciami ancora credere alle tue parole di ieri e lasciami ripetere che io ti amo ora come non t'ho amato mai. A punto per questo, a punto perché noi ci amiamo, bisogna che io sparisca dal mondo, bisogna che tu non mi veda più.

Fu straordinaria l'elevazione morale che rialzò la voce, tutta la persona di lei, in quell'istante. Un gran fremito mi agitò; un'illusione fugace s'impadronì del mio spirito. Credetti che veramente in quell'istante il mio amore e l'amore di quella donna si trovassero di fronte alti d'una smisurata altezza ideale e scevri di miseria umana, non macchiati di colpa, intatti. Riebbi per pochi attimi la stessa sensazione provata in principio quando il mondo reale m'era parso completamente vanito. Poi, come sempre, il fenomeno inevitabile si compì. Quello stato di conscienza non mi appartenne più, si fece obbiettivo, mi diventòestraneo.

—Ascoltami—seguitò ella, abbassando la voce, come per tema che qualcuno udisse.—Ho mostrato a Federico un gran desiderio di rivedere il bosco, le carbonaie, tutti quei luoghi. Domattina Federico non potrà accompagnarci perché dovrà tornare a Casal Caldore. Andremo noi due soli. Federico m'ha detto che potrò montare Favilla. Quando saremo su l'argine…. farò quel che tu hai fatto stamani. Accadrà una disgrazia. Federico m'ha detto che è impossibile salvarsi dall'Assoro…. Vuoi?

Se bene ella proferisse parole coerenti, sembrava in preda a una specie di delirio. Un rossore insolito le accendeva la sommità delle gote, e gli occhi le splendevano straordinariamente.

Una visione del fiume sinistro mi passò nello spirito, rapida.

Ella ripetè, tendendosi verso di me:

—Vuoi?

Io m'alzai, le presi le mani. Volevo calmare la sua febbre. Una pena e una pietà immense mi premevano. E la mia voce fu dolce, fu buona; tremò di tenerezza.

—Povera Giuliana! Non t'agitare così. Tu soffri troppo; il dolore ti fa insensata, povera anima! Bisogna che tu abbia molto coraggio; bisogna che tu non pensi più alle cose che hai dette…. Pensa a Maria, a Natalia…. Io ho accettato questo castigo. Per tutto il male che ho fatto, forse meritavo questo castigo. L'ho accettato; lo sopporterò. Ma è necessario che tu viva. Mi prometti, Giuliana, per Maria, per Natalia, per quanto hai cara la mamma, per le cose che io ti dissi ieri, mi prometti che in nessun modo cercherai di morire?

Ella teneva il capo chino. E d'un tratto, liberando le sue mani, afferrò le mie e si mise a baciarmele furiosamente; e io sentii su la mia pelle il caldo della sua bocca, il caldo delle sue lacrime. E, come io tentavo di sottrarmi, ella dalla sedia cadde in ginocchio, senza lasciarmi le mani, singhiozzando, mostrandomi la sua faccia sconvolta, dove il pianto colava a rivi, dove la contrazione della bocca rivelava l'indicibile spasimo da cui tutto l'essere era convulso. E, senza poterla rialzare, senza poter più parlare, soffocato da un accesso violento d'ambascia, soggiogato dalla forza dello spasimo che contraeva quella povera bocca smorta, abbandonato da qualunque rancore, da qualunque orgoglio, non provando se non la cieca paura della vita, non sentendo nella donna prostrata e in me se non la sofferenza umana, l'eterna miseria umana, il danno delle trasgressioni inevitabili, il peso della nostra carne bruta, l'orrore delle fatalità inscritte nelle radici stesse del nostro essere e inabolibili, tutta la corporale tristezza del nostro amore, anch'io caddi in ginocchio d'innanzi a lei per un bisogno instintivo di prostrarmi, di uguagliarmi anche nell'attitudine alla creatura che soffriva e che mi faceva soffrire. E anch'io ruppi in singhiozzi. E ancora una volta, dopo tanto, rimescolammo le nostre lacrime, ahi me!, che erano così cocenti e che non potevano mutare il nostro destino.

Chi saprà mai rendere con le parole quel senso di aridità desolata e di stupore, che resta nell'uomo dopo uno spargimento inutile di pianto, dopo un parosismo d'inutile disperazione? Il pianto è un fenomeno passeggero, ogni crisi deve risolversi, ogni eccesso è breve; e l'uomo si ritrova esausto, quasi direi disseccato, più che mai convinto della propria impotenza, corporalmente stupido e triste, d'innanzi alla realtà impassibile.

Io primo terminai di piangere; io primo riebbi negli occhi la luce; io primo feci attenzione alla positura della mia persona, a quella di Giuliana, alle cose circostanti. Eravamo ancora in ginocchio l'uno di fronte all'altra, sul tappeto; e ancora qualche singulto scoteva Giuliana. La candela ardeva sul tavolo, e la fiammella si moveva a quando a quando come inchinata da un soffio. Nel silenzio il mio orecchio percepì il piccolo rumore d'un orologio che doveva essere nella stanza, posato in qualche luogo. La vita scorreva, il tempo fuggiva. La mia anima era vuota e sola.

Passata la veemenza del sentimento, passata quell'ebrietà di dolore, le nostre attitudini non avevano più significato, non avevano più ragion d'essere. Bisognava che io mi alzassi, che io sollevassi Giuliana, che io dicessi qualche cosa, che quella scena avesse una chiusura definitiva; ma io provavo per tutto ciò una strana ripugnanza. Mi pareva di non essere più capace del minimo sforzo materiale e morale. M'incresceva di trovarmi là, in quelle necessità, in quelle difficoltà, costretto a quella continuazione. E una specie di rancore sordo incominciò a muoversi vagamente in fondo a me, contro Giuliana.

M'alzai. L'aiutai ad alzarsi. Ciascun singulto, che ancora a quando a quando la scoteva, aumentava in me quel rancore inesplicabile.

È proprio vero dunque che qualche parte d'odio si cela in fondo ad ogni sentimento che accomuna due creature umane, cioè che ravvicina due egoismi. È proprio vero dunque che questa parte d'odio immancabile disonora sempre i nostri più teneri abbandoni, i nostri migliori impeti. Tutte le belle cose dell'anima portano in loro un germe di corruzione latente, e devono corrompersi.

Io dissi (e temevo che la voce mio malgrado non fosse a bastanza dolce):

—Càlmati, Giuliana. Ora bisogna che tu sii forte. Vieni, siedi qui.Càlmati. Vuoi un poco d'acqua da bere? Vuoi qualche cosa da odorare?Dimmi tu.

—Sì, un poco d'acqua. Cerca là, nell'alcova, sul tavolo da notte.

Ella aveva ancora una voce di pianto; e si asciugava la faccia con un fazzoletto, seduta su un divano basso, di contro al grande specchio d'un armario. Il singulto le durava ancora.

Entrai nell'alcova per prendere il bicchiere. Nella penombra scorsi il letto. Era già preparato: un lembo delle coperte era rialzato e discostato, una lunga camicia bianca era posata presso il guanciale. Subito il mio senso acuto e vigile percepì il fievole odore della batista, un odore svanito d'ireos e di mammola che conoscevo. La vista del letto, l'odore noto mi diedero un turbamento profondo. In fretta versai l'acqua ed uscii per portare il bicchiere a Giuliana che aspettava.

Ella bevve qualche sorso, a riprese, mentre io, in piedi d'avanti a lei, la guardavo notando l'atto della sua bocca. Disse:

—Grazie, Tullio.

E mi rese il bicchiere non vuotato se non a metà. Come avevo sete, io bevvi il resto dell'acqua. Bastò quel piccolo fatto irriflessivo per aumentare in me il turbamento. Sedetti anch'io sul divano. E tacemmo, ambedue assorti nel nostro pensiero, separati da un breve spazio.

Il divano con le nostre figure si rifletteva nello specchio dell'armario. Senza guardarci noi potevamo vedere i nostri volti ma non bene distinti perché la luce era scarsa e mobile. Io consideravo fissamente nel fondo vago dello specchio la figura di Giuliana che prendeva a poco a poco nella sua immobilità un aspetto misterioso, l'inquietante fascino di certi ritratti feminili oscurati dal tempo, l'intensa vita fittizia degli esseri creati da una allucinazione. Ed accadde che a poco a poco quell'imagine discosta mi sembrò più viva della persona reale. Accadde che a poco a poco in quell'imagine io vidi la donna delle carezze, la donna di voluttà, l'amante, l'infedele.

Chiusi gli occhi. L'Altro comparve. Una delle note visioni si formò.

Io pensavo: "Ella non ha finora mai alluso direttamente alla sua caduta, al modo della sua caduta. Una sola frase significante ella ha proferito:—Credi tu che la colpa sia gravequando l'anima non consente?—Una frase! E che ha voluto ella significare? Si tratta d'una delle solite distinzioni sottili che servono a scusare e ad attenuare tutti i tradimenti e tutte le infamie. Ma, in somma, quale specie di relazione è corsa tra lei e Filippo Arborio, oltre quella carnale innegabile? E in quali circostanze ella s'è abbandonata?" Un'atroce curiosità mi pungeva. Le suggestioni mi venivano dalla mia stessa esperienza. Mi tornavano alla memoria, precise, certe particolari maniere di cedere usate da alcune delle mie antiche amanti. Le imagini si formavano, si mutavano, si succedevano lucide e rapide. Rivedevo Giuliana, quale l'avevo veduta in giorni lontani, sola nel vano d'una finestra, con un libro su le ginocchia, tutta languida, pallidissima, nell'attitudine di chi sia per venir meno, mentre un'alterazione indefinibile, come una violenza di cose soffocate, passava ne' suoi occhi troppo neri.—Era stata sorpresa da colui in uno di quei languori, nella mia casa stessa, ed aveva patita la violazione in una specie d'inconsapevolezza, e risvegliandosi aveva provato orrore e disgusto dell'atto irreparabile, e aveva scacciato colui e non l'aveva più riveduto? O pure aveva consentito a recarsi in qualche luogo segreto, in un piccolo appartamento remoto, forse in una delle camere mobiliate per ove passano le sozzure di cento adulterii, e aveva ricevuto e prodigato sul medesimo guanciale tutte le carezze, non una sola volta, ma più volte, ma molti giorni di seguito, ad ore stabilite, nella sicurtà procuratale dalla mia incuranza? E rividi Giuliana d'avanti allo specchio nel giorno di novembre, la sua attitudine nell'appuntare il velo al cappello, il colore del suo abito, e poi il suo passo leggero "sul marciapiede dalla parte del sole."—Quella mattina era andata a un ritrovo forse?

Io soffrivo una tortura senza nome. La smania di sapere mi torceva l'anima; le imagini fisiche mi esasperavano. Il rancore contro Giuliana diveniva più acre; e il ricordo delle voluttà recenti, il ricordo del letto nuziale di Villalilla, quel che di lei m'era rimasto nel sangue, alimentavano una cupa fiamma. Dalla sensazione che mi dava la vicinanza del corpo di Giuliana, da uno speciale tremito io m'accorsi che ero già caduto in preda alla ben nota febbre della gelosia sessuale e che per non cedere a un impeto odioso bisognava fuggire. Ma la mia volontà pareva colpita da paralisi; io non ero padrone di me. Rimanevo là, tenuto da due forze contrarie, da una repulsione e da una attrazione interamente fisiche, da una concupiscenza mista di disgusto, da un oscuro contrasto che io non potevo sedare perché si svolgeva nell'infimo della mia sostanza bruta.

L'Altro, dall'istante in cui era comparso, era rimasto di continuo innanzi a me. Era Filippo Arborio? Avevo proprio indovinato? Non m'ingannavo?

Mi voltai verso Giuliana all'improvviso. Ella mi guardò. La domanda repentina mi rimase strozzata nella gola. Abbassai gli occhi, piegai il capo: e, con la stessa tensione spasmodica che avrei provato nello strapparmi da una parte del corpo un lembo di carne viva, osai chiedere:

—Il nome diquell'uomo?

La mia voce era tremante e roca, e faceva male a me medesimo.

Alla domanda inaspettata, Giuliana trasalì; ma tacque.

—Non rispondi?—incalzai, sforzandomi di comprimere la collera che stava per invasarmi, quella collera cieca che già la notte innanzi nell'alcova era passata sul mio spirito come una raffica.

—Oh mio Dio!—ella gemette angosciosamente, abbattendosi sul fianco, nascondendo la faccia in un cuscino.—Mio Dio, mio Dio!

Ma io volevo sapere; io volevo strapparle la confessione ad ogni costo.

—Ti ricordi—seguitai—ti ricordi tu di quella mattina che entrai nella tua stanza all'improvviso, su i primi di novembre? Ti ricordi? Entrai non so perché: perché tu cantavi. Cantavi l'aria di Orfeo. Eri quasi pronta per uscire. Ti ricordi? Io vidi un libro su la tua scrivania, l'apersi, lessi sul frontespizio una dedica…. Era un romanzo:—Il Segreto…. Ti ricordi?

Ella rimaneva abbattuta sul cuscino, senza rispondere. Mi chinai verso di lei. Tremavo d'un ribrezzo simile a quello che precede il freddo della febbre. Soggiunsi:

—È forse colui?

Ella non rispose, ma si sollevò con un impeto disperato. Pareva demente. Fece l'atto di gettarsi su me, poi si trattenne.

—Abbi pietà! Abbi pietà!—proruppe.—Lasciami morire! Questo che tu mi fai soffrire è peggiore di qualunque morte. Tutto ho sopportato, tutto potrei sopportare; ma questo non posso, non posso…. Se io vivrò, sarà per noi un martirio di tutte l'ore, ed ogni giorno più sarà terribile. E tu mi odierai: tutto il tuo odio mi verrà sopra. Lo so, lo so. Ho già sentito l'odio nella tua voce. Abbi pietà! Lasciami prima morire!

Pareva demente. Aveva il bisogno smanioso di aggrapparsi a me; e, non osando, si torceva le mani per trattenersi, con un orgasmo di tutta la persona. Ma io la presi per le braccia, l'attirai a me.

—Non saprò dunque nulla?—le dissi quasi su la bocca, divenuto anch'io demente, incitato da un istinto crudele che rendeva rudi le mie mani.

—T'amo, t'ho amato sempre, sono stata sempre tua, sconto con quest'inferno un minuto di debolezza, intendi?,un minuto di debolezza…. È la verità. Non senti che è la verità?

Ancora un attimo lucido; e poi l'effetto d'un impulso cieco, selvaggio, inarrestabile.

Ella cadde sul cuscino rovescia. Le mie labbra soffocarono il suo grido.

Molte cose quella stretta violenta aveva soffocate. "Selvaggio! Selvaggio!" Io rivedevo le lacrime mute che avevano riempito a Giuliana il cavo degli occhi; riudivo il rantolo ch'ella aveva emesso nel sussulto supremo, un rantolo d'agonizzante. E mi ripassava per l'anima un'onda di quella tristezza, non somigliante a nessun'altra, che dopo l'atto m'era piombata sopra. "Ah, veramente selvaggio!" La prima suggestione del delitto non era entrata in me proprio allora? Non s'era affacciata alla mia conscienza, durante la furia, un'intenzione micidiale?

E ripensavo alle amare parole di Giuliana: "Ho la vita tenace". Non la tenacità della sua vita mi pareva straordinaria ma quella dell'altra vitach'ella portava dentro; e contro quella a punto io m'esasperavo, contro quella incominciavo a macchinare.

Non erano ancora manifesti nella persona di Giuliana i segni esterni: l'allargamento dei fianchi, l'aumento del volume nel ventre. Ella si trovava dunque ancora ai primi mesi: forse al terzo, forse al principio del quarto. Le aderenze che univano il feto alla matrice dovevano esser deboli. L'aborto doveva essere facilissimo. Come mai le violente commozioni della giornata di Villalilla e di quella notte, gli sforzi, gli spasimi, le contratture, non l'avevano provocato? Tutto m'era avverso, tutti i casi congiuravano contro di me. E la mia ostilità diveniva più acre.

Impedire che il figlio nascesse era il mio segreto proposito. Tutto l'orrore della nostra condizione veniva dalla antiveggenza di quella natività, dalla minaccia dell'intruso. Come mai Giuliana, al primo sospetto, non aveva tentato ogni mezzo per distruggere il concepimento infame? Era stata ella trattenuta da un pregiudizio, da una paura, da una ripugnanza instintiva di madre? Aveva ella un senso materno anche per il feto adulterino?

E io consideravo la vita avvenire, divinata con una specie di chiaroveggenza.—Giuliana dava alla luce un maschio, unico erede del nostro antico nome. Il figliuolo non mio cresceva, incolume; usurpava l'amore di mia madre, di mio fratello; era careggiato, adorato a preferenza di Maria e di Natalia, delle mie creature. La forza dell'abitudine quietava i rimorsi in Giuliana, ed ella si abbandonava al suo sentimento materno, senza ritegno. E il figliuolo non mio cresceva protetto da lei, per le cure assidue di lei; si faceva robusto e bello; diveniva capriccioso come un piccolo despota; s'impadroniva della mia casa.—Queste visioni a poco a poco si particolarizzavano. Certe rappresentazioni fantastiche assumevano il rilievo e il movimento di una scena reale; e qualche tratto d'una tal vita fittizia s'imprimeva così forte nella mia conscienza da restarvi notato per un certo tempo con tutti i caratteri di una realtà. La figura del fanciullo era infinitamente variabile; i suoi atti, i suoi gesti erano diversissimi. Ora io me lo figuravo esile, pallido, taciturno, con una grossa testa pesante inchinata sul petto; ora tutto roseo, rotondo, gaio, loquace, pieno di vezzi e di blandizie, singolarmente amorevole verso di me, buono; ora in vece tutto nervi, bilioso, un po' felino, pieno d'intelligenza e d'istinti malvagi, duro con le sorelle, crudele verso gli animali, incapace di tenerezze, indisciplinabile. A poco a poco questa ultima figurazione si sovrappose alle altre, le eliminò permanendo, si raffermò in un tipo preciso, si animò di una intensa vita fittiva, prese perfino un nome: il nome già da tempo stabilito per l'erede mascolino, il nome di mio padre: Raimondo.

Il piccolo fantasma perverso era una emanazion diretta del mio odio; aveva contro di me la stessa inimicizia che io avevo contro di lui; era un nemico, un avversario col quale stavo per impegnare la lotta. Egli era la mia vittima ed io ero la sua. Ed io non potevo sfuggirgli, egli non poteva sfuggirmi. Eravamo ambedue chiusi in un cerchio d'acciaio.

I suoi occhi erano grigi come quelli di Filippo Arborio. Tra le varie espressioni del suo sguardo una mi colpiva più spesso, in una scena imaginaria che ogni tanto si ripeteva. La scena era questa:—Io entrava senza sospetto in una stanza immersa nell'ombra, piena d'un silenzio singolare. Credevo d'esser solo, là dentro. A un tratto, volgendomi, m'accorgevo della presenza di Raimondo che mi guardava fiso con i suoi occhi grigi e malvagi. M'assaliva subitamente la tentazione del delitto, così forte che, per non gittarmi sul piccolo essere malefico, fuggivo.

Il patto dunque tra me e Giuliana pareva concluso. Ella viveva. Ambedue seguitavamo a vivere simulando, dissimulando. Avevamo, come i dipsomani, due vite alterne: una tranquilla, tutta composta di dolci apparenze, di tenerezze filiali, di affetti puri, di atti benigni; l'altra agitata, febrile, torbida, incerta, senza speranza, dominata dall'idea fissa, incalzata sempre da una minaccia, precipitante verso una catastrofe ignota.

Io avevo qualche raro momento in cui l'anima, sfuggendo all'assedio di tante cattive cose, liberandosi dal male che la avvolgeva come di mille tentacoli, si slanciava con un grande anelito verso l'alto ideale di bontà più volte intraveduto. Mi tornavano alla memoria le singolari parole da mio fratello dette sul limite del bosco d'Assoro, riguardanti Giovanni di Scòrdio: "Farai bene, Tullio, a non dimenticare quel sorriso." E quel sorriso su la bocca appassita del vecchio prendeva un significato profondo, diventava straordinariamente luminoso, m'esaltava come la rivelazione d'una suprema verità.

Quasi sempre, in quei rari momenti, un altro sorriso mi riappariva; quello di Giuliana ancora inferma sui guanciali, il sorriso impreveduto che "s'attenuava, s'attenuava senza estinguersi." E il ricordo del lontano pomeriggio quieto in cui avevo inebriato d'un'ebrezza ingannevole la povera convalescente dalle mani così bianche; il ricordo della mattina in cui ella s'era levata per la prima volta e a mezzo della stanza m'era caduta fra le braccia ridendo e ansando; il ricordo del gesto veramente divino con cui ella m'aveva offerto l'amore, l'indulgenza, la pace, il bisogno, l'oblio, tutte le cose belle e tutte le cose buone, mi davano rimpianti e rimorsi senza fine disperati. La dolce e terribile domanda che Andrea Bolkonsky aveva letto sul viso estinto della principessa Lisa, io la leggevo di continuo sul viso ancor vivente di Giuliana: "Che avete fatto di me?" Nessun rimprovero era uscito dalla sua bocca; per diminuire la gravità della sua colpa ella non aveva saputo rinfacciarmi nessuna delle mie infamie, ella era stata umile d'innanzi al suo carnefice, non una stilla di amaro aveva inasprito le sue parole; e pure i suoi occhi mi ripetevano: "Che hai tu fatto di me?"

Uno strano ardore di sacrificio m'infiammava subitamente, mi spingeva ad abbracciare la mia croce. La grandezza dell'espiazione mi pareva degna del mio coraggio. Mi sentivo una sovrabbondanza di forze, l'anima eroica, l'intelletto illuminato. Andando verso lasorelladolorosa, io pensavo: "Troverò la buona parola per consolarla, troverò l'accento fraterno per mitigare il suo dolore, per rialzare la sua fronte." Ma, giunto alla presenza di lei, non parlavo più. Le mie labbra parevano premute da un suggello infrangibile; tutto il mio essere pareva colpito da un malefizio. La luce interiore si spengeva a un tratto, come per un soffio gelido, d'ignota origine. E nella oscurità incominciava a muoversi vagamente, quel sordo rancore che io già troppo conoscevo e non potevo reprimere.

Era l'indizio d'un accesso. Balbettavo qualche parola, smarrito, evitando di guardare Giuliana negli occhi; e andavo via, fuggivo.

Più d'una volta rimasi. Perdutamente, quando l'orgasmo diventava insostenibile, io cercavo la bocca di Giuliana; ed erano baci prolungati fino alla soffocazione, erano strette quasi rabbiose, che ci lasciavano più affranti, più tristi, divisi da un abisso più cupo, avviliti da una macchia di più.

"Selvaggio! Selvaggio!" Un'intenzione micidiale era in fondo a quelli impeti, un'intenzione che non osavo confessare a me stesso.—Se una volta alfine le contratture dello spasmo, in una di quelle strette, avessero distaccato dalla matrice il germe tenace!—Io non consideravo il mortale pericolo a cui esponevo Giuliana. Era evidente che, se un caso simile fosse avvenuto, la vita della madre avrebbe corso un grave rischio. E bene io da prima, nella mia demenza, non pensai se non alla probabilità di distruggere il figlio. Soltanto più tardi considerai che l'una vita era schiava dell'altra e che con i miei folli tentativi insidiavo l'una e l'altra insieme.

Giuliana in fatti, che forse sospettava di quali elementi ignobili si formasse il mio desiderio, non mi resisteva. Le mute lacrime dell'anima calpestata non più le riempivano il cavo degli occhi. Ella rispondeva al mio ardore con un ardore quasi lugubre. Veramente ella aveva talvolta "sudori d'agonizzante e aspetti di cadavere", che mi atterrivano. E una volta mi gridò, fuori di sé, con la voce soffocata:

—Sì, sì, uccidimi!

Compresi. Ella sperava la morte, l'aspettava da me.

Era incredibile la sua forza nel dissimulare, alla presenza degli inconsapevoli. Ella riusciva ancora a sorridere! I noti timori per la salute di lei mi davano modo di giustificare certe tristezze che non sapevo nascondere. Tali timori a punto, comuni a mia madre e a mio fratello, facevano sì che nella casa la nuova concezione non fosse festeggiata come le altre e fossero evitati i soliti pronostici ed ogni discorso allusivo. Ed era fortuna.

Ma giunse finalmente alla Badiola il dottor Vebesti.

La sua visita fu rassicurante. Egli trovò Giuliana molto indebolita, osservò in lei qualche disordine nervoso, l'impoverimento del sangue, un disturbo nutritivo generale dell'organismo; ma affermò che il processo della gravidanza non presentava anomalie notevoli e che, migliorate le condizioni generali, anche il processo del parto avrebbe potuto compiersi regolarmente. Inoltre egli mostrò di confidar molto nella tempra eccezionale di Giuliana, dalla quale anche pel passato aveva avuto prove straordinarie di resistenza. Ordinò una cura igienica e dietetica atta a ricostituirla, approvò il soggiorno alla Badiola, raccomandò il metodo, l'esercizio moderato, la tranquillità di spirito.

—Conto specialmente su voi—mi disse, con serietà.

Io rimasi deluso. Avevo riposta in lui una speranza di salvezza ed ecco, la perdevo. Prima del suo arrivo, avevo sperato: "Se dichiarasse necessario, per guarentire la madre, sacrificare il figlio ancora informe e non vitale! Se dichiarasse necessario provocare ad arte l'aborto per evitare la catastrofe sicura all'epoca della maturità!… Giuliana sarebbe salva, guarirebbe; ed io anche sarei salvo, mi sentirei rinascere. Credo che potrei quasi dimenticare, o, almeno, rassegnarmi. Il tempo chiude tante piaghe e il lavoro consola di tante tristezze. Credo che potrei conquistare la pace, a poco a poco, ed emendarmi, seguire l'esempio di mio fratello, diventar migliore, diventare un Uomo, vivere per gli altri, abbracciare la religione nuova. Credo che potrei ritrovare in questo stesso dolore la mia dignità.—L'uomo a cui è dato soffrire più degli altri, èdegnodi soffrire più degli altri.—Non è un versetto del vangelo di mio fratello? C'è dunque una elezione di dolore. Giovanni di Scòrdio, per esempio, è un eletto. Chi possiede quel sorriso possiede un dono divino. Credo che potrei meritare quel dono…." Avevo sperato. Contraddicendo al mio fervore espiatorio, avevo sperato in una diminuzione di pena!

In fatto, volendo rigenerarmi nella sofferenza, avevo paura di soffrire: un'atroce paura d'affrontare il vero dolore. La mia anima era già sfinita; e, pur avendo intraveduta la grande via ed essendo agitata da aspirazioni cristiane, si metteva per un sentiero obliquo in fondo al quale era l'abisso inevitabile.

Parlando col dottore, mostrando un po' d'incredulità per le sue previsioni rassicuranti, mostrando qualche inquietudine, io trovai il modo di esporgli il mio pensiero. Gli feci intendere che desideravo allontanato per Giuliana il pericolo a qualunque costo e che, se fosse stato necessario, avrei rinunziato al terzogenito senza rammarico. Lo pregai di non nascondermi nulla.

Egli di nuovo mi rassicurò. Mi dichiarò che, anche in un caso disperato, non avrebbe ricorso all'aborto perché nelle condizioni in cui trovavasi Giuliana, una emorragia sarebbe stata perniciosissima. Mi ripetè che bisognava anzi tutto promuovere e sostenere la rigenerazione del sangue, ricostruire l'organismo infiacchito, cercare con ogni mezzo che l'incinta giungesse all'epoca del parto restaurata di forze, fiduciosa, tranquilla. Soggiunse:

—Credo che la signora abbia specialmente bisogno di consolazioni morali. Io sono un vecchio amico. So che ella ha molto sofferto. Voi potrete sollevarla.

Mia madre rianimata moltiplicò verso Giuliana le sue tenerezze. Manifestò il suo caro sogno e il suo presentimento. Ella aspettava il nipote, il piccolo Raimondo. Erasicura, questa volta.

Mio fratello anche aspettava Raimondo.

Maria e Natalia rivolgevano spesso a me, alla madre, alla nonna, domande ingenue e graziose sul compagno futuro.

Così con presagi, con augurii, con speranze l'amor familiare incominciava ad avvolgere il frutto invisibile, l'essere ancora informe.

E i fianchi di Giuliana incominciavano ad ingrossarsi.

Un giorno eravamo rimasti io e Giuliana seduti sotto gli olmi. Mia madre ci aveva lasciati da poco. Nei suoi discorsi affettuosi ella aveva nominato Raimondo; aveva anzi rinnovato il diminutivo: Mondino, richiamando lontanissimi ricordi di mio padre morto. Io e Giuliana le avevamo sorriso. Ella aveva creduto che il suo sogno fosse il nostro sogno. Ci aveva lasciati là perché continuassimo a sognare.

Era l'ora che segue lo scomparire del sole, un'ora lucida e calma. I fogliami sul nostro capo non si movevano. A quando a quando uno stormo di rondini veemente fendeva l'aria con un rombo d'ali, con uno scoppio di gridi come a Villalilla.

Seguimmo con gli occhi la santa finché disparve. Allora ci guardammo, in silenzio, costernati. Rimanemmo in silenzio per qualche tempo, oppressi dall'immensità della nostra tristezza. E io, con una terribile intensione di tutto il mio essere, astraendo da Giuliana, sentii vivere accanto a me la creatura isolata come se null'altro in quel momento vivesse accanto a me, null'altro. E non fu una sensazione illusoria ma reale e profonda. Fu un raccapriccio che mi pervase tutte le fibre. Sussultai forte; e levai di nuovo lo sguardo al viso della mia compagna, per dissipare quella sensazione d'orrore. Ci guardammo, perduti, non sapendo che dire, che fare contro l'eccesso dello spasimo. E io vedevo nel viso di lei riflessa la mia angoscia, indovinavo il mio aspetto. E, poiché i miei occhi andarono istintivamente al grembo, come li rialzai scorsi nel viso di lei quell'espressione di terror panico che hanno gli infermi d'una infermità mostruosa quando qualcuno osserva la parte difformata dal male incurabile.

Ella disse, a voce bassa, dopo un intervallo in cui ambedue avevamo tentato di misurare la nostra pena e non avevamo trovato un termine; ella disse:

—Hai tu pensato che questo potrebbe durare tutta la vita?

Io non aprii le labbra; ma la risposta sonò dentro di me risoluta:"No, questo non durerà."

Ella soggiunse:

—Ricordati che con una parola tu puoi troncare ogni cosa, liberarti.Io sono pronta. Ricordatene.

Ancora tacqui; ma pensai: "Non tu devi morire."

Ella soggiunse, con una voce che tremava di desolata tenerezza:

—Io non posso consolarti! Non c'è consolazione per te né per me; non ci potrà essere mai…. Hai tu pensato chequalcunostarà sempre fra noi due? Se il vóto di tua madre fosse esaudito…. Pensa! Pensa!

Ma la mia anima fremeva sotto il balenio sinistro d'un solo pensiero.Io dissi:

—Tutti già l'amano.

Esitai. Guardai Giuliana rapidamente. Riabbassando subito le palpebre, chinando il capo, le chiesi con una voce che mi si spense fra le labbra:

—L'ami tu?

—Ah, che mi domandi!

Non potei non insistere, se bene soffrissi fisicamente come per riconficcare l'unghia in una lacerazione viva.

—L'ami?

—No no. L'ho in orrore.

Ebbi un moto istintivo di gioia come se per quella confessione avessi ottenuto il consenso al mio pensiero segreto e quasi la complicità. Ma aveva ella risposto il vero? O aveva mentito per misericordia di me?

M'assalì una cruda smania d'insistere ancora, di costringerla a una confessione lunga ed intera, di penetrarla bene a dentro. Ma il suo aspetto mi trattenne. Rinunziai. Mi sentivo ora disacerbato verso di lei, benché ella portasse dentro di sé la vita su cui pendeva la mia condanna. Inclinavo ora verso di lei con un sentimento di gratitudine. Mi pareva che quell'orrore, da lei confessato con un fremito, la distaccasse dalla creatura che ella nutriva e la ravvicinasse a me. E provavo il bisogno di farle intendere queste cose, di aumentare in lei l'avversione contro il nascituro come contro un nemico d'entrambi inconciliabile.

Io le presi una mano; le dissi:

—Tu mi sollevi un poco. Ti son grato. Tu intendi….

Soggiunsi, mascherando di speranza cristiana la mia intenzione micidiale:

—C'è una Provvidenza. Chi sa! Ci può essere per noi una liberazione…. Tu intendi quale. Chi sa! Prega Iddio.

Era un augurio di morte al nascituro; era un vóto. E, inducendo Giuliana a pregare Iddio che l'esaudisse, io la preparavo all'avvenimento funebre, ottenevo da lei una specie di complicità spirituale. Perfino pensai: "Se, dopo le mie parole, entrasse in lei la suggestione del delitto e divenisse a poco a poco tanto forte da trascinarla!… Certo, ella potrebbe convincersi della terribile necessità, esaltarsi al pensiero di liberarmi, avere un impeto di energia selvaggia, compiere il sacrifizio estremo. Non ha ripetuto anche dianzi che ella è pronta sempre a morire? La sua morte implica la morte del fanciullo. Ella dunque non è trattenuta da un pregiudizio religioso, dalla paura del peccato; perché, essendo disposta a morire, ella è disposta a commettere un delitto duplice, contro sè stessa e contro il frutto del suo ventre. Ma ella è convinta che la sua esistenza è utile su la terra, anzi necessaria, alle persone che l'amano e ch'ella ama; ed è convinta che l'esistenza del figliuolo non mio renderà la nostra vita un supplizio insostenibile. Anche sa che noi potremmo ricongiungerci, che potremmo forse nel perdono e nell'oblio ritrovare qualche dolcezza, che potremmo sperare dal tempo la guarigione della piaga, se tra me e lei non si levasse l'intruso. Basterebbe dunque che ella considerasse queste cose perché un vóto inutile, una preghiera inefficace si mutassero a un tratto in un proposito e in un'azione." Pensavo; ed ella anche taceva e pensava, a capo chino, tenendo ancora la sua mano nella mia, mentre cadeva su noi l'ombra dai grandi olmi immobili.

Che pensava ella? La sua fronte era pur sempre tenue e pallida come un'ostia. Cadeva forse su lei un'altra ombra, oltre quella della sera?

Io vedevo Raimondo: non più in forma del fanciullo perverso e felino dagli occhi grigi ma in forma d'un corpicciuolo rossiccio e molle, a pena a pena respirante, che una lieve pressione poteva far morire.

La campana della Badiola diede il primo tocco dell'Angelus. Giuliana ritrasse la sua mano dalla mia; e si fece il segno della croce.


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