Passato il quarto mese, passato il quinto, la gravidanza si svolgeva rapidamente. La figura di Giuliana, alta, snella e flessibile, s'ingrossava, si difformava come quella d'una idropica. Ella n'era umiliata, innanzi a me, come d'una infermità vergognosa. Un'acuta sofferenza appariva nel suo volto, quando ella sorprendeva i miei occhi fissi sul suo ventre gonfio.
Io mi sentivo sfinito, incapace di trascinare più oltre il peso di quell'esistenza miserabile. Ogni mattina, veramente, quando aprivo gli occhi dopo un sonno agitato, era come se qualcuno mi presentasse una coppa profonda, dicendomi: "Se tu vuoi bere, oggi, se tu vuoi vivere, bisogna che tu sprema qui dentro, fino all'ultima goccia, il sangue del tuo cuore." Una ripugnanza, un disgusto, un ribrezzo indefinibili mi salivano dall'intimo dell'essere, a ogni risveglio. E, intanto, bisognava vivere!
I giorni erano d'una lentezza crudele. Il tempo non fluiva ma stillava, pigro e pesante.
E avevo ancora d'innanzi a me l'estate, una parte dell'autunno, una eternità. Mi sforzavo di seguire mio fratello, d'aiutarlo nella grande opera agraria ch'egli aveva intrapreso, d'infiammarmi alla sua fede. Rimanevo a cavallo intere giornate come un buttero; mi stancavo in un lavoro manuale, in qualche bisogna facile e monotona; cercavo di ottundere l'acuità della mia conscienza stando a contatto con la gente della gleba, con gli uomini semplici e diritti, con quelli in cui poche norme morali ereditate compivano le loro funzioni naturalmente come gli organi del corpo. Più d'una volta visitai Giovanni di Scòrdio, il santo solitario; e volli udire la sua voce, volli interrogarlo su le sue sciagure, volli rivedere i suoi occhi tanto tristi e il suo sorriso tanto dolce. Ma egli era taciturno, un poco timido verso di me; rispondeva a pena qualche parola vaga, non amava parlare di sé, non amava lamentarsi, non interrompeva il lavoro a cui era intento. Le sue mani ossute, asciutte, brune, che parevano fuse in un bronzo animato, non si fermavano mai, non conoscevano forse la stanchezza. Un giorno esclamai:
—Ma quando si riposeranno le tue mani?
L'uomo probo se le guardò, sorridendo; ne considerò il dorso e il cavo, rivolgendole prone e poi supine al sole. Quello sguardo, quel sorriso, quel sole, quel gesto conferivano a quelle grosse mani incallite una nobiltà sovrana. Incallite su gli strumenti dell'agricoltura, santificate dal bene che avevano sparso, dalla vasta opera che avevano fornita, ora quelle mani erano degne di portare la palma.
Il vecchio le incrociò sul suo petto, secondo l'uso mortuario cristiano; e rispose, pur sempre sorridendo:
—Fra poco, signore, se Dio vorrà. Quando me le metteranno così, nella cassa. Così sia.
Tutti i rimedi erano vani. Il lavoro non mi giovava, non mi consolava; perché era eccessivo, ineguale, disordinato, febrile, interrotto spesso da periodi d'inerzia invincibile, d'abbattimento, d'aridità.
Mio fratello ammoniva:
—Non è questa la regola. Tu consumi in una settimana l'energia di sei mesi; poi ti lasci ricadere nell'indolenza; poi di nuovo ti getti alla fatica, senza ritegno. Non è questa la regola. Bisogna che la nostra opera sia calma, concorde, armonica, per essere efficace. Intendi? Bisogna che noi ci prescriviamo un metodo. Ma già tu hai il difetto di tutti i novizii: un eccesso di ardore. Ti calmerai, in seguito.
Mio fratello diceva:
—Tu non hai ancora trovato l'equilibrio. Tu non ti senti ancora sotto i piedila terra ferma. Non temere di nulla. O prima o poi tu potrai afferrare la tua legge. Questo t'accadrà all'improvviso, inaspettatamente, nel tempo.
Anche diceva:
—Giuliana questa volta, certo, ti darà un erede: Raimondo. Io ho già pensato al patrino. Tuo figlio sarà tenuto a battesimo da Giovanni di Scòrdio. Non potrebbe avere un patrino più degno. Giovanni gli infonderà la bontà e la forza. Quando Raimondo potrà comprendere, noi gli parleremo di questo gran vecchio. E tuo figlio sarà quel che noi non abbiamo potuto e saputo essere.
Egli tornava spesso su l'argomento; nominava spesso Raimondo; augurava che il nascituro incarnasse l'ideal tipo umano da lui meditato, l'Esemplare. Non sapeva che ognuna delle sue parole era per me una fitta e rendeva più acre il mio odio e più violenta la mia disperazione.
Inconsapevoli, tutti congiuravano contro di me, tutti facevano a gara nel ferirmi. Quando mi avvicinavo a qualcuno dei miei, mi sentivo ansioso e pauroso come se fossi costretto a rimanere al fianco d'una persona che, avendo tra le mani armi terribili, non ne conoscesse l'uso e la terribilità. Stavo in continua attesa d'un colpo. Dovevo cercare la solitudine, fuggire lontano da tutti, per avere un po' di tregua; ma nella solitudine mi ritrovavo a faccia a faccia col mio nemico peggiore: con me medesimo.
Mi sentivo segretamente perire; mi pareva di perdere la vita da tutti i pori. Si riproducevano in me talvolta sofferenze appartenute al periodo più oscuro del mio passato omai remotissimo. Non altro conservavo in me talvolta se non il sentimento della mia esistenza isolata tra i fantasmi inerti di tutte le cose. Per lunghe ore non altro sentivo se non la fissità grave, schiacciante, della vita e il piccolo battito di un'arteria nella mia testa.
Poi sopravvenivano le ironie, i sarcasmi contro me stesso, improvvise smanie di demolire e di distruggere, derisioni spietate, malignità feroci, un fermento acre del fecciume più basso. Mi pareva di non saper più che cosa fossero indulgenza, misericordia, tenerezza, bontà. Tutte le buone sorgenti interiori si chiudevano, s'inaridivano, come fonti colpite di maledizione. E allora in Giuliana non vedevo più se non il fatto brutale, il ventre gonfio, l'effetto dell'escrezione d'un altro maschio; non vedevo in me se non il ridicolo, il marito gabbato, lo stupido eroe sentimentale d'un cattivo romanzo. Il sarcasmo ulteriore non risparmiava nessuno dei miei atti, nessuno degli atti di Giuliana. Il dramma si mutava per me in una comedia amara e beffarda. Nulla più mi riteneva; tutti i legami si spezzavano; avveniva un distacco violento. E io pensavo: "Perché rimaner qui a recitare questa parte odiosa? Me ne andrò, tornerò al mondo, alla vita di prima, alla licenza. Mi stordirò, mi perderò. Che importa? Non voglio essere se non quel che sono: fango nel fango. Puah!"
In uno di tali accessi risolsi di lasciare la Badiola, di partire perRoma, di andare alla ventura.
Mi si offriva il pretesto. Non prevedendo un'assenza tanto lunga, noi avevamo lasciata la casa in condizioni provvisorie. Bisognava dare assetto a molte cose; bisognava disporre tutto in modo che la nostra assenza potesse prolungarsi fuor d'un termine fisso.
Annunziai la mia partenza. Persuasi di questa necessità mia madre, mio fratello, Giuliana. Promisi di sbrigarmi in pochi giorni. Mi preparai.
Alla vigilia, la sera, tardi, mentre chiudevo una valigia, udii battere all'uscio della camera. Gridai:
—Avanti!
Vidi entrare Giuliana, sorpreso.
—Oh, sei tu?
Le mossi incontro. Ella ansava un poco, forse affaticata dalle scale. La feci sedere. Le offersi una tazza di tè freddo con un sottile disco di limone, una bevanda a lei grata un tempo, che era pronta por me. Ella vi bagnò a pena le labbra e me la rese. I suoi occhi rivelavano l'inquietudine. Disse al fine, timidamente:
—Dunque parti?
—Sì—io risposi—domattina, come sai.
Seguì un intervallo di silenzio, lungo. Dalle finestre aperte entrava una frescura deliziosa; su i davanzali batteva la luna piena; giungeva il canto corale dei grilli, simile al suono d'un flauto un po' roco e indefinitamente lontano.
Ella mi domandò, con la voce alterata:
—Quando tornerai? Dimmi la verità.
—Non so—risposi.
Seguì un'altra pausa. Il vento leggero ricorreva a volta a volta, e le tende si gonfiavano. Ogni àsolo recava nella stanza, fino a noi, la voluttà della notte d'estate.
—Mi abbandoni?
Nella sua voce era uno scoramento così profondo che i nodi aspri dentro di me si sciolsero a un tratto; e il rammarico e la pietà mi invasero.
—No—risposi—non temere, Giuliana. Ma ho bisogno di una tregua. Non ne posso più. Ho bisogno d'un respiro.
Ella disse:
—Hai ragione.
—Credo che tornerò presto, come ho promesso. Ti scriverò. Anche tu, forse, non vedendomi soffrire, avrai un sollievo.
Ella disse:
—Nessun sollievo mai.
Un pianto soffocato tremava nelle sue parole. Ella soggiunse a un tratto, con un accento di lacerante angoscia:
—Tullio, Tullio, dimmi la verità. Mi odii? Dimmi la verità!
Ella m'interrogava con gli occhi, assai più angosciosi delle sue parole. Parve fissare in me per un istante la sua stessa anima. E quei poveri occhi dilatati, quella fronte così pura, quella bocca convulsa, quel mento smagrito, tutto quel tenue viso dolente a contrasto con la difformità inferiore ignominiosa, e quelle mani, quelle tenui mani dolenti che si tendevano verso di me con un gesto supplichevole, mi fecero pena come non mai, e m'impietosirono e m'intenerirono.
—Credimi, Giuliana, credimi per sempre. Non ho nessun rancore contro di te, non ne avrò mai. Non dimentico che ti debbo il contraccambio; non dimentico nulla. Non ne hai già le prove? Rassicurati. Pensa ora aliberarti. E poi…. chi sa! Ma, in qualunque caso, io non ti mancherò, Giuliana. Ora lascia che io parta. Forse qualche giorno di lontananza mi farà bene. Tornerò calmato. Sarà necessaria molta calma, poi. Tu avrai bisogno di tutto il mio aiuto….
Ella disse:
—Grazie. Farai di me quel che vorrai.
Un canto umano ora giungeva nella notte, coprendo il suono roco del flauto silvestre:—forse un coro di trebbiatori, da qualche aia remota sotto la luna.
—Senti?—io dissi.
Ascoltammo. Il vento asolava. Tutta la voluttà della notte d'estate veniva a gonfiarmi il cuore.
—Vuoi che andiamo a sedere di là, sul terrazzo?—chiesi a Giuliana dolcemente.
Ella acconsentì, si levò. Passammo nell'altra stanza, ove non era altro lume che quello del plenilunio. Un gran flutto candido, qualche cosa come un latte immateriale, inondava il pavimento. In quel flutto ella camminò d'avanti a me, per uscire sul terrazzo; e io potei vedere la sua ombra difforme disegnarsi cupa nel chiarore.
Ah dov'era la creatura esile e pieghevole che avrei stretta fra le mie braccia? Dov'era l'amante che avevo rinvenuta sotto i fiori di lilla in un meriggio d'aprile?—Ebbi nel cuore, in un attimo, tutti i rimpianti, tutti i desiderii, tutte le disperazioni.
Giuliana s'era seduta e aveva poggiata la testa al ferro della ringhiera. La sua faccia illuminata in pieno era più bianca di qualunque cosa intorno, più bianca del muro. Ella teneva le palpebre socchiuse. I cigli le spandevano a sommo delle gote un'ombra che mi turbava più d'uno sguardo.
Come avrei potuto parlare?
Mi volsi verso la valle, mi piegai su la ringhiera stringendo il ferro freddo tra le dita. Vidi sotto di me un'immensa massa di apparenze confuse, dove non distinsi se non lo scintillio dell'Assoro. Il canto giungeva or sì or no, secondo l'alito della frescura; e nelle pause si riudiva il suono di quel flauto un po' roco e indefinitamente lontano. Nessuna notte m'era parsa mai tanto piena di dolcezza e d'affanno. Dall'estremo fondo della mia anima irruppe un grido, altissimo se bene non udibile, verso la felicità perduta.
A pena giunsi in Roma, mi pentii d'esser partito. Trovai la città infocata, fiammeggiante, quasi deserta; e n'ebbi sgomento. Trovai la casa muta come un sepolcro, dove le medesime cose, le cose da me ben conosciute, avevano un aspetto diverso, strano; e n'ebbi sgomento. Mi sentii solo, in una solitudine spaventevole; ma non andai in cerca di amici, non volli ricordare né riconoscere amici. Solo mi misi alla caccia di un uomo contro il quale mi spingeva un odio implacabile: alla caccia di Filippo Arborio.
Speravo d'incontrarlo subito in qualche luogo publico. Andai alla trattoria che sapevo da lui frequentata. L'aspettai tutta una sera premeditando il modo dell'affronto. Il passo d'ogni nuovo venuto mi rimescolava il sangue. Ma egli non comparve. Interrogai i camerieri. Da lungo tempo non l'avevano visto.
Feci una visita alla sala d'armi. La sala era vuota, immersa nell'ombra verdognola prodotta dalle persiane chiuse, piena di quel particolare odore che l'innaffio solleva da un pavimento di tavole. Il maestro, abbandonato dagli allievi, mi accolse con grandi effusioni di benevolenza. Io ascoltai attentamente il racconto minuto dei trionfi riportati nelle gare dell'ultima academia. Poi gli chiesi notizie di alcuni amici frequentatori della sala; infine gli chiesi notizie di Filippo Arborio.
—Non è più a Roma, da quattro o cinque mesi—mi rispose il maestro.—Ho sentito dire che è malato, d'una malattia nervosa molto grave, e che difficilmente guarirà. Lo diceva il conte Galiffa. Ma non so altro.
Soggiunse:
—Era molto fiacco, in fatti. Qui da me ha preso poche lezioni. Temeva la stoccata; non poteva vedersi la punta d'avanti agli occhi….
—È ancora a Roma Galiffa?—gli domandai.
—No, è a Rimini.
Dopo alcuni momenti mi accomiatai.
La notizia inaspettata mi aveva colpito. Pensai: "Fosse vera!" E m'augurai che si trattasse d'una di quelle terribili malattie del midollo spinale o della sostanza cerebrale, che conducono un uomo alle infime degradazioni, all'idiotismo, alle più tristi forme della follia e quindi alla morte. Le nozioni apprese dai libri di scienza, i ricordi d'una visita a un manicomio, le imagini anche più precise lasciatemi impresse dal caso speciale di un mio amico, del povero Spinelli, ora mi tornavano alla memoria rapidamente. E rivedevo il povero Spinelli seduto su la gran poltrona di cuoio rosso, pallido d'un pallor terreo, con tutti i lineamenti della faccia irrigiditi, con la bocca dilatata e aperta, piena di saliva e d'un balbettio incomprensibile. E rivedevo il gesto ch'egli faceva ad ogni tratto per raccogliere nel fazzoletto quella saliva continua che gli colava dagli angoli della bocca. E rivedevo la figura bionda e smilza e dolente della sorella che metteva all'infermo un tovagliolo sotto il mento, come a un bambino, e con la sonda faringea gli introduceva nello stomaco i cibi ch'egli non avrebbe potuto inghiottire.
Pensavo: "Ho tutto da guadagnare. Se avessi un duello con un avversario così celebre, se lo ferissi gravemente, se l'uccidessi, il fatto, certo, non rimarrebbe segreto; correrebbe su tutte le bocche, sarebbe divulgato, comentato da tutte le gazzette. E potrebbe anche venire in chiaro la causa vera del duello! In vece questa malattia provvidenziale mi salva da ogni pericolo, da ogni fastidio, da ogni pettegolezzo. Io posso ben rinunziare a una voluttà sanguinaria, a un castigo inflitto con la mia mano (e sono poi certo dell'esito?), quando so paralizzato dalla malattia, ridotto all'impotenza l'uomo che detesto. Ma la notizia sarà vera? E se si trattasse d'un disturbo transitorio?" Mi venne una buona idea. Saltai in una vettura e mi feci condurre alla libreria, dell'editore. Nella strada consideravo mentalmente (con un vóto sincero) i due disturbi cerebrali più terribili per un uomo di lettere, per un artefice della parola, per uno stilista:—l'afasia e l'agrafia. E avevo la visione fantastica dei sintomi.
Entrai nella libreria. Da prima non distinsi nulla, con gli occhi abbacinati dalla luce esterna. Udii una voce nasale, dall'accento straniero, che mi chiedeva:
—Il signore desidera?…
Scorsi dietro il banco un uomo d'età inconoscibile, biondiccio, scarno, dilavato, una specie d'albino; e mi rivolsi a lui, indicandogli i titoli di alcuni libri. Ne comprai parecchi. Poi domandai l'ultimo romanzo di Filippo Arborio. L'albino mi porseIl Segreto. Allora m'atteggiai ad ammiratore fanatico del romanziere.
—Questo è l'ultimo?
—Sì, signore. La nostra casa ne ha annunziato un nuovo, da qualche mese:—Turris eburnea!
—Ah,Turris eburnea!
Il cuore mi diede un balzo.
—Ma credo che non potremo publicarlo.
—Perché mai?
—Il romanziere è molto malato.
—Malato! Di che male?
—D'una paralisi bulbare progressiva—rispose l'albino distaccando le tre parole terribili l'una dall'altra, con una certa affettazione di saccente.
"Ah, il male di Giulio Spinelli!"
—Il caso è grave, dunque.
—Gravissimo—sentenziò l'albino.—Ella sa che la paralisi non si arresta.
—Ma ora è al principio.
—Al principio; ma su la natura del male non c'è più dubbio. L'ultima volta che fu qui, io l'udii parlare. Già pronunziava con difficoltà alcune parole.
—Ah, voi l'udiste?
—Sì, signore. Aveva già la pronunzia indecisa, un po' tremolante in alcune parole….
Io incitavo l'albino con l'estrema attenzione, quasi ammirativa, che prestavo alle sue risposte. Credo ch'egli mi avrebbe volentieri distinte le consonanti contro le quali s'era incagliata la lingua del romanziere illustre.
—E ora dov'è?
—È a Napoli. I medici l'hanno sottoposto a una cura elettrica.
—Ah, a una cura elettrica!—ripetevo io con uno stupore ingenuo, come un uomo ignaro, volendo solleticare la vanità dell'albino e prolungare la conversazione.
Veramente, nella libreria stretta e lunga come un corridoio spirava un filo di frescura, per un riscontro. La luce era mite. Un commesso dormiva in pace, su una sedia, col mento sul petto, all'ombra d'un globo terraqueo. Nessuno entrava. Il libraio aveva qualche lato ridicolo che mi divertiva, così bianchiccio com'era, con quella bocca di rosicante, con quella voce nasale. E in una quiete di biblioteca era assai gradevole sentir dichiarare con tanta sicurezza l'infermità incurabile dell'uomo detestato.
—I medici hanno dunque speranza di salvarlo—dicevo, per incitare l'albino.
—Impossibile.
—Dobbiamo sperare che sia possibile, per la gloria delle lettere….
—Impossibile.
—Ma io credo che, nella paralisi progressiva, si dieno casi di guarigione.
—No, signore, no. Egli potrà vivere ancora due, tre, quattro anni; ma non guarire.
—E pure, io credo….
Non so da che mi venissero quella leggerezza d'animo nel prendermi gioco del mio informatore e quella curiosa compiacenza nell'assaporare un mio sentimento crudele. Certo, io godevo. E l'albino, punto dalla mia contraddizione, senza opporre altro, montò su una scaletta di legno posta contro uno scaffale elevato. Gracile com'era, pareva uno di quei gatti randagi, scarsi di carne e di pelo, che si spenzolano all'orlo dei tetti. Montando, urtò col capo un nastro ch'era teso da un angolo all'altro della libreria pel riposo delle mosche. Un nuvolo di mosche gli turbinò intorno con un ronzio fierissimo. Egli discese portando un volume: l'autorità da addurre in favore della morte. E le mosche implacabili discendevano con lui.
Mi mostrò il frontespizio. Era un trattato di patologia speciale medica.
—Ora sentirà.
Cercò nelle pagine. Poiché il volume era intonso, discostò con le dita due fogli congiunti; e aguzzando i suoi occhi bianchicci, lesse per entro: "La prognosi della paralisi bulbare progressiva è sfavorevole…." Soggiunse:
—Ora è persuaso?
—Sì. Ma che peccato! Un'intelligenza così rara!
Le mosche non si quietavano. Facevano tutte insieme un ronzio irritante. Assalivano me, l'albino, il commesso addormentato sotto il globo terraqueo.
—Quanti anniaveva?—chiesi io, sbagliando involontariamente il tempo del verbo, come se parlassi d'un defunto.
—Chi, signore?
—Filippo Arborio.
—Trentacinque anni, credo.
—Così giovine!
Avevo una strana voglia di ridere, una voglia puerile di ridere sul naso all'albino e di lasciarlo là stupefatto. Era una eccitazione singolarissima, un po' convulsiva, non mai provata, indefinita. Mi agitava lo spirito qualche cosa di simile a quella ilarità bizzarra e irrefrenabile che ci agita qualche volta tra le sorprese d'un sogno incoerente. Il trattato era rimasto aperto sul banco; e io mi chinai a guardare su una pagina una vignetta: un volto umano contorto da una smorfia atroce e grottesca. "Emiatrofia sinistra della faccia." E le mosche implacabili ronzavano, ronzavano senza posa.
Ma una preoccupazione mi tornò. Domandai:
—L'editore non ha ricevuto ancora il manoscritto dellaTurris eburnea?
—No, signore. L'annunzio fu dato; ma non esiste se non il titolo.
—Solo il titolo?
—Sì, signore. L'annunzio in fatti è stato soppresso.
—Grazie. Vi prego di mandarmi questi libri a casa, dentr'oggi.
Diedi il mio indirizzo e uscii.
Sul marciapiede ebbi una sensazione particolare di smarrimento. Mi pareva d'aver lasciato dietro di me un lembo di vita artificiale, fittizia, falsa. Quel che avevo fatto, quel che avevo detto, quel che avevo provato, e la figura dell'albino, e la sua voce, e il suo gesto: tutto mi pareva artificiale, assumeva l'inesistenza d'un sogno, il carattere d'una impressione avuta da una lettura recente, non dal contatto della realtà.
Montai in vettura; tornai a casa. La sensazione vaga si dissipò. Mi raccolsi per riflettere. Mi assicurai che tutto era reale, indubitabile. Si formarono facilmente dentro di me imagini dell'infermo a similitudine di quelle che mi dava il ricordo del povero Spinelli. Mi punse una nuova curiosità. "Se andassi a Napoli per vederlo?" E mi rappresentai lo spettacolo miserevole di quell'uomo intellettuale degradato dal morbo, balbuziente come un mentecatto. Non provavo più alcuna gioia. Ogni eccitazione d'odio era estinta. Una tristezza cupa mi piombò sopra.—La ruina di quell'uomo non influiva sul mio stato, non riparava alla mia ruina. Nulla era mutato in me, nella mia esistenza, nella previsione del mio avvenire.
E ripensai il titolo dell'annunziato libro di Filippo Arborio:Turris eburnea. I dubbii mi si affollarono nello spirito.—Si trattava d'un riscontro puramente casuale con l'appellativo della nota dedica? O lo scrittore aveva inteso creare un personaggio letterario a simiglianza di Giuliana Hermil, narrare la sua avventura recente?—E di nuovo la torturante interrogazione mi si ripresentò.—In che modo s'era svolta quell'avventura dal principio alla fine?
E riudii le parole gridate da Giuliana nella notte indimenticabile: "T'amo, t'ho amato sempre, sono stata sempre tua, sconto con quest'inferno un minuto di debolezza, intendi?,un minuto di debolezza….È la verità. Non senti che è la verità?"
Ahimé, quante volte noi crediamo sentire la verità in una voce che mentisce! Nulla ci può difendere dall'inganno. Ma se quella che io avevo sentita nella voce di Giuliana era la verità pura, allora dunque veramente ella era stata sorpresa da colui in un languore dei sensi, nella mia casa stessa, ed aveva patita la violazione in una specie d'inconsapevolezza, e risvegliandosi aveva provato orrore e disgusto dell'atto irreparabile, e aveva scacciato colui e non l'aveva più riveduto?
Questa imaginazione, in fatti, non aveva contro di sé nessuna delle apparenze; le quali a punto davano a supporre che qualunque legame tra Giuliana e colui fosse stato troncato da gran tempo decisamente.
"Nella mia casa stessa!" io ripensavo, intanto. E nella casa muta come un sepolcro, nelle stanze deserte e piene d'afa, ero perseguitato dall'imagine inevitabile.
Che fare? Rimanere ancora in Roma ad aspettare un'esplosione di follia dal mio cervello, in mezzo a quel fuoco, sotto quella rabbiosa canicola? Partire per il mare, per la montagna, andare a bevere l'oblio fra la gente, nei ritrovi eleganti d'estate? Risvegliare in me l'antico uomo voluttuario, alla ricerca di un'altra Teresa Raffo, di una qualunque amante vana?
Due o tre volte m'indugiai nel ricordo della Biondissima; che pure m'era caduta interamente dal cuore e anche, per un lungo periodo, dalla memoria. "Dove sarà ella? Sarà ancora legata con Eugenio Egano? Che proverei nel rivederla?" Era una curiosità fiacca. M'accorsi che il mio desiderio unico e profondo e invincibile era di tornare laggiù, alla mia casa di pena, al supplizio.
Presi con la massima sollecitudine i provvedimenti necessarii; feci una visita al dottor Vebesti, telegrafai alla Badiola il mio ritorno; e partii.
L'impazienza mi divorava; un'ansia acuta mi pungeva, quasi che io andassi in contro a straordinarie novità. Il viaggio mi parve interminabile. Disteso su i cuscini, oppresso dal caldo, soffocato dalla polvere che penetrava per gli interstizi, mentre il romore monotono del treno si accordava al canto monotono delle cicale senza sopire il mio fastidio, io pensavo agli eventi prossimi, consideravo le possibilità future, cercavo di scrutare la grande ombra. Ilpadreera mortalmente colpito. Quale sorte attendeva ilfiglio?
Nessuna novità, alla Badiola. La mia assenza era stata brevissima. Il mio ritorno fu festeggiato. Il primo sguardo di Giuliana mi espresse un'infinita gratitudine.
—Hai fatto bene a tornar subito—mi disse mia madre sorridendo.—Giuliana non aveva requie. Ora non ti moverai più, speriamo.
Soggiunse, accennando al ventre dell'incinta:
—Non vedi un progresso? Oh, a proposito, ti sei ricordato dei merletti? No? Smemorato!
Subito, fin dai primi momenti, ricominciava il supplizio.
A pena io e Giuliana rimanemmo soli, ella mi disse:
—Non speravo che tu tornassi tanto presto. Come ti sono grata!
Nell'attitudine, nella voce ella era timida, umile, teneramente. Mi apparve anche più vivo il contrasto fra il suo volto e il resto della sua persona. Era per me visibile di continuo sul suo volto una particolare espressione penosa che rivelava in lei la continua insofferenza della deturpante e disonorante gravezza da cui il suo corpo era afflitto. Quell'espressione non l'abbandonava mai; era visibile anche a traverso le altre espressioni transitorie che, per quanto forti, non valevano a cancellarla; era inerente e fissa; e m'impietosiva, e mi scioglieva i rancori, e mi velava la brutalità troppo talora manifesta nei momenti d'ironica perspicacia.
—Che hai fatto in questi giorni?—io le chiesi.
—T'ho aspettato. E tu?
—Nulla. Ho desiderato di tornare.
—Per me?—ella mi domandò, timida e umile.
—Per te.
Ella socchiuse le palpebre, e un barlume di sorriso le tremolò sul volto. Sentii che io non ero mai stato amato come in quell'ora.
Disse, dopo una pausa, guardandomi con gli occhi umidi:
—Grazie.
L'accento, il sentimento espresso mi ricordarono un altrograzie: quello da lei proferito in un mattino lontanissimo della convalescenza, nel mattino del mio primo delitto.
E così ricominciò la mia fatica alla Badiola e continuò trista, senza episodii notevoli, mentre l'ora s'indugiava nel quadrante solare aggravata dalla monotonia delle cicale che frinivano su gli olmi.Hora est benefaciendi!
E nel mio spirito si avvicendarono i soliti fermenti, le solite inerzie, i soliti sarcasmi, le solite vane aspirazioni, le solite crisi contraddittorie: l'abondanza e l'aridità. E più d'una volta, considerando quella cosa grigia neutra mediocre fluida e onnipossente che è la vita, pensai: "Chi sa! L'uomo è, sopra tutto, un animale accomodativo. Non c'è turpitudine o dolore a cui non s'adatti. Può anche essere che io finisca con un accomodamento. Chi sa!"
Mi sterilivo a furia d'ironie. "Chi sa che il figlio di Filippo Arborio non sia, come si dice,tutto il mio ritratto. L'accomodamento allora sarà anche più facile." E ripensavo alla triste voglia di ridere che m'era venuta una volta sentendo dire d'un bimbo (che io sapevo sicuramente adulterino) alla presenza dei legittimi coniugi:
—Tutto suo padre!—E la somiglianza era straordinaria, per quella misteriosa legge che i fisiologi chiamanoeredità d'influenza.
Per quella legge il figlio talvolta non somiglia né al padre né alla madre, ma somiglia all'uomo che ha avuto con la madre un contatto anteriore alla fecondazione. Una donna maritata in seconde nozze, tre anni dopo la morte del primo marito, genera figli che hanno tutti i lineamenti del marito defunto e non somigliano in nulla a colui che li ha procreati.
"Può essere dunque che Raimondo porti la mia impronta e sembri un Hermil autentico" pensavo. "Può essere che io riceva speciali congratulazioni per avere impresso con tanto vigore all'Erede il suggello gentilizio!"
"E se l'aspettazione di mia madre, di mio fratello fosse delusa? Se Giuliana desse alla luce una terza femmina?" Questa probabilità mi quietava. Mi pareva che avrei avuta una repulsione minore verso la neonata e che avrei potuto forse anche sopportarla. Ella col tempo si sarebbe allontanata dalla mia casa, avrebbe preso un altro nome, avrebbe vissuto in mezzo a un'altra famiglia.
Intanto, come più s'avvicinava il termine, l'impazienza diveniva più fiera. Ero stanco di aver sempre avanti agli occhi quel ventre enorme che cresceva senza misura. Ero stanco di dibattermi sempre nella medesima sterile agitazione, tra i medesimi timori e le medesime perplessità. Avrei voluto che gli eventi precipitassero, che in fine una qualunque catastrofe si producesse. Qualunque catastrofe era preferibile a quell'orribile agonia.
Un giorno, mio fratello domandò a Giuliana:
—E bene? Quanto tempo ancora?
Ella rispose:
—Ancora un mese!
Io pensai: "Se la storia del minuto di debolezza è vera, ella deve conoscere il giorno preciso del concepimento."
Eravamo in settembre. L'estate era per morire. Era prossimo l'equinozio d'autunno, il più dolce tempo dell'anno, quel tempo che sembra portare in sé una specie di ebrietà aerea diffusa dalle uve mature. L'incanto mi penetrava a poco a poco, mi ammolliva l'anima; qualche volta mi dava un bisogno smanioso di tenerezze, di espansioni delicate. Maria e Natalia passavano lunghe ore con me, sole con me, nelle mie stanze o fuori per la campagna. Io non le avevo mai amate d'un amore così profondo e così gentile. Da quelli occhi impregnati di pensiero a pena consciente mi scendeva qualche volta nell'intimo spirito un raggio di pace.
Un giorno andavo in cerca di Giuliana, per la Badiola. Erano le prime ore del pomeriggio. Non avendola trovata nelle sue stanze, non avendola trovata altrove, entrai nell'appartamento di mia madre. Le porte erano aperte; non si udivano voci né rumori; le tende leggère delle finestre palpitavano; s'intravedeva pei vani il verde degli olmi; una lene aura di rezzo spirava fra le pareti chiare.
Mi avanzai verso il santuario, con cautela. Prevedendo il caso che mia madre dormisse, camminavo piano per non disturbarla. Discostai le portiere, mi affacciai dalla soglia. Udii infatti un respiro di dormiente. Vidi mia madre addormentata su una poltrona accanto alla finestra; vidi, fuor della spalliera d'un'altra poltrona, i capelli di Giuliana. Entrai.
Stavano l'una di contro all'altra, e in mezzo a loro stava un tavolo basso con sopra una canestra piena di cuffie minuscole. Mia madre teneva ancora fra le dita una di quelle cuffie, in cui riluceva un ago. Il sonno era venuto a inchinarle il capo, nell'atto del lavoro. Col mento sul petto, ella dormiva; sognava forse. La gugliata bianca era rimasta a mezzo, ma ella filava forse nel sogno un filo più prezioso.
Giuliana anche dormiva, ma con la testa abbandonata alla spalliera, con le mani posate lungo i bracciuoli. I suoi lineamenti s'erano come distesi nella dolcezza del sonno; ma la sua bocca conservava una piega triste, un'ombra d'afflizione: socchiusa, mostrava un poco della gengiva esangue; ma alla radice del naso, tra i sopraccigli, rimaneva il piccolo solco scavato dal grande dolore. E la fronte era madida: una stilla rigava lenta una tempia. E le mani, più bianche della mussolina da cui escivano, parevano confessare con la loro posa esse sole una immensa stanchezza. Su nessuna di queste spirituali apparenze io mi fermai come sul grembo che conteneva ormai l'essere già completo. E ancora una volta, astraendo da quelle apparenze, astraendo da Giuliana, sentii vivere quella creatura isolata come se null'altro in quel momento vivesse accanto a me, intorno a me, null'altro. E ancora una volta non fu una sensazione illusoria ma reale e profonda; fu un raccapriccio che mi agitò tutte le fibre.
Girai gli occhi; e rividi tra le dita di mia madre la cuffia in cui riluceva l'ago; rividi nella canestra tutti quei merletti leggèri e quei nastri rosei e cilestri che tremolavano al soffio del vento. Mi si strinse il cuore così forte che credetti mancare. Quanta tenerezza rivelavano le dita di mia madre sognante su quella gentile cosa bianca che doveva coprire il capo del figliuolo non mio!
Restai là qualche minuto. Quel luogo era veramente il santuario della casa, il penetrale. Su una parete pendeva il ritratto di mio padre, che somigliava molto a Federico; su l'altra, il ritratto di Costanza, che somigliava un poco a Maria. Le due figure, esistenti dell'esistenza superiore che danno le memorie dei cari ai cari scomparsi, avevano gli occhi magnetici e seguaci, una specie d'onniveggenza. Altre reliquie dei due scomparsi santificavano quel luogo. In un angolo, su un plinto, stava chiusa in cristalli, coperta d'un velo nero, la maschera formata sul cadavere dell'uomo che mia madre amava d'un amore più forte della morte. E pure nulla era lugubre là dentro. Una sovrana pace vi regnava e pareva diffondersi per tutta la casa come da un cuore si diffonde la vita, armonicamente.
Ricordo la gita a Villalilla, con Maria e Natalia e miss Edith, in una mattina un po' velata. È un ricordo velato, in fatti, indistinto, confuso, come d'un lungo sogno straziante e dolce.
Il giardino non aveva più le sue miriadi di grappoli turchinicci, non aveva più la sua delicata selva di fiori né il suo profumo triplice armonioso come una musica, né il suo riso aperto, né il clamore continuo delle sue rondini. Non altro aveva di lieto se non le voci e le corse delle due bambine inconsapevoli. Molte rondini erano partite; altre partivano. Eravamo giunti in tempo per salutare l'ultimo stormo.
Tutti i nidi erano abbandonati, vacui, esanimi. Qualcuno era infranto, e su gli avanzi della creta tremolava qualche piuma esile. L'ultimo stormo era adunato sul tetto lungo le gronde, e aspettava ancora qualche compagna dispersa. Le migratrici stavano in fila su l'orlo del canale, talune rivolte col becco altre col dorso, per modo che le piccole code forcute e i piccoli petti candidi si alternavano. E, così aspettando, gittavano nell'aria calma i richiami. E di tratto in tratto, a due, a tre, giungevano le compagne in ritardo. E s'approssimava l'ora della dipartita. I richiami cessavano. Un'occhiata di sole languida scendeva su la casa chiusa, su i nidi deserti. Nulla era più triste di quelle esili piume morte che qua e là, trattenute dalla creta, tremolavano.
Come sollevato da un colpo di vento subitaneo, da una raffica, lo stormo si levò con un gran frullo di ali, sorse nell'aria in guisa d'un vortice, rimase un istante a perpendicolo su la casa; poi, senza incertezze, quasi che davanti gli si fosse disegnata una traccia, si mise compatto in viaggio, si allontanò, si dileguò, disparve.
Maria e Natalia, ritte in piedi su un sedile per seguire più a lungo con lo sguardo le fuggitive, tendevano le braccia e gridavano:
—Addio, addio, addio, rondinelle!
Ho di tutto il resto un ricordo indistinto, come d'un sogno.
Maria volle entrare nella casa. Io stesso aprii la porta. Là, su per quei tre gradini, Giuliana m'aveva seguito furtiva, leggera come un'ombra, e m'aveva allacciato e m'aveva bisbigliato: "Entra, entra." Nell'andito ancora pendeva il nido fra le grottesche della volta. "Ora sono tua, tua, tua!" ella aveva bisbigliato, senza distaccarsi dal mio collo ma girando flessuosamente per venirmi sul petto, per incontrare la mia bocca.—L'andito era muto, le scale erano mute; il silenzio occupava tutta la casa. Là avevo udito il rombo cupo e remoto, simile a quello che conservano in loro certe conchiglie profonde. Ma ora il silenzio era simile a quello delle tombe. Là stava sepolta la mia felicità.
Maria, Natalia cianciavano senza tregua, non cessavano mai d'interrogarmi, si mostravano curiose di tutto, andavano ad aprire i cassetti dei canterani, gli armarii. Miss Edith le seguiva per moderarle.
—Guarda, guarda che ho trovato!—gridò Maria correndomi in contro.
Aveva trovato in fondo a un cassetto un mazzo di spigo e un guanto. Era un guanto di Giuliana; era macchiato di nero su la punta delle dita; nel rovescio, presso all'orlo, portava una scritta ancora leggibile: "Le more: 27 agosto 1880. Memento!" Mi tornò chiaro alla memoria, in un lampo, l'episodio delle more, uno dei più lieti episodii della nostra felicità primitiva, un frammento d'idillio.
—Non è un guanto della mamma?—mi domandò Maria.—Rendimelo, rendimelo. Voglio portarlo io alla mamma….
Ho di tutto il resto un ricordo indistinto, come d'un sogno.
Calisto, il vecchio guardiano, mi parlò di tante cose; e io non capii quasi nulla. Più volte mi ripeté un augurio:
—Un maschio, un bel maschio, e Dio lo benedica! Un bel maschio!
Quando noi fummo fuori, Calisto chiuse la casa.
—E questi benedetti nidi?—egli disse scotendo la bella testa canuta.
—Non li toccare, Calisto.
Tutti i nidi erano abbandonati, vacui, esanimi. Le ultime ospiti erano partite. Un'occhiata di sole languida scendeva su la casa chiusa, su i nidi deserti. Nulla era più triste di quelle esili piume morte che qua e là, trattenute dalla creta, tremolavano.
Il termine s'approssimava. La prima metà di ottobre era trascorsa. Il dottor Vebesti era stato avvertito. Da un giorno all'altro potevano sopraggiungere le doglie estreme.
La mia ansietà cresceva di ora in ora, diveniva intollerabile. Spesso ero assalito da qualche impeto di follia simile a quello che un giorno mi aveva travolto su l'argine dell'Assoro. Fuggivo lontano dalla Badiola, restavo lunghe ore a cavallo, costringevo Orlando a saltare le siepi e i fossi, lo spingevo al galoppo per sentieri perigliosi. Tornavamo, io e il povero animale, grondanti, sfiniti, ma sempre incolumi.
Il dottor Vebesti giunse. Tutti, alla Badiola, trassero un respiro, ripresero fiducia, sperarono bene. Giuliana soltanto non si rianimò. Più d'una volta io sorpresi nei suoi occhi il passaggio d'un pensiero sinistro, la cupa luce dell'idea fissa, l'orrore d'un presentimento lugubre.
Le doglie del parto incominciarono; durarono per un giorno intero con qualche intervallo di riposo, ora più forti ora più deboli, ora sopportabili ora laceranti. Ella stava in piedi appoggiata a un tavolo, addossata a un armario, stringendo i denti per non gridare; o si sedeva su una poltrona e rimaneva là quasi immobile, col viso tra le mani, emettendo di tratto in tratto un gemito fioco: o mutava continuamente di luogo, andava da un angolo all'altro, si soffermava qua e là per stringere un qualunque oggetto tra le dita convulse. Lo spettacolo della sua sofferenza mi dilaniava. Non potendo più reggere, uscivo dalla stanza, mi allontanavo per qualche minuto; poi rientravo, quasi involontariamente, attirato; e restavo là a guardarla soffrire, senza poterla aiutare, senza poterle dire una parola di conforto.
—Tullio, Tullio, che cosa orribile! Ah, che cosa orribile! Non ho mai sofferto tanto, mai, mai.
Era verso sera. Mia madre, miss Edith, il dottore erano discesi nella sala da pranzo. Io e Giuliana eravamo rimasti soli. Non avevano ancora portato i lumi. Entrava il crepuscolo violaceo d'ottobre; il vento scoteva i vetri a quando a quando.
—Aiutami, Tullio! Aiutami!—ella gridò, fuori di sé per lo spasimo, tendendo le braccia verso di me, guardandomi con gli occhi dilatati ove il bianco era straordinariamente bianco in quella penombra che rendeva livido il viso.
—Dimmi tu! Dimmi tu! Come potrei fare per aiutarti?—balbettavo, smarrito, non sapendo che fare, accarezzandole i capelli su le tempie con un gesto in cui avrei voluto mettere un potere soprannaturale.—Dimmi tu! Dimmi tu! Che cosa?
Ella non si lamentava più; mi guardava, mi ascoltava, come dimentica del suo dolore, quasi attonita, colpita forse dal suono della mia voce, dall'espressione del mio smarrimento e della mia angoscia, dal tremito delle mie dita su i suoi capelli, dalla desolata tenerezza di quel gesto inefficace.
—Tu mi ami; è vero?—ella disse, non cessando di guardarmi come per non perdere nessun segno della mia commozione.—Tu mi perdoni tutto.
Ella proruppe, esaltandosi di nuovo:
—Bisogna che tu mi ami, bisogna che tu mi ami molto, ora, perché domani non ci sarò più, perché stanotte morirò, forse stasera morirò; e tu ti pentiresti di non avermi amata, di non avermi perdonata, oh certo ti pentiresti….
Ella pareva tanto sicura di morire che io rimasi agghiacciato dal terrore subitamente.
—Bisogna che tu mi ami. Vedi: può essere che tu non abbia creduto a quel che ti dissi una notte, può essere che tu non mi creda ora; ma certo mi crederai quando non ci sarò più. Allora ti si farà la luce, allora conoscerai la verità; e ti pentirai di non avermi amata a bastanza, di non avermi perdonata….
Un nodo di pianto la soffocò.
—Sai tu perché mi dispiace di morire? Perché muoio senza che tu sappia quanto t'ho amato…. quanto t'ho amatodopo, specialmente…. Ah che castigo! Meritavo questa fine?
Ella si nascose la faccia tra le mani. Ma subito si scoperse. Mi fissò, pallidissima. Pareva che un'idea più terribile ancora l'avesse fulminata.
—E se io morissi—balbettò—se io morissilasciando vivo….
—Taci!
—Tu intendi….
—Taci, Giuliana!
Io ero più debole di lei. Il terrore m'aveva sopraffatto e non mi lasciava né pure la forza di proferire una parola consolante, di opporre a quelle imaginazioni di morte una parola di vita. Anch'io ero sicuro dell'atroce fine. Guardavo, nell'ombra violacea, Giuliana che mi guardava; e mi parve di scorgere in quel povero viso estenuato i segni dell'agonia, i segni d'un disfacimento già avanzato e inarrestabile. Ed ella non potè soffocare una specie di ululo che non aveva nulla di umano; e si aggrappò al mio braccio.
—Aiutami, Tullio! Aiutami!
Stringeva forte, assai forte, ma non a bastanza per me che avrei voluto sentirmi penetrare nel braccio le sue unghie, smanioso di uno spasimo fisico che mi accomunasse allo spasimo di lei. E, tenendo puntata la fronte contro il mio omero, metteva un mugolio continuo. Era quel suono che rende irriconoscibile la voce nostra nell'eccesso della sofferenza corporea, quel suono che agguaglia l'uomo che soffre al bruto che soffre: il lamento istintivo d'ogni carne addolorata, umana o bestiale.
Ogni tanto ella ritrovava la sua voce per ripetere:
—Aiutami!
E mi comunicava le vibrazioni violente del suo strazio. E io sentivo il contatto del suo ventre ove il piccolo essere malefico si agitava contro la vita della madre, implacabile, senza darle tregua. Un'onda di odio mi sorse dalle radici più profonde, mi parve affluire alle mani tutta con un impulso micidiale. Era intempestivo l'impulso; ma la visione del delitto già consumato mi balenò dentro. "Tu non vivrai."
—Oh, Tullio, Tullio, soffocami, fammi morire! Non posso, non posso, intendi?, non posso più reggere; non voglio più soffrire.
Ella gridava esasperata, guardandosi intorno con occhi di pazza, come per cercare qualche cosa o qualcuno che le desse l'aiuto che io non potevo darle.
—Càlmati, càlmati, Giuliana…. Forse è venuto il momento. Coraggio! Siediti qui. Coraggio, anima! Ancora un poco! Sono io qui, con te. Non aver paura.
E corsi a suonare il campanello.
—Il dottore! Che venga subito il dottore!
Giuliana non si lamentava più. Ella pareva a un tratto aver cessato di soffrire o almeno d'accorgersi del suo male, colpita da un nuovo pensiero. Visibilmente, ella considerava qualche cosa dentro di sé; era assorta. Io ebbi appena il tempo di notare la mutazione istantanea.
—Ascolta, Tullio. Se mi venisse il delirio….
—Che dici?
—Se dopo, nella febbre, mi venisse il delirio e io morissi delirando….
—E bene?
Ella aveva tale accento di terrore, le sue reticenze erano così affannose che io tremavo a verga a verga come preso dal pànico, non comprendendo ancora dove ella volesse giungere.
—E bene?
—Tutti saranno là, intorno a me…. Se nel delirio io parlassi, iorivelassi…. Intendi? Intendi? Una parola basterebbe. E nel delirio non si sa quel che si dice. Tu dovresti….
Mia madre, il dottore, la levatrice sopraggiunsero, in quel punto.
—Ah dottore—sospirò Giuliana—credevo di morire.
—Coraggio, coraggio!—fece il dottore, con la sua voce cordiale.—Senza paura. Tutto andrà bene.
E mi guardò.
—Credo—soggiunse sorridendo—che vostro marito stia peggio di voi.
E mi accennò la porta.
—Via, via. Non bisogna star qui.
Incontrai gli occhi inquieti, sbigottiti e pietosi di mia madre.
—Sì, Tullio; è meglio che tu vada—ella disse.—Federico t'aspetta.
Guardai Giuliana. Senza curarsi degli altri, ella mi guardava fissamente, con gli occhi lucidi, pieni d'un bagliore straordinario. Era in quello sguardo tutta l'intensione dell'anima disperata.
—Non mi moverò dalla stanza accanto—dichiarai con fermezza, seguitando a guardare Giuliana.
Mentre uscivo, scorsi la levatrice che disponeva i guanciali sul letto del travaglio, sul letto di miseria; e rabbrividii, come a un soffio di morte.
Fu tra le quattro e le cinque del mattino. Le doglie s'erano protratte fino a quell'ora, con qualche intervallo di riposo. Verso le tre il sonno m'aveva colto, all'improvviso, sul divano dove stavo seduto, nella stanza contigua. Cristina mi svegliò; mi disse che Giuliana voleva vedermi.
Nella confusione del risveglio, balzai in piedi ancora abbacinato dal sonno.
—Ho dormito? Che accade mai? Giuliana….
—Non si spaventi. Non è accaduto nulla. I dolori si sono calmati.Venga a vedere.
Entrai. Vidi subito Giuliana.
Ella era adagiata su i guanciali, pallida come la sua camicia, quasi esanime. Incontrai subito i suoi occhi, perché erano volti alla porta in attesa di me. I suoi occhi mi sembrarono più larghi, più profondi, più cavi, cerchiati d'un maggior cerchio d'ombra.
—Vedi—ella disse con una voce spirante—sto ancora così.
E non cessò di guardarmi. I suoi occhi, come quelli della principessa Lisa, dicevano: "Aspettavo un aiuto da te, e tu non mi aiuti, né pur tu!"
—Il dottore?—domandai a mia madre, ch'era là con un'aria abbattuta.
Ella mi accennò una porta. Io mi diressi verso quella. Entrai. Vidi il dottore presso a un tavolo su cui erano varii medicinali, una busta nera, un termometro, fasce, compresse, fiaschi, alcuni tubi di forma speciale. Il dottore aveva tra le mani un tubo elastico a cui stava adattando un catetere; e dava istruzioni a Cristina, sotto voce.
—Ma dunque?—io gli chiesi bruscamente. Che c'è?
—Nulla di allarmante, per ora.
—E tutti questi preparativi?
—Precauzioni.
—Ma quanto durerà ancora quest'agonia?
—Siamo alla fine.
—Parlatemi franco; vi prego. Prevedete una disgrazia? Parlatemi franco.
—Non si annuncia per ora nessun pericolo grave. Temo però una emorragia; e prendo le mie precauzioni. L'arresterò. Abbiate fiducia in me e siate calmo. Ho notato che la vostra presenza agita molto Giuliana. In quest'ultimo breve periodo ella ha bisogno di tutte le forze che le rimangono. È necessario che voi vi allontaniate. Promettetemi d'obedirmi. Entrerete quando vi chiamerò.
Ci giunse un grido.
—Ricominciano i dolori—egli disse.—Ci siamo. Calma, dunque!
E si diresse verso la porta. Io lo seguii. Ambedue ci avvicinammo aGiuliana. Ella m'afferrò il braccio e me lo strinse come in una morsa.Le restava dunque ancora quella forza?
—Coraggio! Coraggio! Ci siamo. Tutto andrà bene. È vero, dottore?—balbettai.
—Sì, sì. Non c'è tempo da perdere. Lasciate, Giuliana, che vostro marito esca di qui.
Ella guardò il dottore e me, con gli occhi spalancati. Lasciò il mio braccio.
—Coraggio!—ripetei soffocato.
La baciai su la fronte molle di sudore, mi volsi per andarmene.
—Ah, Tullio!—ella gridò dietro di me con un grido lacerante che significava: "Non ti vedrò più."
Io feci l'atto di tornare a lei.
—Via, via—ordinò il dottore, con un gesto imperioso.
Volli obedire. Qualcuno serrò l'uscio dietro di me. Rimasi qualche minuto là, in piedi, ad ascoltare; ma le ginocchia mi vacillavano, ma il battito del cuore soverchiava qualunque altro strepito. Andai a gittarmi sul divano; mi misi il fazzoletto tra i denti, affondai la faccia in un cuscino. Soffrivo anch'io uno strazio fisico, simile forse a quello d'un'amputazione mal praticata e lentissima. Gli urli della partoriente mi giungevano a traverso l'uscio. E ad ognuno di quelli urli io pensavo: "Questo è l'ultimo." Negli intervalli udivo un mormorio di voci feminili: forse i conforti di mia madre, della levatrice. Un urlo più acuto e più inumano degli altri. "Questo è l'ultimo." E balzai in piedi esterrefatto.
Non potevo dare un passo. Alcuni minuti trascorsero; trascorse un tempo incalcolabile. Come lampi velocissimi, m'attraversarono il cervello pensieri, imagini. "È nato? E se ella fosse morta? E se ambedue fossero morti? la madre e il figlio? No, no. Ella certamente è morta; ed egli è vivo. Ma perché nessun vagito? L'emorragia, il sangue…." Vidi il lago rosso, e, in mezzo, Giuliana boccheggiante. Vinsi il terrore che m'irrigidiva e mi slanciai contro l'uscio. L'apersi, entrai.
Udii subito la voce del chirurgo che mi gridava aspra:
—Non v'accostate! Non la scuotete! Volete ucciderla?
Giuliana pareva morta, più pallida del suo guanciale, immobile. Mia madre stava china sopra di lei reggendo una compressa. Grandi macchie di sangue rosseggiavano sul letto, macchie di sangue tingevano il pavimento. Il chirurgo preparava un "irrigatore" con una sollecitudine calma ed esatta:—le sue mani non tremavano, se bene la sua fronte fosse corrugata. Un bacino d'acqua bollente fumigava in un angolo. Cristina aggiungeva acqua con una brocca in un altro bacino, tenendovi immerso il termometro. Un'altra donna portava nella stanza contigua un fascio d'ovatta. C'era nell'aria l'odore dell'ammoniaca e dell'aceto.
Le minime particolarità della scena, abbracciata con un solo sguardo, mi rimasero impresse indelebilmente.
—A 50 gradi—disse il dottore, volgendosi verso Cristina.—Attenta!
Io cercavo intorno, non udendo il vagito. Qualcuno mancava là dentro.
—E il bambino?—chiesi tremando.
—È di là, nell'altra stanza. Andate a vederlo—mi rispose il dottore.—Rimanete là.
Gli indicai Giuliana con un gesto disperato.
—Non temete. Qua l'acqua, Cristina.
Entrai nell'altra stanza. Mi giunse all'orecchio un vagito fievolissimo, a pena udibile. Vidi su uno strato d'ovatta un corpicciuolo rossastro, qua e là violaceo, sotto le mani scarne della levatrice, che lo stropicciavano nel dorso e nelle piante dei piedi.
—Venga, venga, signore; venga a vedere—disse la levatrice continuando a stropicciare.—Venga a vedere che bel maschio. Non respirava; ma ora non c'è più pericolo. Guardi che maschio!
Ella rivoltò il bambino, lo coricò sul dorso, mi mostrò il sesso.
—Guardi!
Afferrò il bambino e lo agitò nell'aria. I vagiti divennero un po' più forti.
Ma io avevo negli occhi un scintillio strano che m'impediva di veder bene; avevo in tutto l'essere una ottusità strana che m'impediva la percezione esatta di tutte quelle cose reali e violente.
—Guardi!—mi ripetè ancora la levatrice coricando di nuovo su l'ovatta il bambino che vagiva.
Ora vagiva forte. Respirava, viveva! Mi chinai su quel corpicciuolo palpitante che odorava di licopodio; mi chinai a guardarlo, a esaminarlo, per riconoscere la somiglianza aborrita. Ma la piccola faccia turgida, ancora un po' livida, con i globi oculari sporgenti, con la bocca gonfia, col mento obliquo, difforme, quasi non aveva aspetto umano; e non m'ispirò se non ribrezzo.
—A pena nato—balbettai—a pena nato, non respirava….
—No, signore. Un po' d'apoplessia….
—Come mai?
—Aveva il cordone attorcigliato intorno al collo. E poi, forse il contatto del sangue nero….
Ella parlava attendendo alla cura del bambino; e io guardavo quelle mani scarne che lo avevano salvato e che ora avviluppavano delicatamente il cordone ombelicale in una pezzetta spalmata di burro.
—Giulia, dammi la fascia.
E, fasciando il ventre del bambino, soggiunse:
—Questo oramai è assicurato. Dio lo benedica!
E le sue mani esperte presero la testina molliccia come per plasmarla. Il bambino vagiva sempre più forte; vagiva con una specie di rabbia, agitandosi tutto, conservando quell'apparenza apoplettica, quel rossore paonazzo, quell'aspetto di cosa ributtante. Vagiva sempre più forte come per darmi una prova della sua vitalità, come per provocarmi, per esasperarmi.
Viveva, viveva. E la madre?
Rientrai nell'altra stanza, all'improvviso, demente.
—Tullio!
Era la voce di Giuliana, debole come quella d'un'agonizzante.
La corrente continua di acqua ad alta temperatura aveva arrestata l'emorragia, in circa dieci minuti. Ora la puerpera riposava nel suo letto, dentro l'alcova. Era giorno chiaro.
Io stavo seduto al capezzale; e la consideravo in silenzio, dolorosamente. Ella non dormiva, forse. Ma l'estrema debolezza le toglieva ogni moto, ogni segno di vita; la faceva sembrare esanime. Considerando il suo funereo pallore di cera, io vedevo ancora quelle macchie di sangue, tutto quel povero sangue sparso che aveva inzuppato i lenzuoli, attraversato i materassi, arrossato le mani del chirurgo. "Chi le renderà tutto quel sangue?" Iniziavo un gesto istintivo per toccarla, poiché mi pareva che ella dovesse essere diventata fredda, di gelo. Ma mi tratteneva il timore di disturbarla. Più d'una volta, nella mia contemplazione continua, assalito da una paura repentina, feci l'atto di levarmi per andare a chiamare il dottore. Pensando, rivolgevo tra le dita un fiocco di bambagia, lo disfilavo minutamente; e, di tratto in tratto, per una inquietudine invincibile, lo avvicinavo con infinita cautela alle labbra di Giuliana e dal palpito dei fili leggeri misuravo la forza del respiro.
Ella giaceva supina, con la testa su un guanciale basso. I capelli castagni un poco rilasciati le circondavano il volto, rendevano più tenui e più cerei i lineamenti. Aveva una camicia chiusa intorno al collo, chiusa intorno ai polsi; e le sue mani posavano sul lenzuolo, prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino. Una bontà soprannaturale emanava da quella povera creatura dissanguata e immobile; una bontà che mi penetrava tutto l'essere, mi colmava il cuore. Ed ella pareva ripetere: "Che hai tu fatto di me?" La sua bocca disfiorata, dalli angoli cadenti, rivelatrice d'una mortale stanchezza, e arida, che tanti spasimi avevano torta, che avevano sforzata tanti gridi, sempre pareva ripetere: "Che hai tu fatto di me?"
Io consideravo l'esilità della persona che a pena formava rilievo sul piano del letto. Poiché l'evento s'era compiuto, poiché ella s'era al fine liberata dell'orribile peso, poiché alfine l'altra vita s'era distaccata dalla sua vita per sempre, quei moti istintivi di repulsione, quelle improvvise ombre di rancore non più sorgevano a turbare la mia tenerezza e la mia pietà. Ora non avevo per lei se non un sentimento di tenerezza immensa, d'immensa pietà, come per la più buona e per la più sventurata delle creature umane. Ora tutta la mia anima era sospesa a quelle povere labbra che da un momento all'altro avrebbero potuto rendere il respiro estremo. Con una sincerità profonda pensavo, guardando quel pallore: "Come sarei felice se potessi trasfondere la metà del mio sangue nelle sue vene!"
Pensavo, udendo il battito lieve d'un orologio posato sul tavolo da notte, sentendo il tempo scorrere per quella fuga di minuti eguali: "Maeglivive." E la fuga del tempo mi dava un'ansietà singolare, assai diversa da quella altre volte provata, indefinibile.
Pensavo: "Eglivive, e la sua vita è tenace. A pena nato, non respirava. Aveva ancora sul corpo, quando io l'ho veduto, tutti i segni dell'asfissia. Se le cure della levatrice non l'avessero salvato, ora non sarebbe più se non un piccolo cadavere livido, una cosa innocua, trascurabile, forse dimenticabile. Io non d'altro dovrei occuparmi che della guarigione di Giuliana. Non mi moverei di qui, sarei il più assiduo e il più dolce degli infermieri, riuscirei a compiere la trasfusione vitale, a compiere il miracolo, per forza d'amore. Ella non potrebbe non guarire. Ella risorgerebbe a poco a poco, rigenerata, con un sangue nuovo. Parrebbe una creatura nuova, scevra d'ogni impurità. Ambedue ci sentiremmo purificati, degni l'uno dell'altra, dopo una espiazione così lunga e così dolorosa. La malattia, la convalescenza darebbero al triste ricordo una lontananza indefinita. E io vorrei cancellare dall'anima di lei perfino l'ombra del ricordo; vorrei darle il perfetto oblio, nell'amore. Qualunque altro amore umano parrebbe futile al confronto del nostro, dopo questa grande prova." Io m'esaltavo nella luce quasi mistica di quell'avvenire imaginato, mentre sotto il mio sguardo fisso il volto di Giuliana assumeva una specie d'immaterialità, un'espressione di bontà soprannaturale, quasi che ella fosse già distaccata dal mondo, quasi che con quel gran flutto di sangue ella avesse espulso quanto ancora eravi d'acre e d'impuro nella sua sostanza e si fosse ridotta a una mera essenza spirituale in conspetto della morte. La muta domanda non più mi feriva, non più mi sembrava terribile: "Che hai tu fatto di me?" Io rispondevo: "Non sei tu divenuta, per opera mia,la sorella del Dolore? Non è salita la tua anima, nella sofferenza, a un'altezza vertiginosa da cui ha potuto vedere il mondo in una luce insolita? Non hai tu avuta da me la rivelazione della verità suprema? Che valgono i nostri errori, le nostre cadute, le nostre colpe, se siamo giunti a strappare dai nostri occhi qualche velo, se siamo giunti a sprigionare quanto v'è di men basso nella nostra sostanza miserabile? A noi sarà dato il più alto gaudio a cui possano ambire su la terra gli eletti: rinascere conscientemente."
Io m'esaltavo. L'alcova era silenziosa, l'ombra era misteriosa, il volto di Giuliana mi pareva trasumanato; e la mia contemplazione mi pareva solenne, poiché sentivo nell'aria la presenza della morte invisibile. Tutta la mia anima era sospesa a quelle pallide labbra che da un attimo all'altro avrebbero potuto rendere il respiro estremo. E quelle labbra si contrassero, misero un gemito. La contrattura dolorosa alterò le linee del volto, vi si fermò per qualche tempo. Le pieghe della fronte si approfondirono, la pelle delle palpebre ebbe un tremolio leggero, un po' del bianco apparve tra i cigli.
Io mi chinai su la sofferente. Ella aprì gli occhi e li richiuse subito. Pareva ch'ella non mi avesse veduto. Gli occhi non avevano avuto sguardo, come colpiti da cecità. Era sopravvenuta forse l'amaurosi anemica? Era ella diventata cieca a un tratto?
M'accorsi che entrava gente nella stanza: "Fosse il dottore!" Uscii dall'alcova. Vidi infatti il dottore, mia madre e la levatrice che entravano adagio. Li seguiva Cristina.
—Riposa?—mi domandò il dottore sotto voce.
—Si lagna. Chi sa quanto soffre ancora!
—Ha parlato?
—No.
—Non bisogna in nessun modo eccitarla. Ricordatevene.
—Ha aperto gli occhi, dianzi, per un momento. Pareva che non ci vedesse.
Il dottore entrò nell'alcova, accennandoci di restare in dietro. Mia madre mi disse:
—Vieni. Ora debbono rinnovare le medicature. Vieni via. Andiamo a vedere Mondino. C'è di là Federico.
Ella mi prese una mano. Mi lasciai condurre.
—S'è addormentato—soggiunse.—Dorme placidamente. Oggi, dopo mezzogiorno, arriverà la nutrice.
Benché ella fosse triste e inquieta per lo stato di Giuliana, gli occhi le sorridevano mentre parlava del bambino; tutto il viso le s'illuminava di tenerezza.
Per ordine del dottore era stata scelta una stanza lontana da quella della puerpera: una grande stanza ariosa che custodiva molte memorie della nostra infanzia. Entrando, vidi subito intorno alla culla Federico, Maria e Natalia, che insieme chini guardavano il piccolo dormente. Federico si volse e mi domandò, prima d'ogni altra cosa:
—Come sta Giuliana?
—Male.
—Non riposa?
—Soffre.
Rispondevo quasi duramente, mio malgrado. Una specie d'aridità m'aveva d'un tratto occupata l'anima. Non altro provavo se non un'avversione indomabile e innascondibile contro l'intruso, e rammarico e impazienza per la tortura che le persone inconsapevoli m'infliggevano. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a dissimulare. Eravamo ora io, mia madre, Federico, Maria e Natalia, intorno alla culla, a guardare il sonno di Raimondo.
Egli era stretto nelle fasce ed aveva la testa coperta d'una cuffia ornata di pizzi e di nastri. Il viso appariva meno gonfio ma ancora rossiccio, lucido su le gote come la cuticola delle piaghe cicatrizzate di recente. Un po' di bava gli usciva dalli angoli della bocca chiusa; le palpebre senza cigli, enfiate agli orli, coprivano i globi oculari sporgenti; una lividura segnava la radice del naso ancora deforme.
—Ma a chi somiglia?—disse mia madre.—Non so ancora trovare una somiglianza….
—È troppo piccolo,—disse Federico.—Bisogna aspettare qualche giorno.
Mia madre due o tre volte guardò me e il bambino, come per meglio confrontarne le fattezze.