—No—disse.—Somiglia forse più a Giuliana.
—Ora non somiglia a nessuno—interruppi. È orribile. Non vedi?
—Orribile! È bellissimo! Guarda quanti capelli!
Ed ella sollevò con le dita la cuffia, adagio adagio, e scoprì il cranio molliccio su cui stavano appiccicati pochi capelli bruni.
—Lasciami toccare, nonna!—pregò Maria, stendendo la mano verso il capo del fratello.
—No, no. Vuoi svegliarlo?
Quel cranio pareva composto d'una cera un po' ammollita dal calore, untuosa, nerigna; e pareva che il minimo tocco vi avrebbe lasciata una traccia. Mia madre lo ricoprì. Poi si chinò a baciare la fronte, con infinita delicatezza.
—Anch'io, nonna—pregò Maria.
—Ma piano, per carità!
La culla era troppo alta.
—Tirami su!—disse Maria a Federico.
Federico la sollevò nelle sue braccia; e io vidi la bella bocca rosea di mia figlia atteggiarsi al bacio prima di giungere a sfiorare quella fronte, e vidi i lunghi riccioli piovere su le fasce bianche.
Anche Federico depose il suo bacio. Poi mi guardò. Non sorrisi.
—E io? E io?
Era Natalia, che s'attaccava alla sponda della culla.
—Piano, per carità!
Federico sollevò anche lei. E di nuovo io vidi i lunghi riccioli piovere su le fasce bianche, in quell'ultima dolce reclinazione. Stavo là quasi irrigidito: e il mio sguardo doveva certo esprimere il sentimento cupo che mi possedeva. Quei baci di labbra a me tanto care non avevano tolto all'intruso quell'aspetto di cosa ributtante ma me l'avevano anzi reso più odioso. Io sentivo che mi sarebbe stato impossibile toccare quella carne estranea, piegarmi a un qualunque atto apparente di amore paterno. Mia madre mi guardava, inquieta.
—Tu non lo baci?—mi domandò.
—No, mamma, no. Ha fatto troppo male a Giuliana. Non so perdonargli….
E mi ritrassi, con un moto istintivo, con un moto di manifesta ripugnanza. Mia madre restò un momento attonita, senza parola.
—Ma che dici, Tullio? Che colpa ne ha questo povero bambino? Sii giusto!
Mia madre aveva certo notata la sincerità della mia avversione. Non riuscivo a dominarmi. Tutti i miei nervi si ribellavano.
—Non posso ora, non posso…. Lasciami stare, mamma. Mi passerà.
La mia voce era aspra e risoluta. Io ero tutto convulso. Un nodo mi serrava la gola, i muscoli della faccia mi si contraevano. Dopo tante ore d'orgasmo violento, tutto il mio essere aveva bisogno di una distensione. Credo che un grande scoppio di pianto mi avrebbe giovato: ma il nodo era durissimo.
—Mi fai molta pena, Tullio,—disse mia madre.
—Vuoi che lo baci?—ruppi io, fuori di me.
E m'accostai alla culla, mi chinai sul bambino, lo baciai.
Il bambino si svegliò; si mise a vagire, da prima fioco, poi con una specie di furore crescente. Vidi che la pelle del volto gli diveniva più rossa e gli si raggrinzava nello sforzo, mentre la lingua bianchiccia gli tremolava nella bocca dilatata. Benché fossi al colmo della disperazione, m'accorsi dell'errore commesso. Sentii gli sguardi di Federico, di Maria, di Natalia fissi sopra di me, intollerabili.
—Perdonami, mamma—balbettai.—Non so più quel che faccio. Sono irragionevole. Perdonami.
Ella aveva tolto dalla culla il bambino e lo reggeva su le braccia, senza poterlo quietare. I vagiti mi ferivano acutamente, mi laceravano.
—Andiamo, Federico.
Uscii in fretta. Federico mi seguì.
—Giuliana sta molto male. Non comprendo come si possa pensare ad altri che a lei, in questi momenti—dissi, come per giustificarmi.—Tu non l'hai veduta. Sembra che muoia.
Per alcuni giorni Giuliana vacillò tra la vita e la morte. La sua debolezza era tale che qualunque più lieve sforzo era seguito da un deliquio. Ella doveva mantenersi costantemente supina, in una immobilità perfetta. Qualunque tentativo di sollevarsi provocava segni di anemia cerebrale. Nulla valeva a vincere le nausee da cui ella era assalita, a toglierle di sul petto l'incubo, ad allontanare il rombo che ella udiva di continuo.
Io rimasi giorno e notte al suo capezzale, sempre vigile, tenuto in piedi da una energia instancabile di cui ero meravigliato io stesso. Con tutte le potenze della mia vita io sostenni quella vita che stava per spengersi. Mi pareva che dall'altra parte del capezzale fosse la Morte in agguato pronta a cogliere l'attimo opportuno per strappare la preda. Io aveva talora veramente la sensazione di trasfondermi nel corpo fragile dell'inferma, di comunicarle un po' della mia forza, di dare un impulso al suo cuore stanco. Le miserie della malattia non m'ispirarono mai alcuna ripugnanza, mai alcun disgusto. Nessuna materialità offese mai la delicatezza dei miei sensi. I miei sensi acutissimi non ad altro erano intenti che a percepire le più piccole mutazioni nello stato dell'inferma. Prima ch'ella proferisse una parola, prima ch'ella facesse un cenno, io indovinavo il suo desiderio, il suo bisogno, il grado della sua sofferenza. Per divinazione, fuori d'ogni suggerimento del medico, ero giunto a trovare modi nuovi e ingegnosi di alleviarle un dolore, di calmarle uno spasimo. Io solo sapevo persuaderla al cibo, persuaderla al sonno. Ricorrevo a tutte le arti della preghiera e della blandizia per farle inghiottire qualche sorso di cordiale. L'assediavo così ch'ella, non potendo più rifiutarsi, doveva risolversi allo sforzo salutare, vincere la nausea. E nulla era per me più dolce del sorriso tenuissimo con cui ella si piegava alla mia volontà. Ogni suo più piccolo atto d'obedienza mi dava al cuore una commozione profonda. Quando ella diceva con quella voce tanto debole:—Va bene così? Sono buona?—la gola mi si chiudeva, gli occhi mi si velavano.
Spesso ella si lamentava d'un dolore pulsatile alle tempie, che non le dava tregua. Io le passavo lungo le tempie l'estremità delle mie dita, per magnetizzare il suo dolore. Le accarezzavo piano piano i capelli, per addormentarla. Quando m'accorgevo che ella dormiva, dal suo respiro, io avevo una sensazione illusoria di ristoro quasi che il beneficio del sonno si spandesse anche su me. D'innanzi a quel sonno io diventavo religioso, ero invaso da un fervore indefinito, provavo il bisogno di credere in un qualche Essere superiore, onniveggente, onnipotente, a cui rivolgevo i miei voti. Salivano spontanei dall'intimo della mia anima preludii di orazioni, nella forma cristiana. Talvolta l'eloquenza interiore m'esaltava fino alle sommità della vera Fede. Si risvegliavano in me tutte le tendenze mistiche trasmessemi da un lungo ordine di progenitori cattolici.
Mentre si svolgeva la mia orazione interna, io contemplavo la dormente. Ella era pur sempre pallida come la sua camicia. Per la trasparenza della pelle, io avrei potuto numerar le sue vene su le guance, sul mento, sul collo. La contemplavo quasi sperando di cogliere gli effetti benefici del riposo, il diffondersi lento del sangue nuovo generato dal cibo, i primi segni iniziali della guarigione. Avrei voluto per una facoltà soprannaturale assistere al misterioso lavorio riparatore che si compieva in quel corpo affranto. E speravo sempre: "Quando si sveglierà, si sentirà più forte."
Pareva ch'ella provasse un gran sollievo quando teneva fra le sue mani fredde la mia mano. Talvolta ella me la prendeva e la metteva sul guanciale e sopra ci posava la gota, con un atto infantile; e, così rimanendo, a poco a poco si assopiva. Ero capace di conservare a lungo a lungo l'immobilità del braccio intormentito, per non risvegliarla.
Talvolta ella diceva:
—Perché non dormi anche tu qui, con me? Tu non dormi mai!
E voleva che io posassi la testa sul suo guanciale.
—Dormiamo dunque.
Io fingevo di addormentarmi, per darle il buon esempio. Quando riaprivo gli occhi, incontravo i suoi occhi sbarrati che mi guardavano.
—E bene?—esclamavo.—Che fai?
—E tu?—rispondeva ella.
Nei suoi occhi era un'espressione di tenerezza così buona che io mi sentivo struggere dentro. Tendevo le labbra e la baciavo su le palpebre. Ella voleva fare la stessa cosa a me. Poi ripeteva:
—Ora dormiamo.
E scendeva un velo d'oblio su la nostra sventura, talvolta.
Spesso i suoi poveri piedi erano gelati. Io li toccavo, di sotto alle coperte, e mi parevano di marmo. Ella diceva in fatti:
—Sono morti.
Erano scarni, sottili, così minuti che quasi mi entravano nel pugno. Avevo per loro una grande pietà. Io stesso riscaldavo per loro sul braciere il panno di lana, non mi stancavo di prenderne cura. Avrei voluto intiepidirli con l'alito, coprirli di baci. Si mescolavano alla mia nuova pietà ricordi lontani d'amore, ricordi del tempo felice quando io non tralasciavo mai di calzarli al mattino e di nudarli a sera con le mie proprie mani per una consuetudine quasi votiva, stando in ginocchio.
Un giorno, dopo lunghe veglie, ero così stanco che un sonno irresistibile mi colse a punto mentre tenevo le mani sotto le coperte e avvolgevo nel panno caldo i piccoli piedi morti. Reclinai la testa, e restai là addormentato nell'atto.
Come mi svegliai, vidi nell'alcova mia madre, mio fratello, il dottore, che mi guardavano sorridendo. Rimasi confuso.
—Povero figliuolo! Non ne puoi più—disse mia madre ravviandomi i capelli con uno dei suoi gesti più affettuosi.
E Giuliana:
—Mamma, portalo via tu. Federico, portalo via.
—No, no, non sono stanco—io ripetevo.—Non sono stanco.
Il dottore annunziò la sua partenza. Dichiarò la puerpera fuor di pericolo, in via di miglioramento accertato.—Bisognava seguitare a promuovere con tutti i mezzi la rigenerazione del sangue. Il suo collega Jemma di Tussi, col quale aveva conferito e s'era trovato d'accordo, avrebbe seguitata la cura, che, del resto, era semplicissima. Più che nei medicinali egli aveva fiducia nell'osservanza rigorosa delle diverse norme igieniche e dietetiche da lui stabilite.
—In verità—soggiunse accennando a me—non potrei desiderare un infermiere più intelligente, più vigile, più devoto. Ha fatto miracoli e ne farà ancora. Io parto tranquillo.
Mi sembrò che il cuore mi balzasse alla gola e mi soffocasse. L'elogio inaspettato di quell'uomo severo, alla presenza di mia madre, di mio fratello, mi diede una commozione profonda; fu un compenso straordinario. Guardai Giuliana e vidi che i suoi occhi s'erano empiti di lacrime. E, sotto il mio sguardo, all'improvviso ella ruppe in un pianto. Feci uno sforzo sovrumano per frenarmi, ma non riuscii. Mi parve che l'anima mi si stemprasse. Tutte le bontà del mondo erano nel mio petto, raccolte, in quell'ora indimenticabile.
Giuliana andava ricuperando le forze di giorno in giorno, con lentezza. La mia assiduità non veniva meno. Delle dichiarazioni fatte dal dottor Vebesti io anzi mi valevo per moltiplicare le mie vigilanze, per non lasciare che altri prendesse le mie veci, per resistere a mia madre e a mio fratello che mi consigliavano il riposo. Il mio corpo s'era oramai abituato alla dura disciplina e non si stancava quasi più. Tutta la mia vita era tra le pareti di quella stanza, nell'intimità di quell'alcova, nel cerchio in cui respirava la cara malata.
Avendo ella bisogno d'una calma assoluta, dovendo ella parlar poco per non stancarsi, io m'adoperavo ad allontanar dal suo letto anche le persone familiari. Quell'alcova dunque rimaneva segregata dal resto della casa. Per ore ed ore io e Giuliana rimanemmo soli. E poiché ella era tenuta dal male ed io ero intento al mio ufficio pietoso, talvolta ci avveniva di dimenticare la nostra sventura, di smarrire la nozione della realtà e di non serbare altra conscienza che quella del nostro immenso amore. Mi pareva talvolta che nulla più esistesse di là dalle cortine, tanta era l'intensione di tutto il mio essere verso la sofferente. Nulla veniva a ricordarmi la cosa tremenda. Io vedevo d'innanzi a me una sorella che soffriva e non avevo altra sollecitudine che di alleggerire la sua pena.
Non di rado questi veli d'oblio furono lacerati con violenza. Mia madre parlò di Raimondo. Le cortine si aprirono per lasciar passare l'intruso.
Lo portò mia madre sulle braccia. Ed io ero là. Sentii d'esser divenuto pallido, perché tutto il sangue m'affluì al cuore. Che provò Giuliana?
Io guardavo quel viso rossiccio, grosso come il pugno di un uomo, mezzo nascosto dalla cuffia trapunta; e con un'avversione feroce, che annullava nella mia anima qualunque altro sentimento, pensai: "Come farò a liberarmi di te? Perché non moristi soffocato?" Il mio odio non aveva ritegno; era istintivo, cieco, indomabile, quasi direi carnale; pareva in fatti che avesse la sua sede nella mia carne, che sorgesse da tutte le mie fibre, da tutti i miei nervi, da tutte le mie vene. Nulla poteva reprimerlo, nulla poteva distruggerlo. Bastava la presenza dell'intruso, in qualunque ora, in qualunque congiuntura, perché dentro di me avvenisse una specie d'annullazione istantanea ed io fossi posseduto da un solo unico sentimento: dall'odio contro di lui.
Disse mia madre a Giuliana:
—Guarda, in pochi giorni, come è già mutato! Somiglia più a te che aTullio; ma non molto a nessuno dei due. È ancora troppo piccolo.Vedremo in seguito…. Gli vuoi dare un bacio?
Ella accostò la fronte del bambino alle labbra dell'inferma. Che provòGiuliana?
Ma il bambino cominciò a piangere. Io ebbi la forza di dire a mia madre, senza acredine:
—Portalo via; ti prego. Giuliana ha bisogno di calma. Queste scosse le fanno molto male.
Mia madre uscì dall'alcova. I vagiti crescevano e mi davano pur sempre la stessa sensazione di laceramento doloroso e la voglia di correre a soffocarli per non udirli più. Li udimmo per qualche istante mentre si allontanavano. Quando al fine cessarono, il silenzio mi parve enorme; mi cadde sopra come un macigno, mi oppresse. Ma non m'indugiai in quella pena, perché subito pensai che Giuliana aveva bisogno di soccorso.
—Ah, Tullio, Tullio, non è possibile….
—Taci, taci, se tu mi ami, Giuliana. Taci; ti prego.
Io la supplicavo, con la voce, col gesto. Tutto il mio orgasmo ostile era caduto; e io non d'altro mi dolevo se non del dolore di lei, non altro temevo se non il danno recato all'inferma, l'urto ricevuto da quella vita così fragile.
—Se tu mi ami, non devi pensare a null'altro che a guarire. Vedi? Io non penso che a te, non soffro che per te. Bisogna che tu non ti tormenti; bisogna che tu ti abbandoni tutta alla mia tenerezza, per guarire….
Ella disse con la sua voce tremante e fievole:
—Ma chi sa quel che tu provi dentro! Povera anima!
—No, no, Giuliana, non ti tormentare! Io non soffro che per te, nel vederti soffrire. Io dimentico tutto, se tu sorridi. Se tu ti senti bene, io sono felice. Se tu mi ami, dunque devi guarire, devi essere calma, ubbidiente, paziente. Quando sarai guarita, quando sarai più forte allora….chi sa! Dio è buono.
Ella mormorò:
—Dio, abbi misericordia di noi.
"In che modo?" Io pensai. "Facendo morire l'intruso." Ambedue alzavamo dunque un augurio di morte, anch'ella dunque non vedeva altro scampo che nella distruzione del figliuolo. Non v'era altro scampo. E mi tornò alla memoria il breve dialogo che avevamo avuto in un tramonto lontano, sotto gli olmi; e mi tornò alla memoria la confessione dolorosa. "Ma ora ch'egli è nato, l'aborre ella ancora? Può ella provare un'avversione sincera contro la carne della sua carne? Prega ella sinceramente Iddio perché si riprenda la sua creatura?" E mi tornò la folle speranza che mi era balenata in quella sera tragica: "Se entrasse in lei la suggestione del delitto e divenisse a poco a poco tanto forte da trascinarla!…" Non avevo io pensato per un attimo a un mal riuscito tentativo delittuoso, vedendo la levatrice stropicciare sul dorso e su le piante dei piedi il corpicciuolo paonazzo del bimbo tramortito? Era stato, anche quello, un pensiero folle. Certo Giuliana non avrebbe mai osato….
E io guardai le sue mani lungo il lenzuolo, prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino.
Uno strano rammarico mi pungeva, ora che l'inferma andava di giorno in giorno migliorando. Mi si moveva in fondo al cuore un vago rimpianto verso i tristi giorni grigi passati dentro l'alcova, mentre giungeva cupa dalle campagne autunnali la monotonia della pioggia. Quelle mattine, quelle sere, quelle notti, benché penose, avevano una loro grave dolcezza. La mia opera di carità mi pareva ogni giorno più bella. Un'abondanza d'amore m'inondava l'anima e sommergeva talvolta i pensieri oscuri, mi dava talvolta l'oblio della cosa tremenda, mi suscitava qualche illusione consolante, qualche sogno indefinito. Provavo io talvolta là dentro un sentimento simile a quello che si prova nell'ombra delle cappelle segrete: mi sentivo in un rifugio contro le violenze della vita, contro le occasioni del peccato. Mi pareva talvolta che le cortine leggère mi separassero da un abisso. M'assalivano repentine paure dell'ignoto. Ascoltavo nella notte il silenzio di tutta la casa intorno a me; e vedevo, con gli occhi dell'anima, in fondo a una stanza remota, al lume d'una lampada, la culla ove dormiva l'intruso, il diletto di mia madre, il mio erede. Mi scoteva un gran brivido di orrore; e rimanevo a lungo sbigottito sotto il balenìo sinistro d'un solo pensiero. Le cortine mi separavano da un abisso.
Ma ora che Giuliana di giorno in giorno andava migliorando, venivano a mancare le ragioni dell'isolamento; e a poco a poco la comune vita domestica invadeva la stanza tranquilla. Mia madre, mio fratello, Maria, Natalia, miss Edith entravano assai più spesso, si trattenevano assai più a lungo. Raimondo s'imponeva alla tenerezza materna. Non era più possibile né a me né a Giuliana evitarlo. Bisognava prodigargli i baci, sorridergli. Bisognava simulare e dissimulare con arte, patire tutte le più raffinate crudeltà del caso, lentamente perire.
Nutrito d'un latte sano e sostanziale, circondato d'infinite cure, Raimondo perdeva a poco a poco quel suo aspetto di cosa ributtante, incominciava a ingrossarsi, a sbiancarsi, a prendere forme più chiare, a tenére bene aperti i suoi occhi grigi. Ma tutti i suoi moti m'erano odiosi, dall'atto delle labbra intorno il capezzolo all'agitazione confusa delle piccole mani. Mai gli riconobbi una grazia, un vezzo; mai ebbi per lui un pensiero che non fosse ostile. Quando ero costretto a toccarlo, quando mia madre me lo porgeva perché io lo baciassi, provavo per tutta la pelle lo stesso raccapriccio che m'avrebbe dato il contatto d'un animale immondo. Tutte lo fibre si ribellavano; e i miei sforzi erano disperati.
Ogni giorno mi recava un supplizio nuovo; e mia madre era il gran carnefice. Una volta, rientrando nella stanza all'improvviso e discostando le cortine dell'alcova, scorsi sul letto il bambino posato a fianco di Giuliana. Non c'era nessuno presente. Eravamo là riuniti noi tre soli. Il bambino, stretto nelle fasce bianche, dormiva tranquillo.
—L'ha lasciato qui la mamma—balbettò Giuliana.
Io fuggii come un pazzo.
Un'altra volta Cristina venne a chiamarmi. La seguii nella camera della culla. Mia madre stava là seduta tenendo su le ginocchia il bambino ignudo.
—Te l'ho voluto far vedere prima d'infasciarlo—ella mi disse.—Guarda!
Il bambino sentendosi libero agitava le gambe e le braccia, stravolgeva in qua e in là gli occhi, si ficcava le dita nella bocca sbavazzando. Ai polsi, ai malleoli, dietro le ginocchia, su gli inguini la carne si arrotondava in anelli, velata di cipria; sul ventre gonfio l'ombelico era ancora sporgente, deforme, bianco di cipria. Le mani di mia madre palpavano con delizia le minute membra, mi mostravano a una a una tutte le particolarità, s'indugiavano su quella pelle nitida e liscia pel bagno recente. E pareva che il bambino ne godesse.
—Senti, senti com'è già sodo!—diceva ella, invitandomi a palparlo.
E bisognò ch'io lo toccassi.
—Senti come pesa!
E bisognò che io lo sollevassi, che io sentissi palpitare quel corpicciuolo tiepido e morbido tra le mie mani invase da un tremito che non era di tenerezza.
—Guarda!
E mia madre sorridendo strinse tra l'indice e il pollice le papille su quel petto delicato che chiudeva la vita tenace degli esseri malefici.
—Amore, amore, amore della nonna!—ella ripeteva, vellicando con un dito il mento del bambino che non sapeva ridere.
La cara testa grigia, che s'era già reclinata col medesimo atto su due culle benedette, ora un poco più canuta si reclinava inconsapevole sul figliuolo d'un altro, su un intruso. Mi pareva che ella non si fosse mostrata così tenera verso Maria, verso Natalia, verso le vere creature del mio sangue.
Ella stessa volle fasciarlo. Gli fece sul ventre il segno della croce.
—Non sei ancora cristiano!
E volgendosi a me:
—Bisogna che fissiamo oramai il giorno del battesimo.
Il dottor Jemma, cavaliere del Sacro Sepolcro di Gerusalemme, un bel vecchio gioviale, portò a Giuliana in dono matutino un mazzo di crisantemi bianchi.
—Oh, i fiori che io prediligo!—disse Giuliana.—Grazie.
Prese il mazzo, lo guardò a lungo insinuandovi le dita affilate: e una triste rispondenza correva tra il suo pallore e il pallore dei fiori autunnali. Erano crisantemi ampii come rose aperte, folti, grevi; avevano il colore delle carni malaticce, esangui, quasi disfatte, la bianchezza livida che copre le guance delle piccole mendicanti intirizzite dal gelo. Alcuni portavano lievissime venature violacee, altri pendevano un poco nel giallo, delicatamente.
—Tieni—ella mi disse.—Mettili nell'acqua.
Era di mattina; era di novembre; era di poco trascorso l'anniversario d'un giorno nefasto che quei fiori rammemoravano.
Che farò senza Euridice?…
Mi sonò nella memoria l'aria di Orfeo, mentre mettevo in un vaso i crisantemi bianchi. Si risollevarono nel mio spirito alcuni frammenti della scena singolare accaduta un anno innanzi; e rividi Giuliana in quella luce dorata e tepida, in quel profumo così molle, in mezzo a tutti quelli oggetti improntati di grazia feminile, dove il fantasma della melodia antica pareva mettere il palpito d'una vita segreta, spandere l'ombra d'un non so che mistero.—Avevano suscitato anche in lei qualche ricordo quei fiori?
Una mortale tristezza mi pesava su l'anima, una tristezza d'amante inconsolabile. L'Altro ricomparve. I suoi occhi erano grigi come quelli dell'intruso.
Il dottore mi disse, dall'alcova:
—Potete aprire la finestra. È bene che la stanza sia molto aerata, che entri molto sole.
—Oh sì, sì, apri!—esclamò l'inferma.
Apersi. In quel punto entrò mia madre con la nutrice che portava su le braccia Raimondo. Io restai fra le tende, mi chinai sul davanzale, guardai la campagna. Udivo dietro di me le voci familiari.
Era sul finire di novembre, era già passata anche l'estate dei morti. Una grande chiarità vacua si spandeva su la campagna umida, sul lineamento nobile e pacato dei colli. Sembrava che per le cime degli oliveti indistinte vagasse un vapore argenteo. Qualche filo di fumo qua e là biancicava al sole. Ora sì ora no il vento portava un crepito di foglie labili. Il resto era silenzio e pace.
Io pensavo: "Perché ella cantava, quella mattina? Perché udendola provai quel turbamento, quell'ansietà? Ella mi parevaun'altra donna. Amava ella dunque colui? A quale stato del suo animo rispondeva quell'effusione insolita? Ella cantava, perché amava. Forse anche m'inganno. Ma non saprò mai il vero!" Non era più la torbida gelosia dei sensi ma un rammarico più alto, che mi si partiva dal centro dell'anima. Pensavo: "Quale ricordo ha ella di colui? Quante volte il ricordo l'ha punta? Il figlio è un legame vivente. Ella ritrova in Raimondo qualche cosa dell'uomo che l'ha posseduta: ella ritroverà somiglianze più certe. Non è possibile ch'ella dimentichi il padre di Raimondo. Forse ella lo ha sempre d'avanti agli occhi. Che proverebbe se lo sapesse condannato?"
E m'indugiai nell'imaginare i progressi della paralisi, nel formare dentro di me imagini di colui a similitudine di quelle che mi dava il ricordo del povero Spinelli. E me lo rappresentavo seduto su una gran poltrona di cuoio rosso, pallido d'un pallor terreo, con tutti i lineamenti della faccia irrigiditi, con la bocca dilatata e aperta, piena di saliva e d'un balbettio incomprensibile. E lo vedevo fare ad ogni tratto sempre il medesimo gesto per raccogliere in un fazzoletto quella saliva continua che gli colava dagli angoli della bocca….
—Tullio!
Era la voce di mia madre. Mi volsi, andai verso l'alcova.
Giuliana stava supina, molto abbattuta, silenziosa. Il dottore esaminava sul capo del bambino un principio di crosta lattea.
—Faremo dunque il battesimo dopo domani—disse mia madre.—Il dottore crede che Giuliana dovrà rimanere ancora qualche tempo a letto.
—Come la trovate, dottore?—domandai al vecchio, accennando l'inferma.
—Mi pare che ci sia un po' di sosta nel miglioramento—rispose, scotendo la bella testa canuta.—La trovo debole, molto debole. Bisogna accrescere la nutrizione, fare qualche sforzo….
Giuliana interruppe, guardandomi con un sorriso stanchissimo:
—M'ha ascoltato il cuore.
—E bene?—io chiesi, volgendomi subito al vecchio.
Mi parve di vedergli passare su la fronte un'ombra.
—È un cuore sanissimo—rispose subito.—Non ha bisogno che di sangue…. e di tranquillità. Su, su, animo! Come va l'appetito stamani?
L'anemica mosse le labbra a un atto quasi di disgusto. Fissava la finestra aperta quel lembo di cielo delicato.
—È una giornata fredda, oggi?—domandò con una specie di timidezza, ritraendo le mani sotto le coperte.
E rabbrividì visibilmente.
Il giorno dopo, io e Federico andammo a visitare Giovanni di Scòrdio, Era l'ultimo pomeriggio di novembre. Andammo a piedi, a traverso i campi arati.
Camminavamo in silenzio, pensosi. Il sole inclinava all'orizzonte, lento. Una polvere d'oro impalpabile fluttuava nell'aria quieta sul nostro capo. La terra umida aveva un color bruno vivace, un aspetto di possanza tranquilla, quasi direi una pacata consapevolezza della sua virtù. Dalle glebe saliva un fiato visibile, simile a quello spirante dalle narici dei buoi. Le cose bianche in quella luce mite assumevano una straordinaria bianchezza, una candidezza di neve. Una vacca di lontano, la camicia d'un agricoltore, un telo spaso, le mura d'una cascina risplendevano come in un plenilunio.
—Sei triste—mi disse Federico dolcemente.
—Sì, amico mio: molto triste. Dispero.
Seguì ancora un lungo silenzio. Dalle fratte stormi d'uccelli si levavano frullando. Giungeva fioco lo scampanìo d'una mandra lontana.
—Di che disperi?—mi chiese mio fratello, con la stessa benignità.
—Della salvezza di Giuliana, della mia salvezza.
Egli tacque; non proferì nessuna parola di consolazione. Forse il dolore lo stringeva, dentro.
—Ho un presentimento—soggiunsi.—Giuliana non si leverà.
Egli tacque. Passavamo per un sentiero alberato; e le foglie cadute stridevano sotto i nostri piedi; e, dove le foglie non erano, il suolo risonava come per cavità sotterranee, cupo.
—Quando ella sarà morta—soggiunsi—io che farò?
Uno sgomento repentino m'assalse, una specie di pànico; e guardai mio fratello che taceva accigliato, mi guardai d'in torno per la muta desolazione di quell'ora diurna; e mai come in quell'ora sentii il vuoto spaventevole della vita.
—No, no, Tullio—disse mio fratello—Giuliananon può morire.
Egli affermava una cosa vana, senza valore alcuno d'innanzi alla condanna del Destino. E pure egli aveva pronunziato quelle parole con una semplicità che mi scosse, tanto mi parve straordinaria. Così talvolta i fanciulli pronunziano a un tratto parole inaspettate e gravi che ci colpiscono nel mezzo dell'anima; e pare che una voce fatidica parli per le loro labbra inconsapevoli.
—Leggi nel futuro?—gli domandai, senz'ombra d'ironia.
—No. Ma questo è il mio presentimento; e io ci credo.
Ancora una volta mi venne dal buon fratello un lampo di confidenza; ancora una volta per lui s'allargò un poco il duro cerchio che mi serrava il cuore. Il respiro fu breve. Nel resto del cammino egli mi parlò di Raimondo.
Come giungemmo in vicinanza del luogo ove abitava Giovanni di Scòrdio, egli scorse nel campo la figura alta del vecchio.
—Guarda! È là. Va seminando. Gli portiamo l'invito in un'ora solenne.
Ci appressammo. Io tremavo forte, dentro di me, come se mi accingessi a una profanazione. Andavo in fatti a profanare una bella e grande cosa; andavo a chiedere la paternità spirituale di quel vecchio venerabile per un figliuolo adulterino.
—Guarda che figura!—esclamò Federico soffermandosi e indicando il seminatore.—Ha l'altezza d'un uomo, e pure sembra un gigante.
Ci soffermammo dietro un albero, sul limite del campo a guardare.Intento all'opera, Giovanni non ci aveva ancora veduti.
Egli avanzava pel campo dirittamente, con una lentezza misurata. Gli copriva il capo una berretta di lana verde e nera con due ali che scendevano lungo gli orecchi all'antica foggia frigia. Un sàccolo bianco gli pendeva dal collo per una striscia di cuoio, scendendogli davanti alla cintura pieno di grano. Con la manca egli teneva aperto il sàccolo, con la destra prendeva la semenza e la spargeva. Il suo gesto era largo, gagliardo e sapiente, moderato da un ritmo eguale. Il grano involandosi dal pugno brillava talvolta nell'aria come faville d'oro, e cadeva su le porche umide egualmente ripartito. Il seminatore avanzava con lentezza, affondando i piedi nudi nella terra cedevole, levando il capo nella santità della luce. Il suo gesto era largo, gagliardo e sapiente; tutta la sua persona era semplice, sacra e grandiosa.
Entrammo nel campo.
—Salute, Giovanni!—esclamò Federico, andando incontro al vecchio.—Sia benedetta la tua semenza. Sia benedetto il tuo pane futuro.
—Salute!—io ripetei.
Il vecchio tralasciò l'opera; si scoperse il capo.
—Copriti, Giovanni, se non vuoi che ci scopriamo—disse Federico.
Il vecchio si coprì, confuso, quasi timido, sorridendo. Domandò, umile:
—Perché tanto onore?
Io dissi, con una voce che mi sforzai di rendere ferma:
—Sono venuto a pregarti di tenere a battesimo il mio figliuolo.
Il vecchio mi guardò attonito, poi guardò mio fratello. La sua confusione crebbe. Egli mormorò:
—A me tanto onore!
—Che mi rispondi?
—Sono il tuo servo. Dio ti renda merito dell'onore che vuoi farmi oggi e Dio sia lodato per questa gioia che dà alla mia vecchiaia. Tutte le benedizioni del cielo scendano sul tuo figliuolo!
—Grazie, Giovanni.
E gli stesi la mano. E vidi che quei tristi occhi profondi s'inumidirono di tenerezza. Il cuore mi si gonfiò d'un'angoscia smisurata.
Il vecchio mi domandò:
—Come lo chiami?
—Raimondo.
—Come tuo padre, di felice memoria. Quello era un uomo! E voi gli somigliate.
Disse mio fratello:
—Sei solo a seminare il grano.
—Solo. Io lo getto e io lo ricopro.
E indicò l'erpice e il bidente che rilucevano su la terra bruna. D'in torno si vedevano i semi non anche ricoperti, i buoni germi delle spiche future.
Disse mio fratello:
—Continua dunque. Ti lasciamo alla tua opera. Tu verrai domattina alla Badiola. Addio, Giovanni. Sia benedetta la tua semenza.
Ambedue stringemmo quelle mani infaticabili, santificate dalla semenza che spargevano, dal bene che avevano sparso. Il vecchio fece l'atto d'accompagnarci verso la callaia. Ma si soffermò, esitante. Disse:
—Vi chiedo una grazia.
—Parla, Giovanni.
Egli aprì il sacco che gli pendeva dal collo.
—Prendete un pugno di grano e gettatelo nel mio campo.
Io pel primo affondai la mano nel frumento, ne presi quanto potei, lo sparsi. Mio fratello m'imitò.
—Questo ora vi dico—soggiunse Giovanni di Scòrdio, con la voce commossa, guardando la terra seminata.—Dio voglia che il mio figlioccio sia buono come il pane che nascerà da questa semenza. Così sia.
La mattina dopo, la cerimonia del battesimo si compi senza festa, senza pompa, per riguardo allo stato di Giuliana. Il bambino fu portato nella cappella per la comunicazione interna. Mia madre, mio fratello, Maria, Natalia, miss Edith, la levatrice, la nutrice, il cavaliere Jemma andarono ad assistere. Io rimasi al capezzale dell'inferma.
Una grave sonnolenza la teneva. Il respiro le esciva affannato dalla bocca semiaperta, pallida come la più pallida delle rose fiorite all'ombra. L'ombra occupava l'alcova. Io pensavo, guardandola: "Dunque non la salverò? Avevo allontanata la morte; ed ecco, la morte ritorna. Certo, se non accade un mutamento repentino, ella morirà. Prima, quando riuscivo a tener lontano da lei Raimondo, quando riuscivo a darle qualche illusione e qualche oblio con la mia tenerezza, pareva ch'ella volesse guarire. Ma da che ella vede il figliuolo, da che è ricominciato il supplizio, va di giorno in giorno perdendosi, dissanguandosi peggio che se l'emorragia le continuasse. Io assisto alla sua agonia. Ella non mi ascolta più, non m'obedisce più, come prima. Da chi le verrà la morte? Dalui. Egli, egli l'ucciderà, sicuramente…." Un'onda di odio mi sorse dalle radici più profonde, mi parve affluire alle mani tutta con un impulso micidiale. Vidi il piccolo essere malefico che si gonfiava di latte, che prosperava in pace, senza alcun pericolo, circondato d'infinite cure. "Mia madre ama più lui che Giuliana! Mia madre si occupa più di lui che di questa povera morente! Ah, bisogna che io lo tolga di mezzo, ad ogni costo." E la visione del delitto già consumato mi balenò dentro: la visione del morticino in fasce, del piccolo cadavere innocuo su la bara. "Il battesimo è il suo viatico. E Giovanni lo regge su le sue braccia…."
Una curiosità subitanea mi punse. Lo spettacolo doloroso mi attirò. Giuliana era ancora assopita. Uscii dall'alcova adagio; uscii dalla stanza; chiamai Cristina, la misi a guardia; poi mi diressi verso il coretto, a passo veloce, con un'ansia che mi soffocava.
L'usciuolo era aperto. Scorsi un uomo inginocchiato d'innanzi alla grata. Riconobbi Pietro, il vecchio servitore fedele, quello che m'aveva veduto nascere ed aveva assistito al mio battesimo. Egli si levò, con un po' di pena.
—Rimani, rimani, Pietro—gli dissi sotto voce, mettendogli una mano su la spalla per costringerlo a inginocchiarsi di nuovo.
E m'inginocchiai al suo fianco, appoggiai la fronte alla grata, guardai nella cappella sottoposta. Vedevo tutto, con una chiarezza perfetta; udivo le formule rituali.
La cerimonia era già incominciata. Seppi da Pietro che il bambino aveva già ricevuto il sale. Era ministro il parroco di Tussi, don Gregorio Artese. Questi e il patrino recitavano ora il Credo: l'uno a voce alta, l'altro a voce bassa di séguito. Giovanni reggeva il bambino sul braccio destro, su la mano che il giorno innanzi aveva seminato il frumento. La sinistra posava tra i nastri e i merletti candidi. E quelle mani ossute, asciutte, brune, che parevano fuse in un bronzo animato, quelle mani incallite su gli strumenti dell'agricoltura, santificate dal bene che avevano sparso, dalla vasta opera che avevano fornita, ora nel reggere quell'infante avevano una delicatezza e quasi una timidezza così gentili che io non potevo desistere dal guardarle. Raimondo non piangeva; moveva di continuo la bocca piena d'una bava liquida che gli colava pel mento sul bavaglio trapunto.
Dopo l'esorcismo, il parroco bagnò il dito nella saliva e toccò i piccoli orecchi rosei proferendo la parola miracolosa:
—Ephpheta.
Quindi toccò le nari dicendo:
—In odorem suavitatis….
Quindi intinse il pollice nell'olio dei Catacumeni; e, mentre Giovanni teneva supino su le sue braccia l'infante, unse a questi in modo di croce il sommo del petto; e, come Giovanni lo rivolse prono, unse il sommo del dorso tra le scapole, in modo di croce, dicendo:
—Ego te linio oleo salutis in Christo Jesu Domino nostro….
E con un fiocco di bambagia deterse le parti che aveva unte.
Allora depose la stola paonazza, il colore della doglia e della tristezza; e prese la stola bianca in segno di gioia, ad annunziare che la macchia originale stava per essere cancellata. E chiamò Raimondo per nome, e gli rivolse le tre domande solenni. E il patrino rispose:
—Credo, credo, credo.
La cappella era singolarmente sonora. Da una delle alte finestre ovali entrava una zona di sole andando a ferire una lapide marmorea del pavimento sotto il quale erano i sepolcri profondi ove molti dei miei maggiori dormivano in pace. Mia madre e mio fratello stavano l'una accanto all'altro, dietro a Giovanni; Maria e Natalia si sollevavano su la punta dei piedi per giungere a vedere il piccolo, curiose, di tratto in tratto sorridendo e bisbigliando fra loro. Giovanni si volgeva un poco, qualche volta, a quei bisbigli, con un atto benigno in cui si mostrava tutta l'ineffabile tenerezza senile verso i fanciulli traboccante da quel gran cuore di avo abbandonato.
—Raymunde, vis baptizari?—domandò il ministro.
—Volo—rispose il patrino, ripetendo la parola suggerita.
Il chierico presentò il bacile d'argento ove luccicava l'acqua battesimale. Mia madre tolse la cuffia al battezzando, mentre il patrino lo porgeva prono all'abluzione. Il capo rotondo, su cui potei distinguere le eruzioni biancastre della crosta lattea, penzolò verso il bacile. E il parroco, attingendo l'acqua con un vascolo, la versò tre volte su quel capo, facendo ogni volta il segno della croce.
—Ego te baptizo in nomine Patris, et Filii, et Spiritus sancti.
Raimondo si mise a vagire forte; più forte mentre gli asciugavano il capo. E, come Giovanni lo risollevò, io vidi quel viso arrossato dall'afflusso di sangue e dallo sforzo, aggrinzato dai moti della bocca, macchiato di bianchiccio anche su la fronte. Ed ebbi dai vagiti pur sempre la stessa sensazione di laceramento doloroso, la stessa esasperazione d'ira. Nulla di lui m'irritava quanto la voce, quanto quel miagolio ostinato che mi aveva ferito così crudamente la prima volta nell'alba lugubre d'ottobre. Era per i miei nervi un urto intollerabile.
Il prete intinse il pollice nel sacro Crisma ed unse la fronte al battezzato, recitando la formula rituale che i vagiti coprivano. Quindi gli impose la veste bianca, il simbolo dell'Innocenza.
—Accipe vestem candidam….
Diede quindi al patrino il cero benedetto.
—Accipe lampadem ardentem….
L'Innocente si quietò. I suoi occhi si fissarono su la fiammella che tremolava in cima al lungo cero dipinto. Giovanni di Scòrdio reggeva sul braccio destro il nuovo cristiano e nella mano sinistra il simbolo del fuoco divino, con un'attitudine semplice e grave, guardando il sacerdote che recitava la formula. Egli avanzava di tutto il capo gli astanti. Nessuna cosa d'in torno era candida come la sua canizie, né pure la veste dell'Innocente.
—Vade in pace, et Dominus sit tecum.
—Amen.
Mia madre prese dal braccio del vecchio l'Innocente, se lo strinse al petto, lo baciò. Mio fratello anche lo baciò. Tutti gli astanti, l'un dopo l'altro, lo baciarono.
Pietro, al mio fianco, ancora in ginocchio, piangeva. Sconvolto, fuori di me, balzai in piedi, uscii, attraversai di corsa gli anditi, entrai all'improvviso nella stanza di Giuliana.
Cristina mi domandò sotto voce, sbigottita:
—Che è accaduto, signore?
—Nulla, nulla. È sveglia?
—No, signore. Pare che dorma.
Discostai le cortine, entrai adagio nell'alcova. Da prima nell'ombra non scorsi se non il biancore del guanciale. M'appressai, mi chinai. Giuliana teneva gli occhi aperti, e mi guardava fissamente. Forse indovinò al mio aspetto tutte le mie angosce; ma non parlò. Richiuse gli occhi, come per non riaprirli più.
Incominciò da quel giorno l'ultimo periodo precipitoso di quella lucida demenza che doveva condurmi al delitto. Incominciò da quel giorno la premeditazione del mezzo più facile e più sicuro per far morire l'Innocente.
Fu una premeditazione fredda, acuta e assidua che assorbì tutte le mie facoltà interiori. L'idea fissa mi possedeva intero, con una forza e una tenacità incredibili. Mentre tutto il mio essere si agitava in un orgasmo supremo, l'idea fissa lo dirigeva allo scopo come su per una lama d'acciaio chiara, rigida, senza fallo. La mia perspicacia pareva triplicata. Nulla mi sfuggiva, dentro e fuori di me. La mia circospezione non si rilasciò mai un istante. Nulla io dissi, nulla io feci che potesse destare sospetto, muovere stupore. Simulai, dissimulai senza tregua, non soltanto verso mia madre, mio fratello, gli altri inconsapevoli, ma anche verso Giuliana.
Io mi mostrai a Giuliana rassegnato, pacificato, talvolta quasi immemore. Evitai studiosamente qualunque allusione all'intruso. Cercai in tutti i modi rianimarla, inspirarle fiducia, indurla all'osservanza delle norme che dovevano renderle la salute. Moltiplicai le mie premure. Volli avere per lei tenerezze così profonde e così obliose che ella potesse in quelle rigustare i sapori della vita più freschi e più sinceri. Ancora una volta ebbi la sensazione di trasfondermi nel corpo fragile dell'inferma, di comunicarle un po' della mia forza, di dare un impulso al suo debole cuore. Pareva che io la spingessi a vivere di giorno in giorno, quasi insufflandole un vigore fittizio, nell'attesa dell'ora tragica e liberatrice. Ripetevo dentro di me: "Domani!" E il domani giungeva, trascorreva, si dileguava senza che l'ora fosse scoccata. Ripetevo: "Domani!"
Ero convinto che la salvezza della madre stesse nella morte del figliuolo. Ero convinto che, scomparso l'intruso, ella sarebbe guarita. Pensavo: "Ella non potrebbe non guarire. Ella risorgerebbe a poco a poco, rigenerata, con un sangue nuovo. Parrebbe una creatura nuova, scevra d'ogni impurità. Ambedue ci sentiremo purificati, degni l'uno dell'altra, dopo una espiazione così lunga e così dolorosa. La malattia, la convalescenza darebbero al triste ricordo una lontananza indefinita. E io vorrei cancellare dall'anima di lei perfino l'ombra del ricordo; vorrei darle il perfetto oblio, nell'amore. Qualunque altro amore umano parrebbe futile al confronto del nostro, dopo questa grande prova." La visione dell'avvenire m'accendeva d'impazienza. L'incertezza mi diveniva intollerabile. Il delitto mi appariva scevro di orrore. Io mi rimproveravo acremente le perplessità nelle quali m'indugiavo con troppa prudenza; ma nessun lampo ancora aveva attraversato il mio cervello, non ero ancor riuscito a trovare ilmezzosicuro.
Bisognava che Raimondo sembrasse morire di morte naturale. Bisognava che anche al medico non potesse balenare alcun sospetto. Dei diversimetodistudiati nessuno mi parve eligibile, praticabile. E intanto, mentre aspettavo il lampo rivelatore; la trovata luminosa, io mi sentivo attratto da uno strano fascino verso la vittima.
Spesso entravo all'improvviso nella stanza della nutrice, palpitando così forte che temevo ella udisse i battiti. Si chiamava Anna; era una femmina di Montegorgo Pausula; esciva da una grande razza di viragini alpestri. Aveva talvolta l'aspetto d'una Cibele di rame, a cui mancasse la corona di torri. Portava la foggia del suo paese: una gonna di scarlatto a mille pieghe diritte e simmetriche, un busto nero a ricami d'oro, da cui pendevano due maniche lunghe dove ella di rado introduceva le braccia. Il suo capo si levava su dalla camicia bianchissima, oscuro; ma il bianco degli occhi e il bianco dei denti vincevano d'intensità il candore del lino. Gli occhi parevano di smalto, rimanevano quasi sempre immobili, senza sguardo, senza sogno, senza pensiero. La bocca era larga, socchiusa, taciturna, illustrata da una chiostra di denti fitti ed eguali. I capelli, così neri che davano riflessi di viola, partiti su la fronte bassa, terminavano in due trecce dietro gli orecchi attorte come le corna dell'ariete. Ella stava quasi di continuo assisa reggendo il poppante, in attitudini statuarie, né triste né lieta.
Io entrava. La stanza per lo più era nell'ombra. Io vedevo biancheggiare le fasce di Raimondo su le braccia della cupa femmina possente che mi fissava con quelli occhi d'idolo inanimato senza parlare e senza sorridere.
Rimanevo là, talvolta, a guardare il poppante appeso alla mammella rotonda, singolarmente chiara in confronto del viso, rigata di vene azzurrognole. Poppava ora piano ora forte, ora svogliato ora mosso da un'avidità subitanea. La guancia molle secondava il moto delle labbra, la gola palpitava ad ogni sorso, il naso quasi scompariva premuto dalla mammella gonfia. Mi pareva visibile il benessere sparso per quel tenero corpo dall'onda di quel latte fresco, sano e sostanziale. Mi pareva che ad ogni nuovo sorso la vitalità dell'intruso divenisse più tenace, più resistente, più malefica. Provavo un sordo rammarico nel notare ch'egli cresceva, ch'egli fioriva, ch'egli non portava in sé alcun indizio d'infermità tranne quelle lievi croste biancastre innocue. Pensavo: "Ma tutte le agitazioni, tutte le sofferenze della madre, mentre egli era ancora nel ventre, non gli hanno nociuto? O egli ha veramente qualche vizio organico non ancora manifesto, che potrebbe svilupparsi in séguito e ucciderlo?"
Un giorno, vincendo la ripugnanza, avendolo trovato senza fasce nella culla, lo palpai, lo esaminai dal capo alle piante, misi l'orecchio sul suo petto per ascoltargli il cuore. Egli ritraeva le piccole gambe e poi spingava forte; agitava le mani piene di fossette e di pieghe; si ficcava in bocca le dita terminate da unghie minuscole che sporgevano in fuori per un cerchiolino chiaro. Gli anelli della carne si arrotondavano morbidi ai polsi, ai malleoli, dietro i ginocchi, su le cosce, su gli inguini, sul pube.
Più volte lo guardai anche mentre dormiva, lo guardai a lungo, pensando e ripensando al mezzo, distratto dalla visione interiore del morticino in fasce disteso su la bara tra corone di crisantemi bianchi, tra quattro candele accese. Egli aveva il sonno calmissimo. Giaceva supino, tenendo le mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A quando a quando le sue labbra umide facevano l'atto di poppare. Se mi giungeva al cuore l'innocenza di quel sonno, se l'atto inconscio di quelle labbra m'impietosiva, io dicevo a me stesso, come per raffermare il mio proposito: "Deve morire." E mi rappresentavo le sofferenze già patite per lui, le sofferenze recenti, le imminenti, e quanto d'affetto egli usurpava a danno delle mie creature, e l'agonia di Giuliana, e tutti i dolori e tutte le minacce che chiudeva la nuvola ignota sul nostro capo. E così rinfocolavo la mia volontà micidiale, così rinnovavo sul dormente la condanna. In un angolo, all'ombra, stava seduta a custodia la femmina di Montegorgo, taciturna, immobile come un idolo; e il bianco degli occhi e il bianco dei denti non lucevano meno dei larghi cerchi d'oro.
Una sera (fu il 14 di dicembre), mentre io e Federico tornavamo alla Badiola, scorgemmo d'innanzi a noi sul viale un uomo che riconoscemmo per Giovanni di Scòrdio.
—Giovanni!—gridò mio fratello.
Il vecchio si fermò. Noi ci avvicinammo.
—Buona sera, Giovanni. Che novità?
Il vecchio sorrideva peritoso, impacciato, quasi che noi l'avessimo colto in fallo.
—Venivo—balbettò—venivo…. pel mio figlioccio.
Era timidissimo. Pareva che stesse lì lì per chiedere perdono di quell'ardire.
—Vorresti vederlo?—gli chiese Federico, a bassa voce, come per fargli una proposta in confidenza, avendo certo compreso il sentimento dolce e triste che moveva il cuore di quell'avo abbandonato.
—No, no…. Venivo soltanto per domandare….
—Non vuoi vederlo dunque.
—No…. sì…. troppo disturbo forse…. a quest'ora….
—Andiamo—concluse Federico, prendendolo per la mano come un fanciullo.—Vieni a vederlo.
Rientrammo. Salimmo fino alla stanza della nutrice.
Mia madre era là. Sorrise con benignità a Giovanni. Ci accennò di non far rumore.
—Dorme—disse.
Volgendosi a me, soggiunse con inquietudine:
—Oggi, verso sera, ha tossito un poco.
La notizia mi turbò; e il mio turbamento apparve così che mia madre credette di rassicurarmi soggiungendo:
—Ma poco, sai?, a pena, a pena; una cosa da nulla.
Federico e il vecchio già s'erano appressati alla culla e guardavano il piccolo dormente, alla luce della lampada. Il vecchio stava tutto chino. E nessuna cosa d'intorno era candida come la sua canizie.
—Bacialo—gli bisbigliò Federico.
Egli si sollevò, guardò me e mia madre con un'aria smarrita; poi si passò una mano sulla bocca, sul mento dove la barba era mal rasa.
Disse sottovoce a mio fratello col quale aveva maggior confidenza:
—Se lo bacio, lo pungo. Certo, si sveglia.
Mio fratello, vedendo che il povero vecchio diserto si struggeva dal desiderio di baciare il bambino, lo incorò con un gesto. E allora quel grosso capo canuto si piegò su la culla piano piano, piano piano.
Quando rimanemmo soli io e mia madre nella stanza, d'avanti alla culla dove Raimondo ancora dormiva col bacio in fronte, ella disse pietosa:
—Povero vecchio! Sai tu che viene quasi tutte le sere? Ma di nascosto. Me l'ha detto Pietro che l'ha veduto gironzare intorno alla casa. Il giorno del battesimo, volle che gli indicassero di fuori la finestra di questa stanza, forse per venire a guardarla…. Povero vecchio! Come mi fa pena!
Io ascoltavo il respiro di Raimondo. Non mi parve mutato. Il suo sonno era tranquillo.
Dissi:
—Dunque oggi ha tossito….
—Sì, Tullio, un poco. Ma non t'impensierire.
—Ha preso freddo, forse….
—Non mi par possibile che abbia preso freddo; con tante cautele!
Un lampo mi attraversò il cervello. Un gran tremito interno mi assalì all'improvviso. La vicinanza di mia madre mi divenne a un tratto insopportabile. Mi smarrii, mi confusi, ebbi paura di tradirmi. Il pensiero mi balenava dentro con tale lucidità, con tale intensità che io temetti: "Qualche cosa dalla mia faccia deve trasparire." Era un timore vano, ma non riuscivo a dominarmi. Feci un passo avanti, e mi chinai su la culla.
Di qualche cosa mia madre s'accorse ma in mio favore, perché soggiunse:
—Come sei apprensivo tu! Non senti che respiro calmo? Non vedi come dorme bene?
Ma pur dicendomi questo, ella aveva nella voce l'inquietudine e non sapeva nascondermi la sua apprensione.
—Sì, è vero; non sarà nulla—risposi comprimendomi.—Rimani qui?
—Finchè non torna Anna.
—Io vado.
Me n'andai. Andai da Giuliana. Ella m'aspettava. Tutto era pronto per la sua cena a cui solevo prender parte affinché la piccola tavola da malata le sembrasse meno uggiosa e il mio esempio e le mie premure la spingessero a mangiare. Io mi mostrai negli atti, nelle parole eccessivo, quasi allegro, diseguale. Ero in preda a una particolare sovreccitazione, e n'avevo un'esatta conscienza, e potevo sorvegliarmi ma non moderarmi. Bevvi, contro la mia consuetudine, due o tre bicchieri del vino di Borgogna prescritto a Giuliana. Volli che ella anche bevesse qualche sorso di più.
—Ti senti un poco meglio; è vero?
—Sì, sì.
—Se tu sarai obediente, io ti prometto che per Natale ti farò levare. Ci sono ancora dieci giorni. In dieci giorni, se tu vorrai, diventerai forte. Bevi ancora un sorso, Giuliana!
Ella mi guardava un po' attonita, un po' curiosa, facendo qualche sforzo per prestarmi tutta la sua attenzione. Ella era già affaticata, forse; le palpebre incominciavano forse a pesarle. Quella positura elevata, dopo un certo tempo, provocava in lei ancora talvolta i sintomi dell'anemia cerebrale.
Bagnò le labbra nel bicchiere che le porgevo.
—Dimmi—io seguitai—dove ti piacerebbe di passare la convalescenza?
Ella sorrise debolmente.
—Su la Riviera? Vuoi che scriva ad Augusto Arici perché ci trovi una villa? Se Villa Ginosa fosse disponibile! Ti ricordi?
Ella sorrise più debolmente ancora.
—Sei stanca? T'affatica forse la mia voce….
M'avvidi ch'ella stava per cadere in deliquio.
La sostenni, le tolsi i guanciali che la rialzavano, l'adagiai mettendole il capo più in basso, la soccorsi nei modi consueti. Dopo un poco, parve ch'ella riacquistasse i sensi. Mormorò come in sogno:
—Sì, sì, andiamo….
Un'irrequietudine strana mi teneva. Talvolta era come un godimento, come un assalto di gioia confusa. Talvolta era come un'impazienza acutissima, una smania insofferibile. Talvolta era come un bisogno di vedere qualcuno, d'andare in cerca di qualcuno, di parlare, di espandermi. Talvolta era come un bisogno di solitudine, di correre a rinchiudermi in un luogo sicuro per rimanere solo con me stesso, per guardarmi bene a dentro, per sviluppare il mio pensiero, per considerare e studiare tutte le particolarità dell'evento prossimo, per prepararmi. Questi moti diversi e contrarii, ed altri innumerevoli moti indefinibili inesplicabili, si avvicendavano nel mio spirito rapidamente, con una straordinaria accelerazione della mia vita interiore.
Il lampo che aveva attraversato il mio cervello, quel guizzo di luce sinistra, pareva che avesse illuminato a un tratto uno stato di conscienza preesistente se bene immerso nell'oscurità, pareva che avesse risvegliato uno strato profondo della mia memoria. Sentivo diricordarmima, per quanti sforzi io facessi, non giungevo a rintracciare le origini del ricordo né a scoprirne la natura. Certo, mi ricordavo. Era il ricordo d'una lettura lontana? Avevo trovato descritto in qualche libro un caso analogo? O qualcuno, un tempo, m'aveva narrato quel caso come occorso nella vita reale? O pure quel sentimento delricordoera illusorio, non era se non l'effetto d'una associazione d'idee misteriosa? Certo, mi pareva che ilmezzomi fosse stato suggerito da qualcuno estraneo. Mi pareva che qualcuno a un tratto fosse venuto a togliermi da ogni perplessità dicendomi: "Bisogna che tu faccia così, come fece quell'altro nel tuo caso." Ma chi eraquell'altro? In qualche modo, certo, io dovevo averlo conosciuto. Ma, per quanti sforzi io facessi, non riuscivo a distaccarlo da me, a rendermelo obiettivo. M'è impossibile definire con esattezza il particolare stato di conscienza in cui mi trovavo. Io avevo la nozione completa d'un fatto in tutti i punti del suo svolgimento, avevo cioè la nozione d'una serie di azioni per cui era passato un uomo nel ridurre ad effetto un dato proposito. Ma quell'uomo, il predecessore, m'era ignoto; e io non potevo associare a quella nozione le imagini relative senza mettere me stesso nel luogo di colui. Io dunque vedevo me stesso compiere quelle speciali azioni già compiute da un altro, imitare la condotta tenuta da un altro in un caso simile al mio. Il sentimento della spontaneità originale mi mancava.
Quando uscii dalla stanza di Giuliana, passai qualche minuto nell'incertezza girando per gli anditi alla ventura. Non incontrai nessuno. Mi diressi verso la stanza della nutrice. Origliai alla porta; udii la voce sommessa di mia madre; mi allontanai.
Ella non s'era mossa forse di là? Il bambino aveva avuto forse qualche accesso di tosse più grave? Io conoscevo bene il catarro bronchiale dei neonati, la malattia terribile dalle apparenze ingannevoli. Mi ricordai del pericolo corso da Maria nel suo terzo mese di vita, mi ricordai di tutti i sintomi. Anche Maria da principio aveva alcune volte sternutato, tossito leggermente: aveva mostrato molta tendenza al sonno. Pensai: "Chi sa! Se aspetto, se non mi lascio trascinare, forseil buon Diointerviene a tempo, io sono salvo." Tornai in dietro; origliai di nuovo; udii ancora la voce di mia madre; entrai.
—Dunque, come sta Raimondo?—chiesi, senza nascondere il mio tremito.
—Bene. È quieto; non ha più tossito: ha il respiro regolare, il calore naturale. Guarda. Sta poppando.
Mia madre mi parve in fatti rassicurata, tranquilla.
Anna, seduta sul letto, dava il latte al bambino che lo beveva con avidità, mettendo di tratto in tratto un piccolo rumore con le labbra nel suggere. Anna aveva il volto reclinato, gli occhi fissi al pavimento, un'immobilità bronzea. La fiammella oscillante della lampada le gittava luci ed ombre su la gonna rossa.
—Non fa troppo caldo qui dentro?—dissi, provando un po' di soffocazione.
La camera in fatti era caldissima. In un angolo, su la cupola d'un braciere si scaldavano alcune pezzuole, una fascia. Si udiva anche un gorgoglio d'acqua in bollore. Si udiva a quando a quando il tintinno dei vetri sotto le ventate che fischiavano o rugghiavano.
—Senti che tramontana si rivolta!—mormorò mia madre.
Io non avvertii più gli altri rumori. Ascoltai il vento, con un'attenzione ansiosa. Mi corse qualche brivido per le ossa, quasi che m'avesse penetrato un filo di quel freddo. Andai verso la finestra. Nell'aprire uno scuretto, le dita mi tremavano. Appoggiai la fronte contro il vetro gelido e guardai di fuori, ma l'appannatura prodotta subito dall'alito m'impediva di vedere. Levai gli occhi e scorsi a traverso il vetro più alto scintillare il cielo stellato.
—È sereno—dissi, uscendo dal vano della finestra.
Avevo dentro di me l'imagine della notte adamantina e micidiale, mentre gli occhi mi correvano a Raimondo che pendeva ancora dalla poppa.
—Ha mangiato stasera Giuliana?—mi domandò mia madre, con un accento amorevole.
—Sì—le risposi, senza dolcezza; e pensai: "In tutta la sera tu non hai trovato un minuto per venire a vederla! Non è la prima volta che la trascuri. Hai dato il cuore a Raimondo."