PARTE SECONDALA FAMIGLIA DI MASANIELLO
Correva l'anno di grazia 1620, anno notevole nella storia napoletana ai tempi del viceregnato, sì per le novità allora tentate dallapiazzadelfedelissimopopolo di Napoli nell'amministrazione del Comune, e sì per le turbolenze ed i rumori che ne seguirono; primi preludii della più famosa rivoluzione del 1647. Occasione e favore a queste manifestazioni ed ai tumulti davasi dallo stesso D. Pietro Giron duca d'Ossuna, che in quel tempo era vicerè, luogotenente e capitan generale del Regno per Filippo III, re di Spagna, Napoli e Sicilia. Egli da circa quattro anni governava il reame con varia opinione del popoli soggetti, allorché nel principio di questo anno 1620, contro ogni sua aspettazione, era dalla Corte richiamato in Madrid, e gli era dato per successore il cardinal Borgia, ambasciatore spagnuolo a Roma. Non è a dire quanto rammarico e dispetto l'ambizioso Duca risentisse da un tale ordine. Il governo di Napoli, secondo il detto d'un altrovicerè, non era da desiderarsi, appunto per non soffrire il dispiacere di doverlo un giorno lasciare[104]. All'Ossuna dunque, come a moltissimi altri vicerè che lo precedettero e lo seguirono in questo disgraziato paese[105], riusciva più che mai importuna la nomina del successore, epperò cercava ogni mezzo onde attraversare la venuta del medesimo e prolungare così per sè il governo di Napoli; se pure, come fu fama, non mirasse ancora ad usurpare dignità più alta ed indipendente.
Dovevasi in quel tempo per l'assenza dell'eletto Carlo Grimaldi, andato a Madrid[106]come ambasciatore della suapiazza, e per la morte di Ottavio Spina, che fino ai 21 marzo lo avea sostituito[107], nominare un proeletto del popolo, che durante quell'assenza amministrasse. Or tra i sei nomi presentati, com'era costume, al vicerè per la nomina, eravi quello del dottor Giulio Genoino, nato di onorata famiglia napoletana ed uomo di acutissimo ingegno e di sufficiente dottrina[108], madi animo torbido ed avversissimo alla nobiltà. Costui dunque parve al Duca, e lo era infatti, uno strumento atto a menare ad effetto i suoi ambiziosi disegni, epperò fu in preferenza scelto tra gli altri a quell'importante ufficio[109].
Il governo municipale della città di Napoli risedeva in quel tempo nelle cinquepiazzenobili, che dicevansi di Capuana, di Nido, di Montagna, di Porto, e di Portanova, ed in quella del Popolo. Tutte questepiazze, che chiamavansi ancheseggi, non erano mai riunite in una generale assemblea, ma ciascuna deliberava separatamente, in guisa che il voto di quattro di esse, che fossero d'accordo sopra un dato negozio, costituiva la maggioranza nelle decisioni di qualunque bisogna del Comune. Ognipiazzanobile per l'ordine interno e per la propria amministrazione avea un governo di sei gentiluomini ocavalieri, come generalmente chiamavansi, meno quella di Nido che ne aveva cinque,d'onde si dissero iCinqueeSei. Sei eletti nobili nominati da questi gentiluomini, uno perseggio, eccetto per Montagna, ove, perchè rappresentava anche l'abolito seggio di Forcella, se ne creavano due con un sol voto e l'eletto del popolo, avevano il potere, che potremmo dire esecutivo, nel governo della città, e formavano ilTribunale di S. Lorenzo, preseduto da un magistrato eletto dal vicerè, che chiamavasiPrefetto dell'AnnonaoGrassiere.
Sembra che in origine il popolo avesse nel Comune ingerenza maggiore. Ed infatti da alcuni documenti rileviamo che sotto gli Angioini esso contribuiva per la terza parte nell'amministrazione municipale, rappresentando le altre due terze parti i sedili di Capuana e di Nido da un lato, e quei di Montagna, Porto e Portanova dall'altro. Ma a poco a poco, nè, per mancanza di documenti può dirsi il come ed il quando, questo ordine di cose cangiò. Ai tempi di cui discorriamo, il Comune erasi costituito nel modo come sopra dicemmo, e la piazza popolare, che aveva anche perdute molte delle sue prerogative, stava in faccia alle nobili come uno a cinque. Così, per discorrere della maggiore e principal libertà, l'Eletto del popolo, che prima nominavasi a suffragio universale di tutti i popolani, dopo i tempi di d. Pietro di Toledo sceglievasi dal vicerè tra sei nomi presentati dalla medesimapiazzae imbussolati tra 58 deputati eletti dal popolo, due per ciascuna delle ventinoveottine, in cui dividevasi allora la Città. Così pure i capitani delle ventinoveottinesceglievansi dal vicerè fra sei persone nominate da quelle; come tra i 58 deputati sceglievansi 20 a maggioranza di voti, e tra questi si tiravano a sorte 10, che assistevano l'Eletto nel suo uffizio col titolo diConsultori.
La perdita di queste libertà e prerogative municipali era l'oggetto di spessi reclami da parte del popolo,[110]ed era lamentata moltissimo dagli scrittori popolari di quell'epoca, come dal Summonte, dal Capaccio e dal Tutini[111]. E comunque i reclami per lasempre invaditrice prepotenza della nobiltà, non partorissero alcun effetto nella corte di Spagna e presso i vicerè, nè si curassero punto i lamenti di coloro, che cercavano di conservare le patrie memorie, pure e gli uni e gli altri facevano diffondere negli animi di quella classe, per altro assai ristretta del paese, che ora si direbbeborghesia, ed anche, sebbene più scarsamente, tra i popolani e la plebe, odii e desiderii, i quali maturavano i semi di una futura rivoluzione.
Erano in questo stato le cose, allorchè Genoino venne creato Elettopro interimdel popolo. Egli, preso che ebbe il possesso della carica ai 9 aprile 1620[112], comunque non ne fosse ancora il tempo, fece prima di tutto mutare nel reggimento popolare i consultori ed i capitani delle ottine. A questi uffici fece pure presciegliere dal vicerè persone da lui dipendenti e che erano tra i più famosicompagnoni[113], che allora fusseroin Napoli, specie di vagabondi e faziosi legati in compagnia a comune difesa e vantaggio. Tra gli altri fu allora nominato[114]capitano del Mercato Francesco Antonio Arpaia, uomo di legge e valente schermitore[115], che dopo ventisette anni si vide novellamente ricomparire col Genoino, e dirigere per alcun tempo la rivoluzione che ebbe il nome da Masaniello. Con questi mezzi il Genoino pensava di favorire i disegni dell'Ossuna, e nello stesso tempo ottenere, se fosse stato possibile, il soddisfacimento delle aspirazioni del popolo. Egli contava specialmente sul favore che il Duca siaveva procacciato fra la gente minuta e nei quartieri popolari del Pendino e del Mercato, talvolta con qualche pronta giustizia[116], e cosa non comune in quel tempo, spesso colle feste e coi bagordi, e più di tutto coll'abolizione della gabella sui frutti imposta nel 1605 sotto il governo del Conte di Benavente, ed affittata allora per 84,000 ducati[117]l'anno. Un giorno che il vicerè passeggiava secondo il suo solito per la città, ed accompagnato e seguìto dalla plebe, alla quale gittava di quando in quando monete di argento, girava per la piazza del Mercato, passando per la baracca, ove risiedevano gli esattori di questa gabella, si accostò alla medesima, e smontato dalla carrozza, cacciò la spada che avea al fianco, e con quella tagliò le corde della bilancia con cui si pesavano le frutta. L'atto subitaneo e liberale, che fu poi seguìto da un bando regolare, destò il più indicibile entusiasmo nella povera gente ivi affollata, che più delle altre malamente soffriva questa gravezza. Tutti proruppero in istraordinarie grida di applauso e di gioia. I fruttaiuoli specialmente, che ivi più che in altra piazza della città erano numerosi, ne dimostrarono allegrezze grandissime, facendo per tre sere fuochi e luminarie, e portandosi nel terzo giorno in ischiera a Palazzo, per rendere al vicerè le grazie più solenni[118].
Or il Genoino, pensando che la plebe memore di questo beneficio avesse energicamente appoggiato le sue dimostrazioni in favore del Duca, nè dubitandodella gente civile, alla quale credeva servire colle riforme municipali, la mattina del lunedì 18 maggio radunò i consultori dellapiazzapopolare ed i capitani delle ottine nella sua casa vicino S. Giorgio Maggiore a Forcella, ed ai medesimi espose con calde parole il poco o nessun riguardo che i nobili avevano del popolo e del suo magistrato[119]. Indi seguìto da tre capitani di strada, e da molta turba armata, si presentò improvvisamente nel luogo della residenza municipale in S. Lorenzo, ove, come egli aveva preinteso, eransi riuniti i sei eletti nobili ed alcuni deputati dellepiazze.
Oggetto di questa riunione era la notificazione da farsi allepiazzeper la nomina degli ambasciatori e del sindaco[120]. I primi, secondo il costume, dovevanoandare a far riverenza, l'altro indi ricevere il giuramento, e dare il possesso del governo al Cardinal Borgia nuovo vicerè, che in quella stessa mattina era giunto nascostamente in Procida. Il Genoino, lagnandosi dinon essere stato avvisato di una tal riunione, dimandò arrogantemente agli eletti nobili: se sapevano quanto era potente il popolo di Napoli, e, sapendolo, perchè avevano attrevito (ardito) di unirsi e deliberare l'ambasciata al Cardinale senza il suo intervento[121].
Forse era questa la prima volta, che nel reggimento municipale della nostra Città si parlasse così arditamente dei diritti e del potere del popolo; magica parola, che e stata sempre la bandiera, per la quale i generosi sagrificano sè stessi al bene pubblico, ed i furbi cuoprono le ambiziose mire del proprio utile e dei privati interessi. Alle arroganti minacce i nobili risposero modestamente. Dissero aver essi invitato regolarmente il pro-eletto alla riunione, esser colpa delportierese l'invito non era giunto a tempo; in ogni modo quell'atto non esser punto pregiudizievole allapiazzadel popolo. Il Genoino però non mostrandosi soddisfatto di queste spiegazioni, e protestando essere necessaria una divisione fra le due classi, fece leggere al notajo Francesco Romano, secretario dellapiazzadel popolo, una protesta sul proposito; e, scritto di propria mano il suo voto difforme nel registro del Comune[122], volle che la riunione fosse sciolta.
I nobili d'altra parte, i quali vedevano i tempi correre loro sfavorevoli, e sapevano che non avrebbero potuto trovare alcun appoggio nel vicerè, per consiglio di Pietro Macedonio eletto di Porto, che disse:Lasciateli protestare, perchè protestare e mendicare idem est, non fecero alcuna opposizione[123]. Deliberarono quindi ritirarsi, e rapportando il tutto ai reggenti del Collaterale ed al Cardinal Borgia per mezzo degli ambasciatori nominati dallepiazzea complimentarlo, spedirono Giovan Francesco Spinello a Madrid[124]affine di esporre al Re le loro lagnanze e ventitre capi di accusa contro il Duca d'Ossuna[125]. Frattanto si appartarono dalle cure del pubblico governo, e coi più compromessi della loro classe restarono chiusi nelle proprie case o nascosti nelle chiese e nei monasteri della città. Così il governo municipale di Napoli era lasciato a disposizione del solo Genoino, che provvedeva le cose e l'annona a suo modo e talento[126]. Nè con la venuta di Carlo Grimaldi[127]che era, come già dissi, l'Elettotitolare, da Spagna, le cose mutarono; perciocchè, obbligato costui dal Duca a dimettersi, lo stesso Genoino, sebbene non ne fosse ancora il tempo, fu creato Eletto dal vicerè, ed ai 29 maggio dopo aver cavalcato per la Città, preceduto e seguito daiportieri, e con la toga di giudice criminale, che pochi dì innanzi gli era stata pure accordata, portossi in S. Lorenzo, ove non essendo presente che un sol eletto nobile, prese possesso dell'ufficio ricevuto[128].
Bentosto un manifesto delfedelissimopopolo di Napoli scritto dal nuovo Eletto, e stipulato ai 30 del mese da notar Francesco Romano, dichiarò le intenzioni del Genoino. Con esso s'invitavano lepiazzenobili ad intervenire fra otto giorni nella chiesa di Santa Chiara, ove si dovessero trattare tra quelle ed il popolo le riforme del reggimento municipale da lui proposte. Si dichiarava inoltre che mancando le dettepiazzeo persone da esse deputande all'intimato parlamento, s'intendeva proclamata la separazione tra la nobiltà ed ilpopolo, e lodandosi l'ottimo governo del Duca, si protestava contro la partenza del medesimo e si riteneva necessaria la sua presenza in Napoli pel servizio della Corona, finchè queste differenze non fossero concordate, e finchè non fosse fatta giustizia alle pretensioni dellapiazzapopolare[129]. Intanto preventivamente ad istanza del medesimo Genoino, si chiamavano dal Duca in palazzo le stessepiazzenobili ed il Collaterale, perchè avessero conoscenza dei capi delle proposte riforme[130], e con quelle anche i capitani ed i consultori popolari, tanto della vecchia quanto della nuova sessione, perchè li firmassero.
All'ora stabilita nè la nobiltà nè il Collaterale comparvero. Gli stessi capitani delleottinepopolari non tutti assentirono, ed alcuni anzi ricusarono apertamente di firmare. Altri, tra i quali fu Marco Antonio Ardizzone, credenziere e conservatore dei grani della città, sotto il pretesto di non voler mostrare di cedere alle pressioni del vicerè (era presente il Duca d'Ossuna) proposero che l'assemblea si portasse in qualche luogo pubblico ed indipendente, come in una chiesa, ed ivi evesse più liberamente deliberato. E così fu fatto. Si andò nella chiesa di S. Luigi di Palazzo ivi vicina, ora S. Francesco di Paola; ove credendo il Genoinoche si firmassero i capi proposti, nessuno volle farlo, ed ognuno andò via alla sua propria casa[131].
In questo frattempo la città per gl'insoliti avvenimenti, era piena di agitazione e di tumulto. Il grido sedizioso diserra serra, che in Napoli per lunga pezza fu il grido precursore della rivoluzione[132], spesso risonava per le vie più popolose. Allora le case e le botteghe si chiudevano, le officine intermettevano i loro lavori, il chiasso dei venditori ambulanti in un attimo spariva, ed un silenzio di tomba, che incuteva terrore negli animi, succedeva dappertutto. Erano queste dimostrazioni provocate, come credevasi, dallo stesso Genoino, affinchè, insorgendo il popolo, egli avesse potuto ottenere il suo scopo. Ma il momento non era ancora maturo. Pochi erano quelli che comprendevano la ragione e la utilità di quelle riforme che lo stesso reggente Costanzo, patrizio insieme e magistrato, trovava giuste ma inopportune[133]; pochissimi quelliche avevano la forza o la volontà di adoperarsi ad ottenerle. Nè il disquilibrio ed il danno negl'interessi materiali erano giunti a tale che potessero spingere la plebe a qualunque più ardita e pericolosa novità. Epperò nessuno allora si mosse, ed appena nel mattino del 4 giugno le salve di uso annunziarono che il cardinal Borgia aveva preso possesso della carica di vicerè, e si seppe che era stato nella notte segretamente introdotto nel Castel Nuovo, ed aveva ricevuto obbedienza dalle autorità civili e militari, che tosto la scena cangiò interamente. Il Genoino ed i suoi partigiani fuggirono o si nascosero, il Duca ai 14 giugno partì per le Spagne; non parlandosi più delle pretensioni del popolo, gli ordinamenti municipali seguitarono a reggersi nel modo che prima costumavasi, e tra gli spari degli archibugi ed il suono delle campane che dimostravano la gioia della maggior parte dei cittadini, i fanciulli andavano per le vie di Napoli in ischiere ed a coro, cantando:
Statte alliero citatinoCa è trasuto 'o cardinaleNce ha sarvate d'ogne maleE cacciato Genovino[134].
Statte alliero citatino
Ca è trasuto 'o cardinale
Nce ha sarvate d'ogne male
E cacciato Genovino[134].
Or nel 29 giugno di questo stesso anno 1620, in cui accadde l'accennato movimento, che potrebbe acconciamente tenersi come il prologo del dramma svolto poscia nel 1647, alcuni popolani, uomini e donne, erano convenuti in una casa al primo piano al vico Rotto nella piazza del Mercato per festeggiare un lieto avvenimento. Si procedeva al battesimo di un fanciullo nato nel mattino, e che era il primogenito della famiglia che ivi abitava. Tutti portavano i loro abiti di gala. Gli uomini, alcuni, i più ricchi esmargiassi, coll'albernuzzo(specie di cappa) di teletta, col sajo di rascia a finte e liste ditarantolagialla, col giubbone di tela della Cava squartato e foderato di taffettà rancio, concoscialie calze di stamma e stracci di seta legate concioffeesciscioli, e col collaro di tela fina, e cappello ornato di pennacchio epassacavallo[135]; altri — i più modesti — con casacche a campane con bottoni grandi di camoscio, calzoni (cauze a brache) di tarantola bianca, e calze alla martingala di negro[136]; altri finalmente, marinari o pescatori, in più semplici arnesi, con calzoni di dobletto o di tela bianca, e camiciuoladi lana, e col tipico berretto rosso in testa. Nè mancava chi portasse le maniche a la spagnola larghe ed increspate, come era la moda in quel tempo, e chi, come i vecchi più tenaci delle antiche usanze, i calzoni collagiarnera(scarsella) ed i berretti piatti atagliero[137]. Le donne vestivano con corpetto di scerghiglia, da cui compariva la camicia di tela di Bretagna, con gonnella di saia frappata, e con grembiule di filondente ornato dipizzillia frangette, e ditruglio(ciondolo tondo) di vetro[138]o con sottana didobrettocorta e tonda. Portavano, se giovani, le scarpe di sommacco piccato, o di cordovana, se attempate,chianielle,pantofanetti, o zoccoli[139]. V'era qualcuna delMolo piccolocol vestito e col manto proprio di quella contrada, di cui qualche raro esempio ora può trovarsi nelle donne di Procida[140]. Nelle fanciulle potevano notarsi le acconciature del capo o alla scozzese, coi capelli cioè acanestretteintrecciati da nastri o fettucce (zagarelle) incarnatine o verdi, tra cui taluna aveva posto una ciocca di ruta[141], o alla spagnola coltuppo, che con voce propria[142]di quella nazione dicevasimuño(chignon). Le maritate usavano iltoccato, che era proprio del Mercato e Lavinaro[143]le foresi lamagnosa.
La stanza, in cui quella gente era radunata, aveva un'assai modesta ma non povera apparenza. Una cassapanca a borchie di ottone, un canterale, una tavola di noce, ed in fondo un letto alto, senza trabacca, ma con biancheria di tela fina di bucato, e con coltre di seta, ove stava la puerpera, erano i principali mobili che l'ornavano. Allorchè fu chiaro che nessuno dei parenti e degli amici convitati mancava a quella domestica festa, la destra comare, che, senza intermettere la sua ordinaria loquacità, aveva finito di avvolgere tra le fasce il neonato, gli appendeva alle spalle alcuni amuleti, come denti di lupo, coralli, porcellini, e mezze lune di osso[144]; ed indi lo prendeva tra le braccia e portatolo in mezzo alla stanza, lo metteva in terra sul tappeto, che a tal oggetto da un ragazzo era stato in quel momento colà disteso. Poscia, volgendosi al padre del bambino, gli diceva:Ora su, compare, àuzate 'o paciunciello tuio, e benedicetillo e basatillo mmocca.(Orsù via, compare, alza da terra questo tuo bambino, e benedicilo e bacialo in bocca). Così faceva tutto allegro colui, ed indi lo dava tra le braccia del parente che era gli vicino, il quale baciatolo anche a sua volta, lo passava a un altro, e questi ad un terzo, in guisa che il neonato non era riposto sul letto della puerpera se prima non avesse fatto il giro di tutti gli astanti. E nel compire questa cerimonia, ciascuno aggiungeva il solito augurio, che in tale occasione costumavasi, cioè:Comme l'avimmo visto nato, vedimmolo nzurato[145].
Fatto ciò, la comare prese in braccio il bambino, e seguìta da alcuni dei parenti e da colui che dovea levarlo dal sacro fonte, non senza l'accompagnamento di moltissimi ragazzi e monelli che l'aspettavano in sulla strada, si collocò nella ritualeseggettao bussola, e s'avviò alla chiesa parrocchiale per compire il rito religioso.
La chiesa di S.ª Caterina inforo-magnoera la parrocchia, da cui dipendeva la casa abitata dalla famiglia del neonato. Questa chiesa era stata fondata dalla Confraternita deicoriariopellettieri(conciatori di pelle), e propriamente da quelli che dicevansidell'arte grossa. In prima era unagranciadi S. Arcangelo degliarmieri, istituita dopo l'ampliazione della città nel 1536[146]. Poscia nel 1599 dall'arcivescovo Alfonso Gesualdo fu dichiarata parrocchia. Oltre alla congregazione suddetta radunavasi pure ivi la Confraternita del Santissimo Sacramento istituita nel 1568, la Confraternita di S. Maria di Costantinopoli fondata nel 1535, e la Compagnia dei pescatorida bolentino cannuccie e filaccione, della quale si conoscono le capitolazioni del 1585.
La chiesa, come ancora vedesi, era posta tra il convento del Carmine e le mura della città, verso il lido, ove a quei tempi era la porta del torrione della marina. La piazza, che vi era innanzi, dicevasi allora diS. Caterina, ed anche de liscamusciatari[147]. Fino a pochi anni fa esisteva la porta antica di essa, di piperno ed a sesto acuto, che nel 1850, rifacendosi, con cattivo consiglio fu ammodernata. Nei tempi, di cui discorriamo,l'edificio, di una forma alquanto più regolare di quella che è al presente, aveva due piccole navate laterali, di cui una a destra di chi entra esiste tuttora, e l'altra già fu adattata ad uso di sacristia. Aveva pure cinque altari, oltre il maggiore, con cone o di alto rilievo in legno indorato, o di tavole e dipinture dell'antica scuola napolitana, che tutte, meno l'affresco che vedesi ancora sulla cappella dal lato dell'epistola, furono sostituite da quadri moderni di mediocre pennello. Innanzi al presbitero, come era costume in quei tempi, una trave posta in alto a traverso sosteneva un crocefisso in legno. A sinistra di chi entra eravi il fonte battesimale, ed a destra quel braccio in fondo della chiesa, che si prolunga verso la marina e forma un lato ineguale ed abnorme dell'edificio, era una cappella che serviva allora per sacristia[148].
Era allora parroco di S. Caterina l'abbate D. Giovan Matteo Peta. Costui, adempito il rito prescritto dalla nostra religione, ed accomiatato il popolano che aveva tenuto il bambino al sacro fonte e la comare, entrò nella sagrestia, ove, toltisi i sacri paramenti, e preso da uno scaffale un grosso libro, su cui leggevasi:Libro XII dei battezzati, al foglio 44 verso, scrisse:A 29 Giugno 1620. Thomaso Aniello figlio di Cicco d'Amalfi et Antonia Gargano è stato battezzato da me D. Giovanni Matteo Peta, et levato dal sacro fonte da Agostino Monaco et Giovanna de Lieto al vico Rotto[149].
Francesco d'Amalfi, che nel dialetto napolitano dicesi anche Cicco, e che per burla comunemente era chiamatoCeccone, poco prima, come ci attestano i documenti della stessa parrocchia, si era congiunto in matrimonio coll'Antonia Gargano. Ai 18 febbraio dello stesso anno essi erano stati solennementeingaudiati, ed il medesimo abbate D. Giovan Matteo Peta aveva col sacro rito legittimato e benedetto il loro amore, del quale l'Antonia portava già un pegno nel proprio seno in Masaniello. La cerimonia, per questa circostanza, fu celebrata in casa della sposa al Carmine,previa l'autorizzazione della curia arcivescovile di Napoli[150].
Ventun anno di poi nella stessa parrocchia compivasi un altro atto solenne della vita privata di Masaniello. Bernardina Pisa, vaga ed onesta fanciulla a sedici anni[151]aveva ferito il cuore del giovine pescatore. Egli la cercò in moglie, e la dimanda fu accettata e gradita.
Un giorno verso la fine del 1640 il giovine vestito dei suoi più belli abiti da marinaro fece la prima visita ufficiale, lasagliuta, come propriamente dicevasi dal nostro volgo, in casa della sposa, e portò alla medesima il dono di uso, conveniente alla scarsezza dei tempi ed alla propria condizione. Consisteva questo in due pendenti, unacannacca(collana), una grandiglia (specie di gorgiera all'uso spagnuolo), ed un ventaglio, alcune calze, delle legacce, e degli spilli, ed altre cose di tal genere[152]. Una stretta di mano ed un bacio alla sposa compirono il rito, e solennemente suggellarono la reciproca promessa di matrimonio[153].
Da quel dì alle finestre della casa di Bernardina, che era posta dirimpetto alla Chiesa del Carmine, e da quelle dei suoi parenti, come alle finestre della casa sulla piazza del Mercato accanto al vicoRotto, ove dimorava Masaniello, ed a quelle dei parenti di lui per alcuni giorni si videro pendere coverte di seta e tappeti. Così, secondo il costume, davasi conoscenza al pubblico del parentado contratto dalle due famiglie[154].
Il matrimonio in seguito fu solennemente celebrato nella chiesa di Santa Caterina, ove i due sposi tenendosi per mano, e seguiti dai proprii parenti[155], si recarono ai 20 Aprile dell'anno seguente e non mancò di alcuna di quelle cose che solevano allora costumarsi in simili circostanze[156]. Tutti i parenti e gli amici più stretti furono invitati e convennero alla festa. Tra i primi erano Antonia Gargano e Andreana de Satis, madre di Bernardina; poichè Cicco d'Amalfi e Pietro Pisa, genitori degli sposi, erano già morti. Vi era pure Grazia d'Amalfi sorella dello sposo e Cesare di Romadi Gragnano, che l'aveva recentemente impalmata[157]; Giovanni altro figlio di Cicco d'Amalfi, che allora aveva 17 anni[158], e che poscia nel 1647 ebbe parte al potere e alla fortuna del fratello; Girolamo Donnarumma altro cognato di Masaniello salsumaio e bottegaio di frutta al Pendino, che dopo la morte di lui nel settembre 1647 fu nominato capitano del popolo per qualche tempo[159]; Domenico de Satis e Giovan Battista Pisa zii della sposa ed altri molti. I due banchetti di rito, uno nella mattina in casa di Bernardina e l'altro nella sera in casa dello sposo, furono abbondanti e pieni dell'allegria franca e spensierata dei napoletani[160]. Nè vi mancò mastro Ruggiero col suo liuto, che canto levillanelle, e le canzoni più in voga in queltempo[161]. La festa fu chiusa con balli ecascarde, e collaspallatache chiamavasimadamma la zita[162], danza propria dell'occasione.
Intanto lo stato del Regno procedeva ogni dì al peggio ed i popoli erano stremati dalle disgrazie naturali, dalle carestie, dalle scorrerie dei turchi, dal timore delle flotte francesi, e più che tutto ciò dall'insaziabile ingordigia del dominatori spagnuoli. Il Duca di Medina, D. Ramiro Filippo de Gusman, che allora governava il regno per Filippo IV, e che nella nostra città ha lasciato memoria di sè in una porta, fatta a spese di privati cittadini, ed in una fontana opera dei suoi antecessori, per sopperire alle incessanti richieste di denaro e di gente, che gli venivan fatte dalla Corte di Spagna, aggiungeva dazii a dazii, gabelle a gabelle, ed aumentava le già esistenti senza misura o criterio. Le antiche gravezze sulla seta, sul sale, sull'olio, sull'orzosulla carne, sui salumi e sul grano si aumentavano ad una proporzione maggiore, e nuovi dazii s'imponevano sulla calce, sulle carte da gioco, su l'oro e l'argento filato, e sopra tutti i contratti di prestiti che facevansi nella città e nel regno. Si tentò pure la carta bollata, una tassa sulle pigioni, ed il testatico, imposte che per essere insolite, e più che le altre gravose, dovettero lasciarsi, e compensarle invece coll'aumento di altre gravezze già esistenti e specialmente accrescendo quella della farina[163]. Così il Medina nel suo governo di poco più di sei anni potette ricavare dalla città e dal regno, oltre le entrate ordinarie, meglio che 30 milioni[164]di ducati (127,500,000). Non mancavano, è vero, in questo frattempo nella nostra città anzi erano frequenti, le feste e gli spettacoli, ove il lusso della casa viceregnale, degli spagnuoli, e della nobiltà, che consumava senza produrre, pareva che desse aspetto di ricchezza e di prosperità al paese. Ma questa non era che un'apparente prosperità, e ben sel sapeva il Duca di Medina che partendo da Napoli, ebbe a dire con cinica improntitudine: lasciar egli il regno in tal termine che quattro buone famiglie non avrebbero potuto fare un buonpignato maritato, cioè una buona minestra[165].
Le gabelle sui generi annonarii e specialmente sulla farina e sul pane, comechè gravi dovunque, erano nella nostra Città gravissime, e più che per altri per la povera gente. Costumavasi allora di panizzare fra noi due specie di pane, cioè il pane arotoloe la così dettapalata; il pane arotoloper chi poteva spendere, lapalataper la plebe o per i poveri. Il costo del primo, che vendevasi a peso, variava in proporzione del prezzo della farina, l'altra che si pagava sempre quattro grana (17 centesimi), variava in tali circostanze soltanto di peso e di qualità. Così quando il grano costava caro, il pane dellapalataera piccolo e cattivo, e talvolta, specialmente nei forni e nelle botteghe non soggette alla giurisdizione municipale, anche pregiudizievole alla pubblica salute. Gli scrittori ed i documenti del tempo ci attestano ciò apertamente. Nello stesso anno 1641, come afferma un agente del Duca di Toscana in Napoli, essendo stato scarso il ricolto, l'eletto del popolo Giovan Battista Nauclerio “non solo aveva dato facoltà ai panettieri di poter mancare due oncie per ogni palata di pane, ma che potessero mettere in detto pane ogni altra mestura, che a loro fosse piaciuta, cocendolo malamente, purchè ritenesse il peso„ della qual cosa gli altri eletti si lagnarono col vicerè[166]. Quindi, come afferma un contemporaneo[167], due carlini (85 centesimi) di pane al giorno non bastavano in tali congiunture ad un pover'uomo; pur fortunato, se le cose frammiste alla farina onde farla pesante,non gli erano causa, come a 27 soldati di Castel S. Elmo, nel 1629, d'infermità e di morte[168].
Queste pubbliche miserie, che facevano dura e difficile la vita alla povera gente, non risparmiavano certamente la famiglia di Masaniello. Essa campava stentatamente alla meglio, e spesso i sottili guadagni del proprio mestiere non bastavano al pescivendolo. Spesso pure Masaniello sciupava lo scarso lucro della giornata (bisogna pur dirlo) con icompagnonidel suo quartiere, o nelle taverne del Mercato e del Pendino o al giuoco, sia nellacamorra[169]innanzi Palazzo, sia sotto le tende e le baracche del Largo del Castello.
Allora il bisogno e la fame erano nella casa di Bernardina, e la povera donna si avventurava a qualche piccolo contrabbando per procurarsi un poco di pane a più buon mercato. Un giorno, avendosi comprato poca quantità di farina in uno dei casali di Napoli, ove non essendoci le gabelle della Città, si poteva trovare a prezzo più discreto, tentava di portarla nascostamente a casa sua dentro una calzetta, sotto colore che fosse un suo piccolo bambino avvolto tra le fasce, che pel freddo cercava ricoprire con un panno. Lo stratagemma però non ingannava gl'inumani e rigorosi gabellieri, che come dice uno scrittore di quel tempo, cercavano addosso a tutti nei passi ordinarii e nelle strade stesse di Napoli, non rispettando neanche le donne nelle parti del corpo soggette alla vergogna[170].La povera Bernardina, scoperto il contrabbando, fu presa e condotta nelle carceri dell'arrendamento, ove fu sostenuta per circa otto giorni. Il marito, saputolo, corse al posto della gabella a Porta Nolana, indi dall'affittatore della medesima Girolamo Letizia, onde ottenerne la libertà. Tutto fu inutile. Le preghiere, i pianti, le sottomissioni non ottennero alcun effetto. Bernardina non uscì di prigione se non quando fu pagata[171]la multa (cento scudi, affermano alcuni scrittori), che il povero Masaniello potette a stento raggruzzolare, vendendo tutte le masserizie di casa e procurandosi qualche somma in prestito dai suoi parenti. Allorchè il misero, consegnato il danaro al gabelliere e presa per mano la moglie, per la via dell'Arenacciasi avviò a casa sua, si volse prima un momento verso l'officina della gabella, e pieno d'ira e di dispetto:Pe la Madonna del Carmine, disse,o ch'io non sia più Masaniello, o che un giorno mi vendicherò alla per fine di questa canaglia[172].
E il giorno della vendetta arrivò, tristo, terribile, inaspettato. Allorchè ai 7 Luglio 1647, nella piazza del Mercato, la plebe, istigatore e duce Masaniello, al grido di:Viva il Re e muoja il mal governo, fieramente insorse, dimandando l'abolizione della gabella de' frutti e delle altre gravezze che l'opprimevano, uno de' primi atti di autorità del nuovo Capopopolo fu l'incendio del posto dell'arrendamento della farina a Porta Nolana, e della casa abitata da Girolamo Letizia a Portanova[173]. Un drappello di circa 50 garzoni e fanciulli, capitanati da Giovanni d'Amalfi a cavallo, eseguiva fedelmente gli ordini di Masaniello. Scalzi, in sola camicia e mutande di tela, e col berretto rosso in testa, essi, facendosi ministri di una nuova giustizia, andavano processionalmente per le vie, preceduti da uno stendardo (pennone), nel quale si vedevano dipinte le armi reali di Spagna[174], e portavano chi torce di pece,chi graffii o forcine, chi solfanelli, fascine impeciate ed altre cose bisognevoli ad accendere, e chi finalmente picconi e sciamarri. Erano cenciaiuoli obazzareoti[175]gente della più vile e povera condizione, che viveva stretta ed ammucchiata in alcuni di quei luridi covili del Mercato e del Lavinaro, che si dicevano e si dicono tuttorafondachi, e che la progredita civiltà ha ora diminuiti, o in buona parte migliorati, ma non ancora interamente distrutti. Laceri e seminudi furon i primi, che allora si chiamasserolazzari, e questo nome, che i superbi dominatori spagnuoli diedero loro come una ingiuria, i plebei sollevati della città e del regno, imitando iBruziidell'antica Italia, ed igueuxdelle Fiandre, lo adottarono volentieri, come un titolo onorifico, e come un distintivo di animo libero ed indipendente[176].
Era Girolamo Letizia o di Letizia uno degli affittatori dell'arrendamento della farina, che, uscito dalla plebe, coi guadagni di quello si aveva procacciato non poche ricchezze. Uomo senza misericordia, non perdonava in alcun modo, come dicono le memorie contemporanee, a chi, entrando nella città con un pocodi farina o con due pagnotte di pane, non ne avesse pagato prima il dazio corrispondente[177]. Oltre al fatto della moglie di Masaniello, narravasi di lui, che una volta, per un contrabbando di pochissimo momento, avesse fatto condannare alla frusta due povere contadine de' casali di Napoli. Era quindi oltre ogni dire odiato dalla povera gente.
Ora i lazzari, bruciato che ebbero l'ufficio della gabella a Porta Nolana, secondo gli ordini ricevuti, si portarono alLargo di Portanova, ove nel palazzo della famiglia Mormile de' Duchi di Campochiaro, ora segnato col numero civico 11, abitava allora il Letizia. Ivi giunti, occuparono tutti gli sbocchi delle vie circostanti, e circondarono il palazzo, gridando sempre:Viva il Re e muoja il mal governo!Poscia, rotta ed aperta la porta con mazze ferrate o colle fiamme, alcuni di loro salirono sulla casa del Letizia, e, preso tutto ciò che vi era, dalle finestre lo gittavano nella piazza; altri dal basso riunivano il tutto in catasta e vi ponevano il fuoco. Magnifici arazzi, ricche cortine di seta e di oro, scrittorii di ebano intarsiati di argento o di avorio, quadri di nobilissima pittura, vasellame di argento ed ogni altra preziosa suppellettile era preda dalle fiamme. Nè si risparmiavano le gioie o il denaro contante, non le cose commestibili, non gli stessi animali, che in quella casa per avventura si trovassero. Così il tutto riducevasi in cenere[178], senzache alcuno di quei miserabili pensasse a sottrarre o a serbare per sè un oggetto qualunque, fosse pure di nessun valore. E mentre il fuoco distruggeva quelle robe, frutto de' guadagni procacciati colle odiose gabelle, Giovanni d'Amalfi alla gente circostante gridava:Vedi, popolo mio, queste robe sono delli officiali, che se l'hanno fatto col sangue di noi altri poveri; si buttano in questo fuoco e si bruciano, per ordine di Masaniello, mio fratello[179]. Il popolo in parte compiaciuto, in parte atterrito, guardava meravigliato ed attonito l'orrido spettacolo.
Ma ormai la plebe sollevata aveva la coscienza delle proprie forze, e, non contenta dell'abolizione delle gabelle e dell'amnistia pe' fatti de' 7 ed 8 luglio, accordate facilmente dal vicerè, dimandava istantemente altre più larghe concessioni, e laisopoliziao la eguaglianza de' diritti coi nobili del governo municipale della città.Vogliamo il privilegio di Carlo V, aveva arditamente detto Masaniello al Duca di Maddaloni ed agli altri nobili spediti al Mercato dal vicerè;vogliamo il privilegio di Carlo V, ripetevano in coro ilazzari, che, come gente bassa, al dire di un contemporaneo[180], non sapevano parlare. Un vecchio, in abito da prete e con lunga barba, era l'autore e l'anima di queste risoluzioni. Egli istruiva il pescivendolo, già pubblicamente acclamato Capitan generale del popolo; egli gl'insinuava le grazie ed i privilegi da dimandarsi al vicerè, egli gli spiegava come l'aquila e le colonne diErcole, che si vedevano sulla porta della Vicaria (il palazzo di giustizia), fossero le insigne del benefico imperatore, e che perciò dovessero essere rispettate. Questo prete e questo consigliere era D. Giulio Genoino.
La vita del vecchio agitatore, ne' 27 anni decorsi dal 1626 al 1647, era passata tra le angustie e gli stenti del carcere, e tra le liti e le molestie procacciategli dalla sua indole turbolenta, e dalle persecuzioni de' nobili, suoi antichi nemici. Carcerato in Ispagna, ove, dopo la caduta dell'Ossuna erasi condotto, e, con sentenza de' 28 Settembre 1620, condannato in Napoli alla forgiudica[181], egli nel 1621 aveva ottenuto da re Filippo IV, con dispaccio de' 18 novembre, che il suo giudizio fosse in Napoli stesso riveduto[182]. Ed infatti una Giunta speciale composta del licenziato Francesco Antonio d'Alarcon, cavaliere dell'abito di S. Giacomo, commissario delegato del re, e da quattro giudici scelti ne' tribunali del regno, intese novellamente il Genoino trasportato prima a Baia e poscia a Capua[183]. Ma il secondo giudizio non fu molto diverso dal primo, ed eglifu condannato a carcere perpetuo in qualche castello appartenente alla Corona di Spagna, che non fosse nel regno; e, per ordine del re, in data de' 22 ottobre 1622, gli fu assegnata la fortezza del Pignone in Africa. Così visse ivi più o meno strettamente per 12 anni, sinchè, avendo mandato alla Corte il modello in legno della fortezza[184]ove stava rinchiuso, ottenne dal re la grazia della libertà: mediante il pagamento di 4000 ducati, e coll'obbligo di restare in qualche luogo dell'Andalusia o di Castiglia o confine. La carta con cui gli fu partecipata la grazia sovrana, è del 12 febbraio 1634[185]. Se non che, dopo alcuni anni, il Genoino ritornò in Napoli, ove, rinfocolati gli odii antichi, e suscitati nuovi sospetti, a' 2 Ottobre del 1639, ad istanza degli Eletti della città, fu per estranee cagioni sostenuto per qualche tempo nel Castel Nuovo[186]. Allora vedendo, come egli stesso dice, “la sua persecuzione dello stato secolare, e che dove meritava premio, gli si era data pena, risolse, nel residuo della sua vecchiezza, servire Dio in istato di sacerdote, e con Breve apostolico, prese gli ordini sacri, servando tutte le sacre costituzioni e le prescrizioni del Concilio di Trento, per mano di D. Basilio Cacace, arcivescovo di Efeso[187]„.
In queste nuove condizioni di vita ritrovavasi, allorchè la imposizione della gabella sui frutti, che egli più che altra riconosceva odiosa al popolo, venne a rinnovellare le sue antiche speranze. Ne' primi mesi del 1647 fu veduto spesse volte, verso l'imbrunire, stringersi a secreto colloquio con Masaniello nella Chiesa del Carminello al Mercato[188]. L'astuto vecchio aveva scorto l'influenza che il giovane pescivendolo esercitava sulla plebe del Mercato e del Lavinaro, l'avversione che nutriva contro i nobili ed i prepotenti, l'animo pronto ed ardito, ed il buon senso, che nascondeva sotto le apparenze della spensieratezza e della buffoneria. Lo indettava quindi, e lo preparava a' futuri casi ed a' moti facilmente prevedibili.
Nè le sue speranze fallirono. Ciò che egli aveva già inutilmente tentato nel 1620, ora, scoppiata la sollevazione, assai più largamente dal popolo ottenevasi. Le chieste immunità e prerogative, poichè quel privilegio di Carlo V, che invocavasi, non era mai esistito,ad honore conservatione e gloria della Maestà Cattolica..... del Re, dell'eminentissimo.... cardinal Filomarino.... arcivescovo.... dell'eccellentissimo signor Duca d'Arcos, vicerè.... e del signor Tommaso Aniello d'Amalfi, capo del... fedelissimo popolo, erano ai 13 luglio, dallo stesso Vicerè, in nome di Sua Maestà Cattolica, ad essofedelissimopopolo restituite, ampliate e confermate, ed anche solennemente giurate. Gli eventi inoltre superavano la aspettazione del Genoino, ed oltrepassavano i privilegi conceduti. Dai 7 luglio fino al 3 Giugno dell'anno seguente, ilTribunale di S. Lorenzonon fu più riunito. I nobili cessarono affatto dal governo dellacittà, e l'Eletto del Popolo restò solo a disporre di tutti gli affari municipali. Francesco Antonio Arpaia, il compagno del Genoino ne' tumulti del 1620 e nelle pene indi sofferte, chiamato da Teverola, ove era governatore di quella terra, fu allora da Masaniello nominato ad un tale importante ufficio[189].
In questo frattempo la famiglia del pescivendolo divise con lui il rispetto ed i riguardi, che egli così inaspettatamente si ebbe. Tutti coloro, che in qualunque modo gli appartenevano, in quei pochi giorni di potere, si gloriavano e cercavano anche di profittare della loro, fosse pur lontana, parentela. Nè mancò chi, tuttochè affatto estraneo, si volle dare a proprio vantaggio per congiunto di lui. Così fece un marinaio di Chiaja, che nella domenica 14 luglio spacciatosi per nipote di Masaniello, andava per quella contrada facendo ricatti e minacciando l'incendio e la morte a chi si negava alle dimande. Il capitan generale appena n'ebbe notizia, ordinò che restituito a ciascuno il danaro con quella invenzione sottratto, il marinaio venisse condotto al Mercato a subire colla morte rigoroso castigo dei suoi ladronecci[190].
Ma tra tutti i parenti ed i cognati di Masaniello, coloro che principalmente ebbero parte al potere ed agli onori, furono in ispezialità il fratello e la moglie. Giovanni di Amalfi fu quasi come un luogotenente di lui. Egli negli otto luglio metteva le nuoveassiseai commestibili nelle botteghe e nei posti della città. Egli nel giovedì, allorché dovettero fissarsi le capitolazioni col vicerè, precedette ed annunziò l'arrivo del fratello aPalazzo. Egli nel sabato 13, vestito di lama d'argento turchino, lo accompagnò nella trionfante gita al Duomo pel giuramento delle dette capitolazioni. Egli era col fratello a spasso nella gondola del vicerè a Posillipo, ed al banchetto in Poggioreale nella domenica e nel lunedì 14 e 15 luglio. Egli finalmente nella sera dello stesso dì 15 luglio, vigilia della morte di Masaniello, fu da costui spedito con una mano di circa 500 plebei ad inseguire e catturare il Duca di Maddaloni nelle vicinanze di Benevento ove credevasi essersi rifugiato[191].
Bernardina d'altra parte godette del pari; e forse anche più di lui, della mutata fortuna del marito. Il vicerè, che conosceva la influenza di lei sull'animo di costui, cercò con ogni mezzo blandirla e rendersela benevola per suoi fini con ricchi regali, ed anche invitandola a recarsi a Palazzo[192].
Nella domenica 14 luglio verso sera una carrozza di corte tirata da sei cavalli[193]ed accompagnata da quattro alabardieri tedeschi, si fermò innanzi alla povera casa posta a fianco al vico Rotto. Poco stante la madre, la moglie e la sorella con due cognate ed un'altra parente di Masaniello, tra l'ammirazione dei lazzari e l'invidia delle comari del Mercato e del Lavinaio, si collocarono in quella. Le loro vesti convenivano alla presente non alla passata fortuna. Bernardina portava una roba all'imperiale, colle maniche gonfie (a presutto) una gonnella ed una sopravvesta o giubbone di lama d'oro e di seta, guarnita di fasce piccate e di trine e repunti pure di seta o di oro[194], ed usava il guardinfante, la cui moda da poco tempo era stata introdotta dalla viceregina duchessa di Monterey[195]. Aveva al collo una ricca e pesante collana d'oro, regalo della duchessa d'Arcos. Le altre donne pure si erano ornate di vesti ricche e sfarzose scelte tra le robe, che già si erano saccheggiate al duca di Maddaloni, e Grazia d'Amalfi aveva in braccio un fanciulletto di pochi mesi anche riccamente addobbato.
Allorchè la carrozza si avviò verso Palazzo, e mentre passava per le vie della città popolate di gente curiosa di vedere lo strano spettacolo, la famiglia di Masaniello riceveva dovunque i plausi ed i saluti rispettosi della plebe che gridava:Viva la Spagna, viva il popolo, vivaMasaniello!Alla porta del parco, che era dove ora, nella strada di S. Carlo, si vede il cancello del giardino reale coi cavalli di bronzo, le donne smontarono, e la Bernardina si pose nella sedia della stessa viceregina, la cognata in quella di D.ª Catarina d'Ayala, moglie del visitatore generale del regno D. Giovanni Chacon y Pons de Leon, e le compagne in altre sedie di dame, che allora trovavansi in corte. Così attraversarono il parco fino ai piedi della scala del palazzo, ove furono ricevute dal capitano della guardia e dal cavallerizzo maggiore del vicerè col capo scoverto, e servite dagli alabardieri e dai paggi sino alla camera, dove si trovava la viceregina con suo fratello, D. Vincenzo d'Aragona, con lo stesso visitator generale, col cardinale Filomarino, e con alcune principalissime signore del Regno.
Le accoglienze furono non solo cortesi ma anche amorevoli. Due dame di compagnia si fecero sulla porta della camera incontro alle sei donnicciuole, e la viceregina alzatasi si accostò alla moglie di Masaniello, dicendole in ispagnuolo:Sea V. S. Illustrisima muy bien venida.(Vostra Signoria Illustrissima sia la molto benvenuta). Al che la moglie di Masaniello, non sconcertata dal luogo insolito per essa e dalla presenza di persone tanto superiori alla sua condizione, abbracciandola, ed all'uso popolaresco, come da uguale ad uguale, appiccandole due sonori baci sulle guance, rispose prestamente:E Vostra Eccellenza la molto ben ritrovata.Poscia, finiti gli abbracciamenti ed i baci, che furono nello stesso modo ripetuti colle altre signore presenti, ed anche dalle compagne dellageneralissima, e sedutesi la viceregina e la comitiva, Bernardinasoggiunse:Vostra Eccellenza è la viceregina delle signore, ed io sono la viceregina delle popolane.
In questo le visitatrici furono abbondantemente regalate di dolciumi e di rinfreschi, ed il Chacon, volendo cattivarsi la benevolenza della famiglia del Capitan Generale, prese tra le braccia quel bamboccio suo nipote, al quale non disdegnava di fare singolarissime carezze, come se fosse stato un figliuolo della stessa viceregina. Egli, che era stato autore principale a mantenere la gabella sui frutti, corrotto, come fu fama, dai regali che gli arrendatori di quella aveano perciò fatti alla moglie di lui[196], aveva ragione di temere l'iradel popolo. Pochi momenti innanzi Masaniello, il quale prima di portarsi a Posillipo l'aveva incontrato nelle anticamere di palazzo reale, si era accostato a lui, e presolo pel petto, con termini risoluti, gli avea detto:Signor visitatore, mi è stato riferito che voi siete un gran mariuolo, e che in ispecie avete rubato ad uno che so io seimila ducati. Se io non vi ho castigato ancora conforme meritate, abbiatene obbligo al Signor Cardinale mio signore, ma per l'avvenire state bene in cervello, perchè vi bisogna.D. Giovanni Chacon se l'ebbe per detto, e quindi cercava con questi bassi mezzi rendersi amico il Capitan generale del popolo.
D'altra parte la viceregina, presentando un ricco monile ed un gioiello in diamante alla Bernardina, con bei modi si adoperava a persuaderla perchè avesse indotto il marito a depositare il comando, or che le capitolazioni erano state giurate, ed il popolo aveva ottenuto quanto dimandava; e la sollecitava perchè quegli si rimanesse contento ormai delle mercedi promessegli:Senora comadre, conchiudeva la viceregina,haga de manera, que su marido dexe el mando, porque se quieten las cosas.—Oh questo poi no, signora commara, rispondeva a tali insinuazioni l'accorta donna.Se mio marito abbandonasse il comando, nè la sua nè la mia persona sarebbe più rispettata. Però sarà meglio che ambedue stiano uniti, il Vicerè e Masaniello, cosicchè l'uno governi gli spagnuoli e l'altro il popolo[197].
L'ardita risposta non piacque per fermo alla viceregina, che dissimulando non aggiunse altro, ma accomiatògentilmente la Bernardina e le sue compagne fino alla porta. Così allegra e contenta la comitiva si partì, e colla stessa carrozza tornò a casa, seguìta dal dono ricevuto, che era portato da un facchino in un canestro (spasa), coverto da una tovaglia di taffettà turchino, ed accompagnato dagli alabardieri e dai servitori, i quali quando furono nel Mercato, suonarono di nuovo le trombe e le donne smontarono e si riceverono il detto regalo[198].
Ma non passarono due soli giorni e la scena cangiò interamente. Nel mattino di martedì mentremaddammaAntonia[199], la vecchia madre di Masaniello, Bernardina e Grazia incerte, ma pur presaghe del loro danno, sole ed abbandonate da tutti in un angolo della loro casa piangevano e si comunicavano a vicenda i propri timori, un mormorio continuato e lontano pervenne al loro orecchio. Erano gridi di trionfo o di morte? Masaniello aveva, come nel mercoledì precedente, trionfato dei suoi nemici, o tutto era finito per esse, potere,agi ed onori? L'incertezza non tardò guari a dileguarsi. Il rumore si faceva più chiaro e distinto; era una turba di popolo che gridava:Viva Dio e il re di Spagna, Masaniello è morto, Masaniello è morto! sotto pena di ribellione nessuno nomini più Masaniello!A quelle parole, la povera Bernardina diè un alto grido e cadde tramortita al suolo.
In questo momento quella ciurma di popolani era giunta nella piazza del Mercato, e sparando alcune archibugiate in aria, ripeteva gli stessi gridi ed applausi. Un suono di tromba fu ripetuto tre volte, e, fattosi silenzio, un banditore ad alta voce lesse: