The Project Gutenberg eBook ofLa fantesca

The Project Gutenberg eBook ofLa fantescaThis ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online atwww.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.Title: La fantescaAuthor: Giambattista della PortaRelease date: August 31, 2009 [eBook #29872]Language: ItalianCredits: Produced by Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA FANTESCA ***

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online atwww.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: La fantescaAuthor: Giambattista della PortaRelease date: August 31, 2009 [eBook #29872]Language: ItalianCredits: Produced by Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)

Title: La fantesca

Author: Giambattista della Porta

Author: Giambattista della Porta

Release date: August 31, 2009 [eBook #29872]

Language: Italian

Credits: Produced by Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)

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Produced by Claudio Paganelli and the Online Distributed

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GIUS. LATERZA & FIGLITIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

1910

So ben ch'ogniun di voi che mi vedrá cosí vestita di giallo, con faccia cosí pallida e macilente, con gli occhi sbigottiti e fitti in dentro e co' giri d'intorno lividi, con questi faci, serpi e stimoli in mano, desidererá saper chi sia e a che fin qui comparsa, rappresentandosi agli occhi vostri piú tosto una sembianza tragica e mostruosa che convenevole a' giochi e feste della comedia che aspettavate. Né io arei avuto ardir comparir in questa scena, se anticamente non vi fussero comparsi i Lari, gli Arturi, i Sileni, la Lussuria e la Povertá, e se l'amor che porto a queste mie carissime gentildonne non mi avesse fatto romper tutti gli ordini e le leggi. Dirò chi sia e a che fin qui comparsa. Io son la Gelosia.

Ma oimè! che in sentirmi nominare, tutte queste mie nobilissime signore si sono sbigottite e conturbate e hanno annubilato il sereno di lor begli occhi come avessero inteso qualche cosa orribile e paventosa, chiamandomi tòsco e veleno di cuori, peste infernale e conturbatrice de' piaceri, e che io finalmente impoverisca e conturbi tutto il regno di Amore. Orsú, lasciate l'odio e lo sdegno da parte, ascoltate le mie ragioni, che vedrete che non ha amor cosa né piú soave né piú degna di me. Dite, di grazia, che cosa è amore? Non è altro che desiderio di possedere e di fruire la cosa amata: e che sia vero, non vedete i vostri amanti i quali, per venire a questo ultimo fine, vi amano, vi servono e vi adorano, e per voi spendono la robba, la vita e l'onore? Ma, dopo aver acquistato il vostro amore, non vedete che quel desiderio a poco a poco viene ad intepidirsi, a raffreddarsi, anzi a spegnersi in tutto? Questo è vizio della umana natura: che le cose possedute sogliono rincrescere e le vietate esser desiderate. Agli amanti, dopo conseguito l'effetto, manca l'affetto; in voi, conceduto l'effetto, piú cresce l'affetto. Or considerate, signore mie care—se pur è alcuna fra voi che l'abbia provato,—che dispiacer sente quella poveretta, quando dopo tanti prieghi, o spinta da pari ardore o da vera pietade, gli fa dono dell'amor suo, e quando stima che l'amor debba crescere, quello veggia scemarsi, annullarsi, anzi in odio convertirsi? So che alcuna per non poter soffrir tanto martello, o col veleno o co' ferri o col precipitarsi in un pozzo, ha dato fine a sí acerbi dolori. Or ecco l'arte mia, ecco l'aiuto che vi porgo.

Primo, a questi svogliati gli propongo un rivale e gli lo depingo di maggior valore di lui; poi, subito gli avento al petto una di queste serpi, le quali scorrendogli per lo core, lo riempiono di gielo e di veleno; appresso, sottentro con queste faci accese nel foco tartareo e l'accendo di fiamme cocenti e ardentissime, e di passo in passo lo pungo con questi chiodi, coltelli e stimoli: talché in poco spazio di tempo gli riduco non solo ne' primi amori, ma piú tosto in rabie e furori e nella forma che voi mi vedete. Cosí piú ardenti e piú bramosi che mai, vi si buttano dinanzi a' piedi, a chiedervi perdono delle offese fattevi e desiar i vostri favori; e rinovellasi l'amore.

Perché pensate voi che ne piaccia la primavera se non per gli freddi, per gli venti e per gli ghiacci passati? perché la pace se non per i passati travagli della guerra? perché i cibi piú saporiti se non per il digiuno e per la fame? Non si conosce la felicitá se non si prova prima la miseria. Io dunque col fargli provar queste pene cosí pungenti e acerbe, gli fo saper i gusti piú suavi e piú dolci. Vi porgo ancora un altro aiuto. Essendo la scortesia dell'amato troppo superba e villana e ch'io non basto ad addolcirla, adopro questo compagno che vien sempre meco. Questi è lo Sdegno, armato sempre di orgoglio e di furore; questi subito abbatte ed estingue l'amore, e vi guarisce affatto e vi rende di modo come se non mai piú l'aveste udito; questi sol vince amore: vedete come preso e incatenato lo tragge nel suo trionfo.

Ecco ch'io non son quella che pensavate, ma son vostra amica; e io rinuovo e accresco i vostri diletti. Voi ne avete l'essempio in questa comedia. Una fantesca gelosa di un'altra fantesca, perché l'ha tolto il padrone ch'era suo innamorato, divien piú ardente al servire. La moglie è gelosa del marito per questa fantesca, onde piú l'ama e lo guarda. Questa fantesca che dá gelosia a tanti, è avelenata da gelosia di un forastiero romano, e per me divien piú sollecita a procurar le sue nozze. Ecco qui le due fantesche che per gelosia se azzuffano insieme: cominciate a veder le mie prove, e lodate sempre la Gelosia.

NEPITA fantescaESSANDRO giovane, sotto abito e nome di Fioretta fantescaCLERIA giovane innamorataGERASTO vecchioPANURGO servo di EssandroFACIO dottor di leggeALESSIO giovanePELAMATTI servoSANTINA moglie di GerastoMORFEO parasitoGRANCHIO servo di NarticoforoNARTICOFORO pedanteSpecialeCapitan DANTE spagnuoloCapitan PANTALEONE spagnuoloAPOLLIONE vecchioTOFANO servo.

La scena dove si rappresenta la favola è Napoli.

NEPITA, ESSANDRO sotto nome e abito di Fioretta fantesca.

NEPITA. Non può esser mai pace in una famiglia, quando vi capita qualche fantesca di cattiva condizione. Da che ha posto piede in casa questa maladetta Fioretta, non ci è stata piú ora di bene. È stata mezana tra Cleria mia figliana e uno Essandro suo parente, che l'ha ridotta a divenir pazza e a menar vita da disperata; s'è attaccata a far l'amor col padron vecchio, e ha posto tanta gelosia tra lui e la moglie che stiamo tutti in scompiglio; l'ha tolto a me, che pur qualche voltarella mi recreava, di che mi scoppia il cuor di gelosia. Ma dove mi sei sparita dagli occhi, mona Fioretta? Mi vai tutto il giorno passeggiando con i guanti alle mani come una gentildonna: cosí si serve? cosí si mangia il pan d'altri, eh?

ESSANDRO. Nepita, come tu sei stracca di travagliar te stessa, attendi a travagliar gli altri: giocherei che non sai quel che vogli o non vogli.

NEPITA. Voglio che ti scalzi i guanti, vadi a lavar le scudelle, a nettar le pignate, a vôtar i destri e a far gli altri servigi di casa, intendi?

ESSANDRO. Cleria padrona mi ha invitata per i suoi servigi.

NEPITA. Son scuse tue. T'arai data la posta con qualche famigliaccio da stalla e or lo vai a trovar cosí mattino.

ESSANDRO. Misuri gli altri con la tua misura. Questa arte dovevi far tu, quando eri giovane.

NEPITA. E ti par dunque ch'or sia vecchia?

ESSANDRO. Mi par, no; lo tengo per certo, sí.

NEPITA. Dunque hai per certo che sia vecchia?

ESSANDRO. Tu stessa il dici.

NEPITA. Menti per la gola: odoro piú io morta che tu non puzzi viva, e a tuo dispetto son piú aggraziata di te.

ESSANDRO. Io non son bella né mi curo d'esserci, e mi contento come mi fece Iddio.

NEPITA. Se tu ti contentassi come ti fece Dio, non consumaresti tutto il giorno ad incalcinarti la faccia e a dipingerlati di magra, e col vetro o col fil torto trarti i peli del mustaccio. Or puossi dir peggio che femina barbuta? Poi hai una voce rauca, che par ch'abbi gridato alle cornacchie. Sfacciata che sei!

ESSANDRO. Questa arte m'hai tu forzata a farla, e non devresti ingiuriarmi di cosa di che tu sei stata cagione.

NEPITA. Mira con quanta superbia mi favella e mi viene con le dita sugli occhi ancora! Pensi che sia alcuna ricolta dal fango e non si sappi donde mi sia, come tu sei?

ESSANDRO. Nepita, tu hai altro con me e mi vai cosí aggirando il capo.

NEPITA. Poiché siam venute su questo, vo' che il dica: se non, che ci daremo infino a tanto delle pugna che ne sputiamo i denti.

ESSANDRO. Ti duoli di me che t'abbi tolto il padron vecchio Gerasto, che prima era tuo innamorato.

NEPITA. Oh, lo dicesti pure!

ESSANDRO. Ma se tu sapessi la cosa come va, non mi porteresti tanto odio, non aresti gelosia di me e m'amaresti come amo io te.

NEPITA. Io non ho gelosia di fatti tuoi. Ma se questo fusse….

ESSANDRO. Se prometti tenermi secreta e aiutarmi, oh quanto sería meglio per te!

NEPITA. Che mi vuoi far vedere, che sei vergine?

ESSANDRO. Ti scoprirò cosa che non pensasti mai.

NEPITA. Piglia da me ogni sicurezza che vuoi.

ESSANDRO. Ma avèrti che son cose d'importanza, non da pugne ma da pugnali, e importa l'onor di tua figliana.

NEPITA. Parla presto, non mi far stare piú sospesa, non mi far consumare.

ESSANDRO. Prestami l'orecchia.

NEPITA. Eccole tutt'e due, te siano donate.

ESSANDRO. Tu pensi ch'io sia femina, e io son maschio.

NEPITA. E può esser questo vero?

ESSANDRO. Come ascolti, e si può toccar la veritá con la mano.

NEPITA. Come non m'hai fatto prima toccar con la mano questa veritá?

ESSANDRO. Non son còlto dal fango o dalla vil feccia del populazzo, come tu dici; ch'io son genovese. E se ben devrei tacer la famiglia per non macchiar lo splendor di tanta nobiltá con la mia mattezza, pur vo' scoprirlati. Son di Fregosi.

NEPITA. Perché in questo abito? che util cavi di questa pazzia?

ESSANDRO. Lo saprai, se m'ascolti. Fuggendo di Roma di casa di mio zio Apollione che, per non esser ito alla scuola, promise battermi, me ne venni qui in Napoli dove, appena giunto, Amor mostrandomi Cleria, la tua figliana, al suo primo apparir ricevei con tanta forza le sue divine bellezze nel cuore, che altro contento non arei potuto desiar in questa vita che vedermi sazi pur una volta gli occhi di mirarla. Prima feci ogni sforzo a me stesso per distormi da tal pensiero, ma tutto fu vano; ché il male era tanto impresso nel vivo che ogni rimedio faceva contrario effetto, piú accresceva la doglia e piú inacerbiva le piaghe. Onde per non morirmi di passione, poiché l'esser sbarbato mi porgeva la comoditá, mi vestii da femina e m'introdussi a servir questa casa….

NEPITA. Chi ti consigliò questo? chi ti diè tanta audacia?

ESSANDRO. Amor mi fu consigliero, Amor mi diè l'ardimento e di sua mano mi pose questo abito adosso, Amor mi fe' il sensale e mi condusse a servirla.

NEPITA. O Dio, che cosa ascolto!

ESSANDRO…. Entrato che fui dentro, tu ben sai con quanta diligenza abbi servito la casa, e principalmente la mia divina padrona; sí che in poco spazio di tempo le son divenuto cosí grato che sempre ragiona meco: m'ha scoverto tutti i suoi segreti e postomi tutte le sue cose in mano, non vuole che altri la spogli e la lavi, mi bacia e mi fa tante carezze che, se fossi nella mia forma, non le saprei desiderar maggiori….

NEPITA. Dunque sei giunto a quanto desiavi, sei felicissimo.

ESSANDRO…. Ahi, che non fussi mai stato! Ho fatto come l'infermo che sempre appetisce quel che gli nòce. Pensava io miserello che, accostandomi a quello incendio onde tutto brugiava, la mia focosa brama fusse estinta; ma io mi sento piú acceso che mai. Son avampato di sorte che non fu mai fiamma, combattuta da venti, cosí ardente come questa alma. Ardo nel fuoco ch'io medesimo m'ho fatto, e come fenice mi rinuovo nella mia fiamma. Or conosco che di tutti gli umani desideri solo l'amoroso è insaziabile. Onde, avendo gustato cosí dolcissima donna, mi par impossibile il poter vivere senza lei….

NEPITA. Dunque l'hai gustata, eh?

ESSANDRO. Dunque non si può gustare senza conoscerla?

NEPITA. Come hai potuto contenerti?

ESSANDRO…. Io, vedendo ch'ella era vergine e che non sentiva ancora di cose di amore, dubitai che, scoprendomele, l'avesse manifestato a suo padre o madre che m'avessero scacciato di casa, e la mia temeritá m'avesse posto a rischio di farmi perdere tanto bene. Mi parve piú sicuro soffrire e godere quanto poteva. Anzi, alcuna volta veggendola star allegra, volli scoprirle ch'io era uomo e l'inganno che aveva usato per servirla; ma delle parole, che prima m'avea preparate attissime a manifestarle il mio stato, parte vituperava e parte mutava; alfin, avampato di rossore, restava mutolo. Ed ella mi pregava che finisse il ragionamento, non pensando dove avesse a riuscire.

NEPITA. Sei stato un bel grosso a non manifestarti!

ESSANDRO. Anzi niuna cosa mi fe' restio se non l'esser stimato da lei per un grosso.

NEPITA. Non dubitar che alle donne piacciono piú questi uomini di grosso ingegno che quelli di delicato e sottile, per esser troppo fastidio a trattar con loro che nel piú bel maneggiargli o si torcono o si spezzano. Ma come ponno star insieme due cose contrarie? se tu sei innamorato di Cleria, come sei ruffiano di Essandro, quel tuo parente?

ESSANDRO. Or saprai il tutto…. Stando in questi dubbi, Amor che non lascia mai perir i suoi seguaci, mi scoverse un modo come avessi potuto sicuramente tentar l'animo e il suo onesto proponimento. Un giorno mi mandò per un suo servigio, tardai molto, mi domandò la cagione. Le dissi che avea incontrato un mio fratello nato meco ad un parto che tutto rassomigliava a me, che l'avea lasciato picciolo in Roma e or servea per paggio al viceré; e glie lo dipinsi tanto grazioso che a lei venne desiderio di vederlo. Come la viddi ben accesa, e me ne pregò molte volte, me n'andai a casa di Panurgo mio servo che trattengo in una osteria; e vestitomi delle mie vesti da maschio, passeggiandole intorno la casa, conobbi chiaramente ch'ella non poco godeva della mia vista. Mi spoglio le vesti da maschio, mi rivesto la gonna e torno a casa. Giunto, mi butta le braccia al collo e mi dá mille baci, dicendo che mentre baciava me, le pareva di baciar mio fratello….

NEPITA. La povera figlia diceva il vero, non s'ingannava. Alfine?

ESSANDRO….Alfin mi scuopre ch'era innamorata di lui e che la sua pena era indicibile, e mi priega che gli porti alcune ambasciate e presentucci; e io, tutte le risposte che piacevano a me, glie le diceva da parte di mio fratello.

NEPITA. Io non ho inteso al mondo mai la piú bella istoria: orsú, che pensi di fare?

ESSANDRO. Or io vedendo che la barba tuttavia spunta fuori, come hai tu detto, non posso star piú nascosto in questo abito; e il peggio è che Gerasto, il padron vecchio, è cosí sconciamente innamorato di me che fa le pazzie. Tu lo sai: non mi incontra mai sola per la casa che alla sfuggita non mi tocchi e solletichi. O Dio, a che pericolo mi trovai! che pensiero sarebbe stato il mio, se trovato altro di quel che pensava!…

NEPITA. Ah, ah, ah, con quanto piacere ascolto questo!

ESSANDRO…. Onde oggi ho proposto venirci da maschio, scoprirle i miei secreti e, se m'accetta per sposo, avisarne mio zio e farla chiedere legitimamente per sposa; ché come Gerasto sará informato ch'io mi sia, me la concederá davantaggio.

NEPITA. Certo che mi è caro, ché m'affliggeva il cuore veder patire quella povera figlia. Le vengono alle volte certi svenimenti di cuore, che par che si muoia: ti porta tanto amore che avanza ogni meraviglia. Or credo che sei de' Fregosi, poiché l'hai posta in tanta frega.

ESSANDRO. Or la fede che ho avuta in te, di averti scoverto quei secreti che fin qui non ho confidato con niuno, ti obliga ad essermi fedele; ché conseguito il matrimonio, farò che le leggi della nobiltá abbino quella forza in me che aver denno. Io ho un servo in casa, che ha gambe sotto cosí robuste ch'è buon per caminare quattro e cinque miglia per ora, come tu proprio vorresti: te lo darò per marito, e serai madre di mia moglie e padrona della casa.

NEPITA. Ne vedrai la prova, che d'oggi innanzi m'adoprerò in tuo aiuto con ogni modo possibile.

ESSANDRO. Tuo ufficio sará d'aiutarmi, poiché cosí speranza me ne dai.

NEPITA. Ma, per parlarti alla libera, non posso credere che tu sia maschio.

ESSANDRO. Credilo, che è cosí.

NEPITA. Giamai credei a parole.

ESSANDRO. Dunque, nol credi?

NEPITA. No, che voi giovani vi dilettate di dar la baia: però bisogna prima chiarirsene e poi credere.

ESSANDRO. Farò che lo vedrai.

NEPITA. E questi che fan le bagattelle, pur fan veder molte cose che non sono.

ESSANDRO. Farò che tocchi la veritá con le mani.

NEPITA. Or questo è altra cosa.

ESSANDRO. Va' e dille che si facci su la fenestra, ché vuol ragionarmi, e a questo effetto sono qui fuora.

NEPITA. Volentieri.

ESSANDRO. Col fidarmi di costei, ho fatto duo buoni effetti: toltomi dinanzi lei, che era la maggior nemica che avessi in questa casa, e adesso, come consapevole, mi aiutará con la sua fígliana.

CLERIA giovane, ESSANDRO.

CLERIA. Fioretta mia, fatti piú in qua, che non m'oda mia madre che sta nell'anticamera.

ESSANDRO. Eccomi, signora mia.

CLERIA. Dirai primieramente ad Essandro mio che vorrei mandargli mille saluti e consolazioni, ma non posso; che non ho né salute né consolazione, e mal posso partir seco quelle cose che non possedo. E se pur volessi mandargli qualche salute, bisogneria che mandassi se stesso a lui medesimo; perché egli solo è il mio contento e la mia salute, e sempre che son priva di lui, son inferma e scontentissima.

ESSANDRO. Appresso?

CLERIA. Che non mi veggio mai sazia d'odiar me stessa per amar lui, e che il fuoco è tanto cresciuto che son tutta di fiamma; son tanto sua che in me non vi è nulla piú del mio, son transformata in lui stesso; e se volesse essere per qualche breve spazio mia, bisogneria che me gli cercasse in presto, avendo locato in lui la somma d'ogni mio desiderio e avendolo eletto per fin d'ogni mio bene.

ESSANDRO. Benissimo.

CLERIA. E digli che s'io potessi, vorrei chiamarlo crudele; che sapendo bene che dalla sua vista gli spirti miei prendono l'alimento della lor vita, e mancandomi la sua vista mi mancaria la vita, perché mi fa carestia di cosa che sí poco gli importa, e dandomene molto, a lui non scema nulla? E che quindi fo argomento che non risponde con amore a chi l'ama, né con la fede a chi gli è fedele: e non cercando vedermi, come posso creder che m'ami?

ESSANDRO. Signora, state sicura ch'egli sempre vi vede.

CLERIA. Mi vede, eh?

ESSANDRO. Vi vede, vi parla, vi tocca e vi sta sempre appresso.

CLERIA. Egli mi tocca e vede? Fioretta, dici da vero?

ESSANDRO. Cosí da vero come vi vedo e tocco io.

CLERIA. Egli mi tocca?

ESSANDRO. Ti abbraccia, ti bacia e ti vede sempre, e ha tanto piacer di vederti e di abbracciarti che mai simil ebbe; ed egli si terrebbe felicissimo se in quel punto fusse riconosciuto da voi.

CLERIA. Scherzi, eh?

ESSANDRO. Possa morir se scherzo.

CLERIA. Perché dunque non mi si scuopre?

ESSANDRO. Perché dubita.

CLERIA. Di che dubita?

ESSANDRO. Che avendolo forse a male, lo privaste di tanta gioia; e s'egli stesse un sol giorno senza vedervi, si morrebbe di ambascia.

CLERIA. Col pensiero forse mi tocca, ch'altrimente non so come possa esser vero ch'egli mi tocchi.

ESSANDRO. Dico che vi vede con gli occhi.

CLERIA. Come con gli occhi?

ESSANDRO. Con gli occhi aperti, e vi tocca con le sue mani proprie.

CLERIA. Lo dici per ischerzar meco; né io sarei cosí sciocca o fuori di me medema, che veggendomi innanzi e ragionandomi quello che piú della propria vita amo, io non lo conoscessi.

ESSANDRO. Anzi, or ora vi vede.

CLERIA. Forse sta nascosto qui intorno?

ESSANDRO. Dico che vi sta innanzi come io, e vi parla come io.

CLERIA. Come può esser questo vero, se qui non veggio niuno altro che te, né altri che tu mi parli? Ma dimmi, Fioretta carissima, sai tu quanto egli m'ami?

ESSANDRO. V'ama quanto io.

CLERIA. So che tu m'ami, non ne sto in dubbio; ma tu sei mal cambiata da me, che ti amo quanto si può, perché mi rassomigli tutta a tuo fratello.

ESSANDRO. Anzi piú m'amaresti, se mi conoscessi.

CLERIA. Come non ti conosco? cosí tu conoscessi l'amor che porto a tuo fratello, che trovaresti modo di darmi qualche rimedio.

ESSANDRO. O Dio, che non è cosa che piú desii al mondo, che darti questo rimedio.

CLERIA. Se ben tu dici cosí, pur ben m'accorgo non essere amata quanto merita l'amor mio. Perché se pur alcuna volta passa per qua, lo veggio cosí timido e sospettoso, cosí celato il viso nella cappa che par che dubbiti di qualche tradimento; e quanto può piú presto, da qui si parte, il che mi dá tanto dolore quanto è l'amor che li porto.

ESSANDRO. È giovane, signora: questo è il suo primo amore. Vorrei io esser lui, ché conoscendo quella bellezza che in voi singular si scuopre, i divini costumi e l'onestá, sí ricco tesoro di grazie, mi terrei felicissimo; quando una sol volta fussi mirato da voi, saresti osservata e riverita da me, qual si conviene al vostro merito.

CLERIA. Mi vergogno non essere come tu dici, solamente per piacergli. Ma se tu fossi lui e t'accorgessi ch'altri ti amassi e si struggesse per te, faresti come gli altri uomini, cominciaresti a star in contegno, far del re e alzaresti la coda.

ESSANDRO. Avete il torto, signora, far questa stima di me, che non alzarei piú la coda di quello che fo al presente o feci per lo passato.

CLERIA. Dunque, poiché t'è cosí aperto e nudo il cor mio come la fronte, perché non gli manifesti quanto l'amo?

ESSANDRO. Anzi, egli si duole di me che non gli manifesti il suo amore: alfin, io sarò la cagione d'ogni male.

CLERIA. Anzi, la radice e fonte d'ogni bene. Va' dunque, Fioretta mia, e digli che avendomi comandato che volea ragionarmi, ecco ch'io sono apparecchiata;…

ESSANDRO. Andrò volontieri.

CLERIA…. ch'io piango e ch'io muoio….

ESSANDRO. Sará fatto…

CLERIA…. E se m'ama, che venghi presto….

ESSANDRO…. quanto comandate….

CLERIA…. E se mio padre non si contenta darmelo per sposo, digli ch'io vo' fuggirmene seco nella fin del mondo.

ESSANDRO…. Volete altro?

CLERIA. Non altro; raccomandamegli strettamente.

ESSANDRO. Entratevene, che vostro padre non vi vegga.

CLERIA. Fa' di modo che tu mi porti bone novelle.

ESSANDRO. Bene.

CLERIA. E se pur non mi trovasse in fenestra, che fischi, ché verrò subito.

ESSANDRO. Me ne vo.

CLERIA. Aspetta, aspetta, ascolta questo.

ESSANDRO. Entrate, ché Gerasto vostro padre vien fuora; che non vi vegga.

GERASTO vecchio, ESSANDRO.

GERASTO. Non è piú infelice vita al mondo di quella d'un vecchio e innamorato; ché se la vecchiezza porta seco tutte le infirmitá e imperfezioni, amor tutte le doglie e passioni—ch'una di queste non bastano diece persone a sostenerle,—or pensate queste due in un sol uomo quanti travagli gli ponno dare. Io amo una che, se ben la fortuna me la fa serva, la sua bellezza me le fa schiavo; e se ben l'ho in casa, n'ho carestia: se l'ho innanzi, non posso mirarla. Son come colui che sta dentro l'acqua e si muor di sete, gli pendono i frutti sovra la testa e si muor di fame; ché l'arrabbiata cagna di mia moglie n'arde di gelosia, non la lascia un sol passo sola per la casa, e se si parte, la lascia serrata a chiave in camera con mia figlia. E se desio di starmi in casa, a mio dispetto m'è forza di starne fuori. Ma eccola qui. Dove si va, Fioretta mia, mio maggio fiorito?

ESSANDRO. Per un servigio della padrona.

GERASTO. Non ti partir, Fioretta mia: lascia che ti miri un poco, se a te non è discaro l'esser mirata; e lasciami sfogar cosí parlando teco, poiché non posso altro. Tu non sei fiore che nasci a tempo di primavera; ma a suo dispetto la primavera nasce dove tu sei. Niun fiore può paragonarsi con te, che porti i giacinti negli occhi e i gigli nelle carni, e parli rose e spiri gelsomini e fior di naranci.

ESSANDRO. Dove avete lasciati i garofoli?

GERASTO. Perché son troppo palesi in questi tuoi labrucci. E se Dio volesse far un re sovra i fiori, non eleggeria altro che te, tante sono le tue bellezze.

ESSANDRO. Vo' partirmi.

GERASTO. Férmati un altro poco. Ti ricordo che non senza cagione ti han posto nome Fioretta, accioché tu ti accorga che questa tua bellezza se ne va come un fiore: la mattina è bello, la sera languido e secco. Or che sei nella primavera, sappilo conoscere, che presto verrá l'autunno, sfronderai, diverrai secco, e non serai buono né per insalata né per salsa.

ESSANDRO. Che vorresti dir per questo?

GERASTO. Ch'io vorrei essere il tuo orto, piantarti nel mio seno, zapparti ben bene, inaffiarti e farti produrre i piú bei frutti che nascessero giamai. Almeno fussi ape che andasse succhiando quel mele che sta dentro cosí bel fiore. Almeno potessi darli quel che li manca.

ESSANDRO. Ne ho soverchio e m'avanza.

GERASTO. Non dico quel che tu pensi.

ESSANDRO. Né tu pensi quel che dico.

GERASTO. Cosí potessi fartene veder l'esperienza!

ESSANDRO. Cosí io potessi farla vedere a tua figlia!

GERASTO. Che dici di mia figlia?

ESSANDRO. Dico che essendo serva di vostra figlia, mi dovreste amar da padre.

GERASTO. T'amo piú di tuo padre assai, e d'altro amor che non farebbe tuo padre o fratello.

ESSANDRO. Voi dite cose triste, mi fate vergognare: mi vo' partire.

GERASTO. Fermati, che vo' darti una buona nuova.

ESSANDRO. È qualche veste questa nuova che volete darmi?

GERASTO. Dico, novella la piú lieta che avesti avuto giamai.

ESSANDRO. Ditela, che mi sentiva prorir l'orecchia per ascoltarne alcuna.

GERASTO. Son certo che te la raspará, perché ti sará grata. Ma vo' duo baci per mancia, che mi sento prorir le labra.

ESSANDRO. Ditela, ché poi ve li darò.

GERASTO. Ho maritata la tua padroncina.

ESSANDRO. Con chi?

GERASTO. Con un giovane romano, ricco, dotto e bellissimo.

ESSANDRO. Chi è questo giovane cosí aventuroso?

GERASTO. Cintio, figliuol di Narticoforo, maestro di scola dottissimo. Ci abbiam scritto tante volte che alfin siamo restati d'accordo della dote e d'ogni cosa.

ESSANDRO. Come non n'avete fatto parola mai?

GERASTO. Se lo diceva a Santina mia moglie, che è una cicala, sarebbe andata cicalando per gli parenti, amici e vicini, e n'arebbe pieno Napoli in un'ora; e poi forse non essendo d'accordo, saressimo stati burlati da tutti.

ESSANDRO. Quando dunque verran costoro?

GERASTO. Quanto prima, e forse verran oggi che è giornata del procaccio.

ESSANDRO. Oimè!

GERASTO. Oh, come sei divenuta pallida! che ti duole?

ESSANDRO. Oimè, il cuore!

GERASTO. E come sará maritata, mariterò ancora te.

ESSANDRO. Mi sento morire, mi sento uscir l'anima!

GERASTO. Su, dammi i baci per la buona nuova.

ESSANDRO. Partetivi, di grazia: ho sentito la padrona in fenestra, e credo ne facci la spia.

GERASTO. Io mi parto non cosí mio come tuo; e amami, se ti par che l'amor mio lo meriti. Va' e da' questa buona nova a mia figlia, fatti dar la mancia e confortala a far la mia volontá. Oh, come sei tramortita! sará stato l'allegrezza della nuova che ti ho data? Fatti far una fregagione alle gambe, ché non sará nulla.

ESSANDRO solo.

ESSANDRO. Un poco piú che fusse tardato a partirsi, avrebbe veduto le lacrime ancora, ché non potea piú ritenerle. Fu tanta la doglia che strinse il cuore a questa nuova, che restai tutto conquiso; poi rivenuto e riscaldato, m'andò l'umore agli occhi: sento le lacrime, eccole cader fuora. O Amor, crudelissimo tiranno, prima ch'io conoscessi la libertá, me ne spogliasti; e prima che conoscessi la vita, mi facesti provar le tue morti. Mi vendi le tue brevi gioie, le tue fuggitive dolcezze a mari di lacrime, a milioni di sospiri, a prezzo di lunghi e infiniti affanni. Non mi tacesti provar dolcezza mai che non fusse meschiata d'assenzio, né piacere che non vi fusse il veleno sotto. In una sol cosa sei giusto, perché usi sempre ingiustizia. Con false lusinghe ne lievi fin alle stelle, per farci poi conoscere la caduta maggiore: e ché dalla grandezza del bene conoscessi l'infinitá del mio male, dal sommo dell'altezza mi abassi nel fondo de' fondi della miseria e disperazione. Maladetta sia quella altezza che è sol fatta per precipizio, maladette le tue dolcezze e maladetto sia tu, Amore, che ne le dái! O Cleria, sommo contento dell'anima mia, che farai quando sentirai questa nuova, se pur ami il tuo Essandro quanto dimostri d'amare? Tu meco ti querelerai, meco ti dorrai e da me cercherai consiglio: e io, misero e isconsigliato, che consiglio ti potrò dare? Almeno l'avessi saputo un anno prima, ché a poco a poco mi avessi avezzo a disamarla.

PANURGO servo, ESSANDRO.

PANURGO. Veggio Essandro di mala voglia. Padron caro, che cosa avete?

ESSANDRO. Oimè, son morto!

PANURGO. Cattivo principio! cada questo augurio sovra chi ci vuol male.

ESSANDRO. È pur caduto sovra di me, ché non è sí misero stato col quale non cambiassi il mio.

PANURGO. Sète forse stato discoverto per maschio?

ESSANDRO. Peggio.

PANURGO. Il vecchio vi ha cacciato di casa?

ESSANDRO. Peggio.

PANURGO. Che cosa vi può accader peggio di questa? Avete confidato in me maggiori secreti, potrete confidar ancor questo.

ESSANDRO. Ho adesso quell'istesso animo, che ho avuto per lo passato, di fidarmi nella tua fede; né mi parrebbe aver compita felicitá, se non ne facesse a te parte.

PANURGO. Dite, ché forse ci troveremo rimedio.

ESSANDRO. Gerasto…

PANURGO. Che cosa Gerasto?

ESSANDRO…. ha pur…

PANURGO. Che cosa ave?

ESSANDRO…. dato…

PANURGO. Bastonate a voi, forse?

ESSANDRO. Volesselo Iddio!

PANURGO. Che dunque ha dato?

ESSANDRO…. marito a Cleria mia. Ecco venuto quel giorno che ho temuto e portato tre anni attraversato nel core! ecco la separazione e il fine di nostri amori! Cesseranno i ragionamenti, i baci e la dolcissima conversazione!

PANURGO. Non piangete.

ESSANDRO. La fiamma è cosí ardente nel petto che, se non avessi queste lacrime, abbruggiarebbe il cervello. Ma perché non debbo io piangere? che consolazione arò piú in questa vita? deh, perché non la lascio? perché non m'uccido per disperato?

PANURGO. Padrone, ricordatevi che la disperazione è ruina delle speranze; e il ricorrere che si fa piú tosto alle lacrime che a' rimedi, è di persona vile e che non vuole che i desidèri si conduchino a fine. Fa' vela quanto tu vuoi, ché con vento di sospiri mai si condusse nave in porto. Bisogna audacia contro la fortuna. Un buono animo ne' mali è un mezzo male. Non vi perdete d'animo!

ESSANDRO. L'animo non è possibile che piú lo perda.

PANURGO. Perché?

ESSANDRO. Perché è giá perso.

PANURGO. Richiamatelo a voi.

ESSANDRO. È gito in essiglio, va vagando troppo lontano.

PANURGO. Ed è possibile che siate cosí povero di partiti che non sappiate trovar rimedio al vostro male?

ESSANDRO. Se non ho l'animo meco, come posso trovarlo?

PANURGO. Orsú, lasciate che ritiri me stesso un poco in consiglio secreto; suoni il tamburro e chiami sotto l'insegna le trappole, gl'inganni, le finzioni, le furfantarie; facci la rassegna e metta l'essercito in rassetto, accioché diamo l'assalto a questo vecchio e lo poniamo in tanti travagli che a suo dispetto lo facciamo cadere.

ESSANDRO. So che, disponendoti d'aiutarmi, posso promettermi dal tuo ingegno quanto desidero.

PANURGO. Pensi che sieno finite le stampe di quei Davi e Sosi e di quei Pseudoli delle antiche comedie? Or stammi di buona voglia.

ESSANDRO. Andiamo a casa tua, che vo' vestirmi da maschio, ché oggi la vo' finir con Cleria: tentar prima l'animo suo e palesarle il tutto, poi seguane quel che si voglia.

PANURGO. Andiamo, per la strada voi mi narrerete il successo, e pigliaremo qualche partito a disturbar questo matrimonio.

FACIO dottor di leggi.

FACIO. Un di travagli che abbiamo in questa vita è l'aver a trattar con questi sarti ladri assassini, che dopo averti fatte tutte le tirannie possibili al panno, a' finimenti e alle fatture, gli piace, per farti il peggio che sanno, di straziarti una settimana in darti le vesti fatte, ancorché potessero farle in una ora. Mi disse iersera che all'alba me l'arebbe recate, e omai è ora di pranso e non lo veggio comparire; e mi fará partir per Salerno molto tardi. Andrò in sua bottega. Chi vuol, vada.

ESSANDRO, Panurgo.

ESSANDRO. Sí che, di grazia, narrami l'inganno che hai tu pensato per disturbar questo matrimonio.

PANURGO. È tanto a proposito e grazioso che mi muoio delle risa pensandovi.

ESSANDRO. Parla presto, di grazia, che non passi l'ora di trovarmi conCleria.

PANURGO. Voi mi avete detto ch'eglino non si conoscono di vista.

ESSANDRO. No; ma la loro amicizia è sol per lettere.

PANURGO. Ascoltate, di grazia. Troveremo un uomo vecchio dell'etá di Narticoforo e un altro giovanetto storpiato, o lo sconciaremo noi piú della mala ventura, e li faremo oggi smontar in casa di Gerasto, che lui, veggendolo cosí brutto, si vergogni darlo per marito a sua figlia e gli dii licenza.

ESSANDRO. E quando Gerasto volesse pur darglilo, per contentarsi egli di poca dote, essendo molto ricco…?

PANURGO. Faremo che Cleria non si contenti.

ESSANDRO. Cleria è timida, rispettosa; non ardirá questo.

PANURGO. Mancherá di trovar il pelo all'uovo? Ho detto il disegno cosí in grosso, poi tanto voltaremo di qua e di lá e l'anderemo polendo e accommodando, che stii a modo nostro.

ESSANDRO. Se ben Gerasto non è degli accorti uomini di questa terra, pure con questo inganno ingarbugliaremmo altro cervello che il suo. Ma chi sará costui che saprá fingere Nartícoforo, e Cintio quel giovane cosí storpiato?

PANURGO. Stimate voi che disponendomi io a questo, non sappi fingereNarticoforo, quel maestro di scuola?

ESSANDRO. Ma bisognarebbe alle volte sguainare qualche parola in «bus» e in «bas».

PANURGO. Se ben pensate ch'io sia qualche poveruomo, son pur nobile; che per certe fazioni della mia patria fu bisogno scamparne fuori, e non avendo avuto modo come vivere, con quelle poche lettere che avea imparate in casa mia per mio trastullo, col fare il pedante in diversi paesi ho vissuto onorevolmente. A prima giunta gli darò in faccia un «Quanquam te, Marce fili…».

ESSANDRO. Ti conosco di tanto ingegno che saresti per aggirar altro capo che il suo. Ma chi fingerá Cintio?

PANURGO. Ci sono il Capestro, il Truffa, e Morfeo parasito, che è il miglior di tutti, perché attaccandomi un fegadello al tallone, me lo strascinerò appresso dieci miglia, ed è poco conosciuto in questa terra.

ESSANDRO. Bisogna che sia ribaldo da dovere

PANURGO. Egli è ribaldo, arciribaldo, re di ribaldi e mille volte peggio di quel che vogliamo; né bisogna che molto l'ammaestriamo, ché appena accennandogli il principio, capisce il negozio e compone di testa.

ESSANDRO. O Dio, che quanto piú mi volgo questo inganno per l'animo, piú mi riesce a proposito! Dove arremo vesti orrevoli per vestir Narticoforo?

PANURGO. Pregheremo Alessio nostro amico, overo ne allogheremo alcune, se ci mancano.

ESSANDRO. Qui bisogna prestezza, ché la ruina è vicina. Vai e ritrova il parasito e Alessio, e reca le vesti a casa tanto presto che quando io stimi che cerchi le cose, ti trovi a casa.

PANURGO. Me ne vo, dunque.

ESSANDRO. Dove?

PANURGO. A casa, senza far altro, accioché quando stimi che cerchi le cose, mi trovi a casa.

ESSANDRO. Burli? di grazia, vola.

PANURGO. Dammi l'ale, che volarò. Non dubitate, sarò io colá prima che voi. Ma prima vedrò se potrò trovar Alessio per le vesti.

ESSANDRO. Io fra tanto farò il segno, poiché non è in fenestra.Fis, fis. La sento venire.

CLERIA. Essandro, anima mia, mirate, di grazia, se per gli usci e per le fenestre sia alcuno che curi piú gli altrui che i suoi propri affari.

ESSANDRO. Signora, giá potrete sicuramente comparire, che non appar anima viva.

CLERIA. Dolcissimo Essandro, io non vorrei, per essermi cosí volentieri condotta a ragionar con voi, vi cadesse nell'animo qualche sospetto della mia onestá: ché certo non mi sarei ridotta a questo termine, se non avessi fatto prima deliberazione di esser vostra; e se ben son in potestá di mio padre e a lui tocca disponer di me quel che ne vuole, pur se a me ne resta qualche particella, ve la dono tutta, né vo' viver se non vostra.

ESSANDRO. Né pensiate, signora, ch'io avessi avuto ardir di venir a ragionarle, se non avessi fatto fra me la medema deliberazione. Son troppo incomparabili le vostre bellezze, né il mio cuore sa arder se non per voi, né questi occhi sanno in altro specchiarsi se non in voi, lucidissimo mio sole.

CLERIA. In me non fu bellezza giamai, e se pur ve n'è qualche segno, vien dalla reverberazion della luce che senza pari è in voi. Onde oggi io vi fo dono di me stessa, e se il presente è troppo basso, accompagnato dall'affetto dell'anima mia, merita che sia accettato e gradito da voi.

ESSANDRO. O dolce oggetto degli occhi miei, come io potrò ringraziarvi del ricco presente che voi mi fate? Non è spirito in me che non si sforzi ringraziarvi, né ponno giungere al segno; vorrei che voi poteste ascoltar la lingua dell'anima, ch'ella sola lo può esprimere: onde con quello animo che ho accettato il vostro dono, accettate il mio che vi fo di me stesso.

CLERIA. In man vostra sta il far prova di questo amore, se è tal quale io lo dico.

ESSANDRO. Cuor mio caro, accorgendomi quanto sia la finezza dell'amor suo, e conoscendovi signora di gran cuore, prendo baldanza di chiederle una grazia col piú interno affetto che possa pregar un cuore: che queste parole, che con tanto periglio dell'onor suo si possono ascoltar da vicini, gliele potessi dir in camera sua.

CLERIA. Ah, Essandro, or conosco che siete come gli altri uomini, che vedendo una donna che vi mostri qualche segno d'amorevolezza, subito volete abusar la cortesia col voler giungere a quel termine senza il quale l'amor par che sia nulla; e per sodisfarvi d'un capriccio di niente, volete vituperarla per sempre. Or non è questo piú tosto umore che amore? Pregovi dunque che non mi comandiate ch'io facci cosí gran torto all'onor mio: considerate bene la dimanda che mi fate, e siate giudice di voi stesso. Vostra sorella m'ave assicurato che da voi non mi sará chiesto cosa che ad onestissimo amor non si convenga: mi volete parlare, ecco vi ubidisco; accettate dunque col mio buon volere tutto quello ch'io posso.

ESSANDRO. E vi basta l'animo, signora mia, far cosí grande oltraggio al debito e alla riverenza che vi porto, cadendovi nell'animo ch'io disegnassi farvi cosí gran torto? Può dunque essere che, veggendomi scolpita nella fronte ogni mia voglia, facciate di me cosí iniquo pensiero? Non merita tanta asprezza la mia fede che vi osservo, né l'inestimabil amor che vi porto, amandovi sovra ogni cosa mortale. V'ho chiesto questa grazia sol per iscovrirvi certi secreti de' nostri amori, non con quello animo certo che stimate; e con questo desiderio son venuto a provocar la grandezza del vostro animo a una grazia cosí segnalata. Tranquillate dunque ogni torbido del vostro cuore e scacciate da voi cosí vano sospetto. E se fedel servitú merita qualche guiderdone, fate forza a voi stessa a sodisfarmi; che qui si tratta di far cimento della realtá dell'amor che dite portarmi, e di dar vita ad uno che ha sol cara la vita per spenderla in vostro onore.

CLERIA. Padron mio caro, se son caduta in error di troppa amorevolezza, non vorrei cader in opprobrio di troppo sfacciatezza e disonestá; onde vi prego a non far cosa onde giuntamente abbiamo a pentircene, anzi voi stesso debbiate portarmene odio perpetuo. E se la cosa amata può impetrar alcuna grazia dal suo amante, vi prego che soffriate questo disgusto e compensiatelo per quando saremo nostri, col ricordo di non aver fatto mai cosa che onestissima non fusse stata.

ESSANDRO. Misero me, non ancor conoscete la mia fede a mille segni? Assicuratevi tutta nella mia fede, che la troverete piú fedele dell'istessa fedeltá, e sappiate che dubitar nella fede dimostra infedeltá.

CLERIA. S'io non fusse fidelissima, non vi arrei amato e servito con tanta fede.

ESSANDRO. E se mai fedel amor meritò che gli sia prestato fede, credetemi a questa volta; e se altramente vedrete succedere, vo' che la vendichiate con quanta asprezza e crudeltá meritarebbe cosí iniqua discortesia. Io non ardirò alzarvi gli occhi su il viso, né far altro di quello che da voi, mia regina, mi sará espressamente comandato.

CLERIA. L'amor che vi porto e la gelosia che ho dell'onor mio, stanno al pari ad una bilancia. Dio sa come posso negarlovi.

ESSANDRO. Non mi avete detto poco anzi, signora, che voi me vi donavate e che eravate mia? Dunque, come di cosa mia ne vo' disporre a quel che voglio, né voi potrete negarmi cosa alcuna; e il negarmi questa grazia è il negarmi voi stessa.

CLERIA. Io non niego che non me vi abbi donata e che non sia tutta vostra; ma in quel solo che può apportar biasmo e disonore al nostro commune amore, mi sottraggo dal vostro imperio: e in quello mi prestiate per un poco a me stessa, e poi subito torno ad esser vostra piú che era prima.

ESSANDRO. La donazione fu libera e senza queste eccettuazioni: vi dovevate pensar prima che donarmevi. Or essendo mia, vo' disponere di voi come di cosa propria.

CLERIA. Ma ditemi, signor mio, come io me vi donai tutta, cosí voi intieramente vi donaste a me: or come cosa mia e non vostra, io vi comando che non mi debbiate astringere a questo fallo. E se voi sète gentiluomo e non m'avete detto mentita, mi ubidirete; e se non m'ubidirete, è segno che mi vi sète dato per beffarmi e per mancarmi di parola; e io non vo' per signor della mia vita persona che manchi al debito di gentiluomo.

ESSANDRO. Imaginatevi, anima mia, che siate in un steccato dove si combatte con arme di amore e di cortesia; e se ben la vittoria rimane appo il vinto, pur è gran carico lasciarsi vincere di cortesia. Se questa speranza che ho in voi mi vien fallita, non mi resta altro che morte. Signora, a tanti oblighi aggiungete questo altro. La vostra cortesia vinca il mio merito; gradite la mia dimanda la qual quanto è piú importante, piú mi dimostra il vostro amore e la cortesia. Fioretta mia sorella m'ha riferito che per questo vicolo rare volte vi passa persona, e vi è una porta che vien dritto in camera vostra, e la balia ne tien la chiave: se ciò mi negate, dirò che non da téma di onore, ma vien da desiderio della mia morte.

CLERIA. Io conosco, cuor mio, che non è cosa al mondo, per grande che sia, che voi non la meritiate. Mi sento tanto intenerita da' vostri prieghi che non posso negarvi cosa che vi piaccia. Vo' che le leggi d'amore e di cortesia abbino quella forza che conviene. Disponete dunque di me come cosa veramente vostra; entrate in questo vicolo, ché Nepita v'aprirá la porta.

ESSANDRO. Ecco ch'io non posso non chiamarmi vinto dal nobilissimo animo vostro. Conosco che veramente m'amate.

PANURGO. O Alessio carissimo, come comparite a tempo! parmi questa una ventura dal Cielo. Voi solo mancavate al buon disegno.

ALESSIO. Eccomi al tuo comando, Panurgo caro.

PANURGO. Tu, Alessio, sei l'istesso e commune aiuto degli amici; però aiutaci: il bisogno ne fa importuni.

ALESSIO. M'uccidi tardando tanto a dirmi che vogli.

PANURGO. Essandro vi prega, straprega e scongiura che l'accommodiate per un giorno d'una veste da dottore.

ALESSIO. A che vuole egli servirsene?

PANURGO. Lo saprete poi: non lo dico adesso per non dar fastidio a questi che stan qui, che l'hanno inteso un'altra volta.

ALESSIO. A questo potrò servirti agevolmente; che Facio mio padre se n'ha fatto far certe nuove per andare a leggere a Salerno nello Studio, e or sta in casa aspettando maestro Rampino che gli le porti. Partito che sará, che fia tra poche ore, ti potrò accomodar di quelle che lascia, per parecchi giorni.

PANURGO. Per chi le mandarete?

ALESSIO. Per Tofano, mio servidore, che vi conosce; o ne cercará altre in presto. Attendete all'altre cose da farsi, che subito partito mio padre, le manderò; sol fate che non vi abbi a cercare.

PANURGO. Io abito qui presso: fate solo che compaia qui, che sará veduto.

ALESSIO. Cosí farassi.

PANURGO. Ma quello di che ti aremo maggior obligo, è la prestezza, che non è cosa di che abbiamo maggior bisogno. Al vostro servo promettete la mancia da nostra parte, accioché corra e usi diligenza.

ALESSIO. Vado.

PANURGO. E se non possiamo per adesso darvene piena ricompensa, almeno conosceremo il beneficio e resteremo con obligo di riservirvelo; e perdonateci del fastidio che vi diamo.

ALESSIO. Or queste parole sí, che mi danno fastidio; che non potrei aver consolazione a par di quella che ricevo, che Essandro si avaglia dell'opra mia.

PANURGO. Ma io veggio Morfeo parasito che vien verso qua; non potrebbe comparir a tempo piú opportuno.

MORFEO parasito, PANURGO.

MORFEO. Son omai stracco e non ho trovato ancora chi mi inviti a pranso: non ci è piú caritá né piú cortesia al mondo. Un tempo era invitato da quattro e da sei, chi mi strascinava di qua e chi di lá; e or sto un mese che non sono richiesto. Non mi servono piú i motti arguti, non le buffonarie, non il dir mal d'altri per dar spasso a' convitati.

PANURGO. (Sta morto di fame a punto come io desiava, benché la fame non l'abbandoni mai; ché non ho miglior mezzo per condurlo a quanto desidero).

MORFEO. E se pur m'invito da me stesso, tutti si trovano con una parola in bocca: che mangia altrove o non ave ancor digerito o vòl perdere quel pasto o che digiuna. O che ogni volta che dicono queste scuse gli cadesse un dente di bocca! Almeno la natura mi avesse fatto polpo, che nella gran fame potessi mangiarmi le braccia proprie.

PANURGO. (Farò vista di non essermi accorto di lui e di far un apparecchio, accioché gli aguzzi e susciti l'appetito). Olá, apparecchiate la tavola e ponetevi quei presciutti e verrine fredde;…

MORFEO. (Dice bene, che se non son cotti duo giorni prima, non vagliono. Gran filosofo deve esser costui delle cose della buccolica).

PANURGO….fate che quel gallo d'India sia piú pelato del pelatoio e tutto infilzato di fettoline di lardo, accioché cocendosi pian piano, venghi tenero, ben cotto e non disseccato;…

MORFEO. (Questi vuoi far frollo me, non quel gallo, ché sentendo questo apparecchio, tutto mi sento intenerire).

PANURGO….quei pasticci stieno sempre in caldo, accioché le midolle che vi sono per dentro e di fuori non si gelino e paiano assevati, ma che sieno caldi e ben strutti;…

MORFEO. (Oimè, che a me si struggono le midolle dentro l'ossa!).

PANURGO….che le torte sfoggiate sieno ben cotte e succose, ma non tanto che nuotino nel brodo;…

MORFEO. (Mi par che questi mi sia uscito dal corpo, tanto sa ben egli ordinare quanto desidero).

PANURGO….il vin sia fresco. Date prima il greco, poi la lacrima, poi tramezzate il chiarello e moscatello. E sopra tutto il presto sia in capo alla lista, accioché venendo con quel mio compagno, non abbiamo ad aspettare ma subito porci a tavola.

MORFEO. (Io non posso ascoltar piú: l'anima si ha fatto un fardello delle sue robbe e si vuol partire; lo stomaco s'è ribellato, m'ave occupato la gola e mi strangola. Ma a che tardo ad invitarmi da me stesso?). Oh, ben trovato il mio Panurgo galante, intendente della buccolica piú di tutti gli uomini del mondo!

PANURGO. Ben venghi Morfeo!

MORFEO. Sería da vero ben venuto, se venissi per un terzo a questo tuo cenino che apparecchi.

PANURGO. L'apparecchio per un mio amico di che ho da servirmene in un bisogno importantissimo.

MORFEO. Sèrvite di me, che ti servirò al servibile e all'inservibile.

PANURGO. Vuoi tu prestarmi mille scudi?

MORFEO. Con che faccia cerchi a me mille scudi, che tutto intiero non vaglio dieci quattrini? Cercar dinari a me è come cercar acqua ad una pomice. Non posso altro prestarti se non la fame che ho adosso. Ma dammi da mangiare, e satollo vendimi ad una galea per quanto vaglio.

PANURGO. Io non ho bisogno di danari, burlo teco. Io ho bisogno di un ladro, infame, giuntatore, assassino,…

MORFEO. Questi sono i titoli dell'arte mia.

PANURGO….tristo, cattivo, malizioso, astuto, truffatore,…

MORFEO. Giá giá l'hai ritrovato.

PANURGO….bugiardo, mentitore.

MORFEO. Lascia dire a me: giotto, traditore, senza legge, senza fede, maldicente, scelerato, ingannatore. Di tutte queste cose ne ho fatto gran tempo professione e mercanzia e ne ho le botteghe e magazzini in questo petto.

PANURGO. Ma essendo tu cosí cattivo, come potrò io fidarmi di te, che non l'attacchi a me ancora?

MORFEO. Di ciò non dubitare, che corvi con corvi non si cavano gli occhi.

PANURGO. Cosí tu fossi appiccato, come piú tristo uomo di te non si trova nel mondo!

MORFEO. Cosí tu fossi squartato, come lo meriti piú di quanti vivono!

PANURGO. Tu solo hai tanti vizi che, avendonosi a partire a tutta questa cittá, a tutti ne toccarebbe bona parte.

MORFEO. Allegrati, beato te, che tu sei il priore, il monarca di tristi!

PANURGO. Per le tue grandezze meritaresti una collana.

MORFEO. E tu per le tue virtú una berlina.

PANURGO. Ho voluto dir che meriti esser un re.

MORFEO. E tu un principe di Cartagine.

PANURGO. Con un scettro in mano ben grosso e lungo per governatore e capo di quell'isoletta di legno che sta in mare.

MORFEO. E tu bersaglio di staffili.

PANURGO. Chi ti mirasse nel collo e ne' piedi, penso che ci troverebbe un callo delle collane e di cerchietti che ci hai portati.

MORFEO. Chi ti vedesse le spalle, le troverebbe di piú colori che i tapeti che vengono di Soria.

PANURGO. O forche, o scale, o capestri, che fate?

MORFEO. O berline, o scope, o asini, dove sète?

PANURGO. Ma torniamo a casa, che il tempo manca e le parole avanzano. E sovra tutto vorrei che appena accennandogli il principio, capisse il negozio e m'intendesse a cenno.

MORFEO. Anzi io in mirarti in faccia so quello che cerchi da me.

PANURGO. Dici da vero?

MORFEO. Piú che da vero.

PANURGO. E tu conoscesti la veritá mai?

MORFEO. L'ho inteso nominar cosí cosí; ma fu sempre mia capitalissima inimica.

PANURGO. La cagione?

MORFEO. Non ho mai doglia di testa se non quando son forzato dirne alcuna. E chi volesse a mezzo gennaio farmi sudar di sudor delta morte, sforzimi a dire alcuna veritá. Né pensar che cosí sia io: cosí fu mio avo, bisavo, trisavo, ventavo e settantavo.

PANURGO. Orsú, ho trovato il bisogno. Conosci tu Gerasto medico, un certo uomo da bene?

MORFEO. Io non conosco niuno uomo da bene. Che ho a far io con loro? io non prattico se non con ribaldi, perché mi danno da mangiare. Ma perché non andiamo a tavola e diamo una batteria a quel tuo apparecchio?

PANURGO. È troppo mattino.

MORFEO. Anzi mangiando presto la mattina, ogni cosa ti riesce a proposito quel giorno. Vuoi che vada a toccarli il polso, se avesse la febre?

PANURGO. La febre la devi aver tu nella gola per divorartelo; ma tu non assaggierai boccone se non prometti servirmi, anzi dopo servito.

MORFEO. Ti servirò a quel che tu vuoi, e ti loderai dell'opra mia.

PANURGO. Bisogna che tu finga esser uno sposo; e sconcierai la bocca, il viso e tutta la persona, di sorte che veggendoti il padre della sposa ti prenda a schivo e rivochi lo sponsalizio.

MORFEO. Se non mi saprò sconciar bene, piglia una ascia e sconciami a tuo modo. Ma, di grazia, avendomi a sconciar la bocca, fammi mangiar prima.

PANURGO. Mentre stiamo aspettando Alessio, un certo amico che ne manda le vesti a questo effetto, vuoi che te insegni a fingere quel che abbiamo a fare?

MORFEO. Imparami d'altro che di fingere: questo fu mio primo essercizio. Ma ecco il servo che ti porta le vesti.

PANURGO. Non viene a me, va dritto alla casa di Facio; deve essere il servo di maestro Rampino: vogliam far prova di torcele?

MORFEO. Eccomi all'ubidire.

PANURGO. Togliamcele calde calde.

MORFEO. Presto presto, che non puzzino.

PANURGO. Nasconditi, ascolta e vieni a tempo.

MORFEO. Mi nasconderò, ascoltarò e uscirò a tempo dall'imboscata.

PELAMATTI. Non si vidde al mondo mai il piú bizzarro uomo di maestro Rampino. Mi pone le veste in spalla e dice:—Vai in tal parte, che troverai un uomo alto basso, magro grasso, che si chiama Facio; dágli queste vesti.—Se tardo, i gridi vanno al cielo; se non fo l'effetto, gioca di bastonate; se fo errore, guardite Iddio….

PANURGO. (Non conosce né lui né la casa. Queste seran mie, se tutto il mondo non m'è contrario).

PELAMATTI…. Ché per potermi ricordar tanto, bisognarebbe un cervello di lionfante, e per camminar tanto, le gambe di dromedario; dove cervello n'ho poco piú d'una oca, e gambe cosí debili che appena mi reggono sovra, e senza scarpe ancora….

MORFEO. (Va troppo carico: ne ha pietade, lo vorrebbe alleggerire).

PELAMATTI…. Oh, trovassi alcuno che me lo insegnasse. Ma ecco il fico selvaggio nel muro: questa è dessa.

PANURGO. Férmati, oh, oh, oh! a chi dico io?

PELAMATTI. So che non dici a me.

PANURGO. A te dico io, a te.

PELAMATTI. Ti ho forse ciera di cornacchia io, che per scacciarmi gridi: oh, oh?

PANURGO. Volevi tu spezzar quella porta?

PELAMATTI. Ancora non ci era accostato.

PANURGO. Ti toglio la fatica di battere, e par che te ne spiaccia.

PELAMATTI. E se fusse tua madre, aresti tanta paura che fusse battuta?

PANURGO. Se può dir mia madre, ché questa mattina, uscendone, mi ha partorito.

PELAMATTI. Dio ti facci esser nato in buon ponto. Figlio di questa porta, mi sapresti dir se dentro ci fusse Facio?

PANURGO. Facio ti sta innanzi e parla teco.

PELAMATTI. Dunque, voi sète…

PANURGO. Si, si, Facio padre di Alessio.

PELAMATTI. Me l'avete tolto di bocca, che proprio volea dimandarvi se voi eravate Facio.

PANURGO. Io son Arcifacio, son Faciissimo.

PELAMATTI. Me ne vo dunque: voi non sète quel che cerco. Vo' Facio, non Arcifacio né Faciissimo.

PANURGO. Io son quello che cerchi, or vengo dalla bottega di maestro Rampino, ché mi desse le vesti; e disse avermele inviate per un suo servo; e or aspettandole stava passeggiando dinanzi la mia casa.

PELAMATTI. Queste son dunque le vesti che aspettavate?

PANURGO. Sí, sí, queste son desse.

PELAMATTI. Ancor non l'hai viste, e dici: sí, sí. Se le volete, venite in bottega.

PANURGO. Perché non me le dai tu qui?

PELAMATTI. Non mi avete ciera di Facio.

PANURGO. Hai tu visto mai Facio?

PELAMATTI. Non io.

PANURGO. Come dunque non ti ho ciera di Facio? Ma mirami bene, questa mia ciera non è tanto buona che ne potresti far candele?

MORFEO. (Si da vero, céra proprio da esser bruggiata!)

PELAMATTI. La céra mi par cattiva e il mele deve essere assai peggiore, perché mi hai ciera di un gran ribaldo. Poiché sete venuto adesso da mastro Rampino, ditemi, dove sta sua bottega?

MORFEO. (Oimè, siamo incappati, ché non la sappiamo).

PANURGO. Te lo dirò. Búttati giú per questa strada, e come sei a quel cantone che ti dá in faccia, torci il collo a man dritta; e quando sbocchi in quei cessi e lordure, cala giú finché darai di petto in un uscio: poi rovescia gli occhi su, ché vedrai l'insegna della fistola: il vicolo si dice del Maltivegna, incontro la casa di Perotto Malanno.

PELAMATTI. A te oh come starebbe bene questa casa!

PANURGO. Anzi a te starebbono buoni questi duo luoghi, accioché quando l'uno ti fosse venuto a noia, mutassi nell'altro fresco e senza pagar pigione.

MORFEO. (Con questa burla ha saltato il fosso, il poltrone).


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