V.LA CONTRADIZIONE SUPREMA
In questa parte ultima sono stati raccolti e fusi in uno parecchi scritti pubblicati in diversi giornali e riviste, di Europa e di America. Sono stati raccolti e fusi in un solo, per schivare troppe ripetizioni e perchè viviamo in tempi in cui la concisione non è solo un pregio letterario, ma anche un dovere civico.
In questa parte ultima sono stati raccolti e fusi in uno parecchi scritti pubblicati in diversi giornali e riviste, di Europa e di America. Sono stati raccolti e fusi in un solo, per schivare troppe ripetizioni e perchè viviamo in tempi in cui la concisione non è solo un pregio letterario, ma anche un dovere civico.
E si ricasca sempre lì, pensando e ripensando ai casi presenti dell’Europa, in quella domanda che, a guisa di mendicante ostinato a strappare insistendo l’elemosina, si ripresenta sempre, perchè non ottiene mai risposta adeguata: come, come ha potuto un’epoca, la quale aveva posto in cima a tutti i suoi pensieri l’incremento della ricchezza, la sicurezza della vita, e l’impero universale della ragione, come ha potuto preparare, volere, combattere questa terribile guerra? E a questa angosciosa domanda, che tante volte si è affacciata nelle pagine di questo libro, torneremo anche noi qui sulla fine, per tentare un ultimo sforzo e rispondere, se ci riesce.
Non tutto il male viene per nuocere — dice il proverbio. Le infinite calamità presenti possono essere — e sono già state per non pochi scrittori, tra i quali alcuno di molto insigne — motivo di qualche compiacimento. Era opinione comune che, se la guerra europea scoppiasse, sarebbe intervenuto a intimaredi deporre le armi, se non la Ragione o la Pietà, almeno l’Egoismo. Si diceva che in alto e in basso gli uomini si erano ormai troppo avvezzati alla vita comoda, larga, sicura, e che non tollererebbero a lungo le privazioni e le rovine di una guerra generale. Si prediceva la rivoluzione, se la guerra durasse tre mesi. Si faceva credito al nostro secolo di abnegazione e di spirito di sacrificio per poche settimane e non più. Anche gli Stati Maggiori riconoscevano nell’Egoismo il sovrano dei tempi, e protestavano che non farebbero mai la guerra, se non pigliando gli ordini di Sua Maestà. Quando la storia della guerra europea sarà nota in ogni sua parte, si saprà pure che quasi tutti gli errori e quasi tutte le crudeltà del principio furono suggerite dalla fretta. I capi che avevano voluto tentare la grande avventura, erano partiti per il campo con l’idea fissa che bisognava far presto, perchè i popoli non resisterebbero a una prova troppo lunga.
Ma noi ci calunniavamo. Nessuna di queste previsioni si è avverata. Nel mese di luglio del 1914 le vecchie discordie dell’Europa rifermentavano più acri che mai. In Inghilterra, protestanti e cattolici minacciavano di pigliare le armi. In Francia, le due parti che da più di un secolo si avventano l’una contro l’altra ogni volta e dovunque si incontrano, si erano di nuovo avvinghiate e si mordevano accanitamente, nella chiusa arena di un tribunale. L’Italia aveva fatta poco prima una specie di prova generale della rivoluzione. In Russia milioni di operai scioperavano e tumultuavano. In Austria le razze e le lingue si rinfacciavano con rinnovato furore il sanguedell’Arciduca ucciso a Serajevo. Ma tra il 30 di luglio e il 1º di agosto, in quarantotto ore, tutte queste turbolenze sono cessate, non appena la guerra è apparsa inevitabile. Perfino la Francia, il punto dell’Europa dove, per ragione storica e geografica, tutti i venti di discordia si incontrano e fanno vortice; la nazione nel cui seno hanno lottato e lottano il germanesimo e il latinismo, il protestantesimo e il cattolicismo, l’autorità e la libertà, il principio di qualità e il principio di quantità — per la prima volta forse nella sua storia, dai tempi di Giulio Cesare — la Francia è stata un cuore e un’anima sola.
Insieme con le discordie religiose e politiche, sono cessati quei dispetti e quegli sgarbi che la Ricchezza e la Povertà usavano da un pezzo scambiarsi, tanto per ingannare il tempo. Il socialismo è andato in caserma e ha indossate le armi, docile e pronto come un giovane coscritto arrivato allora allora dal villaggio. E neppure oggi, dopo dieci mesi di guerra, uccisi e feriti milioni di uomini, distrutte infinite ricchezze, capovolto interamente l’ordine di cose in cui eravamo vissuti tanti anni, nessun popolo belligerante grida ancora misericordia o mercè. La storia non aveva ancora sottoposta una così grande moltitudine di uomini a tal prova; e la prova è stata così bene superata che molti si sono messi a gridare al miracolo. Ma ogni cosidetto miracolo della storia è sempre una di quelle opere lente, che il tempo compie di nascosto e rivela poi a un tratto agli uomini, quando l’ha terminata. Anche di questo miracolo noi troveremo la ragione in quell’immenso rivolgimento che è incominciato in Europa dopo la scoperta dell’Americae al quale così spesso abbiamo dovuto risalire, per spiegare i calamitosi tempi presenti: in quel rivolgimento che, mutando scopo alla vita, a poco a poco ha fatto il mondo — altro dei tanti effetti di quella immensa rivoluzione, da cui tutto il nostro vivere presente dipende — più uniforme e perciò meno discorde. Che la civiltà moderna sia più uniforme di quelle che la precedettero, è cosa notissima: chi paragoni l’America all’Europa, le parti dell’Europa più nuove alle più antiche, subito se ne rende ragione, per dir così, alla prima occhiata. Meno chiaro è invece ai più, come questa differenza proceda anch’essa dal trapasso dell’antica civiltà qualitativa nella nuova civiltà quantitativa. L’uomo non può sforzarsi ad una perfezione se non limitandosi, scegliendo una sola tra le innumeri perfezioni che può proporsi, appuntando verso quella tutte le forze dell’animo e della mente, ignorando od odiando le altre; perchè non c’è mezzo più sicuro di riuscir mediocre in ogni cosa, che l’innamorarsi e l’aspirare nel tempo stesso a troppe perfezioni diverse. La varietà, l’isolamento, la discordia sono perciò altrettante ragioni vitali di ogni civiltà qualitativa, che si proponga come fine una o più perfezioni: onde le infinite lotte religiose, artistiche, letterarie, morali, politiche che hanno turbato il mondo prima dell’epoca nostra. Oggi invece soltanto le lotte di razza e di lingua sono ancora vive e violente, là dove una razza è governata da un’altra che vuole farle mutare a forza patria e favella: ma le altre lotte — religiose, artistiche, letterarie, morali, politiche — si affievoliscono da mezzo secolo, così in Europa come in America — eperchè? Perchè a mano a mano che la quantità domina il mondo e gli uomini antepongono la conquista della terra alla bellezza, alla gloria, all’eroismo, all’onore, alla santità, come scopo, pregio e ragione della vita, le antiche differenze tra gli uomini, che in passato erano state cagione in Europa di tanti odî e di tante guerre, si scoloriscono e diluiscono. Sono, sì, anche nei nostri tempi in Europa, come un secolo fa, cattolici e protestanti, laici e preti, popolani e borghesi, borghesi e nobili, dotti e ignoranti, romantici e classici, conservatori e liberali, monarchici e repubblicani. Ma di tutte queste differenze gli uomini del nostro tempo appena si accorgono, quando si trovano insieme per conquistare i tesori della terra. In questa impresa una differenza sola importa e conta: l’abilità, lo zelo, l’attività. Protestante o cattolico, un artigiano, un impiegato, un ingegnere, un funzionario contano oggi nel mondo assai più per quel che sanno fare, che per le dottrine religiose che professano. Se i nobili conoscono ancora i bei modi e la buona creanza, la borghesia è ricca di energie che il mondo oggi cerca, perchè ne abbisogna, più che le principesche eleganze. Il popolo è certamente ancora rozzo e ignorante: ma dovrebbero perciò i grandi spregiarlo? Se la moltitudine non lavorasse infaticatamente o non spendesse facilmente il proprio salario, se stesse paga, come nel buon tempo antico, di guadagnar poco e di vivere poveramente, pur di non lavorare a lungo, le classi ricche non impoverirebbero forse anch’esse? Non è cosa difficile ai ricchi sentirsi tôcchi da simpatia umana per la plebe, in tempi in cui nella plebe essipossono amare se medesimi. La letteratura non è più la laboriosa gara di una perfezione ambita e ammirata; è un passatempo — o un’arma per le ultime lotte politiche e sociali, che ancora fervono nel mondo: purchè diverta o sia arma efficace, tutti i generi e tutte le scuole sono oggi buone, per un pubblico eclettico e volubile, il quale ha perduta perfino la nozione di quegli esempi di perfezione, a cui la letteratura aspirava in altri tempi. Monarchia e repubblica sono forme di governo che riposano su principî differenti: ma chi ha voglia ancora e tempo di lottare per uno di questi principî contro l’altro, in un secolo che vuol sopratutto accrescere la ricchezza del mondo? Le Repubbliche, i Regni e gli Imperi gareggiano oggi per far quattrini: la saggezza dunque consiglia agli uomini di badare ai propri affari e di accettare le istituzioni vigenti. Gli ultimi repubblicani superstiti si rassegnano nelle monarchie; e gli ultimi monarchici fedeli, nelle repubbliche.
Perciò da un secolo in qua, a mano a mano che l’uomo si è infervorato nella conquista della terra, trascurando per quella ogni altra impresa e ambizione, le nazioni di Europa e di America sono andate fondendosi in grandi masse abbastanza omogenee, nelle quali l’opposizione dei principî religiosi morali estetici propria delle civiltà precedenti, e le stesse differenze di regione, di classe e di razza, si sono sbiadite; e si è nel tempo stesso indebolito lo spirito di isolamento e di discordia. Per questa ragione molti accusano oggi i nostri tempi di ingrassare beatamente nel brago del greve materialismo in cuisono affondati, e di non pensare ad altro. Ma a torto: perchè due idee mistiche si sono diffuse nelle masse omogenee delle nazioni moderne e le legano insieme: patria e progresso. Sono idee molto semplici o che per lo meno possono essere semplificate in modo da avere facile adito anche nelle menti rozze ed incolte; sono idee piuttosto vaghe, tali cioè che non possono punto frenare, ma possono invece esaltare le passioni dominanti del tempo, e massime tra queste quell’orgoglio che abbiamo visto essere il più potente stimolo a fare che il secolo senta: l’idea del progresso anzi è, come vedemmo, addirittura contradittoria e incoerente: sono infine idee mistiche e trascendenti, perchè obbligano gli uomini a sacrificare il loro egoismo — oggi il piacere, domani la libertà, le opinioni predilette, i beni, talora persino la vita — a qualche cosa che li sovrasta, invisibile o adombrata nei veli di un sacro mistero. Se fino al primo giorno di agosto dell’anno 1914 tutti gli uomini si affaticavano dalla mattina alla sera per accrescere la ricchezza del mondo, godevano essi forse — i disgraziati — le ricchezze che creavano? Per quale ragione sosteniamo noi tanti carichi — e il lavoro incessante, accigliato, affannato, e il servizio militare obbligatorio per parecchi anni, e il pericolo continuo della guerra, e le innumerevoli e gravissime imposte, e i molti doveri civici — se non per promuovere questo mal definito progresso del mondo, che noi non sappiamo neppure che cosa sia precisamente; se non per creare delle ricchezze che il più spesso sono un peso e un tormento a ciascuno di noi? Questa epoca che hafama di tanto pratica è mistica invece, mistica rozzamente e violentemente; e il popolo che sembra più pratico di tutti, l’Americano, è il più mistico, perchè più di tutti gli altri si affatica per creare ricchezze di cui meno gode.
Non calunniamo dunque i nostri tempi, se vogliamo capire la guerra europea e spiegarci le sue sorprese. L’improvvisa concordia in cui tutte le nazioni d’Europa si stringono, lo spirito di sacrificio di cui fanno prova, non sono un miracolo inesplicabile dalla ragione. L’Europa voleva la pace. Ma quando ha vista la Germania minacciarla, tutta in armi, unita e concorde, ha potuto opporre alla concordia tedesca la propria concordia e mettere in pochi giorni da banda le discordie religiose e politiche, perchè queste si affievolivano da un pezzo, venendone meno la ragione vitale; e perchè nella massa più omogenea delle nazioni si è diffuso il sentimento patriottico. A tutti i Governi fu facile, tanto più che la Germania ne aveva dato l’esempio, di ottenere nelle prime settimane della guerra il consenso unanime del popolo intero a tutti i sacrifici e a tutte le dedizioni; e di impadronirsi, con i potenti mezzi di cui lo stato moderno dispone, del corpo e dell’anima della propria Nazione così pienamente, che i pentimenti, che potessero sopravvenire in seguito, fossero inutili e vani. Ed ora tanti popoli sopportano con pazienza gli ineffabili sacrifici della guerra, sia perchè in tutti, specialmente in quelli che sono di una sola razza e che parlano una sola lingua, il sentimento patriottico è penetrato profondo nelle classi più numerose e meno colte; sia perchè si sono oramailegati gli uni con gli altri a combattere sino all’ultimo, in modo che nessuno si può sciogliere: gli aggressori per il puntiglio e la paura delle meritate rappresaglie, gli aggrediti per la necessità di difendersi, e la sete di vendicarsi.
Cosicchè la più felice delle conclusioni sembra balzare fuori da questo lungo discorso. Noi siamo nati davvero nel secolo d’oro annunciato da tante leggende e da tanti poeti! La dottrina del progresso non mente, anche se noi non la sappiamo ridurre in una definizione precisa! Il mondo progredisce davvero, poichè noi possediamo tutti i beni della terra: la ricchezza, la potenza, il sapere, la concordia, lo spirito di sacrificio; perchè noi sappiamo vivere in pace e sappiamo fare la guerra....
Conclusione troppo felice e troppo pronta. La dottrina del progresso, a cui noi abbiamo sinora creduto, se non bugiarda, era ambigua; e con le sue ambiguità ci ha tratti in una difficoltà disperata. Allorchè viaggiavo l’America e la paragonavo al mondo antico nel quale avevo vissuto in ispirito tanti anni; quando scrivevoTra i due mondie preparavo quel discorso che tenni a Milano nel gennaio del 1914 e che è stampato in questo volume; allorchè affondavo e rivoltavo il coltello dell’analisi nelle innumerevoli contradizioni latenti entro l’idea di progresso quale noi la professiamo, e dalle vette di un’altameditazione contemplavo ai miei piedi, con una specie di voluttuosa tristezza, il mondo immenso, tutto in moto e in affanno e in furore per cercar sempre qualche cosa di nuovo e di meglio, senza saper chiaramente quel che volesse; non supponevo che di lì a qualche anno o a qualche mese, una tal catastrofe doveva procedere da una di quelle contradizioni. Poichè chi voglia risalire la catena delle cause sino alle più remote, dopo essersi soffermato agli intrighi delle diplomazie, agli occulti disegni degli Stati Maggiori, alle ambizioni dei Governi, alle gelosie dei popoli, alle sobillazioni dei giornali, ai vaneggiamenti delle filosofie salariate, alle rivalità delle industrie e dei commerci, alle irrequietezze degli imperi cadenti, alle sofferenze delle nazioni oppresse, all’orgoglio, alle ambizioni, ai sogni della gente tedesca e a quella sua smania di oltrepassare sempre la meta raggiunta anche a rischio di smarrirsi nell’illimitato, dovrà giungere passo passo ad una delle tante contradizioni, in cui noi vivevamo da un secolo; alla contradizione suprema, che non abbiamo mai saputa sciogliere: a quella furia di accrescere la potenza dell’uomo, senza distinguere tra la potenza che crea e la potenza che distrugge. Quando la scienza scopriva qualche nuova diavoleria; quando l’industria costruiva una macchina più veloce e potente; quando contavamo le nostre ricchezze e scoprivamo che erano cresciute, noi gridavamo che il mondo progrediva. Non si era il secolo nostro proposto di conquistare la terra con il fuoco e con la scienza? Ogni passo che ci avvicinava a questa meta lontana non doveva considerarsi — e la stessaragione filologica non ce ne faceva avvertiti — come progresso? L’Europa e l’America avevano dunque progredito lasciando le antiche diligenze per salire nei treni, le navi a vela per salire nei piroscafi; avevano progredito inventando il telefono, il telegrafo, l’automobile, l’aeroplano e il dirigibile; accumulando cognizioni e mezzi quanti bastavano a debellare l’istmo di Panama, che aveva vinto trent’anni fa il Lesseps: avevano progredito, fabbricando le macchine che falciano, vagliano e misurano il grano, che arano e seminano, che cuciono le scarpe e battono i chiodi e fanno, rapide come il lampo, tante altre operazioni, per tanti secoli lasciate alla piccola e tarda mano dell’uomo.
Nè basta. Conseguente a se stesso e al suo modo di intendere il progresso, il nostro tempo celebrò come le virtù più nobili la laboriosità, la disciplina, l’obbedienza, il coraggio, l’energia, lo spirito di iniziativa e di novità, l’ambizione e la sicurezza di sè; come eroi iself-made-men, gli inventori fortunati e sfortunati, i pionieri di tutte le aspirazioni, gli iniziatori di rivoluzioni nell’arte, nell’industria, nella religione, nella banca, nella moda e nella politica. Ma i tempi non hanno fabbricate solo delle ferrovie, delle navi, degli aratri, delle trebbiatrici, dei vagli velocissimi, preparato dei farmaci meravigliosi, accese delle luci sfolgoranti, trovata la via di parlare e di scrivere attraverso lo spazio. Hanno anche fabbricati fucili, cannoni, corazzate, polveri cento volte più potenti e micidiali che quelle di cui si servivano i nostri nonni e bisnonni. Hanno ingrandite e abbellite le scuole, gli ospedali, le biblioteche; ma di qualiatroci ordigni non hanno anche armati i più grandi eserciti che la storia abbia visti! Dovevamo andar noi fieri anche di questi progressi come di quelli? Domanda spinosa tra tutte! Rispondere di sì, voleva dire venerare, alla foggia hegeliana, la distruzione come la creazione; adorare sullo stesso altare Dio e il Diavolo. Ripugnava ad un’epoca che ha creduto nella bontà della natura umana, che si è tanto affaticata per accrescere la ricchezza del mondo. Ma a rispondere di no, occorreva sciogliere gli eserciti, sopprimere le monarchie che ne stanno a capo, rifar la carta dell’Europa, mutare profondamente lo spirito dello stato moderno. L’Europa non se ne sentiva la forza; e quindi ha prescelto non rispondere nè si nè no; contentarsi di una definizione del progresso vaga quanto bastava perchè potesse abbracciare la pace e la guerra, la violenza e il diritto, la vita e la morte, gli aratri a vapore e i mortai a motore, il siero antirabbico e la melinite; non ha osato decidere se l’audacia, lo spirito d’iniziativa e di sacrificio, il coraggio e la perseveranza fossero egualmente da ammirare, sia che l’uomo li adoperasse nelle lotte contro la natura o per conquistare terre ed imperi, in guerre di aggressione e in guerre di difesa. Sempre ha tentennato tra il sì e il no; gli uni dicendo di sì, gli altri di no.... Il secolo voleva la pace; ma quando si è accinto a predicarla, subito si è scoraggito a vedere su tante faccie di soldati, di filosofi e di politici tanti ironici sorrisi; e pieno di vergogna non ha osato neppure — esso il secolo che tutto aveva osato, anche rivoltarsi a Dio e rivedere le bozze della creazione — ripetere quello che San Tommaso avevaasserito a fronte alta e senza esitanza in mezzo alle barbarie del medio evo: che la guerra è lecita solo se è fatta per una causa giusta e senza prava intenzione.
E così venne il giorno in cui la Germania ha appiccato il fuoco ai quattro canti dell’Europa. Essa ha avuto questo coraggio incredibile, perchè tra tutte le nazioni di Europa ha più intrepidamente confusa nel progresso la distruzione e la creazione e affermato che una nazione deve sforzarsi di essere grande in pace e in guerra, che l’imporre con la forza e con il terrore agli altri uomini la propria volontà non è minor merito e gloria che il debellare la natura e sforzarne i segreti tesori. Le vittorie del 1866 e del 1870, il rapido sviluppo delle industrie, il grande incremento della popolazione e della ricchezza, quel difetto di «senso umano» e di misura che è proprio del pensiero tedesco, la febbre d’orgoglio, di ambizione, di cupidigia che l’assalse negli ultimi anni, spiegano come la Germania abbia potuto violentar due principî così opposti entro una definizione ibrida e contradittoria, e creare alla rinfusa strumenti di vita e strumenti di morte; moltiplicare officine e caserme, navi mercantili e da guerra; voler essere una immensa officina e un immenso accampamento, servendo una mostruosa e doppia divinità del Progresso che incitava gli uomini a diventar più ricchi e più temuti, più sapienti e più minacciosi, più laboriosi e più violenti. Finchè un giorno, essendo giunta al sommo della prosperità e della potenza, si è creduta anche al sommo della forza, e allora ha sfidato ad un duello mortale tre dei più grandi imperi di Europa. E la terribile carneficina è incominciata; nè si può prevederequando avrà fine, la guerra europea sembrando differire da quante la precedettero precipuamente perchè non ha limiti: nè nello spazio, nè nel tempo, nè nel modo.
Nelle guerre precedenti, anche nella guerra del 1870, solo una parte della nazione aveva combattuto: la parte giovane, valida e già istruita alle armi. In questa guerra già parecchie tra le maggiori nazioni belligeranti non badano più, per far numero, nè alla età, nè alla debolezza, nè alla impreparazione, nè alle condizioni di famiglia: ogni uomo capace di imparare in poche settimane a maneggiare un fucile è preso e mandato alla guerra: anzi si può dire che perfino i vecchi e le donne siano stati mobilizzati, perchè quelli che non combattono negli eserciti, sostituiscono nelle opere civili i combattenti, curano i feriti, aiutano le famiglie orbate del capo. È il caso di chiedersi se la guerra europea non sarà terminata da giovinetti imberbi e da vecchi canuti. Era sembrata cosa unica e immensa che nella guerra della Rivoluzione e dell’Impero tutta l’Europa avesse prese le armi: questa volta combattono l’Europa, l’Asia, l’Africa, l’Australia; e chi si meraviglierebbe, se dopo la Turchia e l’Italia anche gli Stati balcanici prendessero le armi; e se un giorno fossero, se non dichiarate le ostilità, rotti i rapporti diplomatici tra la Germania e gli Stati Uniti? Quando la guerra scoppiò,tutti pensammo che più di tre mesi non poteva durare: dieci mesi sono passati, chi osa più sperare che non debba durare un pezzo ancora, almeno se non interviene un miracolo? Già tutti gli Stati preparano la seconda campagna invernale. Pur essendo certo che anche la guerra europea, come ogni altra cosa al mondo, avrà quando che sia una fine; pur apparendo probabile che debba terminare con uno scioglimento subitaneo e inaspettato, nessuno, per quanto aguzzi gli occhi, riesce a scorgere innanzi a lui quel limite insuperabile verso il quale pure cammina e al quale avrà fine anche questa nuova pazzia delle genti umane. Nè si vede quale sia il limite a cui voglia finalmente dar di freno al furore una delle parti belligeranti, quella che sembra essersi proposto di combattere senza riconoscere nè leggi, nè convenzioni, nè regole, nè principî o di pietà o di umanità o di qualsivoglia altra natura....
Neppure la leggenda aveva mai sognato quello che oggi i nostri occhi vedono: nè tante miriadi di combattenti, nè tante e così lunghe battaglie, nè tanta mole di strumenti mortiferi, nè tanta distruzione di vite e di averi, nè tanto accanimento e furore di animi. Viviamo in un secolo che è il più potente tra quanti sono apparsi sulla terra; ma che non vuole nè freni nè limiti e quindi non ha discernimento: crea e distrugge, fa il bene e fa il male, secondo l’interesse o le circostanze o il mutabile umore lo spingono e sempre a modo suo, cioè in grande. Per tre generazioni aveva atteso a colonizzare nuove terre, ad aprire nuove vie, ad accrescere la ricchezza, gli strumenti e il sapere, a istruire e a disciplinarela moltitudine; e aveva fatti prodigi di bene. Ma quando, preso da subita follia, ha volte le sue forze alla distruzione, ha compiuto tale uno sterminio, un flagello, un orrore che per secoli gli uomini allibiranno al ricordo. Le stesse virtù di cui l’Europa ha saputo far mirabile prova — la concordia, il patriotismo, lo spirito di sacrificio — non sono proprio le ragioni per cui la guerra dura così ostinata e terribile? Tedeschi, francesi, belgi, serbi, russi, austriaci da dieci mesi combattono: ora vincono gli uni ora gli altri; milioni di uomini sono caduti; eppure la guerra continua: perchè? Perchè non eserciti e Stati guerreggiano oggi, ma popoli tutti egualmente risoluti a vincere, a qualunque prezzo, perchè tutti esaltati da quella mistica idea della patria, che negli uni infiamma l’orgoglio ed esalta la prepotenza, negli altri esaspera il risentimento dell’aggressione e quindi l’ardore della vendetta. Perciò le sconfitte e le vittorie non sono mai decisive; ed è forza sempre ricominciare. Le battaglie che non riescono — e quelle che ci riescono sono poche — ad annichilare le forze di uno degli avversari, non operano se non per l’impressione che fanno sulle menti: un popolo può dunque essere sconfitto non una ma dieci volte, senza essere vinto, sinchè non disperi della vittoria. I Romani antichi l’hanno provato in cento guerre. Non c’è forse popolo che abbia subite più disfatte e vinte più guerre.
Ci eravamo dunque troppo illusi gloriandoci che la nostra civiltà fosse la più perfetta tra tutte quelle che l’avevano preceduta? Parrebbe. A tutto c’è compenso nella vita. Certo gli uomini del medio evoerano molto più poveri, più rozzi, più ignoranti di noi; non potevano viaggiare in ferrovia nè volare, nè navigare sotto l’acqua; ma non imaginavano neppure gli orrori a cui oggi l’Europa assiste queta queta, quasi indifferente: città incendiate, milioni di uomini trucidati, fatti a pezzi, bruciati vivi, polverizzati da esplosivi infernali, navi che in pochi minuti sprofondano con gli uomini, bare immani di vivi. Onde l’Europa era nel 1315 un paradiso, a paragone dell’Europa quale è nel 1915: meraviglioso effetto di sei secoli di progresso, del quale hanno oggi ragione di sorridere ironicamente i cinesi, gli indiani, i musulmani e tutti i popoli che così leggermente avevamo maltrattato di barbari; e del quale del resto anche molti europei oggi dubitano amaramente. Quanti si chiedono ogni giorno, scuotendo il capo, se questo, proprio questo è il celebrato progresso del secolo! Tirar via e oltrepassare la domanda in silenzio come tutti avevamo fatto sinora, slanciandoci nel folto dell’azione e quasi pretendendo rispondere, non con parole ma con le opere, non si può più, se volendo progredire senza perdere tempo a chiederci che cosa è il progresso e scambiando per progresso vero tutto quel che lì per lì giovava e piaceva, ci è capitato di dover fare in pochi mesi un gran rogo dei tesori accumulati in molti anni, noi che ci gloriavamo tanto di accrescere la ricchezza del mondo; e di dover assistere freddi alla strage di milioni di giovani, noi che ci eravamo sentite viscere fraterne perfino per i muli, i cavalli ed i cani! Le moltitudini hanno diritto di chiedere alle classi che in nome del progresso le hanno condotte a questa prova, se esse sono state ingannate;i cinesi, gli indiani e i musulmani hanno ragione di chiedere se anche la guerra europea è prova di quel meraviglioso progresso, nel quale noi crediamo con tanta fede e che vogliamo imporre con la forza anche alla loro rassegnazione. E quanti sono oggi sicuri, proprio sicuri, che i tempi, impauriti e inorriditi, non risponderanno rinnegando come una menzogna il progresso di cui l’Europa si vantava?
Eppure no. Il progresso, in cui abbiamo creduto un po’ troppo ciecamente, non è una menzogna. La sua dottrina è stata ambigua per colpa nostra, ma non mente. E la guerra europea, che sembra averla sbugiardata, potrà essere principio e fattore di vero progresso.
Nessuno può predire l’avvenire. Ma non è temerario supporre che la guerra europea sarà considerata nella storia come la crisi di una civiltà, la quale si era vantata di sciogliere l’energia umana dai ceppi, dai freni e dai lacci che nelle civiltà precedenti la limitavano; e che, dopo averla liberata, non ha più saputo frenarla il giorno in cui si è infuriata a distruggere: la crisi di una civiltà che, dopo aver per un secolo spossate tre generazioni, affinchè non restassero un solo momento dal creare, ora distrugge la quarta con tutte le cose sue, senza misericordia e per la stessa ragione, perchè è senza misura nel benee nel male. La prima e grande crisi di quella che i socialisti usano chiamare la «società capitalista» — dell’ordine di cose che l’ultimo secolo ha stabilito in Europa e in America — è proprio questa, è la guerra europea: ma quanto è diversa dalla crisi che i socialisti avevano annunciata! Così come è diversa dalla grande crisi storica, che l’ha preceduta: la Rivoluzione francese. Allora un’epoca che aspirava alla libertà, alla ricchezza, alla potenza, al sapere, si levò e rovesciò tutti quei limiti antichi, che parevano interporsi tra l’uomo e il suo desiderio: oggi invece vacilla e stramazza, ferendosi, un secolo che dopo aver conquistata la libertà, la potenza, la scienza, i tesori della terra, è stato preso dalla vertigine di distruggere se stesso e l’opera sua.
Onde si possono supporre due cose. O che, dopo essere caduto così malamente, il secolo si rialzi e, curate le ferite, ripigli, appena si risenta in forze, la sua folle corsa verso l’antica meta, che più si allontana quanto più l’uomo cammina verso di lei.... La guerra europea non sarà allora che una parentesi nella storia del secolo decimonono e del ventesimo; un accidente terribile ma passaggero, come un terremoto o una inondazione; o, se si vuole, un avvertimento agli uomini inutile e la prima prova di una catastrofe ancora più colossale, di qui a cinquanta o a cento anni. Oppure la dura percossa farà riavere il mondo da quella vertigine, in cui si era smarrito; lo indurrà a ripiegarsi su se medesimo e a chiedersi quale uso abbia fatto e quale uso debba fare della sua potenza a dismisura cresciuta; e da quel momento il mondo incomincierà a progredire davvero.Io non vedo infatti come si possa uscire dalle inestricabili difficoltà in cui il pensiero e l’azione si impigliano, quando il primo vuol definire e la seconda vuol creare il progresso, se non ammettendo che ogni epoca compie una parte sola dell’opera incessante e molteplice, che è il compito del genere umano tutto quanto. Alcune civiltà hanno create arti e filosofie; altre ordini politici nuovi; altre leggi e diritti; altre riti, sacerdozi e religioni; altre nuove forme di industria e di commercio; altre armi e procedimenti di guerra, e via dicendo.... Ma tutte queste opere parziali di tante generazioni che si seguono, se almeno in parte se ne conservi il ricordo, si aggiungono le une alle altre; e in questo lento ma continuo crescere del numero loro consiste il vero progresso e il solo modo con cui si possa alla meglio saldare nella definizione del progresso la qualità sulla quantità, con un attacco vitale e perciò indissolubile. Infatti le generazioni che seguono possiedono unaquantitàmaggiore di principiqualitativi; o, per dir la stessa cosa più semplicemente, conoscono un numero maggiore di principî estetici, politici, religiosi e morali, cosicchè ne possono ricavare combinazioni più svariate e più ricche, e vivere di una vita più piena e più originale.
Un esempio chiarirà meglio questo pensiero. Se noi ci paragoniamo ai Greci o ai Latini o ai Medievali, possiamo facilmente scoprire che in certe cose noi li superiamo, in altre siamo invece vinti da loro. I Greci erano da più di noi nell’arte e nella letteratura; i Latini nel diritto; gli uomini del Medio Evo in certe arti, come l’architettura. Ma noi siamomolto più ricchi e sapienti e potenti dei Greci, dei Latini e dei Medievali. Come decidere dunque, paragonando queste differenze, se dai Greci a noi il mondo ha progredito o no? Bisognerebbe decidere se è meglio esser dotti o essere artisti, costruire delle macchine a vapore o edificare delle belle cattedrali, esplorar l’Africa o comporre l’Antigone. Ma è chiaro che ogni uomo e ogni epoca vantano come più utile e più nobile l’attività propria; e che non c’è modo di provare che la ricchezza vale più o meno della bellezza, la bellezza più o meno della sapienza. Tutti i ragionamenti con cui si è creduto di provare uno di questi punti sono facilmente rovesciabili; o presuppongono una definizione del progresso in cui è già ammessa la tesi che si vuol discutere: sono quindi dei sofismi che solo l’interesse e la passione possono, perchè son ciechi, scambiare per dimostrazioni. Ma invece noi possiamo dire che il mondo ha progredito, quando paragoniamo tutta l’epoca nostra alla Grecia: perchè noi gustiamo l’arte e la letteratura greca, ne conosciamo la filosofia, abbiamo derivati da lei alcuni sentimenti e principî politici; ma conosciamo anche altre arti ai greci ignote — l’architettura medievale, la scultura giapponese, per esempio; conosciamo altre filosofie; pratichiamo le virtù insegnate dal cristianesimo, come l’amore del prossimo, la carità, la purezza; a queste aggiungiamo i principî politici creati dalla Rivoluzione francese; possediamo infine conoscenze geografiche e scientifiche molto più vaste; viaggiamo in ferrovia, parliamo attraverso lo spazio, e voliamo.
Così inteso il progresso, parecchi dei problemimorali posti dalla guerra europea si chiariscono alquanto. L’incremento della ricchezza, del sapere e del potere non è progresso, che se noi impariamo a far di questa ricchezza, di questo sapere e di questo potere un uso che sia più bello e più nobile o più savio o nel tempo stesso più bello, più nobile e savio. Ma noi non impareremo a far un uso più bello, più nobile e savio della nostra ricchezza, del nostro sapere e della nostra potenza, da noi soli e come dal nulla, se non cercheremo di imitare e di superare le generazioni passate, combinando le idee, i sentimenti e i principî che esse ci hanno tramandato con le idee, i sentimenti, i principî che noi abbiamo creati. Le civiltà antiche eccellevano nel frenare l’uomo così da impedirgli di commettere troppo grandi e pericolose follie; ma nel tempo stesso ne limitavano la forza anche nel fare le grandi cose. La civiltà moderna ha esaltata, liberandola da tutti i freni, l’energia dell’uomo e l’ha fatta capace di prodigi; ma essa ha tolti anche i freni che la trattenevano dalle supreme follie. La civiltà nostra toccherà la vetta della gloria e della perfezione il giorno in cui riuscirà, contaminando la nuova potenza, che essa ha creata, con la saggezza antica, che ha obliata, a sottoporre la disordinata energia dell’uomo al freno di regole e di principî estetici, morali, religiosi, filosofici, che ne siano i limiti — ampi quanto si vuole, ma saldi. Onde gli storici e i filosofi farebbero opera assai più utile se, invece di vagellare intorno all’esistenza di Romolo o di baloccarsi con i giocattoli gnoseologici del diciottesimo secolo, preparassero le menti a questa salutare e sublime fusione di dueciviltà, da cui potrebbe nascerne una terza, veramente più grande dell’una e dell’altra.
Poichè insomma quando l’Europa avrà finito di combattere questa terribile guerra, ed esangue, spossata, si chiederà quel che debba e possa fare per provvedere all’avvenire, a che si troverà, se non innanzi all’eterna questione in cui l’uomo si imbatte a capo di tutte le vie che imbocca per cercare la felicità: ad una questione di limiti? Se dopo la guerra europea gli Stati ricominceranno ad armare illimitatamente per non esser l’uno da meno dell’altro, come hanno fatto dal 1870 al 1914, saremo presto o tardi da capo. La pace non potrà rinsanguare l’Europa svenata se le Potenze belligeranti non riusciranno alla fine della guerra a intendersi seriamente, a limitare gli armamenti, e a statizzare le fabbriche d’armi. Una cosa che a dirsi è semplice e facile, ma che pur troppo sarà molto più difficile a porre ad effetto: perchè non c’è atto che più ripugni al mondo moderno che il limitarsi, per qualunque motivo e in qualunque modo. Ho già detto che San Tommaso afferma e dimostra come la guerra sia in sè un peccato, e cioè male; ma divenga lecita sotto tre condizioni: quando è fatta dall’autorità legittima, per una giusta causa e senza prava intenzione. Il sottil dottore medievale aveva già sin da quei tempi previste guerre fatte per causa giusta, ma con prava intenzione! Orbene: chi non vede che questo modo di considerare la guerra è quello che meglio soddisfa la ragione e il sentimento di tutte le persone che non siano o interessate a voler che la guerra duri eterna in Europa, o prive di quel «senso umano» delle cose, che è una formadella saggezza e che la filosofia tedesca ha fatto perdere in così larga misura anche a noi? Chi non vede che basterebbe portare ad effetto questa dottrina sul serio e lealmente; e l’Europa potrebbe godere di una pace più lunga e sicura? Eppure troverete in tutto il secolo decimonono ben pochi pensatori, i quali abbiano osato sostenere una dottrina simile a questa apertamente, a fronte alta, senza vergognarsene come di una dottrina ridicola per vecchie zitelle; perchè molte tra le filosofie del secolo — e massime quelle che si vantano idealistiche — non hanno voluto mai pigliare le mosse che da se medesime e non riconoscere alla loro indagine nessuno dei limiti che le filosofie antiche, per amore o per forza, avevano rispettato, neppure i limiti del buon senso e di quel «senso umano» a cui ripugnano tutte le dottrine e i principî che vanno a ritroso della natura dell’uomo, delle sue più comuni e manifeste e ragionevoli esigenze. Queste filosofie hanno avuto in gran dispregio, come era naturale, il buon senso di San Tommaso e delle vecchie zitelle; ma rovesciandosi a vicenda i propri argomenti le une hanno dimostrato che la guerra è divina, le altre che è diabolica; quelle hanno affermato che la vittoria in guerra è il segno più manifesto della perfezione, le altre che il guerreggiare è un’operazione bestiale e che un popolo virtuoso non adopera le armi neppure per respingere un’aggressione! Se fu cosa tanto difficile far accettare a questo secolo delle opinioni ragionevoli intorno alla guerra e ai suoi limiti, imaginarsi se sarà facile indurlo a compiere degli atti savî! Ma chi può, dopo questa prova, dubitare che la civiltà moderna si distruggeràun giorno o l’altro, con le sue proprie mani, se non riescirà ad adoperare la forza tremenda di cui dispone con maggiore discernimento? Questo nostro secolo apparirà forse ai posteri come un fanciullo che ha giocato a lungo con le mitragliatrici, i cannoni a tiro rapido, gli obici esplodenti e i milioni di soldati, senza imaginare come sarebbero tremendi alla prova quei giocatoli: è necessario che il secolo si faccia adulto e impari a maneggiare quegli ordigni con prudenza adeguata al pericolo!
Noi dovremo quindi invocare le ombre dei padri, perchè assistano l’Europa con la loro obliata saggezza a scampare dal passo mortale in cui si è avventurata per orgoglio e temerità. Noi dovremo invocare sopratutto le ombre di quei grandi che nel secolo decimottavo e decimonono insegnarono agli uomini a sentire che ci possa e ci debba essere una giustizia anche tra i popoli. Anche questo, tra i nuovi sentimenti che sono la dignità dei nostri tempi, è nato nel secolo decimottavo ed in Francia. Riaccantucciatosi nei cuori e nei libri, potè scampare al diluvio di fuoco che cadde sull’Europa, tra la fine del secolo decimottavo e il principio del secolo decimonono. Poi a poco a poco, nella lunga veglia di rimpianti e di speranze che corse tra la caduta dell’impero napoleonico e la rivoluzione del 1848, uscì dai suoi ripostigli; e travestito da sogno, percorse di soppiatto l’Europa, sotto gli occhi sospettosi delle polizie, guadagnando a migliaia le menti ed i cuori. Quando, ad un tratto, nel 1848, gettato il suo travestimento in mezzo a quel grande commovimento di popoli, il sogno perseguitato e proscritto parve in poche settimaneconquistare da sovrano l’Europa e diventare l’ordinatore di un mondo nuovo e più felice....
Invece la delusione fu pronta. Quanto lontani erano ancora i tempi del suo trionfo! Sopraggiunsero i rivolgimenti politici ed economici della seconda metà del secoloXIX, la êra del ferro e del fuoco, il chiassoso trionfo della quantità, la contaminazione delle classi e degli interessi, l’avvento della borghesia faccendiera. L’Europa confuse nella stessa definizione del progresso la vita e la morte, la distruzione e la creazione; e pur desiderando la pace lasciò i governi preparare e i filosofi predicare la guerra. Quel gran sentimento non fu più perseguitato dalla polizia, ma deriso e vilipeso. Si cercò di isolarlo, chiudendogli tutte le porte, la porta della scuola come la porta del parlamento. In ogni paese si tentò con diversa fortuna di innalzare, in mezzo al popolo, un monumento di ammirazione a Bismarck, non per altro scopo se non perchè con il suo ceffo di mastino agghiacciasse le anime che si lasciavano toccare dal nuovo sentimento. Agli sforzi che faceva per guadagnar le menti, i governi e i partiti rispondevano ironicamente fabbricando nuove armi e in quantità quasi infinita, e salariando, nelle Università e nei giornali, filosofi e filosofastri, che rispolverassero le vecchie teorie buone a far da contraveleno, tra le quali l’hegelianismo. Gli si rimproverò di esser mezzo cattolico e mezzo protestante; cattolico perchè aspirava ad essere trascendente ed eterno, protestante, in quanto pretendeva essere figlio della ragione: come se un sentimento, per esser in grado di dar ragione di se medesimo e di giustificare i suoi comandi, perdesseperciò il diritto di dirigere le menti al bene o si tramutasse in una impostura. Ma a dispetto di tutte queste critiche o miopi o maligne o interessate, il sentimento non è morto, appunto perchè era un sentimento vero, profondo, sgorgante dalle profondità dell’anima umana; e potrà salvar l’Europa dalla rovina perchè è capace di tracciare dei limiti all’orgoglio, all’ambizione e alla prepotenza dei popoli. Perciò noi dobbiamo ravvivare questo sentimento negli animi, precisarne le imposizioni con la ragione; far che imperi nella Europa nuova sulle masse sbigottite dalla catastrofe; su quelle masse che il secolo della quantità ha fatte arbitre di quasi ogni cosa: anche della guerra e della pace.
Nessuno potrebbe anticipare la sentenza del tempo, dalla quale dipende l’avvenire dell’Europa: tuttavia noi possiamo, prima di chiuder queste pagine, soffermarci un istante sopra un segno che già i tempi hanno manifestato. Il segno è forse piccolo in sè, ma può incoraggiare a sperare maturi davvero nella coscienza dell’Europa un progresso — un progresso non equivoco e incerto come tanti altri, di cui ci affrettammo troppo a compiacerci in passato; un progresso vero e sicuro, nel risorgere di antichi principî in mezzo al possente ma mostruoso disordine del mondo moderno.
Gli antichi avevano annoverato il vino tra gliDei, perchè giudicavano divina una bevanda che, bevuta con moderazione, ha la virtù di assopire i crucci, di infondere l’allegrezza, di stimolare l’imaginazione, di rasserenare e di esaltare la mente. Ma l’antico Dio, apparendo sulla terra in forme sempre più numerose e diverse, da un secolo in qua s’è convertito in un torbido e tetro demonio: non genera più la gaiezza e la gioia, ma la pazzia, il delitto, la sterilità, la discordia, la miseria, la morte. Tutti sanno di quante sciagure quella malattia, a cui i medici hanno dato nome di alcoolismo, è cagione in tutta l’Europa, e come due nazioni fossero più gravemente minacciate da due di queste fatali bevande: la Russia dallavodkae la Francia dall’absinthe.
Non è quindi da meravigliare se nei due paesi si cercassero farmaci al male. E quanti erano i medici! Uomini di Stato e di scienza, filantropi, preti, moralisti, capi di industria, maestri di scuola, gentili signore. Le Commissioni e le Società di propaganda create negli ultimi venticinque anni, e le leggi promulgate per ricondurre gli uomini della ebrietà alla sobrietà, non si contano; e neppure gli scritti pubblicati sulle cause e sulla cura del male. Tuttavia a dispetto di tanti medici, il male si aggravava in ogni paese, e massime in Francia ed in Russia. Il farmaco cercato dappertutto non si trovava in nessuna parte. La Scuola e la Chiesa erano egualmente impotenti. L’operaio ascoltava i buoni consigli e poi tornava alla bettola a berne un altro bicchiere. Scoraggiati, non pochi tra i medici conchiudevano che l’uomo è un essere naturalmente vizioso e che è inutile volerlo trattenere dal perdersi cercando il piacere. Qualcuno raccattavapersino delle scuse al vizio. Era poi proprio così funesto, come si diceva? E quale altro conforto alleggerisce all’operaio la sua pesante catena negli ergastoli dell’industrialismo moderno? Ogni uomo cerca di evadere con l’imaginazione, come può, ogni tanto, dal carcere angusto del mondo ove è prigioniero, per i liberi campi dell’infinito. Il bicchiere di vino o il bicchierino di liquore possono essere, per l’operaio che non ne conosce altra, la piccola finestra aperta sull’infinito.
Così l’Europa si inebriava liberamente, sebbene a molti, che questo ottimismo non illudeva, stringesse il cuore di veder così nobili razze imbestiarsi a quel modo. Ma non c’era rimedio! Quand’ecco scoppia la guerra europea.... Ed allora, considerando che se in tempi ordinari l’ubriachezza è un vizio pericoloso, pericolosissimo è in tempo di guerra, quando così quelli che prendono le armi come quelli che restano a casa devono far uso, per la salvezza comune, di quanto giudizio la natura fu loro larga, si è pensato — rimedio a cui nessuno fino ad allora aveva posto mente — di proibire che si fabbricassero e si spacciassero le bevande inebrianti più nocive. Non era l’ovo di Colombo? Il giorno in cui l’operaio e il contadino non troveranno più alla bettola la bibita perniciosa, non si ubriacheranno più o almeno si ubriacheranno meno. Detto, fatto: in tempo di guerra si va per le spiccie. Il giorno dopo che lo stato d’assedio era stato proclamato, l’autorità militare proibiva in tutta la Francia la vendita dell’absinthe; e appena il Parlamento francese fu riconvocato, subito approvò una legge che interdiceva persempre di fabbricare, vendere e importareabsinthein Francia. Poche settimane dopo che la guerra europea era scoppiata, lo Czar chiudeva tutte le fabbriche e tutti gli spacci divodkache in Russia appartenevano, per diritto di monopolio, allo Stato. E da dieci mesi in Russia e in Francia, se non si può dir che non si beva più nèvodkanèabsinthe— frodi e abusi non mancheranno mai nel mondo, finchè esisteranno uomini — la sobrietà è cresciuta e sono scemati gli effetti funesti dell’ubriachezza. Il rimedio, semplice ed efficace, è stato trovato.
Senonchè per quale ragione occorse tanto tempo — e nientemeno che un terremoto come la guerra europea — per trovare questo rimedio?
Infatti questo di cui parliamo non solo è un modo efficace per frenare nel popolo l’intemperanza, ma è il solo efficace. Due o tre secoli fa gli uomini, se erano per molti rispetti peggiori di noi, erano invece certamente più sobrî; ed erano più sobrî perchè non distillavano ogni anno tanti liquori e non pigiavano nei tini tanta uva; cosicchè ogni persona non ne poteva bevere che una parca misura. Qualche raro beone opulento poteva fare scempio della sua salute; la moltitudine povera e di modesta condizione, no. Perchè invece gli uomini si sono dati sfrenatamente al bere da un secolo; e proprio dopochè incominciò nel mondo l’êra della quantità? Perchè il secolo decimonono ha piantata la vigna in milioni di ettari incolti, perfino sulle terre strappate all’Islam, e al di là dell’Oceano; perchè ha ingrandite di mole e cresciute di numero a dismisura le fabbriche di birra; perchè ha inventati mille modi nuovi e ingegnosi didistillare da infinite sostanze l’alcool, e ha fabbricati, in gigantesche officine e per il mondo, dei liquori di cui una volta si fabbricavano ogni anno poche bottiglie in famiglia, seguendo una ricetta tradizionale. Ma dopo aver distillate tante bevande inebrianti, l’industria moderna doveva ben trovare il modo di farle ingoiare dal mondo. Non si dica infatti che oggi si fabbricano tante bevande inebrianti perchè il mondo è assetato; che il vizio è la causa e non l’effetto di questo grandissimo incremento del commercio del vino, della birra e dei liquori. No: qui come altrove e dappertutto, l’industria ha fatta l’abbondanza; e fatta l’abbondanza ha persuaso ogni uomo a largheggiare con sè e con gli altri, anche a rischio di sperperare.
È dunque chiaro che, sinchè l’industria potrà liberamente distillare bevande inebrianti quante vuole, come liberamente fila e tesse quante braccia di tela e di panno crede, l’intemperanza crescerà irrefrenata. L’industria sarà spinta a fabbricar misure sempre maggiori di bevande inebrianti; e il mondo dovrà ingoiare i fiumi di birra, di vino e di alcool di cui essa irrigherà il mondo ogni anno. La birreria e la bettola persuaderanno gli uomini a molto bevere il mattino e la sera, i giorni di festa e i giorni di lavoro; perchè l’uomo è naturalmente inclinato ad abusare di tutti i piaceri; e se gli date la libertà del vizio, ne abuserà certamente.... Insomma il nostro tempo aveva concessa la libertà di disordinare bevendo e poi si doleva che gli uomini ne abusassero; proprio come, dopo aver creato i più smisurati eserciti e averli armati delle armi più micidiali, non sadarsi pace che sia nata in Europa la guerra più vasta e lunga e sanguinosa della storia. Le due contradizioni sono simili, perchè sono figlie gemelle della stessa madre. Il secolo ha armati i più grandi eserciti, non perchè volesse suicidarsi in una guerra mondiale, ma perchè impegnatisi i popoli in una gara di orgoglio e di potenza, è mancata in Europa una forza, così interiore come esterna, che imponesse un limite agli armamenti. E ha concesso la libertà del vizio, non perchè fosse corrotto e perverso, ma perchè sollecito di far progredire l’industria e il commercio, non ha voluto riconoscere alcun limite — neppur le esigenze della salute, della morale e della bellezza — che rallentasse l’incremento della ricchezza: perciò ha spinto nel tempo stesso le industrie a produrre e gli uomini a consumare quante più cose potessero; a mangiare, a bere, a fumare, a divertirsi, a logorare e rinnovare vestiti, a viaggiare, a desiderar comodi nella misura maggiore. E perciò ha dovuto confondere i criterî che nelle società passate servivano a distinguere il consumo dallo spreco e il vizio dal bisogno; perchè, questi criterî, se fossero oggi chiari e precisi nella mente degli uomini, come due secoli fa, sarebbero limiti a quella libertà di crescere indefinitamente di cui tutte le industrie moderne sono così gelose; così come non ha saputo distinguere tra i servizi che la scienza e l’industria rendevano alla pace e quelli che rendevano alla guerra.
La guerra europea ha sciolta in un attimo questa contradizione, per quel che concerne il vizio del bere. Ha già ricondotti alcuni popoli dell’Europa ai principî che due o tre secoli fa regolavano il mondo.Imminente il pericolo, tutti hanno inteso che lo Stato ha il diritto e il dovere di impedire al popolo di suicidarsi lentamente inebriandosi; che la salute della razza e gli interessi della morale pubblica possono e debbono essere dei limiti a quella piena e intera libertà di abusare mortalmente dei piaceri, che i singoli si erano arrogati da un secolo in qua. Intenderà l’Europa con la stessa fatalità e rapidità che la guerra non deve essere — come è oggi in Europa — la selvaggia esplosione di tutte le energie di distruzione e di sacrificio, di odio e di amore, di bene e di male, che l’anima umana può accumulare nello spazio di una generazione sino all’estremo esaurimento di tutte le forze fisiche e morali di un popolo; alcunchè di simile a una forza della natura senza regola e legge? Che deve essere invece una istituzione umana, come la giustizia; un segno e un simbolo della forza di un popolo quanto più fedele si può e adeguato alla cosa significata, ma circoscritto entro limiti precisi, per i quali non possa essere più un flagello di Dio e uno sterminio di vincitori, di vinti e di neutri, ma uno strumento umano mosso dalla ragione e che la serva?
L’avvenire lo dirà. La volontà oscura e potente delle masse, che oggi combattono questa guerra ciclopica, deciderà. Quel che occorre è oggi un atto di volontà, un grande atto di volontà delle masse. Nei due ultimi secoli gli uomini hanno capovolto l’ordine di cose, in cui i loro padri avevano vissuto tanti secoli; hanno incominciata quella nuova e meravigliosa storia del mondo, di cui noi vediamo oggi la prima crisi veramente profonda, il vero segnograve di un disordine interno che può minacciare la morte, perchè hanno voluta la libertà, la ricchezza, la potenza, il sapere. I nostri figli e i nostri nipoti godranno la pace sicura e sincera, se gli uomini la vorranno sul serio, volendo anche tutto ciò che di una pace sicura e sincera è condizione necessaria. Onde in questo momento in cui tanti uomini sono in armi, e si spiano con il fucile spianato dalle feritoie delle trincee, e si cercano sui mari e sulle terre con i cannocchiali e con i cannoni, è proprio il caso di ripetere ai soldati della nuova e questa volta per davvero santa alleanza, ai soldati delle Potenze che dovettero subire questa guerra, perchè i due Imperi germanici la imposero a loro, la grande parola di Sant’Agostino: quella parola che dovrebbe essere la divisa della nuova Europa, sperata da quante menti si chiedono oggi angustiate se la più grande epoca della storia non stia per crollare sotto il peso dei suoi trionfi, desiderata confusamente dalle moltitudini umili e ignoranti che versano oscuramente su tanti campi di battaglia il loro sangue, anche da quelle che combattono nelle file degli eserciti assalitori:esto ergo bellando pacificas, ut eos, quos expugnas, ad pacis utilitatem vincendo perducas.
Fine.