CAPITOLO IX.Francesco e i suoi padrini erano giunti i primi al convegno; ma non ebbero ad aspettare di molto che un'altra carrozza soprarrivava al trotto serrato del suo cavallo, e fermandosi ancor essa a capo del viale, dove s'era fermata quella del dottor Quercia, ne scendevano il marchesino, il conte San Luca ed un altro giovane titolato amico di Baldissero.I due gruppi s'accostarono salutandosi. Quercia, coll'agevolezza d'un uomo praticissimo di queste faccende, cominciò a dire senz'altro:— Per molte ragioni che è inutile accennare — e fra le altre quella di questo freddo e di questa neve — stimo opportuno sollecitarci il più possibile. Qui dietro il muro del cimitero c'è una stradicciuola per cui a questa stagione, con questo tempo, non passa mai nessuno; se lor piace, possiamo recarci colà.Tutti annuirono con un chinar del capo. Benda e i suoi due padrini s'avviarono primi; a due passi di distanza vennero dietro loro il marchese e i suoi compagni.Giunti al luogo accennato da Quercia, i padrini si raccolsero a parlare, mentre Francesco per iscaldarsi i piedi faceva alcuni passi scalpitando sulla neve, lungo il muro del Campo Santo, e il marchesino terminava di fumare un suo sigaro d'Avana guardando la nebbia grigiastra che invadeva la campagna.— Ho portato una mia cassetta di pistole: disse Gian-Luigi. Giuro loro sul mio onore che esse sono affatto sconosciute all'avvocato Benda, il quale mai non le vide nemmanco.— Ancor io ho recato meco delle mie pistole: disse a sua volta San Luca; e faccio la stessa affermazione riguardo al marchese, che non le conosce nè punto nè poco.— Sta bene; tiriamo la sorte quali di queste armi si debbano adoperare.Il conte San Luca prese dalla sua borsa uno scudo e lo gettò in aria.— Testa: disse Quercia.Lo scudo caduto sulla neve mostrava il profilo di Luigi Filippo di Francia.— Ha vinto: disse il conte inchinandosi. Si adopereranno le loro armi.Gian-Luigi aprì la sua cassetta e prese a caricare le pistole in presenza degli altri tre padrini; quando ci aveva messo la polvere e il proiettile, passava l'arma al conte San Luca, il quale la innescava col cappellozzo.— Mi permettano una parola, signori: disse Quercia, poichè le armi furono pronte. Loro sanno che noi siamo gli offesi, e in che modo non occorre rammentare. Il duello adunque, come già ne patteggiammo ier sera il conte San Luca ed io, non avrà termine, finchè da parte nostra non ci dichiareremo soddisfatti.I padrini del marchese acconsentirono con un cenno di capo; quindi, salutatisi profondamente, Selva e Quercia si accostarono a Benda, mentre gli altri due si dirigevano verso il marchese.Armato ciascuno d'una pistola, i due avversari furono posti alla distanza di 15 passi l'uno dall'altro.— L'arma è buona: disse Quercia a Francesco: e non iscarta punto. Mirate giusto a metà corpo; il grilletto non è duro.— Va bene: rispose freddamente il giovane; e poi stringendo forte la mano a Giovanni, gli susurrò all'orecchio: — In ogni caso ti raccomando sopratutto mia madre, ricordati!Giovanni corrispose con una stretta di mano forte del pari, che era una promessa ed un solenne impegno.— Signori: disse ad alta voce il dottore, ponendosi cogli altri padrini a metà della distanza fra i due combattenti: signori, batterò tre colpi colle mani, al primo essi armeranno la loro pistola, al secondo prenderanno la mira, al terzo faranno fuoco.Egli s'apprestava a battere il primo colpo, quando due carabinieri voltarono correndo la cantonata del muro e comparvero sulla scena gridando:— Ferma, ferma!Il marchesino che dava le spalle al luogo onde venivano i carabinieri, si voltò, e viste le monture degli agenti della forza pubblica, la sua faccia espresse la più disgustosa meraviglia.— Oh, oh! esclamò egli con disdegno: c'è qualcuno che ha saputo informare per bene la polizia del nostro ritrovo e della cagione di esso.E gettò uno sguardo supremamente sprezzoso sopra Francesco e i suoi padrini che s'erano accostati a gruppo.— Signor sì: disse con isdegnosa insolenza Gian-Luigi. Tutto sta a vedere da qual parte debba cercarsi questo qualcheduno.Baldissero arrossì fin sulla fronte.— Per Dio! Ella oserebbe sospettare di noi?— Ella osa bene mostrare sospetto sul conto nostro.A quel punto comparve alla cantonata del muro un uomo studiosamente avviluppato in un mantello, avresti detto più ancora per nascondersi la faccia che per ripararsi dal freddo. Era messer Barnaba che veniva a sopravvegliare l'esecuzione degli ordini ricevuti.— Qua le armi: disse uno dei carabinieri, e lor signori ci dicano tosto il loro nome.Scrissero il nome di tutti un per uno sopra un loro taccuino.— È finita la commedia? Disse il marchesino con isprezzante ironia.— Finita o non finita; rimbeccò con vivacità Gian-Luigi, non fa punto onore al suo autore; e ciò posso affermare con sicurezza, che simile indegno personaggio non si trova fra noi tre.— Questa è quistione, rispose superbamente di Baldissero, la quale potrebbe venir sciolta altrove fra di noi, se il modo con cui ha avuto termine la presente non ci levasse del tutto il coraggio e la voglia di siffatte partite con simil gente.— Tregua agl'insulti! Gridò con imponente accento il dottor Quercia facendo un passo verso il marchesino; ma più innanzi verso codestui si fece Francesco Benda che schizzava fiamme dagli occhi.— Oh che crede Ella che in questo modo tutto abbia avuto termine fra noi? Non sarà così, per Dio! a niun conto.L'uomo dal mantello s'accostò d'un passo al gruppo de' nostri personaggi e col capo accennò ai carabinieri la persona di colui che aveva parlato per ultimo.— È dunque Lei l'avvocato Francesco Benda? Dissero i carabinieri, mettendosi innanzi al giovane e disgiungendolo così dal marchesino.— Sì.— Ella avrà la compiacenza di venire con noi sino dal signor Commissario di polizia che molto desidera parlarle.Tutti gli astanti fecero un moto di spiacevole meraviglia.— Io? Esclamò Benda. A qual fine?— Glie lo dirà il signor Commissario.— E se mi rifiutassi d'andarvi?— Saremmo costretti di condurvelo colla forza.— È dunque un arresto il mio?I carabinieri fecero un cenno affermativo.L'impressione fu in tutti viva e diversa: Gian-Luigi diede una rapida sguardata all'ingiro, come per vedere se vi fossero probabilità di fuga; Selva si avanzò quasi minaccioso come per opporre la resistenza a quell'atto prepotente; il marchesino ed i suoi compagni mostrarono un orgoglioso disdegno.— Ecchè? Disse superbamente Baldissero. Avete ordine di arrestarci?— Lei no, signor marchese, risposero i carabinieri, nè altri qui dall'avv. Benda in fuori.Selva e Francesco erano un po' impalliditi. La loro mente era corsa alla congiura che paventavano fosse scoperta. Quercia che osservava tutto, s'accorse come vi dovesse essere alcuna ragione da far temere ai due giovani più triste conseguenze da quell'arresto che non quelle cui avrebbe avuto il duello mancato: si rivolse al marchesino e gli disse vivamente:— Ella vede quanto fossero ingiusti i suoi sospetti. Il suo onore medesimo, signor marchese, non consente che lasci così arrestare il suo avversario.Baldissero lo interruppe con un gesto vibrato che voleva dire: — Ho capito e so ben io che cosa mi tocca di fare; poi con quell'accento di supremazia che dà la coscienza del proprio grado, disse agli agenti della forza pubblica:— Io sono il figliuolo del marchese di Baldissero ministro di Stato. Rispondo io per l'avv. Benda.— Do la mia parola, esclamò vivamente Francesco, che mi presenterò io stesso questa mattina medesima dal signor Commissario: ma prima lasciatemi andare a riabbracciare la mia famiglia.— Siamo dunque intesi: soggiunse il marchesino con quel tono d'autorità; andate pure, e dite ai vostri superiori che io mi sono reso cauzione di lui.I carabinieri parvero esitare; ma l'uomo dal mantello fece un altro passo ed un altro cenno.— Ci rincresce davvero: disse allora uno dei carabinieri; ma non possiamo assecondare il suo desiderio. I nostri ordini sono precisi e formali.Gian-Luigi, fin dal primo momento che Barnaba era comparso, lo era venuto esaminando con occhio acutamente investigatore.Hai bel coprirti la faccia, diceva a se stesso, ti riconoscerò quel medesimo ad ogni volta che mi avvenga di vederti.— Se la è così, disse Francesco, è inutile ogni altro indugio. Andiamo pure, o signori: e tu Giovanni, soggiunse volgendosi a Selva, non tardare a recar di mie notizie a casa mia.Camminarono verso il luogo dove avevano lasciato le carrozze. Il cocchiere del dottor Quercia aveva gli occhi fissi sul suo pseudo-padrone che si accostava, e questi aveva lo sguardo intento sul suo cocchiere. Fu un cenno leggerissimo di Gian-Luigi, colto a volo da quella faccia furba di cocchiere, o fu veramente che il vivace cavallo attaccato al legno del dottore si spaventasse d'alcunacosa? Il fatto è che quella stupenda bestia fece un balzo, e, come se avesse tolto la mano al guidatore, prese a correre giù della strada del Parco. Non ci fu più che la carrozza del marchesino di cui si potessero servire i carabinieri per condurre l'arrestato. Vi salirono i militari con Francesco; l'uomo dal mantello salì a cassetta presso il cocchiere e la carrozza partì di trotto serrato.— Signor marchese; disse Gian-Luigi a Baldissero, il quale si vedeva essere turbato e spiacentissimo di questo fatto: Ella non abbandonerà, ne son persuaso, l'avv. Benda.— No certo: rispose vivamente il marchesino. Qui è avvenuto non so qual disgradevole equivoco, che mi affretterò a far dileguare. Quanto a difendermi dal sospetto che io possa in alcun modo aver contribuito a questo spiacevole incidente, credo non averne bisogno.Quercia e Selva s'inchinarono leggermente.In quella la carrozza del dottore tornava a quel luogo col cavallo affatto ammansato.— Mi rincresce, disse Gian-Luigi al marchesino ed ai suoi compagni, non poter offrir loro un posto nel mio legnetto. Lo lascierei anzi del tutto a loro servizio, se noi non avessimo il dovere di correre il più sollecitamente possibile in casa Benda.I nobili avversarii non risposero che con un saluto. Selva si precipitò nella carrozza, e Quercia, salendovi esso pure, diede al cocchiere l'indirizzo dell'officina e soggiunse:— Di galoppo.La carrozza partì come una saetta sprigionata dalla cocca.— Benda avrebbe qualche motivo da temere una perquisizione? Domandò Gian-Luigi al suo compagno, mentre la carrozza andava colla rapidità del vento.— Pur troppo!— Bene. Può darsi che arriviamo prima di quelli che verranno a farla. Ella ha tutta la fiducia di Benda e della sua famiglia?— Sì.— Ella dunque si affretterà a fare scomparire ciò che possa compromettere il suo amico.— È quello appunto che pensavo di fare.Abbiamo veduto come di poco essi avanzassero in casa Benda Barnaba e i carabinieri che venivano a fare la perquisizione.Ora seguitiamo Francesco, il quale viene condotto alla presenza del terribile signor commissario Tofi.Il signor Commissario aveva dormito poco e male. Per la mente commossa tutta notte s'erano dimenate le rivelazioni di Barnaba ad eccitarne lo zelo irrequieto, operoso e prepotente. Egli aveva sognato degli arresti a fusone, e la sua fantasia s'era deliziata nella visione d'un reggimento di liberali mandato a impallidire dietro le inferriate del forte di Fenestrelle. S'arrabbiava della impotenza relativa a cui lo condannava la sua condizione di subalterno, e s'angustiava per non essere in grado di tradurre in atto di propria autorità lo splendido disegno della sua poliziesca immaginativa. Avrebbe dato non so che cosa per trovarsi ventiquattr'ore almanco nell'uniforme da generale del conte Barranchi.Effetto di questa insonnia si fu che, appena il mattino, il signor Tofi era nell'anticamera del suo superiore ad insistere presso un domestico sonnoloso che sbadigliava, affinchè lo introducesse presso il padrone. Il domestico che sapeva bene non trattarsi di giuggiole, quando la faccia scura e il soprabito lungo del Commissario comparivano in quelle soglie, si lasciò vincere dalle imperiose parole di messer Tofi ed osò introdursi nella camera del conte a turbarne i dolci sonni mattutini.Si ha bell'essere generale dei carabinieri reali e comandante supremo della Polizia, e tuttavia non si va esente da qualche piccolo difettuccio. Ahimè! Non c'è nessuno di perfetto su questa terra. Il conte Barranchi amava supremamente due cose: mangiar molto e bene con ghiottoneria istruita a perfezione nella difficil arte della cucina, e dormire beatamente la grassa mattinata. La sera innanzi egli avea pranzato a Corte, dove i pranzi di Carlo Alberto erano conosciuti per parsimoniosa frugalità; la notte aveva dovuto vegliarla al ballo, ed a sbrigar poi varie faccende, di cui lo aveva intrattenuto il Commissario: e quindi era naturale e necessaria conseguenza di ciò che il suo umore fin dalla sera innanzi non si trovasse nello stadio della sua maggiore amenità, e che massimo fosse in lui il desiderio e il bisogno di dormire tranquillamente sino all'alba dei tafani.Per dire il vero, affatto affatto ameno l'umore del signor generale non lo era pur mai. Il suo carattere brusco e violento si era di molto rinforzato nell'impertinente disdegno d'altrui mercè la prepotenza concessa al suo grado ed alle sue funzioni. I suoi modi erano aspri come quegli ispidi baffi che gli ombreggiavano il labbro superiore. Avvezzo a parlare a carabinieri che lo ascoltavano in posture di rispetto per obbedirlo ciecamente, ad inferiori e subordinati che s'inchinavano innanzi allo scoppio della sua voce, come le umili erbe del prato al passaggio del vento, a poveri diavoli o timorosi o colpevoli che tremavano alla impettita severità del suo aspetto, il conte Barranchi trattava con tutti ch'ei non credesse suoi pari, come un caporal tamburo tratta con un allievo tamburino. Figuratevi un po' che cosa dovesse essere quest'umore quella mattina in cui il domestico venne a rompergli il più quieto dei sonni per dirgli che il Commissario era lì che voleva parlargli! Il fatto d'essere stato svegliato era già doloroso e grave; ma vi era di più che sotto il soprabitone del Commissario venivano occupazioni e fastidi da non lasciarlo riaddormentar poi, perchè era persuasoche senza una pressante necessità Tofi non l'avrebbe disturbato. Il signor conte, che bestemmiava in francese, quantunque fosse austriaco in cuore, sparò una dozzina disacrebleu!minacciò di prendere il domestico per il collo, diede un pugno sul tavolino da notte che mandò in aria ilverre d'eaudi cristallo di Boemia, agitò minacciosamente la ciocca di cotone che si drizzava con superbia in alto del suo berrettino notturno, e finì per dire che quel malaugurato signor Commissario fosse introdotto.Tofi si avanzò con aspetto umile ma sicuro. La pervicacia della sua natura, la coscienza del suo merito poliziesco, l'essere addentro in tutti i misteri di quell'ufficio e in più a varii degli altri rami dell'amministrazione, gli davano eziandio, appetto al suo bizzarro superiore, una certa sicurezza di sè, che, trattandosi d'altro e per altre attinenze, avrebbe potuto anche dirsi dignità. Ciò non toglieva punto che S. E. il conte Barranchi non lo strapazzasse come un cane.E fu appunto con una vera bordata d'improperii che il sig. Tofi venne accolto quella fatale mattina. E che gli era insopportabile l'essere perseguitato in quella maniera; e che fastidiosissimo e da sdegnar chicchessia non avere un Commissario che valesse a far da sè e sapesse come governarsi, senza venir a romper la testa e il sonno ad ogni momento a cui la sua alta posizione avrebbe dovuto lasciare piùloisirse meno seccature: parlasse presto e poco e bene, e guai a lui se le comunicazioni che aveva da fargli non fossero di tanta importanza da scusare quell'irriverente procedere.Il Commissario, dritto nella postura del soldato senz'armi, il suo largo cappello in mano, i suoi occhi infossati, fissi sul generale, la faccia ossea ferma sul cravattino duro, ascoltò impassibile la sfuriata del conte, e poi colla sua voce rauca, bassa, contenuta, disse ordinatamente e laconicamente quanto aveva appreso da Barnaba.A prima giunta siffatte informazioni non parvero abbastanza di rilievo al bravo signor generale. Gridò sbuffando che gli era un prendersi gabbo di lui il venirlo a sturbare per sì poca cosa. Bel miracolo che quattro arfasatti di liberale si radunassero in casa d'un pitocco per combriccolare; cani che vogliono prender la luna coi denti. Che sì che lo Stato aveva da tremare di que' mascalzoni! I becchi d'un cappello da carabiniere li avrebbe fatti scappar tutti come una legione di diavoli dall'acquasantino. Poi se la prese con questa empia incorreggibil razza dei liberali, stupidi matti che avrebbero potuto mangiar e bere e star tranquilli, e volevano ficcare il becco in ciò che loro non toccava. Gli era tempo di finirla mercè qualche buon provvedimento di rigore con questi paladini del disordine; ecchè eravi egli bisogno di andarlo a disturbare di quella guisa, un Commissario che sapesse secondo conviene il dover suo? Si arrestava, si procedeva, si perquisiva; e poi quando e individui, e carte, e tutto, fosse al sicuro, si aspettava un'ora un po' da cristiano per andarne a romper la testa al proprio superiore.Tofi sostenne la seconda bordata colla medesima impassibilità colla quale aveva sopportata la prima; quando il conte si tacque, il Commissario fece balenare le sue pupille grifagne nelle occhiaie incavate e chinò leggermente la testa in moto affermativo.— Va bene, e mi basta: diss'egli. Avevo appunto in animo di far così; ma le sue raccomandazioni di temperanza ultimamente fattemi e ripetutemi erano riuscite a pormene un po' in suggezione. Ora le sue parole mi levano ogni scrupolo ed io non mancherò di fare secondo le mie ispirazioni. Mi rincresce aver disturbata S. E.: non la scomodo oltre e vado a dar gli ordini che mi sembreranno più opportuni.E girò sui suoi talloni per avviarsi alla porta da cui era entrato.— Un momento, un momento: gridò il conte levandosi a sedere sul letto, appoggiato al gomito. Diavolo! Come voi ci andate di gamba lesta. Corpo d'uno squadrone! Innanzi a S. M. sono io che porto la responsabilità di tutto.La risposta di Tofi gli aveva richiamato alla mente le rampogne fattegli dal pallido, severo labbro di Carlo Alberto per alcune maggiori prepotenze commesse da ultimo dalla Polizia, gli avevano ricordato che ancora il giorno prima il Re, fermandosi innanzi a lui a favorirlo di quella mezza dozzina di parole che soleva regalare ad ogni convitato, facendo il giro della sala dopo il pranzo, avevagli detto:— E la sua Polizia, conte Barranchi?— Cammina alla perfezione: aveva risposto il generale inchinandosi.— Va bene: aveva soggiunto il Re. Spero che non sentirò più richiami di sorta per eccessi che ella commetta. Bisogna essere vigilanti, severi, ma nei limiti delle leggi e senza violare i diritti dei cittadini. Si ricordi, conte, che è mia intenzione precisa che la Polizia nei miei Stati cessi d'essere un arbitrio e diventi sempre più una magistratura.Il generale non aveva saputo far altra risposta che inchinarsi di nuovo ed il Re era passato.Che cosa precisamente significassero le parole di Carlo Alberto, lo spirito poco arguto del conte Barranchi non lo capiva ben bene. La Polizia una magistratura? Egli non vedeva nessun'attinenza fra queste due cose La Polizia e la sciabola, meno male! Ma il Re da qualche tempo si piaceva a tirar fuori di queste frasi; e il marchese di Villamarina, ministro della guerra, da cui Barranchi dipendeva direttamente, sembrava d'accordo col Re. Ragione di più per acconciarsi a quelle intenzioni, che infin dei conti erano di mettere la sordina allo zelo degli agenti. Ma il Re aveva pur detto che bisognava essere severi e vigilanti. Fin dove andava la vigilanza e la severità che piacevano al Re, senza cadere in quell'arbitrio ch'ei non voleva più tollerare? La quistione era troppo seria e complicata per i mezzi intellettuali del fiero comandante della Polizia; e questa aggrovigliata quistione gli avevano riposta innanzi in tutta la sua gravità le ultime parole del commissario Tofi.Questi s'era fermato come un buon fantaccino che abbia udito il comando dell'alt. Si rivolse di nuovo verso il generale e col medesimo tono e colla medesima voce di prima disse:— Abbia dunque la compiacenza di darmi i suoi ordini. Debbo lasciar correr l'acqua alla china e lavarmene le mani?Il conte ricordò la severità e la vigilanza inculcatagli.— Mai più, mai più: esclamò corrugando fieramente le sue sopracciglia ispide come i baffi.— Debbo arrestarli tutti?Barranchi sentì a suonare la frase che non bisognava violare i diritti dei cittadini, i quali al giusto egli non sapeva che cosa si fossero. Si grattò il berretto di cotone in testa, e mai faccia da generale dei carabinieri non espresse l'indecisione e l'imbarazzo come fece in quel momento il volto fiero del conte Barranchi.— Tutti? Cospetto! Tutti addirittura? Si potrebbe vedere, esaminare... Uno di quei che mi avete nominato è un bastardo; peuh! certo che nessuno verrà a muover richiami per esso... Arrestatelo... Un altro è un ciarlatano da teatro e forestiero; anche per lui non ci sarà chi metterà innanzi pur un piede... Pigliatelo... Quell'impertinente d'un avvocato Benda abbiam già deciso diarchiviarlo. Eh! una retata di tre gli è qualche cosa. Circa gli altri, guardate voi, fate voi... Avrete in mano qualche carta, qualche documento di cui vi potrete impadronire nelle perquisizioni che farete. Regolatevi dietro di ciò; che cosa volete che vi dica? Voi dovete esser pratico del servizio; lo siete più d'ogni altro: sapete meglio di chicchessia ciò che vi tocca di fare. Fate adunque in vostra buon'ora, e fate bene.Si lasciò ricadere sul letto, come uomo che ha finito di spiegare le sue volontà e brama essere lasciato tranquillo; ma quando Tofi era già all'uscio, il generale si ridrizzò di nuovo con mezzo il corpo e colla sua voce tremenda da comandante di brigata in piazza d'armi soggiunse:— Badate che lascio a voi la responsabilità di tutto. Siate severo, siate vigilante... ma guai a voi se mi fate prendere una rampogna da S. M.Tofi uscì più perplesso di quanto fosse al venir suo; ed un'irritazione profonda contro Barranchi e contro tutti gli accresceva il maligno talento della sua natura. A lui toccava operare, ma se l'operato fosse stato creduto degno di lodi, queste sarebbero andate al conte Barranchi, se di biasimi, su di lui sarebbero piombati i più crudi, non senza pericolo ancora di qualche cosa di peggio che biasimi. In quell'occasione in cui a cagione di qualche eccesso di arbitrio, il conte Barranchi aveva avuto i rimproveri del Re, il commissario Tofi, su cui naturalmente s'era venuta a scaricare l'ira del generale aveva sentito scoppiar alle sue orecchie niente meno che la minaccia d'esser tolto a quel posto che da tanti anni occupava. Questa era per lui la peggior sciagura che ei potesse immaginare, e il solo pensiero ne lo spaventava tremendamente. Prima di tutto quel posto gli era carissimo per amore di artista che aveva collocato nel suo mestiere; poi eragli un'autorità di cui si compiaceva infinitamente ed una salvaguardia personale di cui sentiva vivissimo il bisogno. Nella sua lunga carriera egli aveva così perseverantemente offeso l'interesse, il carattere, l'onoratezza di tanti individui che ben sapeva avere ammassato sul suo nome un tesoro incalcolabile d'odio, cui la sua qualità sola impediva dal prorompere. Quel giorno in cui egli non fosse più nulla sarebbe stato oppresso dall'esplosione dello spregio e dell'animavversione pubblica; altro non gli sarebbe rimasto che fuggire per andare a nascondere in chi sa qual remota solitudine la sua imprecata e maledetta vecchiaia.Con quella profonda irritazione che aveva in corpo, il Commissario si era recato nel suo uffizio di Piazza Castello e si disponeva a ricevere l'arrestato quando gli fosse condotto dinanzi.Si era nella seconda camera, in mezzo della quale stava la tavola lunga collo sporco tappeto di panno verde. Alla scrivania sedeva un impiegato che, per la fredda temperatura, di quando in quando dava in uno scossone di brivido e soffiava sulle mani per iscaldarsele. Tofi passeggiava su e giù della stanza con passo concitato, il cappellone piantato in testa e le mani affondate nelle larghe tasche laterali del soprabito.Ad un punto Barnaba socchiuse la porta che metteva nel corridoio e cacciò dentro la sua faccia scialba, appuntata, da faina.— Gli è qui il merlotto.— Ah ah, va bene.Tofi trasse di tasca le sue grosse manaccie e si pose a fregarsele l'una coll'altra facendo chioccare le giunture delle dita premendosele.— Come andò la faccenda? Dite spiccio.Barnaba in poche parole raccontò ciò che era avvenuto presso il cimitero.— Cospetto! Avevate colà anche quel Selva; potevate prenderlo.— Ci ho pensato.— Ma no; è meglio si abbia qualche altro pretesto. Voi correte subito a perquisire la casa Bendacon quanti uomini crediate aver bisogno. Mandate il Rosso con altrettanti in via ***, n. 7, a fare il medesimo da quel pittore, e si arrestino quel Maurilio Nulla e quel Medoro Bigonci. Gli altri vedremo poi. Andate. Dite che s'introduca l'arrestato.Barnaba sparì.Tosto dopo entrò Francesco e dietro di lui due carabinieri; questi si fermarono presso l'uscio; il giovane s'inoltrò nella stanza fino presso alla tavola. Era un po' pallido ancora, ma il suo aspetto non dinotava la menoma trepidazione. Il Commissario seguitava a passeggiare su e giù dall'altra parte della tavola guardando di sottecchi Francesco e brontolando inintelligibili parole fra i denti. Ad un tratto Tofi si piantò innanzi al giovane in atto minaccioso ed affondando le sue manaccie nelle tasche, disse con tono imperioso e villano:— Dove si crede di essere Lei?Benda esitò un momentino a rispondere, poi con una calma dignitosa disse fissando il suo limpido sguardo sulla faccia terrea e cupa del sig. Tofi:— Il luogo, la compagnia che ho qui meco, il suo aspetto, il tono con cui Ella mi parla, mi dicono abbastanza che io sono in presenza del Commissario di Polizia.— Ah sì? Riprese questi ingrossando vieppiù la voce ed aggrottando vieppiù le sopracciglia. E innanzi al Commissario Lei pensa di potersi rimanere col suo bravo cappello in testa, eh?Francesco seguitò a guardare la faccia cupa del signor Commissario nello stesso modo franco e sicuro.— Ella, rispose, sta bene col cappello in capo innanzi a me.L'audacia della risposta fece sussultare l'impiegato subalterno alla sua scrivania, fece guardarsi in volto i due carabinieri come per interrogarsi mutuamente che cosa avessero da fare in presenza di tanta temerità. Tofi mandò un'esclamazione fra i denti che pareva un grugnito.— Carabinieri! Diss'egli poi colla voce più rauca e più aspra del solito: tirate giù il cappello al signore.Uno dei carabinieri, colla canna della carabina ond'erano armati, diede un colpo al cappello di Benda e lo mandò per terra. Il giovane non si mosse, ma arrossì fino alla radice dei capelli.Tofi fece di nuovo due o tre giri per la stanza senza parlare; poi fermandosi presso alla scrivanìa dov'era l'impiegato:— Siete pronto a scrivere? Disse.L'impiegato prese la penna in mano e fece un cenno affermativo. Allora incominciò l'interrogatorio. Francesco rispose asciuttamente alle domande fattegli sull'esser suo: nome, cognome, figliazione, patria, età, ecc.— Che cosa faceva Lei al Camposanto a quell'ora mattutina? Domandò poi il Commissario.Benda parve studiare un momento la risposta da farsi, e poi disse:— Se Ella sa la ragione per cui io mi trovava colà, è inutile ch'io glie la ripeta, se poi non la sa stimo niente affatto di mio dovere il dirgliela.Tofi proruppe, sbuffando, in una esclamazione di collera.— Oh oh! Crede Lei di poter far qui il bello spirito ed il capo ameno? Probabilmente Lei non conosce ancora bene chi sia il commissario Tofi.Il giovane chinò leggermente la testa e fece un ironico sorriso come per significare che lo conosceva appuntino.Tofi si volse allo scrivano:— Scrivete che interrogato se si fosse recato là dove venne arrestato col criminoso proposito di cimentarsi in duello contro il marchese Ettore di Baldissero, rispose affermativamente.— Io non ho detto così: esclamò Francesco.— Vorrebbe forse negare ciò che sappiamo perfettamente?— Io non nego, ma.....— Dunque?.... (E allo scrivano) scrivete come vi ho detto.— Protesto.— Protesti quanto vuole, e tiriamo innanzi.— Sul terreno si trovavano il dottor Quercia e l'avv. Selva?— I carabinieri che ci sorpresero scrissero il nome di tutti coloro che eran colà.— Quelli che ho or ora nominati erano suoi padrini?— Mi accompagnavano.Tofi gettò sopra il giovane uno sguardo feroce che avrebbe potuto paragonarsi a quello d'un animale di preda sopra la vittima che sta per isbranare.— Qui si vuole schermire di finezza con me. Cattivo partito, signore, cattivo partito, glie lo dico io..... Risponda franco, sincero, la verità, e tutta la verità: e ne avrà maggior vantaggio. Quei signori sono suoi amici?— Sì.— Specialmente il Selva?— Siamo stati compagni fino dalla prima adolescenza.— Ella conosce le idee e le opinioni di questo suo intimo amico?— Io so che quello è il più onorato e più dabben giovane che sia al mondo.Il Commissario ruppe in uno scoppio di quella sua voce aspra e vibrata.— Ah onorato? Ah dabbene? Gridò egli incrociando le braccia al petto ed atteggiando sul cravattino duro il suo mento quadrato con mossa minacciosa. No signore che non è un giovane onorato; no signore che non è un giovane dabbene.....Francesco ebbe il coraggio d'interrompere il signor Tofi, parlando ancor egli di forza:— Signor Commissario, io non soffro smentite, e tanto meno soffro che si oltraggi con esse l'amico che ho più caro e che stimo di più.....Il Commissario gli troncò le parole con esclamazione violenta, venendogli presso, la faccia contratta dall'ira, lo sguardo più acceso che mai sotto le folte sopracciglia:— Lei non soffre?! Ma dove si crede Ella di essere? Con chi si crede di parlare?... Sono io che non soffro di queste arie in chi mi viene dinanzi, sa!... Badi che io fo presto a levar la superbia ai pari suoi. Ne ho domati di più audaci. Se la mi stuzzica la faccio cacciare alcrottonea pane ed acqua, finchè le sia passato il ruzzo di fare il bell'umore. Il suo amico non è un giovane onorato, non è un giovane dabbene, perchè chi è onorato e dabbene ha rispetto ed obbedienza per le legittime autorità, non osa censurare il Governo del suo sovrano, non isparla de' suoi superiori e dei ministri della santa religione cattolica, non desidera e non cerca sovvertimenti nello Stato, non congiura contro il trono del principe di cui ha la fortuna e l'onore di essere suddito. E questo suo amico fa tutto ciò e peggio. E Lei lo sa, e Lei partecipa a questi empi intendimenti.Francesco tacque un istante, sbalordito a codesta sfuriata; poi superando la trepidazione che quelle parole gli avevano fatto nascere — trepidazione naturale, perchè in quei tempi la Polizia non era menomamente impacciata da nessun ostacolo di legalità a mandare a Fenestrelle chi le paresse suddito non abbastanza devoto — disse colla calma che potè maggiore:— Credevo d'esser qui per cagione della mia contesa col marchese di Baldissero, e non pensavo mai più di aver da rispondere per altre cose e pel fatto di altri.— Ella è qui per tutto quello su cui mi piacerà interrogarla... Crede Lei che la Polizia non sappia appuntino ciò che lor signori fanno e dicono e pensano? Da molto tempo abbiamo gli occhi su di loro e ne seguitiamo i passi e le gesta. Noi sappiamotutto, signore.....TUTTO! Ripetè pesando sulla parola.Fece una piccola pausa e poi riprese:— Ella conosce di molto anche il pittore Vanardi?— Sì.— Va spesso a casa di lui?— Qualche volta.— Spesso. E colà vi si tengono delle conventicole che durano fino a notte inoltrata.— Ci troviamo in alcuni amici e stiamo insieme a discorrere.— Vorrebbe dirmi di che cosa si discorre?— Mah! Di mille cose e di nulla... di arte e di letteratura sopratutto.— E per discorrere di codesto si chiudono in istanza ed impiegano parte della notte? Mi parli un po' di coloro che prendono parte a questi discorsi?— Siamo in parecchi amici, quasi tutti compagni di Università.....— I nomi, i nomi. Dica su come si chiamano.Benda esitò.— Ecchè? Disse il Commissario con perfida ironia. Per una cosa cotanto semplice ha forse scrupolo a dire il nome dei suoi compagni? Be': ve lo aiuterò io. V'è prima quel Selva; poi il padron di casa, poi un certo Maurilio Nulla... Appunto! Parliamo un momentino di codestui. Lei lo conosce bene?— Sì.— È suo amico?— Sì.— Sa che questa la è strana? Ella che è ricco ed appartiene ad una famiglia di ricchi commercianti, come va che si trova in intima relazione con quel cotale, che viene dalle più basse regioni del volgo? Conosce Ella bene il passato di quel giovane?— Lo conosco.— E ciò nulla meno Ella non ha avuto il menomo ribrezzo di stringere tanta attinenza con un trovatello, che fu accusato del più orribile dei delitti, che passò varii mesi in carcere, che non possiede nulla al mondo e si guadagna la vita non si sa ben come? Una simile amicizia non è degna di Lei e non è affatto naturale.— Ho avuto campo di conoscere che in quell'infelice vi è un'anima nobilissima ed un'intelligenza superiore, e ciò mi basta per farmelo amare e stimare. L'essere povero e trovatello non è cosa di cui egli abbia colpa, e soltanto il pregiudizio può crederlo un disdoro; ch'egli sia rimasto in carcere accusato d'un orribile delitto non l'ho mai saputo, e non lo credo così di piano....— Cospetto! Quando glie lo dico io!....— Ad ogni modo io, giudicando da quello che conosco di lui, debbo credere ch'egli sia stato innocente.....— Parliamo un poco d'un altro: voglio dire Medoro Bigonci. Anche di costui non so vedere alcuna ragione perchè partecipi a così stretti e confidenti colloquii da amico.— Egli abita con Vanardi..... Del resto non prende parte quasi mai alle nostre riunioni.— Ah no? A me le mie informazioni mi dicono diversamente. E le mie informazioni mi dicono molte cose, sa, che altri crede affatto nascoste..... Vuol saperne una, per esempio?Si accostò ancora più presso a Francesco e gli disse con voce sommessa, ma piena di forza:— Mi dicono che Medoro Bigonci non è il vero nome di quel tale, ma ch'egli chiamasi Mario Tiburzio.Benda non fu tanto padrone di sè che non desseindietro d'un passo e che non impallidisse nel volto.Tofi vide l'emozione del giovane e ne conchiuse fra sè issofatto che Barnaba non s'era ingannato e che Francesco Benda era istrutto del vero essere di quell'individuo. Col proposito di atterrire l'arrestato e di ottenerne in questo modo alcuna confessione od almanco una più imprudente risposta, il Commissario continuò colla medesima voce sommessa ma fremente di minaccia:— Ora Ella capirà agevolmente che la sua condizione non è così buona e i carichi che pesano su di lui non sono così lievi da permetterle tanta temerità e tanta sicurezza. Mario Tiburzio è un agente di Mazzini. Il solo essere in rapporto con lui è gravissima colpa, è delitto di Stato. Siffatte audacie dei mandatari di quello scellerato rivoluzionario che vengono a sedurre e sommuovere la gioventù nel nostro Stato sono oramai troppe. Il Governo di S. M. è deciso di porvi fine e di tagliare il male dalla radice. Qualunque siasi che abbia intinto in siffatta pece si è deciso di deportarlo senz'altro in Sardegna.— In Sardegna! Esclamò Francesco, il quale non potè nascondere il suo sgomento. Egli pensò alla sua famiglia, al dolore che i suoi cari avrebbero provato, all'oggetto dell'amor suo che forse non avrebbe potuto veder più, ed uno spasimo indicibile gli strinse il cuore.— Sì signore, in Sardegna: ripetè il Commissario, il quale s'accorse e fu lieto dell'effetto prodotto dalle sue parole. E primi di tutti i caporioni e i più pervicaci. Il Governo fu finora troppo magnanimo, troppo tollerante: è gran tempo che alla fine eserciti tutto il suo rigore. Nessuna pietà, nessun riguardo per i nemici dell'ordine e del Sovrano. Se si farà qualche distinzione fra essi, se si potrà essere più miti verso alcuni, sarà soltanto per coloro i quali col loro contegno dimostreranno come da illusione giovanile, da inconsideratezza meglio che da perversità d'animo furono tratti a fallire, per coloro che proveranno colla sincerità delle loro dichiarazioni il proprio pentimento. Mi capisce?Le parole del Commissario erano troppo chiare per non essere capite. Francesco che colla forza della volontà aveva rinfrancato il suo animo si disse con disdegno:— Costui tenta e spera di avere in me un delatore.E la indignazione riagì sulla nobile di lui natura così da restituirgliene calma e fermezza.Tofi continuava:— Ella, signor avvocato, a quale di quelle due schiere vorrà ascriversi? Non di certo, io spero, a quella dei pervicaci nemici di S. M. l'augusto nostro Sovrano. Ella di certo ripudierà i scellerati propositi di chi non tende che ad abbattere la legittima autorità; Ella vorrà meritarsi il generoso condono alla leggerezza — non la chiamerò altrimenti — alla leggerezza della sua condotta, colla sincerità delle sue confessioni.Fece una pausa, tenendo sempre que' suoi occhi grifagni fissi in volto al giovane. Francesco volse altrove lo sguardo con tutta indifferenza.— Or dunque: riprendeva a dire il Commissario: poichè Ella conosce ed è in istretti rapporti con questo Mario Tiburzio, la mi saprà spiegare perchè quell'individuo è venuto a Torino con falso nome e sotto mentita qualità...— Signore: interruppe Francesco, non senza manifestare nel suo accento il disprezzo e lo sdegno che in lui destavano i tentativi del suo interrogatore: io non so spiegarle niente affatto. Mario Tiburzio non conosco chi sia. Ho visto alcune volte in casa del mio amico Vanardi il signor Medoro Bigonci cantante, il quale non ha altro pensiero che quello delle sue crome e biscrome. Se mi sono legato qualche poco con lui, nulla è più naturale, essendo egli artista ed io dilettante di musica. E non ho altro da dire.Il Commissario stette alquanto in silenzio e fece colle sue labbra grosse uno strano e minaccioso ghigno.— Questo, disse poi con ironia grossolana, è il sistema di difesa che il signor avvocato crede bene di adottare?— Io non ho bisogno di difesa nessuna, perchè non ho colpa.Tofi tacque di nuovo un istante facendo sempre piombare sopra il giovane quel suo sguardo penetrativo, ironico e minaccioso.— Sa una cosa? Proruppe quindi ad un tratto. In questo stesso momento si fa una perquisizione a casa sua.In quella specie di scherma che aveva luogo fra l'interrogante e l'interrogato, fu questa una botta bene assestata che colpì il giovane in pieno petto.— Ah! Esclamò egli con una scossa, ricordando di botto come nella sua camera, entro i cassettini della scrivania ci fossero l'Assedio di Firenzedi Guerrazzi, i libri cinque sull'Italiadi Tommaseo, laGiovane Italiadi Mazzini, e peggio ancora di tutto questo una istruzione sul modo di ordinare e guidare la rivolta del popolo nelle città e di organare bande d'insorti nelle campagne, istruzione per sommi capi fatta e scritta tutta di pugno di Mario Tiburzio.— Che cosa ne dice eh signor avvocato? Domandò il Commissario colla medesima insultante ironia.— Dico che quella è una violazione di domicilio che non avverrebbe in paesi retti civilmente.Tofi si abbandonò ad uno scoppio di collera.— Come sarebbe a dire? Gridò egli con violenza. Forse che questo paese non è retto civilmente? Che insolenza la è questa? Come osa Ella, me presente, offendere così il Governo del nostroaugusto Sovrano? Sappia che gli Stati di S. M. il Re di Sardegna non hanno nulla da invidiare a nessun altro; e non mi dica di queste bestialità che sono quasi un crimenlese, perchè altrimenti saprò ben io ricacciargliele nella gola e farnela amaramente pentire. Per conchiudere, pensi bene ai casi suoi; è Ella decisa a rispondermi schietto la verità su ciò di cui la interrogo?— Ciò che avevo da rispondere, ho risposto. Ripeto che non ho nulla da aggiungere.— Sta bene. Vedremo se dopo i risultamenti della perquisizione Ella seguiterà a tenere simile linguaggio.Volse villanamente le spalle a Francesco e disse ai carabinieri:— Traducetelo in cittadella.Venti minuti dopo il giovane sentiva chiudersi alle spalle le serrature, i chiavistelli e catenacci dell'uscio di quella stanza che doveva servirgli da prigione.
Francesco e i suoi padrini erano giunti i primi al convegno; ma non ebbero ad aspettare di molto che un'altra carrozza soprarrivava al trotto serrato del suo cavallo, e fermandosi ancor essa a capo del viale, dove s'era fermata quella del dottor Quercia, ne scendevano il marchesino, il conte San Luca ed un altro giovane titolato amico di Baldissero.
I due gruppi s'accostarono salutandosi. Quercia, coll'agevolezza d'un uomo praticissimo di queste faccende, cominciò a dire senz'altro:
— Per molte ragioni che è inutile accennare — e fra le altre quella di questo freddo e di questa neve — stimo opportuno sollecitarci il più possibile. Qui dietro il muro del cimitero c'è una stradicciuola per cui a questa stagione, con questo tempo, non passa mai nessuno; se lor piace, possiamo recarci colà.
Tutti annuirono con un chinar del capo. Benda e i suoi due padrini s'avviarono primi; a due passi di distanza vennero dietro loro il marchese e i suoi compagni.
Giunti al luogo accennato da Quercia, i padrini si raccolsero a parlare, mentre Francesco per iscaldarsi i piedi faceva alcuni passi scalpitando sulla neve, lungo il muro del Campo Santo, e il marchesino terminava di fumare un suo sigaro d'Avana guardando la nebbia grigiastra che invadeva la campagna.
— Ho portato una mia cassetta di pistole: disse Gian-Luigi. Giuro loro sul mio onore che esse sono affatto sconosciute all'avvocato Benda, il quale mai non le vide nemmanco.
— Ancor io ho recato meco delle mie pistole: disse a sua volta San Luca; e faccio la stessa affermazione riguardo al marchese, che non le conosce nè punto nè poco.
— Sta bene; tiriamo la sorte quali di queste armi si debbano adoperare.
Il conte San Luca prese dalla sua borsa uno scudo e lo gettò in aria.
— Testa: disse Quercia.
Lo scudo caduto sulla neve mostrava il profilo di Luigi Filippo di Francia.
— Ha vinto: disse il conte inchinandosi. Si adopereranno le loro armi.
Gian-Luigi aprì la sua cassetta e prese a caricare le pistole in presenza degli altri tre padrini; quando ci aveva messo la polvere e il proiettile, passava l'arma al conte San Luca, il quale la innescava col cappellozzo.
— Mi permettano una parola, signori: disse Quercia, poichè le armi furono pronte. Loro sanno che noi siamo gli offesi, e in che modo non occorre rammentare. Il duello adunque, come già ne patteggiammo ier sera il conte San Luca ed io, non avrà termine, finchè da parte nostra non ci dichiareremo soddisfatti.
I padrini del marchese acconsentirono con un cenno di capo; quindi, salutatisi profondamente, Selva e Quercia si accostarono a Benda, mentre gli altri due si dirigevano verso il marchese.
Armato ciascuno d'una pistola, i due avversari furono posti alla distanza di 15 passi l'uno dall'altro.
— L'arma è buona: disse Quercia a Francesco: e non iscarta punto. Mirate giusto a metà corpo; il grilletto non è duro.
— Va bene: rispose freddamente il giovane; e poi stringendo forte la mano a Giovanni, gli susurrò all'orecchio: — In ogni caso ti raccomando sopratutto mia madre, ricordati!
Giovanni corrispose con una stretta di mano forte del pari, che era una promessa ed un solenne impegno.
— Signori: disse ad alta voce il dottore, ponendosi cogli altri padrini a metà della distanza fra i due combattenti: signori, batterò tre colpi colle mani, al primo essi armeranno la loro pistola, al secondo prenderanno la mira, al terzo faranno fuoco.
Egli s'apprestava a battere il primo colpo, quando due carabinieri voltarono correndo la cantonata del muro e comparvero sulla scena gridando:
— Ferma, ferma!
Il marchesino che dava le spalle al luogo onde venivano i carabinieri, si voltò, e viste le monture degli agenti della forza pubblica, la sua faccia espresse la più disgustosa meraviglia.
— Oh, oh! esclamò egli con disdegno: c'è qualcuno che ha saputo informare per bene la polizia del nostro ritrovo e della cagione di esso.
E gettò uno sguardo supremamente sprezzoso sopra Francesco e i suoi padrini che s'erano accostati a gruppo.
— Signor sì: disse con isdegnosa insolenza Gian-Luigi. Tutto sta a vedere da qual parte debba cercarsi questo qualcheduno.
Baldissero arrossì fin sulla fronte.
— Per Dio! Ella oserebbe sospettare di noi?
— Ella osa bene mostrare sospetto sul conto nostro.
A quel punto comparve alla cantonata del muro un uomo studiosamente avviluppato in un mantello, avresti detto più ancora per nascondersi la faccia che per ripararsi dal freddo. Era messer Barnaba che veniva a sopravvegliare l'esecuzione degli ordini ricevuti.
— Qua le armi: disse uno dei carabinieri, e lor signori ci dicano tosto il loro nome.
Scrissero il nome di tutti un per uno sopra un loro taccuino.
— È finita la commedia? Disse il marchesino con isprezzante ironia.
— Finita o non finita; rimbeccò con vivacità Gian-Luigi, non fa punto onore al suo autore; e ciò posso affermare con sicurezza, che simile indegno personaggio non si trova fra noi tre.
— Questa è quistione, rispose superbamente di Baldissero, la quale potrebbe venir sciolta altrove fra di noi, se il modo con cui ha avuto termine la presente non ci levasse del tutto il coraggio e la voglia di siffatte partite con simil gente.
— Tregua agl'insulti! Gridò con imponente accento il dottor Quercia facendo un passo verso il marchesino; ma più innanzi verso codestui si fece Francesco Benda che schizzava fiamme dagli occhi.
— Oh che crede Ella che in questo modo tutto abbia avuto termine fra noi? Non sarà così, per Dio! a niun conto.
L'uomo dal mantello s'accostò d'un passo al gruppo de' nostri personaggi e col capo accennò ai carabinieri la persona di colui che aveva parlato per ultimo.
— È dunque Lei l'avvocato Francesco Benda? Dissero i carabinieri, mettendosi innanzi al giovane e disgiungendolo così dal marchesino.
— Sì.
— Ella avrà la compiacenza di venire con noi sino dal signor Commissario di polizia che molto desidera parlarle.
Tutti gli astanti fecero un moto di spiacevole meraviglia.
— Io? Esclamò Benda. A qual fine?
— Glie lo dirà il signor Commissario.
— E se mi rifiutassi d'andarvi?
— Saremmo costretti di condurvelo colla forza.
— È dunque un arresto il mio?
I carabinieri fecero un cenno affermativo.
L'impressione fu in tutti viva e diversa: Gian-Luigi diede una rapida sguardata all'ingiro, come per vedere se vi fossero probabilità di fuga; Selva si avanzò quasi minaccioso come per opporre la resistenza a quell'atto prepotente; il marchesino ed i suoi compagni mostrarono un orgoglioso disdegno.
— Ecchè? Disse superbamente Baldissero. Avete ordine di arrestarci?
— Lei no, signor marchese, risposero i carabinieri, nè altri qui dall'avv. Benda in fuori.
Selva e Francesco erano un po' impalliditi. La loro mente era corsa alla congiura che paventavano fosse scoperta. Quercia che osservava tutto, s'accorse come vi dovesse essere alcuna ragione da far temere ai due giovani più triste conseguenze da quell'arresto che non quelle cui avrebbe avuto il duello mancato: si rivolse al marchesino e gli disse vivamente:
— Ella vede quanto fossero ingiusti i suoi sospetti. Il suo onore medesimo, signor marchese, non consente che lasci così arrestare il suo avversario.
Baldissero lo interruppe con un gesto vibrato che voleva dire: — Ho capito e so ben io che cosa mi tocca di fare; poi con quell'accento di supremazia che dà la coscienza del proprio grado, disse agli agenti della forza pubblica:
— Io sono il figliuolo del marchese di Baldissero ministro di Stato. Rispondo io per l'avv. Benda.
— Do la mia parola, esclamò vivamente Francesco, che mi presenterò io stesso questa mattina medesima dal signor Commissario: ma prima lasciatemi andare a riabbracciare la mia famiglia.
— Siamo dunque intesi: soggiunse il marchesino con quel tono d'autorità; andate pure, e dite ai vostri superiori che io mi sono reso cauzione di lui.
I carabinieri parvero esitare; ma l'uomo dal mantello fece un altro passo ed un altro cenno.
— Ci rincresce davvero: disse allora uno dei carabinieri; ma non possiamo assecondare il suo desiderio. I nostri ordini sono precisi e formali.
Gian-Luigi, fin dal primo momento che Barnaba era comparso, lo era venuto esaminando con occhio acutamente investigatore.
Hai bel coprirti la faccia, diceva a se stesso, ti riconoscerò quel medesimo ad ogni volta che mi avvenga di vederti.
— Se la è così, disse Francesco, è inutile ogni altro indugio. Andiamo pure, o signori: e tu Giovanni, soggiunse volgendosi a Selva, non tardare a recar di mie notizie a casa mia.
Camminarono verso il luogo dove avevano lasciato le carrozze. Il cocchiere del dottor Quercia aveva gli occhi fissi sul suo pseudo-padrone che si accostava, e questi aveva lo sguardo intento sul suo cocchiere. Fu un cenno leggerissimo di Gian-Luigi, colto a volo da quella faccia furba di cocchiere, o fu veramente che il vivace cavallo attaccato al legno del dottore si spaventasse d'alcunacosa? Il fatto è che quella stupenda bestia fece un balzo, e, come se avesse tolto la mano al guidatore, prese a correre giù della strada del Parco. Non ci fu più che la carrozza del marchesino di cui si potessero servire i carabinieri per condurre l'arrestato. Vi salirono i militari con Francesco; l'uomo dal mantello salì a cassetta presso il cocchiere e la carrozza partì di trotto serrato.
— Signor marchese; disse Gian-Luigi a Baldissero, il quale si vedeva essere turbato e spiacentissimo di questo fatto: Ella non abbandonerà, ne son persuaso, l'avv. Benda.
— No certo: rispose vivamente il marchesino. Qui è avvenuto non so qual disgradevole equivoco, che mi affretterò a far dileguare. Quanto a difendermi dal sospetto che io possa in alcun modo aver contribuito a questo spiacevole incidente, credo non averne bisogno.
Quercia e Selva s'inchinarono leggermente.
In quella la carrozza del dottore tornava a quel luogo col cavallo affatto ammansato.
— Mi rincresce, disse Gian-Luigi al marchesino ed ai suoi compagni, non poter offrir loro un posto nel mio legnetto. Lo lascierei anzi del tutto a loro servizio, se noi non avessimo il dovere di correre il più sollecitamente possibile in casa Benda.
I nobili avversarii non risposero che con un saluto. Selva si precipitò nella carrozza, e Quercia, salendovi esso pure, diede al cocchiere l'indirizzo dell'officina e soggiunse:
— Di galoppo.
La carrozza partì come una saetta sprigionata dalla cocca.
— Benda avrebbe qualche motivo da temere una perquisizione? Domandò Gian-Luigi al suo compagno, mentre la carrozza andava colla rapidità del vento.
— Pur troppo!
— Bene. Può darsi che arriviamo prima di quelli che verranno a farla. Ella ha tutta la fiducia di Benda e della sua famiglia?
— Sì.
— Ella dunque si affretterà a fare scomparire ciò che possa compromettere il suo amico.
— È quello appunto che pensavo di fare.
Abbiamo veduto come di poco essi avanzassero in casa Benda Barnaba e i carabinieri che venivano a fare la perquisizione.
Ora seguitiamo Francesco, il quale viene condotto alla presenza del terribile signor commissario Tofi.
Il signor Commissario aveva dormito poco e male. Per la mente commossa tutta notte s'erano dimenate le rivelazioni di Barnaba ad eccitarne lo zelo irrequieto, operoso e prepotente. Egli aveva sognato degli arresti a fusone, e la sua fantasia s'era deliziata nella visione d'un reggimento di liberali mandato a impallidire dietro le inferriate del forte di Fenestrelle. S'arrabbiava della impotenza relativa a cui lo condannava la sua condizione di subalterno, e s'angustiava per non essere in grado di tradurre in atto di propria autorità lo splendido disegno della sua poliziesca immaginativa. Avrebbe dato non so che cosa per trovarsi ventiquattr'ore almanco nell'uniforme da generale del conte Barranchi.
Effetto di questa insonnia si fu che, appena il mattino, il signor Tofi era nell'anticamera del suo superiore ad insistere presso un domestico sonnoloso che sbadigliava, affinchè lo introducesse presso il padrone. Il domestico che sapeva bene non trattarsi di giuggiole, quando la faccia scura e il soprabito lungo del Commissario comparivano in quelle soglie, si lasciò vincere dalle imperiose parole di messer Tofi ed osò introdursi nella camera del conte a turbarne i dolci sonni mattutini.
Si ha bell'essere generale dei carabinieri reali e comandante supremo della Polizia, e tuttavia non si va esente da qualche piccolo difettuccio. Ahimè! Non c'è nessuno di perfetto su questa terra. Il conte Barranchi amava supremamente due cose: mangiar molto e bene con ghiottoneria istruita a perfezione nella difficil arte della cucina, e dormire beatamente la grassa mattinata. La sera innanzi egli avea pranzato a Corte, dove i pranzi di Carlo Alberto erano conosciuti per parsimoniosa frugalità; la notte aveva dovuto vegliarla al ballo, ed a sbrigar poi varie faccende, di cui lo aveva intrattenuto il Commissario: e quindi era naturale e necessaria conseguenza di ciò che il suo umore fin dalla sera innanzi non si trovasse nello stadio della sua maggiore amenità, e che massimo fosse in lui il desiderio e il bisogno di dormire tranquillamente sino all'alba dei tafani.
Per dire il vero, affatto affatto ameno l'umore del signor generale non lo era pur mai. Il suo carattere brusco e violento si era di molto rinforzato nell'impertinente disdegno d'altrui mercè la prepotenza concessa al suo grado ed alle sue funzioni. I suoi modi erano aspri come quegli ispidi baffi che gli ombreggiavano il labbro superiore. Avvezzo a parlare a carabinieri che lo ascoltavano in posture di rispetto per obbedirlo ciecamente, ad inferiori e subordinati che s'inchinavano innanzi allo scoppio della sua voce, come le umili erbe del prato al passaggio del vento, a poveri diavoli o timorosi o colpevoli che tremavano alla impettita severità del suo aspetto, il conte Barranchi trattava con tutti ch'ei non credesse suoi pari, come un caporal tamburo tratta con un allievo tamburino. Figuratevi un po' che cosa dovesse essere quest'umore quella mattina in cui il domestico venne a rompergli il più quieto dei sonni per dirgli che il Commissario era lì che voleva parlargli! Il fatto d'essere stato svegliato era già doloroso e grave; ma vi era di più che sotto il soprabitone del Commissario venivano occupazioni e fastidi da non lasciarlo riaddormentar poi, perchè era persuasoche senza una pressante necessità Tofi non l'avrebbe disturbato. Il signor conte, che bestemmiava in francese, quantunque fosse austriaco in cuore, sparò una dozzina disacrebleu!minacciò di prendere il domestico per il collo, diede un pugno sul tavolino da notte che mandò in aria ilverre d'eaudi cristallo di Boemia, agitò minacciosamente la ciocca di cotone che si drizzava con superbia in alto del suo berrettino notturno, e finì per dire che quel malaugurato signor Commissario fosse introdotto.
Tofi si avanzò con aspetto umile ma sicuro. La pervicacia della sua natura, la coscienza del suo merito poliziesco, l'essere addentro in tutti i misteri di quell'ufficio e in più a varii degli altri rami dell'amministrazione, gli davano eziandio, appetto al suo bizzarro superiore, una certa sicurezza di sè, che, trattandosi d'altro e per altre attinenze, avrebbe potuto anche dirsi dignità. Ciò non toglieva punto che S. E. il conte Barranchi non lo strapazzasse come un cane.
E fu appunto con una vera bordata d'improperii che il sig. Tofi venne accolto quella fatale mattina. E che gli era insopportabile l'essere perseguitato in quella maniera; e che fastidiosissimo e da sdegnar chicchessia non avere un Commissario che valesse a far da sè e sapesse come governarsi, senza venir a romper la testa e il sonno ad ogni momento a cui la sua alta posizione avrebbe dovuto lasciare piùloisirse meno seccature: parlasse presto e poco e bene, e guai a lui se le comunicazioni che aveva da fargli non fossero di tanta importanza da scusare quell'irriverente procedere.
Il Commissario, dritto nella postura del soldato senz'armi, il suo largo cappello in mano, i suoi occhi infossati, fissi sul generale, la faccia ossea ferma sul cravattino duro, ascoltò impassibile la sfuriata del conte, e poi colla sua voce rauca, bassa, contenuta, disse ordinatamente e laconicamente quanto aveva appreso da Barnaba.
A prima giunta siffatte informazioni non parvero abbastanza di rilievo al bravo signor generale. Gridò sbuffando che gli era un prendersi gabbo di lui il venirlo a sturbare per sì poca cosa. Bel miracolo che quattro arfasatti di liberale si radunassero in casa d'un pitocco per combriccolare; cani che vogliono prender la luna coi denti. Che sì che lo Stato aveva da tremare di que' mascalzoni! I becchi d'un cappello da carabiniere li avrebbe fatti scappar tutti come una legione di diavoli dall'acquasantino. Poi se la prese con questa empia incorreggibil razza dei liberali, stupidi matti che avrebbero potuto mangiar e bere e star tranquilli, e volevano ficcare il becco in ciò che loro non toccava. Gli era tempo di finirla mercè qualche buon provvedimento di rigore con questi paladini del disordine; ecchè eravi egli bisogno di andarlo a disturbare di quella guisa, un Commissario che sapesse secondo conviene il dover suo? Si arrestava, si procedeva, si perquisiva; e poi quando e individui, e carte, e tutto, fosse al sicuro, si aspettava un'ora un po' da cristiano per andarne a romper la testa al proprio superiore.
Tofi sostenne la seconda bordata colla medesima impassibilità colla quale aveva sopportata la prima; quando il conte si tacque, il Commissario fece balenare le sue pupille grifagne nelle occhiaie incavate e chinò leggermente la testa in moto affermativo.
— Va bene, e mi basta: diss'egli. Avevo appunto in animo di far così; ma le sue raccomandazioni di temperanza ultimamente fattemi e ripetutemi erano riuscite a pormene un po' in suggezione. Ora le sue parole mi levano ogni scrupolo ed io non mancherò di fare secondo le mie ispirazioni. Mi rincresce aver disturbata S. E.: non la scomodo oltre e vado a dar gli ordini che mi sembreranno più opportuni.
E girò sui suoi talloni per avviarsi alla porta da cui era entrato.
— Un momento, un momento: gridò il conte levandosi a sedere sul letto, appoggiato al gomito. Diavolo! Come voi ci andate di gamba lesta. Corpo d'uno squadrone! Innanzi a S. M. sono io che porto la responsabilità di tutto.
La risposta di Tofi gli aveva richiamato alla mente le rampogne fattegli dal pallido, severo labbro di Carlo Alberto per alcune maggiori prepotenze commesse da ultimo dalla Polizia, gli avevano ricordato che ancora il giorno prima il Re, fermandosi innanzi a lui a favorirlo di quella mezza dozzina di parole che soleva regalare ad ogni convitato, facendo il giro della sala dopo il pranzo, avevagli detto:
— E la sua Polizia, conte Barranchi?
— Cammina alla perfezione: aveva risposto il generale inchinandosi.
— Va bene: aveva soggiunto il Re. Spero che non sentirò più richiami di sorta per eccessi che ella commetta. Bisogna essere vigilanti, severi, ma nei limiti delle leggi e senza violare i diritti dei cittadini. Si ricordi, conte, che è mia intenzione precisa che la Polizia nei miei Stati cessi d'essere un arbitrio e diventi sempre più una magistratura.
Il generale non aveva saputo far altra risposta che inchinarsi di nuovo ed il Re era passato.
Che cosa precisamente significassero le parole di Carlo Alberto, lo spirito poco arguto del conte Barranchi non lo capiva ben bene. La Polizia una magistratura? Egli non vedeva nessun'attinenza fra queste due cose La Polizia e la sciabola, meno male! Ma il Re da qualche tempo si piaceva a tirar fuori di queste frasi; e il marchese di Villamarina, ministro della guerra, da cui Barranchi dipendeva direttamente, sembrava d'accordo col Re. Ragione di più per acconciarsi a quelle intenzioni, che infin dei conti erano di mettere la sordina allo zelo degli agenti. Ma il Re aveva pur detto che bisognava essere severi e vigilanti. Fin dove andava la vigilanza e la severità che piacevano al Re, senza cadere in quell'arbitrio ch'ei non voleva più tollerare? La quistione era troppo seria e complicata per i mezzi intellettuali del fiero comandante della Polizia; e questa aggrovigliata quistione gli avevano riposta innanzi in tutta la sua gravità le ultime parole del commissario Tofi.
Questi s'era fermato come un buon fantaccino che abbia udito il comando dell'alt. Si rivolse di nuovo verso il generale e col medesimo tono e colla medesima voce di prima disse:
— Abbia dunque la compiacenza di darmi i suoi ordini. Debbo lasciar correr l'acqua alla china e lavarmene le mani?
Il conte ricordò la severità e la vigilanza inculcatagli.
— Mai più, mai più: esclamò corrugando fieramente le sue sopracciglia ispide come i baffi.
— Debbo arrestarli tutti?
Barranchi sentì a suonare la frase che non bisognava violare i diritti dei cittadini, i quali al giusto egli non sapeva che cosa si fossero. Si grattò il berretto di cotone in testa, e mai faccia da generale dei carabinieri non espresse l'indecisione e l'imbarazzo come fece in quel momento il volto fiero del conte Barranchi.
— Tutti? Cospetto! Tutti addirittura? Si potrebbe vedere, esaminare... Uno di quei che mi avete nominato è un bastardo; peuh! certo che nessuno verrà a muover richiami per esso... Arrestatelo... Un altro è un ciarlatano da teatro e forestiero; anche per lui non ci sarà chi metterà innanzi pur un piede... Pigliatelo... Quell'impertinente d'un avvocato Benda abbiam già deciso diarchiviarlo. Eh! una retata di tre gli è qualche cosa. Circa gli altri, guardate voi, fate voi... Avrete in mano qualche carta, qualche documento di cui vi potrete impadronire nelle perquisizioni che farete. Regolatevi dietro di ciò; che cosa volete che vi dica? Voi dovete esser pratico del servizio; lo siete più d'ogni altro: sapete meglio di chicchessia ciò che vi tocca di fare. Fate adunque in vostra buon'ora, e fate bene.
Si lasciò ricadere sul letto, come uomo che ha finito di spiegare le sue volontà e brama essere lasciato tranquillo; ma quando Tofi era già all'uscio, il generale si ridrizzò di nuovo con mezzo il corpo e colla sua voce tremenda da comandante di brigata in piazza d'armi soggiunse:
— Badate che lascio a voi la responsabilità di tutto. Siate severo, siate vigilante... ma guai a voi se mi fate prendere una rampogna da S. M.
Tofi uscì più perplesso di quanto fosse al venir suo; ed un'irritazione profonda contro Barranchi e contro tutti gli accresceva il maligno talento della sua natura. A lui toccava operare, ma se l'operato fosse stato creduto degno di lodi, queste sarebbero andate al conte Barranchi, se di biasimi, su di lui sarebbero piombati i più crudi, non senza pericolo ancora di qualche cosa di peggio che biasimi. In quell'occasione in cui a cagione di qualche eccesso di arbitrio, il conte Barranchi aveva avuto i rimproveri del Re, il commissario Tofi, su cui naturalmente s'era venuta a scaricare l'ira del generale aveva sentito scoppiar alle sue orecchie niente meno che la minaccia d'esser tolto a quel posto che da tanti anni occupava. Questa era per lui la peggior sciagura che ei potesse immaginare, e il solo pensiero ne lo spaventava tremendamente. Prima di tutto quel posto gli era carissimo per amore di artista che aveva collocato nel suo mestiere; poi eragli un'autorità di cui si compiaceva infinitamente ed una salvaguardia personale di cui sentiva vivissimo il bisogno. Nella sua lunga carriera egli aveva così perseverantemente offeso l'interesse, il carattere, l'onoratezza di tanti individui che ben sapeva avere ammassato sul suo nome un tesoro incalcolabile d'odio, cui la sua qualità sola impediva dal prorompere. Quel giorno in cui egli non fosse più nulla sarebbe stato oppresso dall'esplosione dello spregio e dell'animavversione pubblica; altro non gli sarebbe rimasto che fuggire per andare a nascondere in chi sa qual remota solitudine la sua imprecata e maledetta vecchiaia.
Con quella profonda irritazione che aveva in corpo, il Commissario si era recato nel suo uffizio di Piazza Castello e si disponeva a ricevere l'arrestato quando gli fosse condotto dinanzi.
Si era nella seconda camera, in mezzo della quale stava la tavola lunga collo sporco tappeto di panno verde. Alla scrivania sedeva un impiegato che, per la fredda temperatura, di quando in quando dava in uno scossone di brivido e soffiava sulle mani per iscaldarsele. Tofi passeggiava su e giù della stanza con passo concitato, il cappellone piantato in testa e le mani affondate nelle larghe tasche laterali del soprabito.
Ad un punto Barnaba socchiuse la porta che metteva nel corridoio e cacciò dentro la sua faccia scialba, appuntata, da faina.
— Gli è qui il merlotto.
— Ah ah, va bene.
Tofi trasse di tasca le sue grosse manaccie e si pose a fregarsele l'una coll'altra facendo chioccare le giunture delle dita premendosele.
— Come andò la faccenda? Dite spiccio.
Barnaba in poche parole raccontò ciò che era avvenuto presso il cimitero.
— Cospetto! Avevate colà anche quel Selva; potevate prenderlo.
— Ci ho pensato.
— Ma no; è meglio si abbia qualche altro pretesto. Voi correte subito a perquisire la casa Bendacon quanti uomini crediate aver bisogno. Mandate il Rosso con altrettanti in via ***, n. 7, a fare il medesimo da quel pittore, e si arrestino quel Maurilio Nulla e quel Medoro Bigonci. Gli altri vedremo poi. Andate. Dite che s'introduca l'arrestato.
Barnaba sparì.
Tosto dopo entrò Francesco e dietro di lui due carabinieri; questi si fermarono presso l'uscio; il giovane s'inoltrò nella stanza fino presso alla tavola. Era un po' pallido ancora, ma il suo aspetto non dinotava la menoma trepidazione. Il Commissario seguitava a passeggiare su e giù dall'altra parte della tavola guardando di sottecchi Francesco e brontolando inintelligibili parole fra i denti. Ad un tratto Tofi si piantò innanzi al giovane in atto minaccioso ed affondando le sue manaccie nelle tasche, disse con tono imperioso e villano:
— Dove si crede di essere Lei?
Benda esitò un momentino a rispondere, poi con una calma dignitosa disse fissando il suo limpido sguardo sulla faccia terrea e cupa del sig. Tofi:
— Il luogo, la compagnia che ho qui meco, il suo aspetto, il tono con cui Ella mi parla, mi dicono abbastanza che io sono in presenza del Commissario di Polizia.
— Ah sì? Riprese questi ingrossando vieppiù la voce ed aggrottando vieppiù le sopracciglia. E innanzi al Commissario Lei pensa di potersi rimanere col suo bravo cappello in testa, eh?
Francesco seguitò a guardare la faccia cupa del signor Commissario nello stesso modo franco e sicuro.
— Ella, rispose, sta bene col cappello in capo innanzi a me.
L'audacia della risposta fece sussultare l'impiegato subalterno alla sua scrivania, fece guardarsi in volto i due carabinieri come per interrogarsi mutuamente che cosa avessero da fare in presenza di tanta temerità. Tofi mandò un'esclamazione fra i denti che pareva un grugnito.
— Carabinieri! Diss'egli poi colla voce più rauca e più aspra del solito: tirate giù il cappello al signore.
Uno dei carabinieri, colla canna della carabina ond'erano armati, diede un colpo al cappello di Benda e lo mandò per terra. Il giovane non si mosse, ma arrossì fino alla radice dei capelli.
Tofi fece di nuovo due o tre giri per la stanza senza parlare; poi fermandosi presso alla scrivanìa dov'era l'impiegato:
— Siete pronto a scrivere? Disse.
L'impiegato prese la penna in mano e fece un cenno affermativo. Allora incominciò l'interrogatorio. Francesco rispose asciuttamente alle domande fattegli sull'esser suo: nome, cognome, figliazione, patria, età, ecc.
— Che cosa faceva Lei al Camposanto a quell'ora mattutina? Domandò poi il Commissario.
Benda parve studiare un momento la risposta da farsi, e poi disse:
— Se Ella sa la ragione per cui io mi trovava colà, è inutile ch'io glie la ripeta, se poi non la sa stimo niente affatto di mio dovere il dirgliela.
Tofi proruppe, sbuffando, in una esclamazione di collera.
— Oh oh! Crede Lei di poter far qui il bello spirito ed il capo ameno? Probabilmente Lei non conosce ancora bene chi sia il commissario Tofi.
Il giovane chinò leggermente la testa e fece un ironico sorriso come per significare che lo conosceva appuntino.
Tofi si volse allo scrivano:
— Scrivete che interrogato se si fosse recato là dove venne arrestato col criminoso proposito di cimentarsi in duello contro il marchese Ettore di Baldissero, rispose affermativamente.
— Io non ho detto così: esclamò Francesco.
— Vorrebbe forse negare ciò che sappiamo perfettamente?
— Io non nego, ma.....
— Dunque?.... (E allo scrivano) scrivete come vi ho detto.
— Protesto.
— Protesti quanto vuole, e tiriamo innanzi.
— Sul terreno si trovavano il dottor Quercia e l'avv. Selva?
— I carabinieri che ci sorpresero scrissero il nome di tutti coloro che eran colà.
— Quelli che ho or ora nominati erano suoi padrini?
— Mi accompagnavano.
Tofi gettò sopra il giovane uno sguardo feroce che avrebbe potuto paragonarsi a quello d'un animale di preda sopra la vittima che sta per isbranare.
— Qui si vuole schermire di finezza con me. Cattivo partito, signore, cattivo partito, glie lo dico io..... Risponda franco, sincero, la verità, e tutta la verità: e ne avrà maggior vantaggio. Quei signori sono suoi amici?
— Sì.
— Specialmente il Selva?
— Siamo stati compagni fino dalla prima adolescenza.
— Ella conosce le idee e le opinioni di questo suo intimo amico?
— Io so che quello è il più onorato e più dabben giovane che sia al mondo.
Il Commissario ruppe in uno scoppio di quella sua voce aspra e vibrata.
— Ah onorato? Ah dabbene? Gridò egli incrociando le braccia al petto ed atteggiando sul cravattino duro il suo mento quadrato con mossa minacciosa. No signore che non è un giovane onorato; no signore che non è un giovane dabbene.....
Francesco ebbe il coraggio d'interrompere il signor Tofi, parlando ancor egli di forza:
— Signor Commissario, io non soffro smentite, e tanto meno soffro che si oltraggi con esse l'amico che ho più caro e che stimo di più.....
Il Commissario gli troncò le parole con esclamazione violenta, venendogli presso, la faccia contratta dall'ira, lo sguardo più acceso che mai sotto le folte sopracciglia:
— Lei non soffre?! Ma dove si crede Ella di essere? Con chi si crede di parlare?... Sono io che non soffro di queste arie in chi mi viene dinanzi, sa!... Badi che io fo presto a levar la superbia ai pari suoi. Ne ho domati di più audaci. Se la mi stuzzica la faccio cacciare alcrottonea pane ed acqua, finchè le sia passato il ruzzo di fare il bell'umore. Il suo amico non è un giovane onorato, non è un giovane dabbene, perchè chi è onorato e dabbene ha rispetto ed obbedienza per le legittime autorità, non osa censurare il Governo del suo sovrano, non isparla de' suoi superiori e dei ministri della santa religione cattolica, non desidera e non cerca sovvertimenti nello Stato, non congiura contro il trono del principe di cui ha la fortuna e l'onore di essere suddito. E questo suo amico fa tutto ciò e peggio. E Lei lo sa, e Lei partecipa a questi empi intendimenti.
Francesco tacque un istante, sbalordito a codesta sfuriata; poi superando la trepidazione che quelle parole gli avevano fatto nascere — trepidazione naturale, perchè in quei tempi la Polizia non era menomamente impacciata da nessun ostacolo di legalità a mandare a Fenestrelle chi le paresse suddito non abbastanza devoto — disse colla calma che potè maggiore:
— Credevo d'esser qui per cagione della mia contesa col marchese di Baldissero, e non pensavo mai più di aver da rispondere per altre cose e pel fatto di altri.
— Ella è qui per tutto quello su cui mi piacerà interrogarla... Crede Lei che la Polizia non sappia appuntino ciò che lor signori fanno e dicono e pensano? Da molto tempo abbiamo gli occhi su di loro e ne seguitiamo i passi e le gesta. Noi sappiamotutto, signore.....TUTTO! Ripetè pesando sulla parola.
Fece una piccola pausa e poi riprese:
— Ella conosce di molto anche il pittore Vanardi?
— Sì.
— Va spesso a casa di lui?
— Qualche volta.
— Spesso. E colà vi si tengono delle conventicole che durano fino a notte inoltrata.
— Ci troviamo in alcuni amici e stiamo insieme a discorrere.
— Vorrebbe dirmi di che cosa si discorre?
— Mah! Di mille cose e di nulla... di arte e di letteratura sopratutto.
— E per discorrere di codesto si chiudono in istanza ed impiegano parte della notte? Mi parli un po' di coloro che prendono parte a questi discorsi?
— Siamo in parecchi amici, quasi tutti compagni di Università.....
— I nomi, i nomi. Dica su come si chiamano.
Benda esitò.
— Ecchè? Disse il Commissario con perfida ironia. Per una cosa cotanto semplice ha forse scrupolo a dire il nome dei suoi compagni? Be': ve lo aiuterò io. V'è prima quel Selva; poi il padron di casa, poi un certo Maurilio Nulla... Appunto! Parliamo un momentino di codestui. Lei lo conosce bene?
— Sì.
— È suo amico?
— Sì.
— Sa che questa la è strana? Ella che è ricco ed appartiene ad una famiglia di ricchi commercianti, come va che si trova in intima relazione con quel cotale, che viene dalle più basse regioni del volgo? Conosce Ella bene il passato di quel giovane?
— Lo conosco.
— E ciò nulla meno Ella non ha avuto il menomo ribrezzo di stringere tanta attinenza con un trovatello, che fu accusato del più orribile dei delitti, che passò varii mesi in carcere, che non possiede nulla al mondo e si guadagna la vita non si sa ben come? Una simile amicizia non è degna di Lei e non è affatto naturale.
— Ho avuto campo di conoscere che in quell'infelice vi è un'anima nobilissima ed un'intelligenza superiore, e ciò mi basta per farmelo amare e stimare. L'essere povero e trovatello non è cosa di cui egli abbia colpa, e soltanto il pregiudizio può crederlo un disdoro; ch'egli sia rimasto in carcere accusato d'un orribile delitto non l'ho mai saputo, e non lo credo così di piano....
— Cospetto! Quando glie lo dico io!....
— Ad ogni modo io, giudicando da quello che conosco di lui, debbo credere ch'egli sia stato innocente.....
— Parliamo un poco d'un altro: voglio dire Medoro Bigonci. Anche di costui non so vedere alcuna ragione perchè partecipi a così stretti e confidenti colloquii da amico.
— Egli abita con Vanardi..... Del resto non prende parte quasi mai alle nostre riunioni.
— Ah no? A me le mie informazioni mi dicono diversamente. E le mie informazioni mi dicono molte cose, sa, che altri crede affatto nascoste..... Vuol saperne una, per esempio?
Si accostò ancora più presso a Francesco e gli disse con voce sommessa, ma piena di forza:
— Mi dicono che Medoro Bigonci non è il vero nome di quel tale, ma ch'egli chiamasi Mario Tiburzio.
Benda non fu tanto padrone di sè che non desseindietro d'un passo e che non impallidisse nel volto.
Tofi vide l'emozione del giovane e ne conchiuse fra sè issofatto che Barnaba non s'era ingannato e che Francesco Benda era istrutto del vero essere di quell'individuo. Col proposito di atterrire l'arrestato e di ottenerne in questo modo alcuna confessione od almanco una più imprudente risposta, il Commissario continuò colla medesima voce sommessa ma fremente di minaccia:
— Ora Ella capirà agevolmente che la sua condizione non è così buona e i carichi che pesano su di lui non sono così lievi da permetterle tanta temerità e tanta sicurezza. Mario Tiburzio è un agente di Mazzini. Il solo essere in rapporto con lui è gravissima colpa, è delitto di Stato. Siffatte audacie dei mandatari di quello scellerato rivoluzionario che vengono a sedurre e sommuovere la gioventù nel nostro Stato sono oramai troppe. Il Governo di S. M. è deciso di porvi fine e di tagliare il male dalla radice. Qualunque siasi che abbia intinto in siffatta pece si è deciso di deportarlo senz'altro in Sardegna.
— In Sardegna! Esclamò Francesco, il quale non potè nascondere il suo sgomento. Egli pensò alla sua famiglia, al dolore che i suoi cari avrebbero provato, all'oggetto dell'amor suo che forse non avrebbe potuto veder più, ed uno spasimo indicibile gli strinse il cuore.
— Sì signore, in Sardegna: ripetè il Commissario, il quale s'accorse e fu lieto dell'effetto prodotto dalle sue parole. E primi di tutti i caporioni e i più pervicaci. Il Governo fu finora troppo magnanimo, troppo tollerante: è gran tempo che alla fine eserciti tutto il suo rigore. Nessuna pietà, nessun riguardo per i nemici dell'ordine e del Sovrano. Se si farà qualche distinzione fra essi, se si potrà essere più miti verso alcuni, sarà soltanto per coloro i quali col loro contegno dimostreranno come da illusione giovanile, da inconsideratezza meglio che da perversità d'animo furono tratti a fallire, per coloro che proveranno colla sincerità delle loro dichiarazioni il proprio pentimento. Mi capisce?
Le parole del Commissario erano troppo chiare per non essere capite. Francesco che colla forza della volontà aveva rinfrancato il suo animo si disse con disdegno:
— Costui tenta e spera di avere in me un delatore.
E la indignazione riagì sulla nobile di lui natura così da restituirgliene calma e fermezza.
Tofi continuava:
— Ella, signor avvocato, a quale di quelle due schiere vorrà ascriversi? Non di certo, io spero, a quella dei pervicaci nemici di S. M. l'augusto nostro Sovrano. Ella di certo ripudierà i scellerati propositi di chi non tende che ad abbattere la legittima autorità; Ella vorrà meritarsi il generoso condono alla leggerezza — non la chiamerò altrimenti — alla leggerezza della sua condotta, colla sincerità delle sue confessioni.
Fece una pausa, tenendo sempre que' suoi occhi grifagni fissi in volto al giovane. Francesco volse altrove lo sguardo con tutta indifferenza.
— Or dunque: riprendeva a dire il Commissario: poichè Ella conosce ed è in istretti rapporti con questo Mario Tiburzio, la mi saprà spiegare perchè quell'individuo è venuto a Torino con falso nome e sotto mentita qualità...
— Signore: interruppe Francesco, non senza manifestare nel suo accento il disprezzo e lo sdegno che in lui destavano i tentativi del suo interrogatore: io non so spiegarle niente affatto. Mario Tiburzio non conosco chi sia. Ho visto alcune volte in casa del mio amico Vanardi il signor Medoro Bigonci cantante, il quale non ha altro pensiero che quello delle sue crome e biscrome. Se mi sono legato qualche poco con lui, nulla è più naturale, essendo egli artista ed io dilettante di musica. E non ho altro da dire.
Il Commissario stette alquanto in silenzio e fece colle sue labbra grosse uno strano e minaccioso ghigno.
— Questo, disse poi con ironia grossolana, è il sistema di difesa che il signor avvocato crede bene di adottare?
— Io non ho bisogno di difesa nessuna, perchè non ho colpa.
Tofi tacque di nuovo un istante facendo sempre piombare sopra il giovane quel suo sguardo penetrativo, ironico e minaccioso.
— Sa una cosa? Proruppe quindi ad un tratto. In questo stesso momento si fa una perquisizione a casa sua.
In quella specie di scherma che aveva luogo fra l'interrogante e l'interrogato, fu questa una botta bene assestata che colpì il giovane in pieno petto.
— Ah! Esclamò egli con una scossa, ricordando di botto come nella sua camera, entro i cassettini della scrivania ci fossero l'Assedio di Firenzedi Guerrazzi, i libri cinque sull'Italiadi Tommaseo, laGiovane Italiadi Mazzini, e peggio ancora di tutto questo una istruzione sul modo di ordinare e guidare la rivolta del popolo nelle città e di organare bande d'insorti nelle campagne, istruzione per sommi capi fatta e scritta tutta di pugno di Mario Tiburzio.
— Che cosa ne dice eh signor avvocato? Domandò il Commissario colla medesima insultante ironia.
— Dico che quella è una violazione di domicilio che non avverrebbe in paesi retti civilmente.
Tofi si abbandonò ad uno scoppio di collera.
— Come sarebbe a dire? Gridò egli con violenza. Forse che questo paese non è retto civilmente? Che insolenza la è questa? Come osa Ella, me presente, offendere così il Governo del nostroaugusto Sovrano? Sappia che gli Stati di S. M. il Re di Sardegna non hanno nulla da invidiare a nessun altro; e non mi dica di queste bestialità che sono quasi un crimenlese, perchè altrimenti saprò ben io ricacciargliele nella gola e farnela amaramente pentire. Per conchiudere, pensi bene ai casi suoi; è Ella decisa a rispondermi schietto la verità su ciò di cui la interrogo?
— Ciò che avevo da rispondere, ho risposto. Ripeto che non ho nulla da aggiungere.
— Sta bene. Vedremo se dopo i risultamenti della perquisizione Ella seguiterà a tenere simile linguaggio.
Volse villanamente le spalle a Francesco e disse ai carabinieri:
— Traducetelo in cittadella.
Venti minuti dopo il giovane sentiva chiudersi alle spalle le serrature, i chiavistelli e catenacci dell'uscio di quella stanza che doveva servirgli da prigione.