CAPITOLO XIX.

CAPITOLO XIX.Il Governatore mosse incontro al marchese con una premura non solamente rispettosa, ma eziandio amorevole. Erano amici di lunga data, e al tempo in cui era successo il dramma le cui memorie tormentavano ancora il cuore e la coscienza di Baldissero, l'attuale Governatore, che era soltanto capitano nelle Guardie, aveva partecipato a que' luttuosi avvenimenti facendo da testimonio al marchese nel duello che abbiamo già appreso aver avuto così tristo esito per l'avversario del marchese medesimo.Questi fatti nella vita stabiliscono fra coloro che vi ebbero parte una meglio stretta attinenza che piùnon si scioglie. Il Governatore ed il marchese non si vedevano di frequente, separati dalle loro occupazioni e dal loro genere di vita, rarissimo era che si trovassero da soli e non iscambiavano che gl'indifferenti discorsi usi a tenersi in presenza del mondo; anche quando potevansi parlare liberamente non era mai che dalle loro labbra uscisse la menoma parola che avesse rapporto a quel lontano passato, e se ne guardava scrupolosamente sopratutto il Governatore, che sapeva come con ciò avrebbe toccato poco pietosamente all'amico una di quelle ferite interne che non si saldan mai; ma ad ogni volta che si trovassero, i due antichi amici si davano una stretta di mano più vigorosa che non solessero con altri, in cui c'era come una muta, convenzionale intelligenza d'un segreto comune.— Eh buon giorno! Esclamò adunque il Governatore andando a ricevere il marchese alla soglia e porgendogli tuttedue le mani. Tu arrivi proprio a proposito. Si discorreva appunto di cosa che alquanto ti riguarda.Baldissero fece scorrere nel gabinetto il suo sguardo improntato di supremazia, e vide il barone La Cappa che gli si profondava dinanzi in un umilissimo inchino.— Ah sì? Diss'egli rispondendo cortesemente al saluto del barone. Tanto meglio! Io vengo appunto per ciò di cui forse stavate discorrendo.Il barone La Cappa credette avere un lampo di ispirazione del genio diplomatico.— Egli è certo, pensò, che il Governatore dirà al marchese ch'io sono venuto per parlare in favore dell'avversario di suo figlio, e ciò può mettermi in mala vista presso di lui. È meglio che glie ne dica subito io stesso e ripari tosto tosto alla cattiva impressione ch'egli potrebbe averne.Il Governatore aveva fatto sedere il marchese vicino al fuoco e abbandonando egli stesso il suo solito posto presso la scrivania era venuto porglisi daccanto. La Cappa rispettosamente si accostò in faccia a Baldissero e disse coll'accento espressivo di un uomo che vuol far credere di manifestare proprio il fondo del suo pensiero:— Sì, Eccellenza, parlavamo di cosa che la riguarda, ed io apprendeva dal signor Governatore com'Ella fosse interessata in certo avvenimento successo ieri sera al ballo dell'Accademia. Prendo parte grandissima, caro signor marchese, alla contrarietà, allo sdegno, dirò quasi, che Ella dovette provarne, e deploro quant'altri mai la tracotanza di quell'avvocatuzzo. Io era allo scuro affatto della verità della cosa, ed hohasardè une démarchepresso il nostro caro Governatore, di cui non avrei nemmeno concepito il pensiero se fossi stato benrenseigné. Ero venuto niente meno che a raccomandare quel cotal avvocato e quel suo amico perchè fossero posti in libertà.Il bravo barone diceva codesto con un certo sorriso di compassione verso sè stesso che voleva significare: «Ve' s'io ne faceva innocentemente una grossa!»Il marchese lo ascoltava con una faccia seria e grave come quella d'un magistrato che non lascia scorgere sulla sua fisionomia impressione alcuna che gli faccia la difesa d'un imputato. A quelle ultime parole di La Cappa alzò gli occhi e mosse le rughe del volto come se stesse per parlare. Bastò codesto perchè il barone s'interrompesse e si atteggiasse alla mossa d'un riverente ascoltatore.— Ho molto piacere, disse il marchese, ch'Ella abbia fatta questadémarche, perchè siccome identico affatto è il motivo della mia venuta, spero che in due riusciremo di meglio a convincere il nostro amico il Governatore, di arrendersi al nostro desiderio.La Cappa rimase attonito che nulla più. Temette un istante che quella fosse una canzonatura; ma il carattere del marchese non permetteva di fare una simile supposizione, e l'aspetto della sua fisionomia la escludeva senz'altro. Il barone volle esclamare, volle mostrare il suo stupore, ma ebbe timore di far peggio e non seppe che tacere.Il Governatore fu egli a parlare:— Che? Diss'egli. Vieni anche tu per farmi lasciar andare quei due miseruzzi di liberali? Ma tu non sai che essi hanno sul loro conto ben peggio dello scandalo di ieri sera.....— So tutto: riprese Baldissero. Vengo adess'adesso da Barranchi, il quale mi ha detto ogni cosa....— E non ostante ciò tu vorresti?— Io vorrei esaminar teco se ci sieno proprio gli elementi di una colpabilità che meriti trarre alla rovina due giovani ed alla disperazione le loro famiglie. Che se non ci fossero, vorrei persuaderti, e son certo verresti da te medesimo in questa persuasione, essere il meglio, ammonitili, rimandarli senz'altro alle case loro.Il barone, al trovare un così potente ausiliario alla missione che gli aveva data sua figlia cui gli stava pur tanto a cuore di contentare, si rallegrò tutto.— S. E. parla proprio da quell'uomo che è: diss'egli con un'ammirazione non scevra di piacenteria. Io sono perfettamente del suo avviso. Una buona lavata di testa, come si suol dire, a quei capi scarichi, la minaccia che se ci ricascano, vedranno il sole di Fenestrelle eles renvoyer... Ecco tutto!.... E mi pare superfluo procedere a nuovi arresti, gettare altre inquietudini nella città....Baldissero si volse al Governatore domandando:— Si tratterebbe forse di arrestare ancora degli altri?— V'è un certo medico, rispose il Governatore, che mi pare molto impeciato in tutto codesto, quel cotal dottor Quercia che dicono lacoqueluchedellesignore..... Qui il barone La Cappa s'interessa molto per lui.....— Mi consta, disse vivamente il padre di Candida, che gli è un buonissimo suddito di S. M. ed affezionato al Governo..... Mio genero il conte di Staffarda ne può far fede.Il Governatore tornò a sogghignare a fior di labbra; ma il marchese con quella serietà che gli era abituale disse al barone:— Stia tranquillo La Cappa. Io spero, anzi credo che non sarà il caso d'altri arresti nè di simili altri provvedimenti qualunque. Non è vero?Il Governatore, a cui era diretta quest'ultima domanda, chinò il capo e fece spalluccie.— Non desidero di meglio, rispose, ma l'affare mi par più serio di quello che tu creda. E se ti piace gettar gli occhi su queste prove.....Accennava egli colla mano i libri sequestrati a Francesco, le carte trovate nello stipo di Maurilio, e i rapporti dei delegati della polizia.— Volentieri: disse il marchese alzandosi da sedere per avvicinarsi allo scrittoio sul cui piano erano le carte additale.La Cappa avvisò che non gli restava altro da fare che andarsene. Aveva ricevuto la quasi sicurezza che il dottor Quercia non sarebbe stato inquietato, e gli tardava recare alla figliuola la notizia del suo successo diplomatico. Prese commiato; nessuno disse pure una parola per trattenerlo, ed egli si partì.— Eccoti prima di tutto il rapporto di un agente che è fra i più zelanti ed accorti, un certo Barnaba: così disse il Governatore, porgendo una carta al marchese, il quale si diede a leggerla con ogni attenzione.In quel rapporto erano esposti i fatti che abbiamo visto svolgersi, ed esposti colle tinte più scure che potessero aggravarne il significato. Il principale argomento per la colpabilità dei giovani incriminati, la prova più significante era l'allegata identità del cantante Medoro Bigonci col rivoluzionario ed esule romano Mario Tiburzio.Quando ebbe letto, il marchese rimase un poco riflettendo, mentre il Governatore lo stava guardando con una cert'aria interrogativa che pareva dire:— Eh? che ne dici? Ho io ragione sì o no?Il marchese ripiegò lentamente il rapporto di Barnaba, e porgendolo all'amico, disse con posata gravità:— Sì certo, questo può esser molto..... e può esser nulla. Provato che quel Bigonci sia un segreto agente del partito rivoluzionario, le attinenze di quei giovani ed i loro convegni con esso acquistano una grave presunzione di colpa; ma ciò rimane egli provato? Vi ha qualche cosa che lo dimostri oltre l'allegazione di questo agente?— A dire il vero, rispose il Governatore, finora una prova positiva non si ha tuttavia.... ma si avrà. Quel cotale non si è ancora potuto arrestare.... ma lo arresteremo; ed allora....— Intanto si è fatta la perquisizione nell'alloggio di questo Bigonci e dei suoi compagni, non è vero?— Sì: ed ecco il rapporto dell'altro agente detto il Rosso.— Presso il signor Benda non fu trovato nulla di veramente grave....— Che? Mi burli? E questi libri incendiari? E quella carta che il Selva con tanta arte ed audacia giunse a distruggere? Non sono tutte queste cose l'indizio dei mali propositi di codesta gente?— Sì, ma non una prova d'una congiura, d'un vero cominciamento di atti criminosi. Di quella carta, poichè fu distrutta, non possiamo al giusto misurare il valore, e sopra semplici congetture io sento che si deve andare adagio a procurar la rovina di tanti poveri giovani e delle loro famiglie. Nella supposizione di quel Barnaba, d'una vera cospirazione, qualche cosa che la riguardasse, corrispondenze od altro, avrebbe dovuto trovarsi presso i supposti congiurati; ebbene quali documenti furono sequestrati che valgano a fondare l'accusa?— Documenti positivi... veramente no; ma quanto basta per rivelare le tendenze, i concetti e la temerità di quella si può dire congrega. Da questo scartafaccio (e pose la mano sopra il manoscritto di Maurilio) apparisce come l'ispiratore di questa gente abbia da dirsi un certo giovinastro senza nome e senza famiglia, un antico vaccaro inurbatosi non so come, che ha studiato a casaccio non so dove nè per che mezzi, ed ha manifestato in questo zibaldone un amalgama di teorie audacissime e di dottrine sovversive, di tentativi letterari e di aspirazioni politiche, di versi e di prose, un piccolo Rousseau in erba o qualche cosa di simile con declamazioni alla Mazzini. Tofi ha avuto la buona ispirazione di far arrestare anche questo Maurilio...Siffatto nome fece dare in un sussulto il marchese di Baldissero.— Maurilio! Esclamò egli con voce non priva di emozione. E' si chiama con questo nome?Tutta notte era stato presente alla sua memoria quel funesto caso della sua vita, in cui un Maurilio era stato vittima della sua spada; l'immagine di quest'uomo ucciso dalla sua mano, gli era comparsa più viva e spiccata del solito nelle tristi fantasticaggini della sua veglia; quel nome gli aveva suonato come una rampogna sotto la volta del cranio pronunziato dalla sua coscienza; ed ora egli, questo nome non comune, mai più trovato riunito alla personalità d'un uomo vivente, lo udiva frammisto a quel viluppo d'incidenti a cui la tracotanza di suo figlio obbligava lui stesso a prender parte. Una specie di superstiziosa emozione lo prese, quasi un presentimento: che non a caso, che non invano quel nome suonasse al suo orecchio in tal circostanza,e l'individuo che lo portava gli si parasse innanzi nel suo cammino.— Parlami di costui: soggiunse egli vivamente. Chi è questo Maurilio? Donde viene? Che fa? Quale il nome del suo casato?Il Governatore aveva notato la viva impressione provata dal suo amico, ed a questo affollarsi di vivaci domande piene di curioso interesse, rispose non senza stupore:— Che ardore metti tu per questo cotale? Che cosa ti può interessare in quel miserabile plebeo?...Il marchese con un turbamento nei tratti del volto, tanto più notabile, quanto più era ordinariamente composta ad impassibile dignità la sua fisionomia; il marchese pose una mano sul braccio dell'amico e disse a voce bassa ma improntata di profonda emozione:— Ah! quel nome!..... Maurilio!..... Tu non lo ricordi quel nome?.... A me si è impresso con incancellabili caratteri nel mio cervello, e non vi sarà obliterato che dalla morte.... E ancora!....Il Governatore guardava il suo compagno coll'aria stupita di chi a mezzo un grave discorso ode proporsi ad un tratto il rompitesta d'un enimma; stava per interrogare sè stesso, se il marchese non avesse dato di volta.Baldissero gli strinse più forte il braccio e continuò col medesimo, anzi con più turbato accento:— Era una mattina d'inverno anche quella.... Non la ricordi?.... Eravamo giunti a Milano la sera prima, tu, Castelletto ed io; tu e Castelletto foste a cercarlo...Il Governatore si percotè colla mano la fronte.— Ah! mi ricordo: esclamò egli, come si fa quando le parole vi sfuggono di forza dalle labbra: quel povero Valpetrosa.....Baldissero proseguiva:— Ci scontrammo fuori Porta Romana; la neve copriva tutta la campagna.... come oggi.... Egli si avanzò verso di noi, e non disse che queste parole: «Se mi uccidete, vi raccomando mia moglie, — poichè ella è mia moglie! — ed il mio figliuolo che sta per nascere...»Il Governatore lo interruppe:— Via, via, non è il caso di andare a rivangare tutte queste dolorose memorie. Tu non hai da farti il menomo rimprovero. Ti sei regolato come ogni uomo d'onore avrebbe fatto in tua vece, e tuo padre te ne ha benedetto. Sua moglie l'hai tutt'altro che dimenticata ed essa ti ha perdonato.....— Ciò forse le ha accorciata la vita.....— Eh no, per Dio!... Basta non pensiamo a codesto.....— E il figlio?— Il figlio di quell'infelice mi hai detto tu stesso che è morto appena nato, quando tu eri già tornato in Ispagna.....— Così mi disse mio padre.— E quello che tuo padre ti disse ti conviene crederlo..... E poi non ci fu frammischiato in quell'affare quel vostro intendente o segretario, Nariccia?— Sì.— E non ti affermò ancor egli la morte del neonato?— Pienamente.— Dunque tu non avevi altri obblighi verso la memoria di quell'uomo..... Capisco che l'udir questo nome il quale nei nostri paesi è affatto raro, possa evocarti quei certi ricordi, ma non è neppure da pensarsi che il presente Maurilio abbia alcuna attinenza con quello là. Maurilio Valpetrosa apparteneva ad una famiglia di Milano, e questo è un misero trovatello dei nostri campi.— Un trovatello? Esclamò con qualche interesse il marchese.— Sì: da se stesso egli si denominò per Maurilio Nulla. To', dà un'occhiata a questa specie di professione con cui egli cominciò questo quaderno di suoi scarabocchi, e vedrai.Il marchese tolse in mano lo scartafaccio e lesse, scritte sulla prima pagina, le parole seguenti:«Chi sono io? Non so. Che cosa io pensi, che cosa io voglia, a che cosa tenda l'agitazione di anima e di spirito che sì spesso mi domina e mi sprona e mi tormenta, non so nemmanco.Se la sapienza dell'uomo, come dissero i Greci, pone la sua prima base nel conoscer se medesimo, oh quanto sono io lontano pur dal cominciamento di essa!Tuttavia havvi in me, sento in me, alcuna cosa che, quantunque non sappia definirla, mi pare la parte migliore di me. È desso il mio pensiero? È la intelligenza? È qualche cosa di comune a tutti gli altri? oppure è speciale all'esser mio?Sento così di frequente un bisogno immenso, irrefrenabile di effonder l'anima mia!.... A chi? A nessuno che mi si presenti colle sembianze d'uomo. In faccia ad un mio simile il mio labbro si rinserra sdegnosamente muto, e mi pare che una mano di gelo si imponga come coperchio a rinchiudere il cuore tumultuante.Nella campagna solitaria ove conducevo al pascolo la giovenca, parlavo alla natura, e la natura parlava a me; sentivo la sua gran voce, ora soave come la carezza del zeffiro, che mi aleggiava sulla fronte, ora terribile come il muggito della bufera che scuoteva le quercie... Qui in città la gran voce tace per lasciar cinguettare il brulichio degli uomini.Conviene ch'io parli a me stesso. Uscendo dall'interna chiostra formolate in parole, le audacie del mio pensiero, i sogni della mia fantasia, per fermarsi su questo pezzo di carta, sarà come se i lineamenti dell'anima ad uno ad uno venissero a riflettersi in uno specchio che ne conservasse l'impronta.A poco a poco i tratti si aggiungeranno ai tratti, l'immagine — forse — ne riuscirà discernibile, e l'anima riconoscerà se stessa.«Chi sono io? Mi ridomando. È il gran problema che incombe sulla vita di tutti gli uomini. Per me si è fatto più crudo, più spiccato, più imminente, direi, avendo voluto... (chi? Debbo dire il caso? o la Provvidenza? o la malvagità degli uomini?)... avendo voluto la mia sorte ch'io qui sulla terra fossi, in mezzo ad una razza umana organata a famiglie, senza famiglia, senza legami di sangue, senza protezione di parentela e di nome.«La prima volta che mi ferì il nome di bastardo sputatomi sulla faccia dalla Giovanna incollerita, non capii che cosa volesse dire quella parola, ma sentii che era un termine d'ignominia ond'era espressa cosa cui la gente faceva mia vergogna. Non mi sdegnai, non risposi, fuggii a nascondermi.«Ora ch'io incomincio a gettar giù queste parole sulla carta, colla mano tremante, colla testa in tumulto, colla dolce e profonda emozione con cui si deve parlar d'amore la prima volta, con cui si inizia una segreta corrispondenza con cara persona a cui tutto si crede dovere e poter dire di noi; ora io conto intorno a diciott'anni di vita... Ah non so nemmanco di sicuro da quanto tempo il destino mi ha balestrato a soffrir sulla terra! Sono diciott'anni che un uomo mi raccolse abbandonato; ma quanti giorni avessi allora di esistenza — forse mesi, forse già un anno — non mi si disse mai, non lo seppe neanco chi non mi lasciò morir sulla via.«In questi diciott'anni, dolorosissimi avvenimenti avvicendarono la mia combattuta esistenza: ma più gravi e più numerosi travagli e mutazioni si fecero nell'anima mia, in quell'essere interno che non so definire, dove tante idee s'intralciano e tanti diversi affetti si scambiano. Gli è i risultamenti di questo interno travaglio che io qui voglio registrare, per me — per me solo — a dar conto a me stesso dell'uso del mio ingegno, della mia volontà, dell'effetto di quegli studi saltuarii, abborracciati, ma cui è pur gran ventura che la sorte mi abbia concesso e mi conceda tuttavia di fare.«Le leggi del mondo fisico e quelle del mondo morale; le leggi dell'organismo sociale come quelle dell'organismo del corpo umano; la vita della terra che ci sostiene, ugualmente che la vita della schiatta umana, delle masse dei popoli e degl'individui mi sembrano concentrarsi e concertarsi in una grande unità, di cui la mia mente troppo debole, e i miei studi troppo incompiuti, non possono darmi tuttavia la forza di abbracciare il complesso, ma che travedo, trasento e perseguo, quasi per istinto, traverso tutti i fatti dell'esistenza, dai moti della mia anima rinchiusa nella carcere del corpo a quelli dei mondi nello spazio infinito.«Di questo travaglio analitico dell'intelligenza che si affanna alla ricerca della gran sintesi, scriverò le espressioni e le fasi in queste carte per conchiuderle il giorno in cui la morte mi faccia immota la mano, o per troncarle il dì, in cui un diverso apprezzamento me le faccia conoscere inutili e forse anco puerili.»Il marchese lesse queste pagine con attenzione e non senza meraviglia.— Un giovane in quelle condizioni, a quell'età, che scrive e pensa di tali cose, diss'egli, non è fatto ordinario. È in lui la stoffa d'un uomo di vaglia.— Per ora, disse il Governatore, c'è un demagogo. Leggi qui a questo punto ed a quest'altro..... se pure hai pazienza, e vedrai quali idee sovversive della società e fin anco della religione bollano in quel cervello esaltato.Baldissero scorse cogli occhi le pagine che gli additava il suo interlocutore e che erano state segnate colla matita rossa dal Commissario di polizia.— Leggerò molto volentieri, rispose di poi, queste cose che assai m'interessano; vuoi tu lasciarmi recar meco per ciò questo scartafaccio?— A piacer tuo: disse il Governatore chinando la testa con moto di gentile condiscendenza.In quella fu recato al Governatore un biglietto del conte Barranchi.— Aspetta, disse il Governatore, dissuggellando la carta, a Baldissero che pareva apprestarsi a partire: questa lettera ha forse riguardo al caso di cui tu t'interessi.— Ed è così infatti; soggiunse dopo letto quanto scriveva il comandante della polizia; odi ciò che dice Barranchi:«Caro Governatore,«Quel tal Medoro Bigonci venne arrestato ancor egli; ma l'impresario del Teatro Regio protesta che, essendosi ammalato il primo baritono, se lo si priva ancora di codestui, egli non potrà più tenere aperto il teatro, e quindi nemmanco darci la solenne rappresentazione di domenica sera, a cui deve intervenire S. M. colla Corte in gala.«Mio nipote San-Luca che conosce tutta la gente teatrale, è venuto qui ad assicurarmi che questo Bigonci è nient'altro che un artista di canto che sarà vittima d'una somiglianza, ma che egli metterebbe pegno qualunque cosa che pensa tanto alla politica quanto al Gran Turco.«Il Commissario mi riferisce che nelle sue risposte quel Bigonci si contenne in modo — naturalmente negativo — da non poter nulla dedurne a suo carico, e che mostrò certe lettere e certi ricapiti onde sarebbe provata la sua vera identità come cantante.«Le scrivo subito queste cose, caro Governatore, perchè sapendo come i Baldissero padre e figliodesiderino la sollecita liberazione di uno dei compromessi, Ella veda se vi ha modo di contentarli. Io non oserei prendere su di me tanta risponsabilità; ma se V. E. mi vi incoraggia con una sola parola, io darò senza ritardo gli ordini di rilascio per quel Benda, a favore del quale anche a Lei sarà andato a parlare il marchese di Baldissero.«Mi creda, ecc.»— Ebbene? interrogò il marchese quando ebbe udito la lettura di questo biglietto. Che cosa conti di fare?Il Governatore esitò un momentino.— Primo impulso, e quello che seguirei più volentieri, sarebbe di contentarti senza ritardo; ma tu capirai le considerazioni che me ne trattengono.... Il ministero dell'interno è in una specie di gara con noi militari. Se diamo passata a certe cose, farà comparire agli occhi di S. M. che noi non siamo abbastanza vigilanti od abbastanza oculati. Abbiamo ancora la disgrazia che il marchese di Villamarina passa colla nomèa di velleità liberali, ed essendo egli ministro della guerra, si crede che i militari per andargli a genio sieno più disposti a tolleranza di quel che converrebbe... Certo io non posso essere sospetto, ma pure....Baldissero lo interruppe con un grave sorriso:— No, il menomo dubbio non può nascere sul tuo conto di tepidezza nell'affetto alla monarchia e nello zelo del tuo ufficio, e spero che un sospetto di simil natura non debba nemmeno poter colpire me stesso. Comprendo la forza delle considerazioni che ti trattengono, e non cerco altrimenti di smuoverti dalla tua determinazione. Esaminerò io stesso di meglio la cosa, poichè tu me lo concedi, e quando io mi confermi nella mia persuasione che non vi sia in tutto codesto che imprudenza giovenile, sfogo di liberalismo rettorico e nissun vero attentato contro il legittimo Governo, allora ne parlerò io stesso di proposito al Re.— E sarà il meglio che potrai fare: disse il Governatore.Tese a Baldissero la destra e soggiunse:— Spero che tu non l'avrai meco per ciò?Il marchese gli strinse la mano con amichevole effusione.— Che dici? Potresti pur pensare una cosa simile? A luogo tuo, io non avrei fatto diversamente da quello che tu.Baldissero si partì dal Governatore, accompagnato da quest'esso sino all'anticamera.A muovere San-Luca a recarsi da suo zio il generale dei Carabinieri per testimoniare in favore di Bigonci era stato quell'amico e compagno di Maurilio e di Selva, che chiamavasi Romualdo.Assente per sua fortuna nel momento in cui facevasi la perquisizione ed arrestavasi Maurilio nella casa del pittore Vanardi, Romualdo, rientrando, vedeva scolpito sulla faccia spaventata di Antonio l'annunzio che gravi novità erano intravvenute, ed udiva dalle vivaci, colorite ed interminabili chiacchere della signora Rosa tutti i particolari dell'avvenimento.Romualdo avvertiva tosto tutta la rilevanza di questo fatto; il ritardo di Selva nel tornare a casa gli faceva inoltre temere che ancor egli fosse caduto negli artigli della Polizia, e capiva abbastanza che alcun sospetto era nato intorno alla congiura — e fosse pure soltanto un sospetto! — e che l'arresto di Mario, quando foss'egli conosciuto per chi era realmente, importava la rovina di tutti i loro audaci disegni patriotici, la perdita della libertà, e fors'anco della vita, per i coraggiosi giovani cospiratori. Le fucilazioni d'Alessandria non erano ancora tanto lontane che la loro memoria non legittimasse il timore di nuove condanne a morte.Metteva quindi il cervello alla tortura per cercar modo di trovare, se non un mezzo di salute, uno spediente che riparasse almeno in parte la minacciata rovina. Vanardi, sgomentito sino nell'imo fondo dell'anima, proponeva scappar subito così lontano che non si potesse veder più spuntare da nessuna parte sull'orizzonte il pennacchio prepotente e il candido budriere d'un carabiniere del re di Sardegna; col qual mezzo egli faceva anche quest'altro guadagno di mettere la salvaguardia d'una distanza non facilmente superabile fra sè e i suoi creditori, che incominciavano a tormentarlo.Ma Romualdo non era a salvar sè che pensava soltanto, gli era a salvar gli amici e l'impresa. Non potendo fermare la sua risoluzione su partito alcuno, al buio com'egli si trovava delle circostanze che avevano cagionato l'arresto, Romualdo determinò di andare attorno per la città in busca di informazioni dalla voce pubblica, e di cercare intanto sollecitamente di Mario, del quale importava saper le novelle e col quale urgeva massimamente concertare il modo di governarsi.Questi arresti e la perquisizione erano evidentemente dei fatti che si attaccavano alla comparsa nella sera precedente di quel personaggio sospetto cui Mario venendo aveva trovato nel camerino della portinaia e dal quale il congiurato s'era accorto essere stato seguito cautamente su delle scale. Sarebbe stato assai bene avere dalla portinaia alcuna informazione in proposito, e Romualdo pensò che niuno era al mondo più atto a codesto che la moglie di Antonio, la buona, vivace e ciarliera signora Rosa; ma, come un'idea ne mena un'altra, questo gli fece avvisare come fosse assai probabile che alle ciarle appunto della signora Rosa conmadamala portinaia si andasse debitore dei sospetti e della visita della Polizia.Romualdo parlò di proposito, a questo riguardo, alla brava donna, mettendole innanzi tutto il danno che ciarle imprudenti potrebbero cagionare; Antonio,il marito di lei, rincarò la dose, strepitò che la era stata di certo quella benedetta linguaccia a comprometterli nei suoi eterni pissi pissi, or con questa, or con quella delle donnacole della casa, che intanto la Rosa poteva andar lieta e superba che aveva messo in sull'orlo dell'abisso suo marito e la famiglia e gli amici del marito, e chi sa ancora se poteva evitarsi il capitombolo nel precipizio! e certo se una sola ciarlatina veniva tuttavia ad accrescere l'imprudente, involontaria delazione, la era una spinta da non potersi più parare in nessun modo dalla catastrofe.La Rosa rimase a tutta prima sbalordita; ma la non era donna da abbandonarsi così agevolmente per vinta. Protestò fermo e forte che Ella non aveva detto nulla, non aveva scoperto nulla di nulla, perchè di fatto non la sapeva neppure una briciola di quanto e' venivano maneggiando nei loro segreti convegni; che ad ogni modo le sue ciarle erano sempre le più innocenti del mondo, perchè la era donna abbastanza di senno per sapere quello che si ha da dire e quello che si ha da fare e che non sarebbe stato per suo fatto mai che nè la concordia d'una casa, nè la pace d'una famiglia, nè la sicurezza di nessuno avrebbe da rimanere compromessa; e qui, scambiando parte ed eloquenza, passava da difenditrice di sè medesima ad accusatrice d'altrui: e che gli era un grave torto far di questi nasconderelli ad una moglie che, come lei, si meritava stima e fiducia dal marito; e che la testa sulle spalle la aveva ancor essa e dentrovi due dita di cervello, forse più che non altri; e che a dare un consiglio ci valeva tanto bene che, forse e senza forse, s'ella avesse saputo di che si trattava e le avessero dato retta, non si troverebbero ora in quel bello spineto; e qui voltando, come dice Dante, il discorso per punta a suo marito, soggiunse: che gli era in lui un gravissimo torto, come padre di famiglia, quello di cacciarsi in queste mattane, e per delle bubbole d'idee sconclusionate rovinare in un amenne moglie e figli e tutta la baracca.Antonio era così avvilito dell'animo che non aveva più bastante vigore da contrapporsi alle invettive ed alle conclusioni della moglie, alla quale in cuore la paura gli faceva dar la ragione; Romualdo giudicò rettamente che per finirla bisognava dar passata a quello sfogo e non contrastar menomamente alle concitate di lei deduzioni.— Mia cara signora Rosa, diss'egli: tutto questo sta bene, ma ora, a pigliarla comunque, gli è di quel senno di poi di cui sa che son piene le fosse e che serve ad un bel niente. Lasciamo stare quello che è stato e pensiamo a quello che è. S'Ella ci sa spillar fuori dalla portinaia alcuni particolari sull'uomo di ieri sera, la ci può giovar molto.La Rosa si acquetò di subito. La cosa era troppo grave e la toccava troppo da vicino, perchè non le dèsse tutta l'importanza; ella era poi di cuore inclinata a fare il maggior bene che potesse anche a chi gli era indifferente, figuriamoci poi ora che erano in ballo così ponderosi suoi interessi! Inoltre la buona donna aveva sì fatto la brava in presenza del marito e di Romualdo che la rimproveravano, ma in fondo della sua coscienza c'era pure una vocina che le veniva dicendo come tanto tanto innocenti non fossero di questi effetti le chiacchere tenute colla portinaia, e il rimorso ch'ella ne sentiva si aggiungeva a stimolarne lo zelo.— Lasciate fare a me: diss'ella racconciandosi un poco e in fretta in fretta i panni dattorno. In due salti sono giù dalla portinaia, e non sono chi sono se in cinque minuti non le ho tratto il filo della camicia.Entrò pochi secondi dopo nel camerino della portinaia, dove le comari del quartiere erano in numero completo e vivissimamente impegnate in ciarle che s'incrociavano senza soluzione di continuità sull'importante argomento dei fatti straordinarii avvenuti quella mattina nella casa. Era colà la gran cuffiona della comare Marta, la lingua più affilata e meno temperante — a detta di monna Ghita, che pure non si lasciava passare nessuna davanti in codesto, — di tutto il quartiere; c'era la bocca sdentata e il mento lanuginoso della Polonia, la rivenditrice di pignatte e di pentole che stava di faccia: chi non c'era delle brave pettegole del pian terreno di quella strada? Le dicerie che avevano corso in quello scambio di supposizioni e di fiabe erano d'una fenomenale assurdità. I giovani erano stati arrestati tutti; le cagioni del fatto erano variamente allegate, ma tutte gravissime: nella casa loro la Polizia aveva trovato cose! cose da fare orrore! La supposizione che Barnaba la sera innanzi aveva fatta sorridendo alla portinaia, tanto per ispillarne la verità, che cioè in casa il pittore si fabbricassero monete false, era per alcune diventata una realtà luminosamente stabilita; altre che si pretendevano meglio informate volevano che quei giovani fossero stati scoperti gli autori dei misteriosi delitti che da qualche tempo avvenivano, e fra gli altri del furto negli uffizi di banca del signor Bancone, di cui da due giorni discorrevasi per tutta Torino; e ve n'erano anche di quelle che pronunziavano la misteriosa parola di politica, ed affermavano sotto voce che gli arrestati erano frammassoni, gente che rinnega Dio e la Chiesa, che commette mille orribili sacrilegi e nefandità, nascosta nelle cantine, e che costoro, fra gli altri, avevano giurato di dar fuoco ai quattro canti della città e sgozzare tutti i preti e far perire tutta la povera gente.In verità quella rispettabile assemblea di vecchie ciane, per dirla alla fiorentina, mostravasi assai poco propensa alla causa degli arrestati; non c'era che la portinaia, la quale credevasi in dovere di recare in mezzo alcune parole in loro difesa; ma aimè! la era quella una difesa assai poco abile edefficace, perchè si limitava a dire che vedendoli, quegli individui, nessuno mai più si sarebbe aspettato che avessero qualche cosa da spartire colle manette della Polizia e colla paglia del carcere.L'entrata di Rosa in mezzo a questo sinedrio di cuffie, produsse, come si suol dire, una viva sensazione. Le ciarle inaridirono un momento sulle bocche ancora aperte, gli occhi lanciarono una mitraglia di punti interrogativi con una curiosità elevata alla quinta potenza: le pettegole si serrarono intorno alla nuova venuta come in una rocca cinta d'assedio si stringe intorno ad un convoglio di viveri la guarnigione affamata.Rosa non ebbe da interrogare, chè le richieste delle altre le fioccarono addosso come gragnuola; non ebbe da usare arte nessuna a trar fuori da monna Ghita il racconto della visita dello sconosciuto, la sera precedente, perchè di proprio impulso la portinaia afferrò quella propizia occasione per narrare la ventesima o la trentesima volta tutti i particolari, tutte le parole, tutti gli atti che avvennero, ed anche alcuni che non avvennero in quel famoso abboccamento coll'uomo il quale rassomigliava da sbagliarlo, a detta sua, colfumistadi via Santa Teresa; abboccamento cui l'acuta penetrazione e l'infallibile giudizio della moglie di Bastiano le avevano fatto ritenere come strettamente collegato cogli strepitosi avvenimenti della mattina che aveva susseguito.Rosa, quando ebbe saputo ciò che le importava, fece il miracolo di sbrigarsi dalle ciarle interrogative e dalle mani adunche di quell'onorevole congrega, e corse ad informarne Romualdo, il quale, provvisto di quelle nozioni, s'affrettò ad andare in traccia di Mario.Non avendolo trovato nell'altro suo riposto alloggio, Romualdo pensò che non avrebbe potuto coglierlo altrove che al teatro, dove si sarebbe recato alle prove ch'egli era obbligato di farci per sostituire il primo baritono ammalato; e delle quali prove s'avvicinava l'ora. Diffatti al teatro Medoro Bigonci non era ancora venuto; ma Romualdo camminando lentamente sotto i portici in quella direzione per cui supponeva che l'amico sarebbe sopraggiunto, lo incontrava poco stante sulla cantonata fra piazza Castello e via di Po.Mario, visto appena da lungi Romualdo, gli fece un cenno impercettibile perchè lo seguitasse, e col passo tranquillo d'uno che passeggia per suo diletto, cambiato il cammino, si avviò verso il mezzo della piazza deserta di passeggeri, dove si rammontava la neve che seguitava a fioccare.Romualdo fu lesto a raggiungerlo.— Qui, gli disse di subito Mario, con questo tempaccio, saremo osservati di meno e certo non ascoltati da nessuno, quantunque lì presso (ed additava le torri scure del palazzo Madama) abbiamo il covo della fiera belva della Polizia..... Selva e Benda sono arrestati e tu vieni per avvisarmene.— Selva e Benda? Esclamò Romualdo che non potè frenare un moto di sgomento. Ne sei sicuro?Mario chinò il capo in segno affermativo.— Allora tutto è scoperto: continuò Romualdo. Sono venuti a casa nostra a fare la perquisizione cercando di te, ed hanno arrestato Maurilio.E qui di fretta, nelle meno parole che si poteva, ripetè all'amico quanto era avvenuto e quanto per mezzo di Rosa erasi appreso di poi dalle ciarle della portinaia.Il cospiratore tacque un istante, quando Romualdo ebbe finito, aggrottando le sopracciglia nella contenzione del suo cervello per meditare.— Sono sospetti che si hanno soltanto oppur delle prove a nostro danno? Diss'egli di poi, parlando sotto voce, quantunque nella vastità della piazza, in cui si trovavano i due amici, non ci fosse che un deserto di neve. Voglio sperare che sieno sospetti soltanto, ed a noi che dobbiamo lottare, tocca il trovar modo da distrurli..... Ragioniamo un po'. Se prove realmente ci fossero, avrebbero proceduto agli arresti in più larghe proporzioni. Selva alla prima volta fu lasciato libero, e non fu preso che in casa Benda per un avvenutovi episodio; Vanardi stesso non sarebbe stato lasciato tranquillo. D'altronde si potrebbe supporre che la congiura fosse da qualche traditore svelata alla Polizia; ma come immaginare che fossero denunziati i nostri nomi che ignorano tutti, fuorchè pochi dei capi, fra cui impossibile un tradimento?... Sono le ciarle della portinaia a quella spia poliziesca di ieri sera che hanno data la sveglia. Ma come, e per qual caso quella spia si è ella cacciata là dentro, evidentemente a nostra intenzione, forse forse più specialmente per me?Si fermò un istante assorto in più profonda riflessione.— Sì per me: ripetè egli. Il modo con cui mi ha guardato, l'essermi venuto dietro di quella guisa...Fece un movimento quasi contratto, come di chi vede apparirsi alla mente un'idea ancora fuggitiva in cui si contiene la verità, e per afferrarla fa un atto anche colle membra, come se ciò ne l'avesse da aiutare.— Ma la figura di quell'uomo io l'ho vista altra volta, in altri tempi, in altri luoghi... Dove? Dove?Si volse di scatto a Romualdo.— Sai tu s'egli sia piemontese quel cotale?— Non so... ma probabilmente sì... anzi certo, perchè se fosse altrimenti, monna Ghita non avrebbe taciuto la circostanza importante ch'egli parlasse in modo diverso da noi.— Io in Piemonte è la prima volta che ci vengo. Dunque se l'ho veduto... e più ci penso e più mi persuado che gli è così..... l'ho veduto in altro paese... In Francia? No, non mi pare... In Roma?...Ebbe come un lampo di visione nella memoria.— Sì, in Roma... Aspetta ch'io raccolga le mie idee. Un poliziotto!... Quel pane d'infamia si comincia a mangiarlo di buon'ora, chi ha l'anima vile; ed in Roma ho avuto appunto di che spartire con quella scellerata Polizia...Mandò un gridolino, che soffocò tosto, di sorpresa e di soddisfazione.— L'ho trovato!... Mi ricordo che il Delegato di polizia che procedette al mio interrogatorio in Roma e mi tenne il linguaggio più burbero e più minaccioso che seppe non aveva l'accento romano. Stemmo in faccia l'uno all'altro quasi mezz'ora, e i miei lineamenti dovettero imprimersi nella sua memoria come i suoi si stamparono nella mia... Quel Delegato, ne metterei pegno la mano, è l'uomo di ieri sera.— Ma allora, disse Romualdo profondamente turbato, egli conosce appuntino l'esser tuo...— Non basta ch'egli lo conosca, interruppe Mario vivamente: bisogna che lo provi. Per ciò non potrà allegare altro che la sua affermazione. Questa basterà ed anche troppo, quando non vi sia nissun argomento in contrario a mia difesa; ma se troviam modo — e bisogna cercarlo assolutamente — di recare in appoggio della mia identità innocente con Medoro Bigonci qualche altra affermazione autorevole, si metterà la denunzia del poliziotto in conto d'uno sbaglio dovuto ad una rassomiglianza, e il pericolo potrà essere superato.— Dove trovare quest'affermazione autorevole? Domandò Romualdo sempre turbato quel medesimo.E Mario sempre calmo, con tutta libertà di mente:— C'è qualcheduno che può procurartela. Aspetta.Trasse di tasca un taccuino, vi stracciò un foglio e vi scrisse su poche parole colla matita.— Gli è certo, diss'egli poi, che adess'adesso sarò arrestato in teatro, dove i birri già m'aspetteranno; appena ciò sia, tu corri dal dottor Quercia a casa sua, di cui ti scrivo qui sopra l'indirizzo; narragli l'accaduto senz'altro ed esponigli di che si ha bisogno. Gli è quell'uomo, a cui vi ho detto ieri sera che dovremo il concorso della plebe: egli può molto, e vuole, e sa!.... Non dubito ch'egli ci trarrà d'ogni impaccio.— Sta bene: rispose Romualdo, riponendo accuratamente in un portafogli la cartolina datagli da Mario.— Ed ora, disse questi sorridendo, vado a farmi arrestare.Si diresse di buon passo, traverso la piazza, alla volta del teatro, dove giuntovi appena, la sua previsione fu pienamente effettuata.— Gli è Lei il signor Bigonci? Gli domandò un uomo d'ignobil sembiante.— Io in persona.— Si compiaccia venir con noi (erano in due) al Palazzo Madama, dove il signor Commissario lo aspetta.— Il signor Commissario? Esclamò Mario con uno stupore che niun valente comico avrebbe saputo finger di meglio. Non so che cosa abbia da fare con me il signor Commissario.— La lo saprà, quando gli sarà venuta dinanzi.— È giusto. Andiamo pure.Ma qui il povero impresario, che era già in una maledetta bizza pel ritardo di Bigonci nel venire alle prove; l'impresario saltò in mezzo esterrefatto.— Come! Gridò egli. Me lo conducete via? E le prove?— Che cosa importa a noi delle vostre prove? Ci fu dato ordine di portarlo dal Commissario appena lo trovassimo, e ce lo portiamo.— Ma almanco lo si lascierà venir tosto a far queste benedette prove, senza cui non posso andar avanti.— Sì, bravo, contateci su: risposero i birri ridendo ironicamente. E' ci vorrà un poco prima che costui ne abbia gli occhi netti.— Oh povero me! Esclamava l'impresario. Ma io sono un uomo rovinato..... Io protesto.Come è facile immaginare, tutte le esclamazioni e tutte le proteste del pover'uomo non giovarono a nulla, e Medoro Bigonci fu tratto in arresto.Mentre l'impresario si disperava della più bella, nell'emozione che questo fatto aveva destato in mezzo a tutti gli artisti colà radunati, Romualdo si accostò chetamente all'impresario medesimo e presolo ad un braccio per chiamarne a sè l'attenzione, gli disse:— Senta un po' qua signore.Romualdo, che pochi anni addietro aveva dato fondo al suo patrimonio scialandola da giovane elegante, era stato frequentatore assiduo di spettacoli e conoscente famigliarissimo del mondo teatrale[7]; l'impresario non avevalo ancora dimenticato e volentieri si rese all'invito di lui, appartandosi alquanto dagli altri.— Oh sor avvocato: cominciò senz'altro l'impresario colla passione d'un uomo che vede recarglisi un grave danno irreparabile: a me le mi toccano proprio tutte! Questa, le dico io, che mi rovina senz'altro. La stagione è già andata fin adesso zoppicando, e quest'ultimo colpo mi rovescia colle gambe in aria. Senza Bigonci io non ho più uno spettacolo tollerabile da mettere in iscena, e mi conviene chiudere il teatro. Si figuri il mio danno! Ho l'ultimo quartale da pagare. In quest'ultima settimana di carnevale avrei fatto i migliori introiti di tutta la stagione, che mi avrebbero alquanto rimpannucciato. Che! Non posso nemmanco dar la rappresentazionedi domenica per la venuta della Corte!!Si cacciò le mani ne' capelli come chi è cascato in un abisso di desolazione, da cui non vede mezzo di uscire.— Dia retta: gli disse Romualdo: forse c'è ancora un mezzo di scampo.— Sì? Esclamò il pover'uomo. S'Ella mi procurasse questo mezzo, sor avvocato, mi renderebbe un servizio de' più fioriti che si possano.— Ricorra alla nobile Direzione dei teatri. Sono tutti personaggi titolati e potenti che possono efficacemente adoperarsi a far liberare Bigonci.— La dice bene, ci ho già pensato, ma Ella sa pure che il Commissario Tofi, quando ha qualcuno nelle unghie, a lasciarlo andare.... Converrebbe almeno sapere che cosa ha dato motivo all'arresto di Bigonci.— Credo d'averlo indovinato. Bigonci ha la disgrazia di somigliare moltissimo ad un certo rivoluzionario romano che è al bando di tutte le polizie, e lo si sarà scambiato per quello. Io li ho conosciuti ambedue, e davvero che c'è da sbagliare. Se qualcheduno testimoniasse di codesta cosa...E l'impresario sollecito:— Questo qualcheduno può essere Lei....— Molto volentieri; ma io essendo amico di Bigonci e coabitando con esso lui, la mia parola non può avere tutta quell'autorità che si vorrebbe quando non sia confermata da quella d'un altro.— Senta, caro avvocato, andiamo insieme dalla Direzione teatrale. Ella, che sa parlar meglio di me — un avvocato è fatto apposta — esponga le cose a mio nome; e se ciò non basterà ancora, allora vedremo qual altra pedina sia il caso di muovere.Così fecero. La Direzione teatrale, composta a quel tempo di titolati del più puro sangue aristocratico, si commosse assai all'affermazione che, mancando Bigonci, la rappresentazione dell'ultima domenica del carnovale non avrebbe potuto aver luogo; e promise pigliar interesse per questa faccenda. Ad un punto interrogò, com'era naturale, se l'impresario conoscesse le ragioni dell'arresto di quel cantante, e Romualdo senza esitare ripetè ciò che aveva già detto all'impresario, e poi con tutta sicurezza soggiunse:— Ma io e qui l'impresario possiamo far fede che questo è realmente un mero errore materiale, frutto di quella straordinaria rassomiglianza. Gli è da cinque o sei anni che noi conosciamo Bigonci; e sempre l'abbiamo conosciuto per artista di canto e sotto il suo nome, e ne possiamo rispondere.— Gli è vero? Domandò il presidente della Direzione all'impresario.Questi non osò negare, nè contraddire menomamente il suo compagno; ma non osò neppure dir franco di sì; curvò il capo in una mossa dubbia, che gli altri presero per affermativa. Il presidente della Direzione scrisse senza ritardo una lettera di ufficio al generale Barranchi, nella quale, appoggiandosi sulla testimonianza dell'impresario, si negava l'identità dell'arrestato col rivoluzionario Mario Tiburzio e si faceva un pressante richiamo per la pronta liberazione del baritono Bigonci, la cui presenza era necessaria al buon andamento degli spettacoli nel teatro di S. M.Mentre uscivano dall'ufficio della nobile Direzione teatrale Romualdo e l'impresario ebbero la fortuna d'incontrare il conte San-Luca il quale recavasi alla sua solita stazione al caffè Fiorio.Nel tempo della sua vita spendiosa ed elegante, Romualdo era stato per due carnovali di seguito vicino disedia chiusaal teatro Regio col conte San-Luca, ed aveva avviata con esso una certa amichevole relazione che s'era stretta ancora di vantaggio nelle frequenti volte che si erano trovati di compagnia nella casa d'una celebre prima donna cui proteggevano ambedue ed in certe cene che regalavano di conserva all'appetito delle corifee del Corpo di ballo. Benchè Romualdo, ridotto al verde, avesse cessato da un po' di tempo quel genere di vita, tuttavia il conte San-Luca degnavasi ancora rispondere con garbo al saluto che il giovane borghese gli dirigeva, trovandolo per istrada, così bene che per le attinenze del passato, Romualdo si credette in facoltà di fermare il nobile zerbino per informarlo della grave disgrazia che aveva colpito l'impresario e minacciava far sospendere il corso delle rappresentazioni del massimo teatro torinese.A San-Luca parve cotesta una cosa tutt'altro che da prendersi a gabbo, e quel passo che alle istanze del marchesino di Baldissero aveva rifiutato di fare presso suo zio, si decise di farlo ora che vide minacciata di un'immatura fine la serie de' suoi divertimenti. Corse adunque dal conte Barranchi, e tanto disse e tanto fece, affermando, testimoniando, giurando l'innocenza dell'incriminato baritono, che ne ottenne quella lettera che abbiamo vista scritta dal comandante della Polizia al Governatore della città.A ciò venne ad aggiungersi la pratica iniziata dalla nobile Direzione teatrale, la quale avendo dato luogo ad uno scambio sollecito di dispacci dall'una parte e dall'altra di quella stessa giornata, ebbe per risultamento un compromesso mercè cui la Polizia consentiva a ciò che il sig. Bigonci andasse in teatro lungo il giorno alle prove e la sera alla rappresentazione, ma ci andasse accompagnato da due arcieri travestiti che sempre lo custodissero a vista, e finita la sua parte lo rimenassero nella carcere assegnatagli al Palazzo Madama: frattanto si appurerebbero di meglio le cose per prendere poi a questo riguardo una risoluzione definitiva.Ma Romualdo non si contentò d'essersi adoperato in questo modo e d'aver ottenuto codesto. Avendo poscia appreso tutto ciò che era capitato, assai glidoleva e della pena in cui era la famiglia Benda, e del modo barbaro e villano in cui Selva era stato trattato nel suo arresto, e del pericolo gravissimo che incombeva sui tre carcerati amicissimi suoi, Maurilio, Francesco e Giovanni, e sul buon Vanardi stesso e la sua famiglia, e su se medesimo. Pensando e ripensando quali modi possibili gli si presentassero mai da tentare per ottenere alcun riparo all'avvenuto danno ed a quelli più gravi minacciati, dopo averne immaginato di mille guise spedienti gli uni meno accettabili degli altri, si fermò ad un tratto sopra un proposito che era strano, quasi temerario, ma che gli sembrò presentare alcuna probabilità di successo.Aveva udito la sera innanzi narrato da Mario Tiburzio un suo colloquio con Massimo d'Azeglio venuto di quei giorni in Torino, a detta di tutti, non senza intendimenti politici; aveva udito come questo patriota che disposava insieme nel suo liberalismo le delicature dei modi aristocratici coll'amore della democrazia e della libertà, nutriva molte speranze per la causa italiana nei generosi e nazionali, ancora segreti sentimenti del re; come appartenente egli stesso a quel ceto nobiliare che teneva in Piemonte l'assoluto sopravvento, benchè per opinioni da' suoi pari disgiunto, Romualdo supponeva che alcun influsso di protettorato potesse esercitare colla sua parola Massimo D'Azeglio, il quale d'altronde conosceva, stimava ed amava l'animo forte, le convinzioni profonde e l'onestissima operosità patriotica di Mario Tiburzio. L'amico di Mario e di Selva sapeva d'altronde che gli uomini di superiore intelligenza non amano stare e non istanno soggetti alla volgare tirannia di quelle regole delle forme sociali, per cui i rapporti fra persona e persona ricevono limiti ed ostacoli spesso impacciosi; e dagli scritti del nobile piemontese e da quanto conosceva della vita di lui, Romualdo era chiarito della superiorità dell'intelligenza di Massimo; poteva quindi esser quasi certo che presentandosi a lui, benchè ignoto affatto e di persona e di nome, ma presentandosi con fare appello alla generosità di quel carattere, ne sarebbe stato accolto ed ascoltato senza fallo.Romualdo non lasciò raffreddare in sè il calore di quella risoluzione; si avvide che, indugiando, ne avrebbe perduto il coraggio, e si diresse senz'altro verso la locanda d'Europa, allora chiamata albergo Trombetta, dove sapeva alloggiato il D'Azeglio.Entrò sotto quel portone, salì quelle scale fino al pianerottolo dell'uffizio della locanda col cuore che a dire la verità gli palpitava un pochino. Si trattava di comparire innanzi ad un uomo cui la gloria già acquistatasi dava una imponenza maggiore che non faccia l'autorità ufficiale d'una carica governativa. Al primo garzone che gli venne incontro, Romualdo colla faccia sicura d'un uomo che domanda la più semplice cosa del mondo, chiese:— Massimo d'Azeglio c'è?A Romualdo pareva che questo nome bastava da sè, e non aveva punto bisogno d'essere scortato da nessun titolo; ma così non parve al cameriere. Questi guardò bene dall'alto in basso il giovane che lo aveva interrogato, poi rispose con tono che mostrava codesto esame non avergli ispirato molta deferenza pel visitatore:— Mi par bene che il marchese d'Azeglio non sia ancora uscito.E voltosi ad un uomo attempato che sedeva dietro un tavolino nell'uffizio, domandò a sua volta:— N. 87 c'è?L'uomo del tavolino si volse a guardare un gran quadro di legno nero in cui erano schierati in file regolari i numeri di tutte le camere dell'albergo con un gancino a cui si appiccava la chiave di quelle non occupate o di cui l'occupante fosse uscito.— C'è: rispose come uno Spartano l'uomo attempato.— Sa Ella dove sia il numero 87? Domandò il cameriere a Romualdo.— No: rispose questi che ignorava compiutamente la geografia di quella principale fra le locande torinesi.— Su, all'ultimo piano: disse il garzone, e mentre Romualdo cominciò a salire, fattosi alla ringhiera della scala tirò una corda che fece suonare un campanello nella stanza di passaggio dell'ultimo ripiano.Il nostro giovane continuò a scalpitare, salendo, la lista di tappeto che copriva il mezzo dello scalone di marmo, e poscia la stuoia più democratica che dal secondo piano in su sostituiva il tappeto, e quando giunse proprio in alto della casa, trovò dritto sull'ultimo scalino un altro cameriere che era postato là come un punto interrogativo.— Cerco il numero 87: disse Romualdo senza aspettar altro.Ma l'Azeglio, avvezzo ad essere disturbato da mille fastidiosi inutilmente, aveva dato ordini opportuni in proposito.— Mi dica il suo nome: ribattè il cameriere, sul quale l'aspetto del giovane non pareva aver fatto una impressione diversa da quella del suo compagno al primo piano; ed io andrò ad annunziarlo.Romualdo trasse di tasca un suo taccuino e sopra un foglio che ne stracciò scrisse il suo nome e sottovi queste parole: «Le sono affatto sconosciuto, ma vengo a chiederle un grandissimo favore per quattro giovani patrioti.»Il cameriere prese la carta e sparì voltando in un corridoio. Il battere del cuore di Romualdo non cessò in quei pochi momenti che stette aspettando; e quei momenti furono pochi davvero. Il garzone ricomparve all'angolo del corridoio e disse al giovane che aspettava:— Mi segua.Camminarono un tratto e poi si fermarono aduna porta sopra cui era scritto il numero 87, e nella toppa della cui serratura stava ficcata la chiave.Il cameriere battè leggermente nell'uscio colla nocca delle dita.— Avanti: disse dall'interno della stanza una voce velata, un po' debole, quasi stanca, ma gentile e piacevole.L'uscio fu aperto, il garzone si trasse in disparte, Romualdo entrò e si trovò faccia a faccia coll'alta e spigliata persona di Massimo d'Azeglio.— Venga avanti: disse l'illustre scrittore, aguzzando gli occhi, col serrar delle ciglia, per un vezzo che era abituale alla sua miopia, verso il giovane che entrava inchinandosi.Era l'Azeglio avviluppato in una vestaccia di lana bianca che dimezzava di forma fra la zimarra e l'antico lucco fiorentino, con un capuccio che cascava dietro le spalle, e colle mani se ne teneva egli serrate al corpo le falde, mentre drizzatosi in piedi faceva un passo nella direzione della porta ad incontrare chi entrava.Era quella dall'Azeglio occupata una piccola e modesta cameretta, con una semplice tappezzeria di color chiaro appiccata alle pareti, con un piccolo letto senza cortinaggio, con pochi mobili di semplice legno verniciato, con una modesta valigia in un angolo, con un piccolo caminetto alla Franklin, in cui ardeva un fuoco niente superbo. Quella stanza non rispondeva alla dignità del titolo marchionale e dell'aristocratico lignaggio, ma all'umiltà ed alle mediocri fortune dell'artista, del letterato e del secondogenito di nobil famiglia.La finestra si apriva nella parte esterna della casa e si vedeva, precisamente di faccia, al fondo della piazza reale, sorgere la massa imponente del palazzo regio, dimora di Carlo Alberto. Presso ai vetri della finestra era un piccolo tavolino con sopravi alcuni fogli, di cui uno scritto a metà, e la penna, tuttavia bagnata d'inchiostro, posatavi daccanto; si vedeva che l'Azeglio era stato interrotto mentre scriveva e s'era tolto pur allora da quel tavolino, traendo indietro per alzarsi la poltrona che gli stava dinanzi. La cominciata scrittura, a cui Massimo stava lavorando, era il famoso opuscolo, che tanto utile effetto doveva produrre in Italia col titolo:Gli ultimi casi di Romagna.Romualdo non seppe a tutta prima che inchinarsi, come ho detto, pronunziare le usate parole di saluto e guardare con intentiva, ma rispettosa attenzione quella simpatica figura sorridente, illustrata dalla fama.— Lei dunque è il signor Romualdo, incominciò l'autore d'Ettore Fieramosca, guardando sul fogliolino che il giovane avevagli mandato, e ch'egli teneva ancora in mano; e viene da me per un favore?— Signor sì: rispose il giovane: ed Ella comprenderà meglio la ragione della mia temeraria venuta, quando le avrò detto che uno di quei patrioti per cui vengo ad interessare la sua generosa bontà, è Mario Tiburzio.Massimo d'Azeglio sogguardò un istante il suo interlocutore con acuità di sguardo profondamente scrutativa. La missione politica cui l'illustre scrittore aveva assunta non era ignota al partito assolutista che teneva allora l'impero in Piemonte, e ben sapeva l'Azeglio di essere osservato, spiato, e circondato di tranelli e d'insidie, affine di coglierlo in fallo ed aver un pretesto d'ordinargli lo sfratto dagli Stati del re, a dispetto delle sue aderenze e del suo nome. E che questo avvenisse prima ch'egli avesse potuto, non che compiere ma tentare l'opera per cui era venuto, sommamente avrebbe doluto all'Azeglio; quindi senza nascondersi per nulla, senza infingersi menomamente, stava egli in sulle guardie con quella finezza di discernimento che non poteva dirsi furberia, la quale troppo spesso confina coll'inganno e colla mala fede, ma che era una prudente avvedutezza naturale al suo ingegno, onde governava i suoi atti e parole.Il fatto d'uno sconosciuto che gli si presentava senza ricapiti di sorta, e di colpo veniva a gettargli innanzi il nome di uno dei più esaltati tra i rivoluzionari italiani, era tale da far nascere sospetto anche nel più confidente e nel meno avvisato degli uomini; laonde Massimo stette un momento prima di rispondere, e affondò quel suo sguardo limpido e sereno negli occhi di Romualdo. Ma fu un istante. Osservatore acuto ed esercitato degli uomini e delle cose, il nobile patriota non tardò a leggere sulla fisionomia di chi gli era venuto innanzi l'onestà, la sincerità e insieme quella ammirazione per colui che veniva a supplicare, la quale, anche all'animo degli uomini superiori, è la dolcezza d'un omaggio non disgradito. Fece seder Romualdo innanzi a sè, e con piglio pieno di fiducioso abbandono e tale da ispirare la più compiuta fiducia, disse a sua volta:— Ella conosce Mario Tiburzio?Romualdo sentì l'obbligo di spiegare le relazioni che passavano fra lui e l'emigrato Romano, e di narrare il modo onde avevano avuto principio; poi finì per esporre come Mario fosse stato arrestato e al pari di lui tre altri giovani suoi amici, ne disse il modo e raccontò eziandio quanto era stato combinato fra lui e Mario, e quanto egli aveva già incominciato ad operare affine di ottenere distrutti i sospetti della Polizia e liberati i quattro giovani.D'Azeglio lo ascoltò in silenzio, molto attento e con evidentissimo interesse. Poscia manifestò il più gran rincrescimento delle cose avvenute e il suo grandissimo desiderio che le cattive conseguenze di tali arresti si potessero impedire. Taciutosi un momento, recandosi sopra sè, si volse quindi con vivacità al suo interlocutore, dicendogli:— È Ella venuta per caso affine di avere in me un altro testimonio da escludere l'identità di Mario?— No, signore: rispose Romualdo con accento pieno di sincerità. A codesto non avevo nemmanco pensato.— Tanto meglio!... Per quell'opera avrebbe trovato in me uno stromento affatto inefficace. Io non sono buono a mentire. Non è mica un elogio che mi faccio; è un fatto che espongo. La mia natura è così: a dire il contrario del vero non ci ho gamba, e le parole, se il voglio fare, mi si strozzano nella gola. Tutt'al più posso tacere il vero.— Io ho pensato che Ella potrebbe aiutarci: disse allora Romualdo: il come, non l'ho nemmeno cercato. Mi sono detto fra me e me: quando egli sappia come stanno le cose non negherà di accordarci il suo patrocinio, e il modo di questo Massimo d'Azeglio saprà trovarlo assai più facilmente e meglio acconcio di quello che io gli saprei suggerire. Non sono stato a riflettere dell'altro, e sono venuto.D'Azeglio sorrise, stette un poco assorto in sè, guardando traverso la piazza tutto bianca di neve, le brune muraglie del castello, la neve che continuava a fioccare con denso turbinar su se medesima, e in fondo alla scena, per così dire, il severo palazzo reale; poi disse ad un tratto, come cedendo ad un interno sentimento che prorompa:— Ebbene sia: Ella ha ragione d'esser venuto. Tenterò la salvezza di quei poveri giovani, e con ciò tenterò eziandio qualche cosa di maggiore pel bene d'Italia.Si tacque un momento quasi cercando le parole con cui aveva da esprimersi; poi crollando lievemente la testa con atto pieno di grazia e d'abbandono e sorridendo di quella sua guisa gentile ed amichevole, soggiunse:— Io non ho autorità nè influsso di sorta presso nessuno degli alti funzionari che regolano a lor posta lo Stato, anzi sono loro grandemente in uggia ed in sospetto, e una parola mia farebbe peggio; non è quindi a nessuno di essi che penso indirizzarmi. Dacchè sono in Torino, quest'ultima volta, ho sempre pensato di domandare un'udienza al Re; ora le cose sono ad un punto che la desidero e la stimo necessaria più che mai. Domanderò sollecitamente questa udienza, e per essere sicuro del fatto mio, la domanderò per mezzo del marchese di Baldissero, il quale, benchè di opinioni affatto contrarie alle mie, mi stima, e cui io stimo oltre ogni dire. Al Re francamente, insieme con tutte le altre cose che voglio dire, parlerò dei suoi amici, signor Romualdo, e spero di ottenere dal cuore di Carlo Alberto la più clemente risposta.— E non si può dubitare dell'esito: proruppe Romualdo con un calore contenuto che era un entusiasmo di buona lega frammisto a riconoscenza. Ella avrà tolto dalle angustie la famiglia di Benda, avrà salvata quella di Vanardi; avrà conservato all'Italia dei giovani che son pronti a dare per essa, quandocchessia la vita....Qui si fermò ad un tratto, e chinò gli occhi con aspetto dubbioso ed esitante, come chi vede affacciarglisi ad un tratto una difficoltà od uno scrupolo di molta rilevanza.— Ma, soggiuns'egli tosto di poi con accento privo della foga di poc'anzi, ma non di una certa dignitosa sincerità, sollevando di nuovo gli occhi sull'Azeglio che lo guardava sempre con quella sua attenzione benignamente osservativa: ma supplicare di grazia Carlo Alberto, noi... imperocchè gli è come se noi medesimi lo supplicassimo.... noi che in realtà congiuriamo a suo danno e vogliamo abbattuto il suo governo che stimiamo avverso ai destini ed ai diritti della nostra patria!... Lo dobbiamo noi? Lo possiamo in coscienza?...Massimo d'Azeglio prese vivamente la mano del giovane e la strinse nella sua.— Bravo! Esclamò. Ecco uno scrupolo che mi piace.— E poi, continuava Romualdo, l'avere dal Re una grazia anco a quel modo ottenuta, non implicherebbe un tacito impegno da parte nostra di rinunziare ai nostri propositi e disegni? E noi ciò non possiamo fare a niun modo. Un giuramento solenne, e più ancora le nostre convinzioni non ce lo permettono. Fino alla morte, con ogni mezzo che ci si presenti, noi dobbiamo e vogliamo adoperarci per la libertà e per l'indipendenza d'Italia....— E va benissimo: interruppe con vivacità l'autore diNiccolò de Lapi. E ciò dovete fare, e farete, ci conto su. Ma la questione sta nei modi di questo adoperarvi per la santa causa della patria. Certo riavendo da Carlo Alberto la libertà tolta loro dalla sua Polizia, i vostri amici non dovrebbero più vagheggiare nè tentare impresa nessuna che fosse contro la persona o lo scettro di quel Re... Io non voglio saper nulla dei vostri attuali progetti; ma conosco abbastanza le follie e le illusioni di quel partito a cui in disperazione d'altro mezzo avete dato il nome, per esser certo che voi scambiate per attuabili delle chimere impossibili. Non vi domando in nessuna guisa una promessa di rinunziare a quei pazzi disegni di cui le circostanze medesime vi mostreranno l'assoluta vanità. Sono sicuro che a quei propositi vi siete appigliati perchè non vedevate altro modo di agire in pro della libertà: quando io stesso vi possa additare un mezzo più sicuro e più leale da ciò, confido che voi l'adotterete eziandio, rinunciando alle tenebrose congiure.— Questo mezzo, disse allora Romualdo, è certo quello di cui Ella ha già tenuto discorso a Mario: procedere verso l'indipendenza d'accordo coi Principi, ottenendo da loro medesimi a spizzichi la libertà.Azeglio fece un cenno affermativo.— Gli è quello, rispose, e primo fra i Principiin questa strada spero si possa ottenere Carlo Alberto.— Ma chi si fida di lui? Chi può credere in esso?— Vi domanderò di credere non alle sue parole, ma alle sue opere..... Senta, signor Romualdo: nell'abboccamento ch'io avrò col Re, il primo argomento del mio discorso non sarà quello dell'arresto de' suoi amici; gli parlerò delle condizioni, dei bisogni, dei desiderii d'Italia, delle speranze e delle aspirazioni di quel gran complesso di spiriti liberali che si viene formando per tutta la penisola, il quale non è più una congiura che si nasconda, non è più una setta, nè manco un partito, ma può dirsi ed è la opinione pubblica, che dalla sua universalità, dalla più chiaramente acquistata coscienza dei suoi diritti, viene prendendo il coraggio di manifestarsi all'aperta luce del giorno. Gli è di questo coraggio che abbiamo bisogno in Italia, più che di quello di cimentare la libertà ed anco la vita in cospirazioni segrete, cui forse la pura ed assoluta morale non approva nemmeno; gli è questa massa di tranquilli patrioti palesi che dobbiamo adoperarci ad accrescere con una legale ed onesta propaganda negli scritti, nei discorsi, in ogni attinenza nostra; perchè accrescendo questa massa aumenteremo sempre più la forza che ha da spingere sulla strada del patriotismo i Principi colle loro forze già belle e ordinate, senza bisogno di convulsioni, di guerra civile e di danni di nessuna specie. Parlerò adunque di codesto al Re, e lo metterò, come si suol dire, fra l'uscio e il muro, per non uscire di là, altrimenti che con una parola definitiva. Se questa sarà qual'io la desidero, e la spero, allora ogni opera di congiura sarà non che inutile, dannosa; e credo abbastanza nel vostro patriotismo per essere certo non la vorrete proseguire; allora non esiterò a chiedere a Carlo Alberto di rimandar liberi que' giovani che domani avrà di certo suoi soldati nella lotta dell'indipendenza. Se invece dalle risposte del Re non avrò la certezza della sua compiuta adesione al nuovo programma nazionale che io gli esporrò in tutti i suoi particolari, allora taccio affatto de' suoi amici e lascierò le cose alla salvaguardia della Provvidenza. Questo proposito le va?— Compiutamente: rispose Romualdo con accento in cui erano riconoscenza insieme ed ammirativa adesione. Guardi, signor marchese.....Azeglio lo interruppe sorridendo:— Ah! lasci stare il marchese, la prego. I miei buoni amici, i popolani di Roma, mi chiamavano sor Massimo; è il modo con cui mi piace di meglio sentirmi a chiamare.Romualdo s'inchinò.— Quando Ella ci dica: sul mio onore potete fidarvi di Carlo Alberto, noi ci fideremo.Massimo rimase un istante in silenzio, quasi come se fosse perplesso. Poi scosse la testa, si alzò e recossi alla finestra, dove si pose a guardare fiso verso il palazzo reale.— Potrò io darvi quest'assicurazione? Là dentro, fra quelle muraglie laggiù, alberga una sfinge che tiene in pugno i destini d'Italia. Varrò io ad esserne l'Edipo? Uscirà essa, questa sfinge, dal suo cupo silenzio o dal dubbio linguaggio?... Vedremo. Ad ogni modo una cosa posso accertarle: ed è che non sarò ingannatore altrui che ingannato io stesso... ed ho già visto abbastanza di cose e conosciuto di uomini al mondo, per non lasciarmi così agevolmente ingannare.Romualdo, dopo molti altri discorsi coll'illustre cittadino, uscì da quella modesta camera di locanda più ammiratore e più fiducioso che mai dell'intelligenza, del cuore e del carattere di Massimo d'Azeglio.

Il Governatore mosse incontro al marchese con una premura non solamente rispettosa, ma eziandio amorevole. Erano amici di lunga data, e al tempo in cui era successo il dramma le cui memorie tormentavano ancora il cuore e la coscienza di Baldissero, l'attuale Governatore, che era soltanto capitano nelle Guardie, aveva partecipato a que' luttuosi avvenimenti facendo da testimonio al marchese nel duello che abbiamo già appreso aver avuto così tristo esito per l'avversario del marchese medesimo.

Questi fatti nella vita stabiliscono fra coloro che vi ebbero parte una meglio stretta attinenza che piùnon si scioglie. Il Governatore ed il marchese non si vedevano di frequente, separati dalle loro occupazioni e dal loro genere di vita, rarissimo era che si trovassero da soli e non iscambiavano che gl'indifferenti discorsi usi a tenersi in presenza del mondo; anche quando potevansi parlare liberamente non era mai che dalle loro labbra uscisse la menoma parola che avesse rapporto a quel lontano passato, e se ne guardava scrupolosamente sopratutto il Governatore, che sapeva come con ciò avrebbe toccato poco pietosamente all'amico una di quelle ferite interne che non si saldan mai; ma ad ogni volta che si trovassero, i due antichi amici si davano una stretta di mano più vigorosa che non solessero con altri, in cui c'era come una muta, convenzionale intelligenza d'un segreto comune.

— Eh buon giorno! Esclamò adunque il Governatore andando a ricevere il marchese alla soglia e porgendogli tuttedue le mani. Tu arrivi proprio a proposito. Si discorreva appunto di cosa che alquanto ti riguarda.

Baldissero fece scorrere nel gabinetto il suo sguardo improntato di supremazia, e vide il barone La Cappa che gli si profondava dinanzi in un umilissimo inchino.

— Ah sì? Diss'egli rispondendo cortesemente al saluto del barone. Tanto meglio! Io vengo appunto per ciò di cui forse stavate discorrendo.

Il barone La Cappa credette avere un lampo di ispirazione del genio diplomatico.

— Egli è certo, pensò, che il Governatore dirà al marchese ch'io sono venuto per parlare in favore dell'avversario di suo figlio, e ciò può mettermi in mala vista presso di lui. È meglio che glie ne dica subito io stesso e ripari tosto tosto alla cattiva impressione ch'egli potrebbe averne.

Il Governatore aveva fatto sedere il marchese vicino al fuoco e abbandonando egli stesso il suo solito posto presso la scrivania era venuto porglisi daccanto. La Cappa rispettosamente si accostò in faccia a Baldissero e disse coll'accento espressivo di un uomo che vuol far credere di manifestare proprio il fondo del suo pensiero:

— Sì, Eccellenza, parlavamo di cosa che la riguarda, ed io apprendeva dal signor Governatore com'Ella fosse interessata in certo avvenimento successo ieri sera al ballo dell'Accademia. Prendo parte grandissima, caro signor marchese, alla contrarietà, allo sdegno, dirò quasi, che Ella dovette provarne, e deploro quant'altri mai la tracotanza di quell'avvocatuzzo. Io era allo scuro affatto della verità della cosa, ed hohasardè une démarchepresso il nostro caro Governatore, di cui non avrei nemmeno concepito il pensiero se fossi stato benrenseigné. Ero venuto niente meno che a raccomandare quel cotal avvocato e quel suo amico perchè fossero posti in libertà.

Il bravo barone diceva codesto con un certo sorriso di compassione verso sè stesso che voleva significare: «Ve' s'io ne faceva innocentemente una grossa!»

Il marchese lo ascoltava con una faccia seria e grave come quella d'un magistrato che non lascia scorgere sulla sua fisionomia impressione alcuna che gli faccia la difesa d'un imputato. A quelle ultime parole di La Cappa alzò gli occhi e mosse le rughe del volto come se stesse per parlare. Bastò codesto perchè il barone s'interrompesse e si atteggiasse alla mossa d'un riverente ascoltatore.

— Ho molto piacere, disse il marchese, ch'Ella abbia fatta questadémarche, perchè siccome identico affatto è il motivo della mia venuta, spero che in due riusciremo di meglio a convincere il nostro amico il Governatore, di arrendersi al nostro desiderio.

La Cappa rimase attonito che nulla più. Temette un istante che quella fosse una canzonatura; ma il carattere del marchese non permetteva di fare una simile supposizione, e l'aspetto della sua fisionomia la escludeva senz'altro. Il barone volle esclamare, volle mostrare il suo stupore, ma ebbe timore di far peggio e non seppe che tacere.

Il Governatore fu egli a parlare:

— Che? Diss'egli. Vieni anche tu per farmi lasciar andare quei due miseruzzi di liberali? Ma tu non sai che essi hanno sul loro conto ben peggio dello scandalo di ieri sera.....

— So tutto: riprese Baldissero. Vengo adess'adesso da Barranchi, il quale mi ha detto ogni cosa....

— E non ostante ciò tu vorresti?

— Io vorrei esaminar teco se ci sieno proprio gli elementi di una colpabilità che meriti trarre alla rovina due giovani ed alla disperazione le loro famiglie. Che se non ci fossero, vorrei persuaderti, e son certo verresti da te medesimo in questa persuasione, essere il meglio, ammonitili, rimandarli senz'altro alle case loro.

Il barone, al trovare un così potente ausiliario alla missione che gli aveva data sua figlia cui gli stava pur tanto a cuore di contentare, si rallegrò tutto.

— S. E. parla proprio da quell'uomo che è: diss'egli con un'ammirazione non scevra di piacenteria. Io sono perfettamente del suo avviso. Una buona lavata di testa, come si suol dire, a quei capi scarichi, la minaccia che se ci ricascano, vedranno il sole di Fenestrelle eles renvoyer... Ecco tutto!.... E mi pare superfluo procedere a nuovi arresti, gettare altre inquietudini nella città....

Baldissero si volse al Governatore domandando:

— Si tratterebbe forse di arrestare ancora degli altri?

— V'è un certo medico, rispose il Governatore, che mi pare molto impeciato in tutto codesto, quel cotal dottor Quercia che dicono lacoqueluchedellesignore..... Qui il barone La Cappa s'interessa molto per lui.....

— Mi consta, disse vivamente il padre di Candida, che gli è un buonissimo suddito di S. M. ed affezionato al Governo..... Mio genero il conte di Staffarda ne può far fede.

Il Governatore tornò a sogghignare a fior di labbra; ma il marchese con quella serietà che gli era abituale disse al barone:

— Stia tranquillo La Cappa. Io spero, anzi credo che non sarà il caso d'altri arresti nè di simili altri provvedimenti qualunque. Non è vero?

Il Governatore, a cui era diretta quest'ultima domanda, chinò il capo e fece spalluccie.

— Non desidero di meglio, rispose, ma l'affare mi par più serio di quello che tu creda. E se ti piace gettar gli occhi su queste prove.....

Accennava egli colla mano i libri sequestrati a Francesco, le carte trovate nello stipo di Maurilio, e i rapporti dei delegati della polizia.

— Volentieri: disse il marchese alzandosi da sedere per avvicinarsi allo scrittoio sul cui piano erano le carte additale.

La Cappa avvisò che non gli restava altro da fare che andarsene. Aveva ricevuto la quasi sicurezza che il dottor Quercia non sarebbe stato inquietato, e gli tardava recare alla figliuola la notizia del suo successo diplomatico. Prese commiato; nessuno disse pure una parola per trattenerlo, ed egli si partì.

— Eccoti prima di tutto il rapporto di un agente che è fra i più zelanti ed accorti, un certo Barnaba: così disse il Governatore, porgendo una carta al marchese, il quale si diede a leggerla con ogni attenzione.

In quel rapporto erano esposti i fatti che abbiamo visto svolgersi, ed esposti colle tinte più scure che potessero aggravarne il significato. Il principale argomento per la colpabilità dei giovani incriminati, la prova più significante era l'allegata identità del cantante Medoro Bigonci col rivoluzionario ed esule romano Mario Tiburzio.

Quando ebbe letto, il marchese rimase un poco riflettendo, mentre il Governatore lo stava guardando con una cert'aria interrogativa che pareva dire:

— Eh? che ne dici? Ho io ragione sì o no?

Il marchese ripiegò lentamente il rapporto di Barnaba, e porgendolo all'amico, disse con posata gravità:

— Sì certo, questo può esser molto..... e può esser nulla. Provato che quel Bigonci sia un segreto agente del partito rivoluzionario, le attinenze di quei giovani ed i loro convegni con esso acquistano una grave presunzione di colpa; ma ciò rimane egli provato? Vi ha qualche cosa che lo dimostri oltre l'allegazione di questo agente?

— A dire il vero, rispose il Governatore, finora una prova positiva non si ha tuttavia.... ma si avrà. Quel cotale non si è ancora potuto arrestare.... ma lo arresteremo; ed allora....

— Intanto si è fatta la perquisizione nell'alloggio di questo Bigonci e dei suoi compagni, non è vero?

— Sì: ed ecco il rapporto dell'altro agente detto il Rosso.

— Presso il signor Benda non fu trovato nulla di veramente grave....

— Che? Mi burli? E questi libri incendiari? E quella carta che il Selva con tanta arte ed audacia giunse a distruggere? Non sono tutte queste cose l'indizio dei mali propositi di codesta gente?

— Sì, ma non una prova d'una congiura, d'un vero cominciamento di atti criminosi. Di quella carta, poichè fu distrutta, non possiamo al giusto misurare il valore, e sopra semplici congetture io sento che si deve andare adagio a procurar la rovina di tanti poveri giovani e delle loro famiglie. Nella supposizione di quel Barnaba, d'una vera cospirazione, qualche cosa che la riguardasse, corrispondenze od altro, avrebbe dovuto trovarsi presso i supposti congiurati; ebbene quali documenti furono sequestrati che valgano a fondare l'accusa?

— Documenti positivi... veramente no; ma quanto basta per rivelare le tendenze, i concetti e la temerità di quella si può dire congrega. Da questo scartafaccio (e pose la mano sopra il manoscritto di Maurilio) apparisce come l'ispiratore di questa gente abbia da dirsi un certo giovinastro senza nome e senza famiglia, un antico vaccaro inurbatosi non so come, che ha studiato a casaccio non so dove nè per che mezzi, ed ha manifestato in questo zibaldone un amalgama di teorie audacissime e di dottrine sovversive, di tentativi letterari e di aspirazioni politiche, di versi e di prose, un piccolo Rousseau in erba o qualche cosa di simile con declamazioni alla Mazzini. Tofi ha avuto la buona ispirazione di far arrestare anche questo Maurilio...

Siffatto nome fece dare in un sussulto il marchese di Baldissero.

— Maurilio! Esclamò egli con voce non priva di emozione. E' si chiama con questo nome?

Tutta notte era stato presente alla sua memoria quel funesto caso della sua vita, in cui un Maurilio era stato vittima della sua spada; l'immagine di quest'uomo ucciso dalla sua mano, gli era comparsa più viva e spiccata del solito nelle tristi fantasticaggini della sua veglia; quel nome gli aveva suonato come una rampogna sotto la volta del cranio pronunziato dalla sua coscienza; ed ora egli, questo nome non comune, mai più trovato riunito alla personalità d'un uomo vivente, lo udiva frammisto a quel viluppo d'incidenti a cui la tracotanza di suo figlio obbligava lui stesso a prender parte. Una specie di superstiziosa emozione lo prese, quasi un presentimento: che non a caso, che non invano quel nome suonasse al suo orecchio in tal circostanza,e l'individuo che lo portava gli si parasse innanzi nel suo cammino.

— Parlami di costui: soggiunse egli vivamente. Chi è questo Maurilio? Donde viene? Che fa? Quale il nome del suo casato?

Il Governatore aveva notato la viva impressione provata dal suo amico, ed a questo affollarsi di vivaci domande piene di curioso interesse, rispose non senza stupore:

— Che ardore metti tu per questo cotale? Che cosa ti può interessare in quel miserabile plebeo?...

Il marchese con un turbamento nei tratti del volto, tanto più notabile, quanto più era ordinariamente composta ad impassibile dignità la sua fisionomia; il marchese pose una mano sul braccio dell'amico e disse a voce bassa ma improntata di profonda emozione:

— Ah! quel nome!..... Maurilio!..... Tu non lo ricordi quel nome?.... A me si è impresso con incancellabili caratteri nel mio cervello, e non vi sarà obliterato che dalla morte.... E ancora!....

Il Governatore guardava il suo compagno coll'aria stupita di chi a mezzo un grave discorso ode proporsi ad un tratto il rompitesta d'un enimma; stava per interrogare sè stesso, se il marchese non avesse dato di volta.

Baldissero gli strinse più forte il braccio e continuò col medesimo, anzi con più turbato accento:

— Era una mattina d'inverno anche quella.... Non la ricordi?.... Eravamo giunti a Milano la sera prima, tu, Castelletto ed io; tu e Castelletto foste a cercarlo...

Il Governatore si percotè colla mano la fronte.

— Ah! mi ricordo: esclamò egli, come si fa quando le parole vi sfuggono di forza dalle labbra: quel povero Valpetrosa.....

Baldissero proseguiva:

— Ci scontrammo fuori Porta Romana; la neve copriva tutta la campagna.... come oggi.... Egli si avanzò verso di noi, e non disse che queste parole: «Se mi uccidete, vi raccomando mia moglie, — poichè ella è mia moglie! — ed il mio figliuolo che sta per nascere...»

Il Governatore lo interruppe:

— Via, via, non è il caso di andare a rivangare tutte queste dolorose memorie. Tu non hai da farti il menomo rimprovero. Ti sei regolato come ogni uomo d'onore avrebbe fatto in tua vece, e tuo padre te ne ha benedetto. Sua moglie l'hai tutt'altro che dimenticata ed essa ti ha perdonato.....

— Ciò forse le ha accorciata la vita.....

— Eh no, per Dio!... Basta non pensiamo a codesto.....

— E il figlio?

— Il figlio di quell'infelice mi hai detto tu stesso che è morto appena nato, quando tu eri già tornato in Ispagna.....

— Così mi disse mio padre.

— E quello che tuo padre ti disse ti conviene crederlo..... E poi non ci fu frammischiato in quell'affare quel vostro intendente o segretario, Nariccia?

— Sì.

— E non ti affermò ancor egli la morte del neonato?

— Pienamente.

— Dunque tu non avevi altri obblighi verso la memoria di quell'uomo..... Capisco che l'udir questo nome il quale nei nostri paesi è affatto raro, possa evocarti quei certi ricordi, ma non è neppure da pensarsi che il presente Maurilio abbia alcuna attinenza con quello là. Maurilio Valpetrosa apparteneva ad una famiglia di Milano, e questo è un misero trovatello dei nostri campi.

— Un trovatello? Esclamò con qualche interesse il marchese.

— Sì: da se stesso egli si denominò per Maurilio Nulla. To', dà un'occhiata a questa specie di professione con cui egli cominciò questo quaderno di suoi scarabocchi, e vedrai.

Il marchese tolse in mano lo scartafaccio e lesse, scritte sulla prima pagina, le parole seguenti:

«Chi sono io? Non so. Che cosa io pensi, che cosa io voglia, a che cosa tenda l'agitazione di anima e di spirito che sì spesso mi domina e mi sprona e mi tormenta, non so nemmanco.

Se la sapienza dell'uomo, come dissero i Greci, pone la sua prima base nel conoscer se medesimo, oh quanto sono io lontano pur dal cominciamento di essa!

Tuttavia havvi in me, sento in me, alcuna cosa che, quantunque non sappia definirla, mi pare la parte migliore di me. È desso il mio pensiero? È la intelligenza? È qualche cosa di comune a tutti gli altri? oppure è speciale all'esser mio?

Sento così di frequente un bisogno immenso, irrefrenabile di effonder l'anima mia!.... A chi? A nessuno che mi si presenti colle sembianze d'uomo. In faccia ad un mio simile il mio labbro si rinserra sdegnosamente muto, e mi pare che una mano di gelo si imponga come coperchio a rinchiudere il cuore tumultuante.

Nella campagna solitaria ove conducevo al pascolo la giovenca, parlavo alla natura, e la natura parlava a me; sentivo la sua gran voce, ora soave come la carezza del zeffiro, che mi aleggiava sulla fronte, ora terribile come il muggito della bufera che scuoteva le quercie... Qui in città la gran voce tace per lasciar cinguettare il brulichio degli uomini.

Conviene ch'io parli a me stesso. Uscendo dall'interna chiostra formolate in parole, le audacie del mio pensiero, i sogni della mia fantasia, per fermarsi su questo pezzo di carta, sarà come se i lineamenti dell'anima ad uno ad uno venissero a riflettersi in uno specchio che ne conservasse l'impronta.A poco a poco i tratti si aggiungeranno ai tratti, l'immagine — forse — ne riuscirà discernibile, e l'anima riconoscerà se stessa.

«Chi sono io? Mi ridomando. È il gran problema che incombe sulla vita di tutti gli uomini. Per me si è fatto più crudo, più spiccato, più imminente, direi, avendo voluto... (chi? Debbo dire il caso? o la Provvidenza? o la malvagità degli uomini?)... avendo voluto la mia sorte ch'io qui sulla terra fossi, in mezzo ad una razza umana organata a famiglie, senza famiglia, senza legami di sangue, senza protezione di parentela e di nome.

«La prima volta che mi ferì il nome di bastardo sputatomi sulla faccia dalla Giovanna incollerita, non capii che cosa volesse dire quella parola, ma sentii che era un termine d'ignominia ond'era espressa cosa cui la gente faceva mia vergogna. Non mi sdegnai, non risposi, fuggii a nascondermi.

«Ora ch'io incomincio a gettar giù queste parole sulla carta, colla mano tremante, colla testa in tumulto, colla dolce e profonda emozione con cui si deve parlar d'amore la prima volta, con cui si inizia una segreta corrispondenza con cara persona a cui tutto si crede dovere e poter dire di noi; ora io conto intorno a diciott'anni di vita... Ah non so nemmanco di sicuro da quanto tempo il destino mi ha balestrato a soffrir sulla terra! Sono diciott'anni che un uomo mi raccolse abbandonato; ma quanti giorni avessi allora di esistenza — forse mesi, forse già un anno — non mi si disse mai, non lo seppe neanco chi non mi lasciò morir sulla via.

«In questi diciott'anni, dolorosissimi avvenimenti avvicendarono la mia combattuta esistenza: ma più gravi e più numerosi travagli e mutazioni si fecero nell'anima mia, in quell'essere interno che non so definire, dove tante idee s'intralciano e tanti diversi affetti si scambiano. Gli è i risultamenti di questo interno travaglio che io qui voglio registrare, per me — per me solo — a dar conto a me stesso dell'uso del mio ingegno, della mia volontà, dell'effetto di quegli studi saltuarii, abborracciati, ma cui è pur gran ventura che la sorte mi abbia concesso e mi conceda tuttavia di fare.

«Le leggi del mondo fisico e quelle del mondo morale; le leggi dell'organismo sociale come quelle dell'organismo del corpo umano; la vita della terra che ci sostiene, ugualmente che la vita della schiatta umana, delle masse dei popoli e degl'individui mi sembrano concentrarsi e concertarsi in una grande unità, di cui la mia mente troppo debole, e i miei studi troppo incompiuti, non possono darmi tuttavia la forza di abbracciare il complesso, ma che travedo, trasento e perseguo, quasi per istinto, traverso tutti i fatti dell'esistenza, dai moti della mia anima rinchiusa nella carcere del corpo a quelli dei mondi nello spazio infinito.

«Di questo travaglio analitico dell'intelligenza che si affanna alla ricerca della gran sintesi, scriverò le espressioni e le fasi in queste carte per conchiuderle il giorno in cui la morte mi faccia immota la mano, o per troncarle il dì, in cui un diverso apprezzamento me le faccia conoscere inutili e forse anco puerili.»

Il marchese lesse queste pagine con attenzione e non senza meraviglia.

— Un giovane in quelle condizioni, a quell'età, che scrive e pensa di tali cose, diss'egli, non è fatto ordinario. È in lui la stoffa d'un uomo di vaglia.

— Per ora, disse il Governatore, c'è un demagogo. Leggi qui a questo punto ed a quest'altro..... se pure hai pazienza, e vedrai quali idee sovversive della società e fin anco della religione bollano in quel cervello esaltato.

Baldissero scorse cogli occhi le pagine che gli additava il suo interlocutore e che erano state segnate colla matita rossa dal Commissario di polizia.

— Leggerò molto volentieri, rispose di poi, queste cose che assai m'interessano; vuoi tu lasciarmi recar meco per ciò questo scartafaccio?

— A piacer tuo: disse il Governatore chinando la testa con moto di gentile condiscendenza.

In quella fu recato al Governatore un biglietto del conte Barranchi.

— Aspetta, disse il Governatore, dissuggellando la carta, a Baldissero che pareva apprestarsi a partire: questa lettera ha forse riguardo al caso di cui tu t'interessi.

— Ed è così infatti; soggiunse dopo letto quanto scriveva il comandante della polizia; odi ciò che dice Barranchi:

«Caro Governatore,

«Quel tal Medoro Bigonci venne arrestato ancor egli; ma l'impresario del Teatro Regio protesta che, essendosi ammalato il primo baritono, se lo si priva ancora di codestui, egli non potrà più tenere aperto il teatro, e quindi nemmanco darci la solenne rappresentazione di domenica sera, a cui deve intervenire S. M. colla Corte in gala.

«Mio nipote San-Luca che conosce tutta la gente teatrale, è venuto qui ad assicurarmi che questo Bigonci è nient'altro che un artista di canto che sarà vittima d'una somiglianza, ma che egli metterebbe pegno qualunque cosa che pensa tanto alla politica quanto al Gran Turco.

«Il Commissario mi riferisce che nelle sue risposte quel Bigonci si contenne in modo — naturalmente negativo — da non poter nulla dedurne a suo carico, e che mostrò certe lettere e certi ricapiti onde sarebbe provata la sua vera identità come cantante.

«Le scrivo subito queste cose, caro Governatore, perchè sapendo come i Baldissero padre e figliodesiderino la sollecita liberazione di uno dei compromessi, Ella veda se vi ha modo di contentarli. Io non oserei prendere su di me tanta risponsabilità; ma se V. E. mi vi incoraggia con una sola parola, io darò senza ritardo gli ordini di rilascio per quel Benda, a favore del quale anche a Lei sarà andato a parlare il marchese di Baldissero.

«Mi creda, ecc.»

— Ebbene? interrogò il marchese quando ebbe udito la lettura di questo biglietto. Che cosa conti di fare?

Il Governatore esitò un momentino.

— Primo impulso, e quello che seguirei più volentieri, sarebbe di contentarti senza ritardo; ma tu capirai le considerazioni che me ne trattengono.... Il ministero dell'interno è in una specie di gara con noi militari. Se diamo passata a certe cose, farà comparire agli occhi di S. M. che noi non siamo abbastanza vigilanti od abbastanza oculati. Abbiamo ancora la disgrazia che il marchese di Villamarina passa colla nomèa di velleità liberali, ed essendo egli ministro della guerra, si crede che i militari per andargli a genio sieno più disposti a tolleranza di quel che converrebbe... Certo io non posso essere sospetto, ma pure....

Baldissero lo interruppe con un grave sorriso:

— No, il menomo dubbio non può nascere sul tuo conto di tepidezza nell'affetto alla monarchia e nello zelo del tuo ufficio, e spero che un sospetto di simil natura non debba nemmeno poter colpire me stesso. Comprendo la forza delle considerazioni che ti trattengono, e non cerco altrimenti di smuoverti dalla tua determinazione. Esaminerò io stesso di meglio la cosa, poichè tu me lo concedi, e quando io mi confermi nella mia persuasione che non vi sia in tutto codesto che imprudenza giovenile, sfogo di liberalismo rettorico e nissun vero attentato contro il legittimo Governo, allora ne parlerò io stesso di proposito al Re.

— E sarà il meglio che potrai fare: disse il Governatore.

Tese a Baldissero la destra e soggiunse:

— Spero che tu non l'avrai meco per ciò?

Il marchese gli strinse la mano con amichevole effusione.

— Che dici? Potresti pur pensare una cosa simile? A luogo tuo, io non avrei fatto diversamente da quello che tu.

Baldissero si partì dal Governatore, accompagnato da quest'esso sino all'anticamera.

A muovere San-Luca a recarsi da suo zio il generale dei Carabinieri per testimoniare in favore di Bigonci era stato quell'amico e compagno di Maurilio e di Selva, che chiamavasi Romualdo.

Assente per sua fortuna nel momento in cui facevasi la perquisizione ed arrestavasi Maurilio nella casa del pittore Vanardi, Romualdo, rientrando, vedeva scolpito sulla faccia spaventata di Antonio l'annunzio che gravi novità erano intravvenute, ed udiva dalle vivaci, colorite ed interminabili chiacchere della signora Rosa tutti i particolari dell'avvenimento.

Romualdo avvertiva tosto tutta la rilevanza di questo fatto; il ritardo di Selva nel tornare a casa gli faceva inoltre temere che ancor egli fosse caduto negli artigli della Polizia, e capiva abbastanza che alcun sospetto era nato intorno alla congiura — e fosse pure soltanto un sospetto! — e che l'arresto di Mario, quando foss'egli conosciuto per chi era realmente, importava la rovina di tutti i loro audaci disegni patriotici, la perdita della libertà, e fors'anco della vita, per i coraggiosi giovani cospiratori. Le fucilazioni d'Alessandria non erano ancora tanto lontane che la loro memoria non legittimasse il timore di nuove condanne a morte.

Metteva quindi il cervello alla tortura per cercar modo di trovare, se non un mezzo di salute, uno spediente che riparasse almeno in parte la minacciata rovina. Vanardi, sgomentito sino nell'imo fondo dell'anima, proponeva scappar subito così lontano che non si potesse veder più spuntare da nessuna parte sull'orizzonte il pennacchio prepotente e il candido budriere d'un carabiniere del re di Sardegna; col qual mezzo egli faceva anche quest'altro guadagno di mettere la salvaguardia d'una distanza non facilmente superabile fra sè e i suoi creditori, che incominciavano a tormentarlo.

Ma Romualdo non era a salvar sè che pensava soltanto, gli era a salvar gli amici e l'impresa. Non potendo fermare la sua risoluzione su partito alcuno, al buio com'egli si trovava delle circostanze che avevano cagionato l'arresto, Romualdo determinò di andare attorno per la città in busca di informazioni dalla voce pubblica, e di cercare intanto sollecitamente di Mario, del quale importava saper le novelle e col quale urgeva massimamente concertare il modo di governarsi.

Questi arresti e la perquisizione erano evidentemente dei fatti che si attaccavano alla comparsa nella sera precedente di quel personaggio sospetto cui Mario venendo aveva trovato nel camerino della portinaia e dal quale il congiurato s'era accorto essere stato seguito cautamente su delle scale. Sarebbe stato assai bene avere dalla portinaia alcuna informazione in proposito, e Romualdo pensò che niuno era al mondo più atto a codesto che la moglie di Antonio, la buona, vivace e ciarliera signora Rosa; ma, come un'idea ne mena un'altra, questo gli fece avvisare come fosse assai probabile che alle ciarle appunto della signora Rosa conmadamala portinaia si andasse debitore dei sospetti e della visita della Polizia.

Romualdo parlò di proposito, a questo riguardo, alla brava donna, mettendole innanzi tutto il danno che ciarle imprudenti potrebbero cagionare; Antonio,il marito di lei, rincarò la dose, strepitò che la era stata di certo quella benedetta linguaccia a comprometterli nei suoi eterni pissi pissi, or con questa, or con quella delle donnacole della casa, che intanto la Rosa poteva andar lieta e superba che aveva messo in sull'orlo dell'abisso suo marito e la famiglia e gli amici del marito, e chi sa ancora se poteva evitarsi il capitombolo nel precipizio! e certo se una sola ciarlatina veniva tuttavia ad accrescere l'imprudente, involontaria delazione, la era una spinta da non potersi più parare in nessun modo dalla catastrofe.

La Rosa rimase a tutta prima sbalordita; ma la non era donna da abbandonarsi così agevolmente per vinta. Protestò fermo e forte che Ella non aveva detto nulla, non aveva scoperto nulla di nulla, perchè di fatto non la sapeva neppure una briciola di quanto e' venivano maneggiando nei loro segreti convegni; che ad ogni modo le sue ciarle erano sempre le più innocenti del mondo, perchè la era donna abbastanza di senno per sapere quello che si ha da dire e quello che si ha da fare e che non sarebbe stato per suo fatto mai che nè la concordia d'una casa, nè la pace d'una famiglia, nè la sicurezza di nessuno avrebbe da rimanere compromessa; e qui, scambiando parte ed eloquenza, passava da difenditrice di sè medesima ad accusatrice d'altrui: e che gli era un grave torto far di questi nasconderelli ad una moglie che, come lei, si meritava stima e fiducia dal marito; e che la testa sulle spalle la aveva ancor essa e dentrovi due dita di cervello, forse più che non altri; e che a dare un consiglio ci valeva tanto bene che, forse e senza forse, s'ella avesse saputo di che si trattava e le avessero dato retta, non si troverebbero ora in quel bello spineto; e qui voltando, come dice Dante, il discorso per punta a suo marito, soggiunse: che gli era in lui un gravissimo torto, come padre di famiglia, quello di cacciarsi in queste mattane, e per delle bubbole d'idee sconclusionate rovinare in un amenne moglie e figli e tutta la baracca.

Antonio era così avvilito dell'animo che non aveva più bastante vigore da contrapporsi alle invettive ed alle conclusioni della moglie, alla quale in cuore la paura gli faceva dar la ragione; Romualdo giudicò rettamente che per finirla bisognava dar passata a quello sfogo e non contrastar menomamente alle concitate di lei deduzioni.

— Mia cara signora Rosa, diss'egli: tutto questo sta bene, ma ora, a pigliarla comunque, gli è di quel senno di poi di cui sa che son piene le fosse e che serve ad un bel niente. Lasciamo stare quello che è stato e pensiamo a quello che è. S'Ella ci sa spillar fuori dalla portinaia alcuni particolari sull'uomo di ieri sera, la ci può giovar molto.

La Rosa si acquetò di subito. La cosa era troppo grave e la toccava troppo da vicino, perchè non le dèsse tutta l'importanza; ella era poi di cuore inclinata a fare il maggior bene che potesse anche a chi gli era indifferente, figuriamoci poi ora che erano in ballo così ponderosi suoi interessi! Inoltre la buona donna aveva sì fatto la brava in presenza del marito e di Romualdo che la rimproveravano, ma in fondo della sua coscienza c'era pure una vocina che le veniva dicendo come tanto tanto innocenti non fossero di questi effetti le chiacchere tenute colla portinaia, e il rimorso ch'ella ne sentiva si aggiungeva a stimolarne lo zelo.

— Lasciate fare a me: diss'ella racconciandosi un poco e in fretta in fretta i panni dattorno. In due salti sono giù dalla portinaia, e non sono chi sono se in cinque minuti non le ho tratto il filo della camicia.

Entrò pochi secondi dopo nel camerino della portinaia, dove le comari del quartiere erano in numero completo e vivissimamente impegnate in ciarle che s'incrociavano senza soluzione di continuità sull'importante argomento dei fatti straordinarii avvenuti quella mattina nella casa. Era colà la gran cuffiona della comare Marta, la lingua più affilata e meno temperante — a detta di monna Ghita, che pure non si lasciava passare nessuna davanti in codesto, — di tutto il quartiere; c'era la bocca sdentata e il mento lanuginoso della Polonia, la rivenditrice di pignatte e di pentole che stava di faccia: chi non c'era delle brave pettegole del pian terreno di quella strada? Le dicerie che avevano corso in quello scambio di supposizioni e di fiabe erano d'una fenomenale assurdità. I giovani erano stati arrestati tutti; le cagioni del fatto erano variamente allegate, ma tutte gravissime: nella casa loro la Polizia aveva trovato cose! cose da fare orrore! La supposizione che Barnaba la sera innanzi aveva fatta sorridendo alla portinaia, tanto per ispillarne la verità, che cioè in casa il pittore si fabbricassero monete false, era per alcune diventata una realtà luminosamente stabilita; altre che si pretendevano meglio informate volevano che quei giovani fossero stati scoperti gli autori dei misteriosi delitti che da qualche tempo avvenivano, e fra gli altri del furto negli uffizi di banca del signor Bancone, di cui da due giorni discorrevasi per tutta Torino; e ve n'erano anche di quelle che pronunziavano la misteriosa parola di politica, ed affermavano sotto voce che gli arrestati erano frammassoni, gente che rinnega Dio e la Chiesa, che commette mille orribili sacrilegi e nefandità, nascosta nelle cantine, e che costoro, fra gli altri, avevano giurato di dar fuoco ai quattro canti della città e sgozzare tutti i preti e far perire tutta la povera gente.

In verità quella rispettabile assemblea di vecchie ciane, per dirla alla fiorentina, mostravasi assai poco propensa alla causa degli arrestati; non c'era che la portinaia, la quale credevasi in dovere di recare in mezzo alcune parole in loro difesa; ma aimè! la era quella una difesa assai poco abile edefficace, perchè si limitava a dire che vedendoli, quegli individui, nessuno mai più si sarebbe aspettato che avessero qualche cosa da spartire colle manette della Polizia e colla paglia del carcere.

L'entrata di Rosa in mezzo a questo sinedrio di cuffie, produsse, come si suol dire, una viva sensazione. Le ciarle inaridirono un momento sulle bocche ancora aperte, gli occhi lanciarono una mitraglia di punti interrogativi con una curiosità elevata alla quinta potenza: le pettegole si serrarono intorno alla nuova venuta come in una rocca cinta d'assedio si stringe intorno ad un convoglio di viveri la guarnigione affamata.

Rosa non ebbe da interrogare, chè le richieste delle altre le fioccarono addosso come gragnuola; non ebbe da usare arte nessuna a trar fuori da monna Ghita il racconto della visita dello sconosciuto, la sera precedente, perchè di proprio impulso la portinaia afferrò quella propizia occasione per narrare la ventesima o la trentesima volta tutti i particolari, tutte le parole, tutti gli atti che avvennero, ed anche alcuni che non avvennero in quel famoso abboccamento coll'uomo il quale rassomigliava da sbagliarlo, a detta sua, colfumistadi via Santa Teresa; abboccamento cui l'acuta penetrazione e l'infallibile giudizio della moglie di Bastiano le avevano fatto ritenere come strettamente collegato cogli strepitosi avvenimenti della mattina che aveva susseguito.

Rosa, quando ebbe saputo ciò che le importava, fece il miracolo di sbrigarsi dalle ciarle interrogative e dalle mani adunche di quell'onorevole congrega, e corse ad informarne Romualdo, il quale, provvisto di quelle nozioni, s'affrettò ad andare in traccia di Mario.

Non avendolo trovato nell'altro suo riposto alloggio, Romualdo pensò che non avrebbe potuto coglierlo altrove che al teatro, dove si sarebbe recato alle prove ch'egli era obbligato di farci per sostituire il primo baritono ammalato; e delle quali prove s'avvicinava l'ora. Diffatti al teatro Medoro Bigonci non era ancora venuto; ma Romualdo camminando lentamente sotto i portici in quella direzione per cui supponeva che l'amico sarebbe sopraggiunto, lo incontrava poco stante sulla cantonata fra piazza Castello e via di Po.

Mario, visto appena da lungi Romualdo, gli fece un cenno impercettibile perchè lo seguitasse, e col passo tranquillo d'uno che passeggia per suo diletto, cambiato il cammino, si avviò verso il mezzo della piazza deserta di passeggeri, dove si rammontava la neve che seguitava a fioccare.

Romualdo fu lesto a raggiungerlo.

— Qui, gli disse di subito Mario, con questo tempaccio, saremo osservati di meno e certo non ascoltati da nessuno, quantunque lì presso (ed additava le torri scure del palazzo Madama) abbiamo il covo della fiera belva della Polizia..... Selva e Benda sono arrestati e tu vieni per avvisarmene.

— Selva e Benda? Esclamò Romualdo che non potè frenare un moto di sgomento. Ne sei sicuro?

Mario chinò il capo in segno affermativo.

— Allora tutto è scoperto: continuò Romualdo. Sono venuti a casa nostra a fare la perquisizione cercando di te, ed hanno arrestato Maurilio.

E qui di fretta, nelle meno parole che si poteva, ripetè all'amico quanto era avvenuto e quanto per mezzo di Rosa erasi appreso di poi dalle ciarle della portinaia.

Il cospiratore tacque un istante, quando Romualdo ebbe finito, aggrottando le sopracciglia nella contenzione del suo cervello per meditare.

— Sono sospetti che si hanno soltanto oppur delle prove a nostro danno? Diss'egli di poi, parlando sotto voce, quantunque nella vastità della piazza, in cui si trovavano i due amici, non ci fosse che un deserto di neve. Voglio sperare che sieno sospetti soltanto, ed a noi che dobbiamo lottare, tocca il trovar modo da distrurli..... Ragioniamo un po'. Se prove realmente ci fossero, avrebbero proceduto agli arresti in più larghe proporzioni. Selva alla prima volta fu lasciato libero, e non fu preso che in casa Benda per un avvenutovi episodio; Vanardi stesso non sarebbe stato lasciato tranquillo. D'altronde si potrebbe supporre che la congiura fosse da qualche traditore svelata alla Polizia; ma come immaginare che fossero denunziati i nostri nomi che ignorano tutti, fuorchè pochi dei capi, fra cui impossibile un tradimento?... Sono le ciarle della portinaia a quella spia poliziesca di ieri sera che hanno data la sveglia. Ma come, e per qual caso quella spia si è ella cacciata là dentro, evidentemente a nostra intenzione, forse forse più specialmente per me?

Si fermò un istante assorto in più profonda riflessione.

— Sì per me: ripetè egli. Il modo con cui mi ha guardato, l'essermi venuto dietro di quella guisa...

Fece un movimento quasi contratto, come di chi vede apparirsi alla mente un'idea ancora fuggitiva in cui si contiene la verità, e per afferrarla fa un atto anche colle membra, come se ciò ne l'avesse da aiutare.

— Ma la figura di quell'uomo io l'ho vista altra volta, in altri tempi, in altri luoghi... Dove? Dove?

Si volse di scatto a Romualdo.

— Sai tu s'egli sia piemontese quel cotale?

— Non so... ma probabilmente sì... anzi certo, perchè se fosse altrimenti, monna Ghita non avrebbe taciuto la circostanza importante ch'egli parlasse in modo diverso da noi.

— Io in Piemonte è la prima volta che ci vengo. Dunque se l'ho veduto... e più ci penso e più mi persuado che gli è così..... l'ho veduto in altro paese... In Francia? No, non mi pare... In Roma?...

Ebbe come un lampo di visione nella memoria.

— Sì, in Roma... Aspetta ch'io raccolga le mie idee. Un poliziotto!... Quel pane d'infamia si comincia a mangiarlo di buon'ora, chi ha l'anima vile; ed in Roma ho avuto appunto di che spartire con quella scellerata Polizia...

Mandò un gridolino, che soffocò tosto, di sorpresa e di soddisfazione.

— L'ho trovato!... Mi ricordo che il Delegato di polizia che procedette al mio interrogatorio in Roma e mi tenne il linguaggio più burbero e più minaccioso che seppe non aveva l'accento romano. Stemmo in faccia l'uno all'altro quasi mezz'ora, e i miei lineamenti dovettero imprimersi nella sua memoria come i suoi si stamparono nella mia... Quel Delegato, ne metterei pegno la mano, è l'uomo di ieri sera.

— Ma allora, disse Romualdo profondamente turbato, egli conosce appuntino l'esser tuo...

— Non basta ch'egli lo conosca, interruppe Mario vivamente: bisogna che lo provi. Per ciò non potrà allegare altro che la sua affermazione. Questa basterà ed anche troppo, quando non vi sia nissun argomento in contrario a mia difesa; ma se troviam modo — e bisogna cercarlo assolutamente — di recare in appoggio della mia identità innocente con Medoro Bigonci qualche altra affermazione autorevole, si metterà la denunzia del poliziotto in conto d'uno sbaglio dovuto ad una rassomiglianza, e il pericolo potrà essere superato.

— Dove trovare quest'affermazione autorevole? Domandò Romualdo sempre turbato quel medesimo.

E Mario sempre calmo, con tutta libertà di mente:

— C'è qualcheduno che può procurartela. Aspetta.

Trasse di tasca un taccuino, vi stracciò un foglio e vi scrisse su poche parole colla matita.

— Gli è certo, diss'egli poi, che adess'adesso sarò arrestato in teatro, dove i birri già m'aspetteranno; appena ciò sia, tu corri dal dottor Quercia a casa sua, di cui ti scrivo qui sopra l'indirizzo; narragli l'accaduto senz'altro ed esponigli di che si ha bisogno. Gli è quell'uomo, a cui vi ho detto ieri sera che dovremo il concorso della plebe: egli può molto, e vuole, e sa!.... Non dubito ch'egli ci trarrà d'ogni impaccio.

— Sta bene: rispose Romualdo, riponendo accuratamente in un portafogli la cartolina datagli da Mario.

— Ed ora, disse questi sorridendo, vado a farmi arrestare.

Si diresse di buon passo, traverso la piazza, alla volta del teatro, dove giuntovi appena, la sua previsione fu pienamente effettuata.

— Gli è Lei il signor Bigonci? Gli domandò un uomo d'ignobil sembiante.

— Io in persona.

— Si compiaccia venir con noi (erano in due) al Palazzo Madama, dove il signor Commissario lo aspetta.

— Il signor Commissario? Esclamò Mario con uno stupore che niun valente comico avrebbe saputo finger di meglio. Non so che cosa abbia da fare con me il signor Commissario.

— La lo saprà, quando gli sarà venuta dinanzi.

— È giusto. Andiamo pure.

Ma qui il povero impresario, che era già in una maledetta bizza pel ritardo di Bigonci nel venire alle prove; l'impresario saltò in mezzo esterrefatto.

— Come! Gridò egli. Me lo conducete via? E le prove?

— Che cosa importa a noi delle vostre prove? Ci fu dato ordine di portarlo dal Commissario appena lo trovassimo, e ce lo portiamo.

— Ma almanco lo si lascierà venir tosto a far queste benedette prove, senza cui non posso andar avanti.

— Sì, bravo, contateci su: risposero i birri ridendo ironicamente. E' ci vorrà un poco prima che costui ne abbia gli occhi netti.

— Oh povero me! Esclamava l'impresario. Ma io sono un uomo rovinato..... Io protesto.

Come è facile immaginare, tutte le esclamazioni e tutte le proteste del pover'uomo non giovarono a nulla, e Medoro Bigonci fu tratto in arresto.

Mentre l'impresario si disperava della più bella, nell'emozione che questo fatto aveva destato in mezzo a tutti gli artisti colà radunati, Romualdo si accostò chetamente all'impresario medesimo e presolo ad un braccio per chiamarne a sè l'attenzione, gli disse:

— Senta un po' qua signore.

Romualdo, che pochi anni addietro aveva dato fondo al suo patrimonio scialandola da giovane elegante, era stato frequentatore assiduo di spettacoli e conoscente famigliarissimo del mondo teatrale[7]; l'impresario non avevalo ancora dimenticato e volentieri si rese all'invito di lui, appartandosi alquanto dagli altri.

— Oh sor avvocato: cominciò senz'altro l'impresario colla passione d'un uomo che vede recarglisi un grave danno irreparabile: a me le mi toccano proprio tutte! Questa, le dico io, che mi rovina senz'altro. La stagione è già andata fin adesso zoppicando, e quest'ultimo colpo mi rovescia colle gambe in aria. Senza Bigonci io non ho più uno spettacolo tollerabile da mettere in iscena, e mi conviene chiudere il teatro. Si figuri il mio danno! Ho l'ultimo quartale da pagare. In quest'ultima settimana di carnevale avrei fatto i migliori introiti di tutta la stagione, che mi avrebbero alquanto rimpannucciato. Che! Non posso nemmanco dar la rappresentazionedi domenica per la venuta della Corte!!

Si cacciò le mani ne' capelli come chi è cascato in un abisso di desolazione, da cui non vede mezzo di uscire.

— Dia retta: gli disse Romualdo: forse c'è ancora un mezzo di scampo.

— Sì? Esclamò il pover'uomo. S'Ella mi procurasse questo mezzo, sor avvocato, mi renderebbe un servizio de' più fioriti che si possano.

— Ricorra alla nobile Direzione dei teatri. Sono tutti personaggi titolati e potenti che possono efficacemente adoperarsi a far liberare Bigonci.

— La dice bene, ci ho già pensato, ma Ella sa pure che il Commissario Tofi, quando ha qualcuno nelle unghie, a lasciarlo andare.... Converrebbe almeno sapere che cosa ha dato motivo all'arresto di Bigonci.

— Credo d'averlo indovinato. Bigonci ha la disgrazia di somigliare moltissimo ad un certo rivoluzionario romano che è al bando di tutte le polizie, e lo si sarà scambiato per quello. Io li ho conosciuti ambedue, e davvero che c'è da sbagliare. Se qualcheduno testimoniasse di codesta cosa...

E l'impresario sollecito:

— Questo qualcheduno può essere Lei....

— Molto volentieri; ma io essendo amico di Bigonci e coabitando con esso lui, la mia parola non può avere tutta quell'autorità che si vorrebbe quando non sia confermata da quella d'un altro.

— Senta, caro avvocato, andiamo insieme dalla Direzione teatrale. Ella, che sa parlar meglio di me — un avvocato è fatto apposta — esponga le cose a mio nome; e se ciò non basterà ancora, allora vedremo qual altra pedina sia il caso di muovere.

Così fecero. La Direzione teatrale, composta a quel tempo di titolati del più puro sangue aristocratico, si commosse assai all'affermazione che, mancando Bigonci, la rappresentazione dell'ultima domenica del carnovale non avrebbe potuto aver luogo; e promise pigliar interesse per questa faccenda. Ad un punto interrogò, com'era naturale, se l'impresario conoscesse le ragioni dell'arresto di quel cantante, e Romualdo senza esitare ripetè ciò che aveva già detto all'impresario, e poi con tutta sicurezza soggiunse:

— Ma io e qui l'impresario possiamo far fede che questo è realmente un mero errore materiale, frutto di quella straordinaria rassomiglianza. Gli è da cinque o sei anni che noi conosciamo Bigonci; e sempre l'abbiamo conosciuto per artista di canto e sotto il suo nome, e ne possiamo rispondere.

— Gli è vero? Domandò il presidente della Direzione all'impresario.

Questi non osò negare, nè contraddire menomamente il suo compagno; ma non osò neppure dir franco di sì; curvò il capo in una mossa dubbia, che gli altri presero per affermativa. Il presidente della Direzione scrisse senza ritardo una lettera di ufficio al generale Barranchi, nella quale, appoggiandosi sulla testimonianza dell'impresario, si negava l'identità dell'arrestato col rivoluzionario Mario Tiburzio e si faceva un pressante richiamo per la pronta liberazione del baritono Bigonci, la cui presenza era necessaria al buon andamento degli spettacoli nel teatro di S. M.

Mentre uscivano dall'ufficio della nobile Direzione teatrale Romualdo e l'impresario ebbero la fortuna d'incontrare il conte San-Luca il quale recavasi alla sua solita stazione al caffè Fiorio.

Nel tempo della sua vita spendiosa ed elegante, Romualdo era stato per due carnovali di seguito vicino disedia chiusaal teatro Regio col conte San-Luca, ed aveva avviata con esso una certa amichevole relazione che s'era stretta ancora di vantaggio nelle frequenti volte che si erano trovati di compagnia nella casa d'una celebre prima donna cui proteggevano ambedue ed in certe cene che regalavano di conserva all'appetito delle corifee del Corpo di ballo. Benchè Romualdo, ridotto al verde, avesse cessato da un po' di tempo quel genere di vita, tuttavia il conte San-Luca degnavasi ancora rispondere con garbo al saluto che il giovane borghese gli dirigeva, trovandolo per istrada, così bene che per le attinenze del passato, Romualdo si credette in facoltà di fermare il nobile zerbino per informarlo della grave disgrazia che aveva colpito l'impresario e minacciava far sospendere il corso delle rappresentazioni del massimo teatro torinese.

A San-Luca parve cotesta una cosa tutt'altro che da prendersi a gabbo, e quel passo che alle istanze del marchesino di Baldissero aveva rifiutato di fare presso suo zio, si decise di farlo ora che vide minacciata di un'immatura fine la serie de' suoi divertimenti. Corse adunque dal conte Barranchi, e tanto disse e tanto fece, affermando, testimoniando, giurando l'innocenza dell'incriminato baritono, che ne ottenne quella lettera che abbiamo vista scritta dal comandante della Polizia al Governatore della città.

A ciò venne ad aggiungersi la pratica iniziata dalla nobile Direzione teatrale, la quale avendo dato luogo ad uno scambio sollecito di dispacci dall'una parte e dall'altra di quella stessa giornata, ebbe per risultamento un compromesso mercè cui la Polizia consentiva a ciò che il sig. Bigonci andasse in teatro lungo il giorno alle prove e la sera alla rappresentazione, ma ci andasse accompagnato da due arcieri travestiti che sempre lo custodissero a vista, e finita la sua parte lo rimenassero nella carcere assegnatagli al Palazzo Madama: frattanto si appurerebbero di meglio le cose per prendere poi a questo riguardo una risoluzione definitiva.

Ma Romualdo non si contentò d'essersi adoperato in questo modo e d'aver ottenuto codesto. Avendo poscia appreso tutto ciò che era capitato, assai glidoleva e della pena in cui era la famiglia Benda, e del modo barbaro e villano in cui Selva era stato trattato nel suo arresto, e del pericolo gravissimo che incombeva sui tre carcerati amicissimi suoi, Maurilio, Francesco e Giovanni, e sul buon Vanardi stesso e la sua famiglia, e su se medesimo. Pensando e ripensando quali modi possibili gli si presentassero mai da tentare per ottenere alcun riparo all'avvenuto danno ed a quelli più gravi minacciati, dopo averne immaginato di mille guise spedienti gli uni meno accettabili degli altri, si fermò ad un tratto sopra un proposito che era strano, quasi temerario, ma che gli sembrò presentare alcuna probabilità di successo.

Aveva udito la sera innanzi narrato da Mario Tiburzio un suo colloquio con Massimo d'Azeglio venuto di quei giorni in Torino, a detta di tutti, non senza intendimenti politici; aveva udito come questo patriota che disposava insieme nel suo liberalismo le delicature dei modi aristocratici coll'amore della democrazia e della libertà, nutriva molte speranze per la causa italiana nei generosi e nazionali, ancora segreti sentimenti del re; come appartenente egli stesso a quel ceto nobiliare che teneva in Piemonte l'assoluto sopravvento, benchè per opinioni da' suoi pari disgiunto, Romualdo supponeva che alcun influsso di protettorato potesse esercitare colla sua parola Massimo D'Azeglio, il quale d'altronde conosceva, stimava ed amava l'animo forte, le convinzioni profonde e l'onestissima operosità patriotica di Mario Tiburzio. L'amico di Mario e di Selva sapeva d'altronde che gli uomini di superiore intelligenza non amano stare e non istanno soggetti alla volgare tirannia di quelle regole delle forme sociali, per cui i rapporti fra persona e persona ricevono limiti ed ostacoli spesso impacciosi; e dagli scritti del nobile piemontese e da quanto conosceva della vita di lui, Romualdo era chiarito della superiorità dell'intelligenza di Massimo; poteva quindi esser quasi certo che presentandosi a lui, benchè ignoto affatto e di persona e di nome, ma presentandosi con fare appello alla generosità di quel carattere, ne sarebbe stato accolto ed ascoltato senza fallo.

Romualdo non lasciò raffreddare in sè il calore di quella risoluzione; si avvide che, indugiando, ne avrebbe perduto il coraggio, e si diresse senz'altro verso la locanda d'Europa, allora chiamata albergo Trombetta, dove sapeva alloggiato il D'Azeglio.

Entrò sotto quel portone, salì quelle scale fino al pianerottolo dell'uffizio della locanda col cuore che a dire la verità gli palpitava un pochino. Si trattava di comparire innanzi ad un uomo cui la gloria già acquistatasi dava una imponenza maggiore che non faccia l'autorità ufficiale d'una carica governativa. Al primo garzone che gli venne incontro, Romualdo colla faccia sicura d'un uomo che domanda la più semplice cosa del mondo, chiese:

— Massimo d'Azeglio c'è?

A Romualdo pareva che questo nome bastava da sè, e non aveva punto bisogno d'essere scortato da nessun titolo; ma così non parve al cameriere. Questi guardò bene dall'alto in basso il giovane che lo aveva interrogato, poi rispose con tono che mostrava codesto esame non avergli ispirato molta deferenza pel visitatore:

— Mi par bene che il marchese d'Azeglio non sia ancora uscito.

E voltosi ad un uomo attempato che sedeva dietro un tavolino nell'uffizio, domandò a sua volta:

— N. 87 c'è?

L'uomo del tavolino si volse a guardare un gran quadro di legno nero in cui erano schierati in file regolari i numeri di tutte le camere dell'albergo con un gancino a cui si appiccava la chiave di quelle non occupate o di cui l'occupante fosse uscito.

— C'è: rispose come uno Spartano l'uomo attempato.

— Sa Ella dove sia il numero 87? Domandò il cameriere a Romualdo.

— No: rispose questi che ignorava compiutamente la geografia di quella principale fra le locande torinesi.

— Su, all'ultimo piano: disse il garzone, e mentre Romualdo cominciò a salire, fattosi alla ringhiera della scala tirò una corda che fece suonare un campanello nella stanza di passaggio dell'ultimo ripiano.

Il nostro giovane continuò a scalpitare, salendo, la lista di tappeto che copriva il mezzo dello scalone di marmo, e poscia la stuoia più democratica che dal secondo piano in su sostituiva il tappeto, e quando giunse proprio in alto della casa, trovò dritto sull'ultimo scalino un altro cameriere che era postato là come un punto interrogativo.

— Cerco il numero 87: disse Romualdo senza aspettar altro.

Ma l'Azeglio, avvezzo ad essere disturbato da mille fastidiosi inutilmente, aveva dato ordini opportuni in proposito.

— Mi dica il suo nome: ribattè il cameriere, sul quale l'aspetto del giovane non pareva aver fatto una impressione diversa da quella del suo compagno al primo piano; ed io andrò ad annunziarlo.

Romualdo trasse di tasca un suo taccuino e sopra un foglio che ne stracciò scrisse il suo nome e sottovi queste parole: «Le sono affatto sconosciuto, ma vengo a chiederle un grandissimo favore per quattro giovani patrioti.»

Il cameriere prese la carta e sparì voltando in un corridoio. Il battere del cuore di Romualdo non cessò in quei pochi momenti che stette aspettando; e quei momenti furono pochi davvero. Il garzone ricomparve all'angolo del corridoio e disse al giovane che aspettava:

— Mi segua.

Camminarono un tratto e poi si fermarono aduna porta sopra cui era scritto il numero 87, e nella toppa della cui serratura stava ficcata la chiave.

Il cameriere battè leggermente nell'uscio colla nocca delle dita.

— Avanti: disse dall'interno della stanza una voce velata, un po' debole, quasi stanca, ma gentile e piacevole.

L'uscio fu aperto, il garzone si trasse in disparte, Romualdo entrò e si trovò faccia a faccia coll'alta e spigliata persona di Massimo d'Azeglio.

— Venga avanti: disse l'illustre scrittore, aguzzando gli occhi, col serrar delle ciglia, per un vezzo che era abituale alla sua miopia, verso il giovane che entrava inchinandosi.

Era l'Azeglio avviluppato in una vestaccia di lana bianca che dimezzava di forma fra la zimarra e l'antico lucco fiorentino, con un capuccio che cascava dietro le spalle, e colle mani se ne teneva egli serrate al corpo le falde, mentre drizzatosi in piedi faceva un passo nella direzione della porta ad incontrare chi entrava.

Era quella dall'Azeglio occupata una piccola e modesta cameretta, con una semplice tappezzeria di color chiaro appiccata alle pareti, con un piccolo letto senza cortinaggio, con pochi mobili di semplice legno verniciato, con una modesta valigia in un angolo, con un piccolo caminetto alla Franklin, in cui ardeva un fuoco niente superbo. Quella stanza non rispondeva alla dignità del titolo marchionale e dell'aristocratico lignaggio, ma all'umiltà ed alle mediocri fortune dell'artista, del letterato e del secondogenito di nobil famiglia.

La finestra si apriva nella parte esterna della casa e si vedeva, precisamente di faccia, al fondo della piazza reale, sorgere la massa imponente del palazzo regio, dimora di Carlo Alberto. Presso ai vetri della finestra era un piccolo tavolino con sopravi alcuni fogli, di cui uno scritto a metà, e la penna, tuttavia bagnata d'inchiostro, posatavi daccanto; si vedeva che l'Azeglio era stato interrotto mentre scriveva e s'era tolto pur allora da quel tavolino, traendo indietro per alzarsi la poltrona che gli stava dinanzi. La cominciata scrittura, a cui Massimo stava lavorando, era il famoso opuscolo, che tanto utile effetto doveva produrre in Italia col titolo:Gli ultimi casi di Romagna.

Romualdo non seppe a tutta prima che inchinarsi, come ho detto, pronunziare le usate parole di saluto e guardare con intentiva, ma rispettosa attenzione quella simpatica figura sorridente, illustrata dalla fama.

— Lei dunque è il signor Romualdo, incominciò l'autore d'Ettore Fieramosca, guardando sul fogliolino che il giovane avevagli mandato, e ch'egli teneva ancora in mano; e viene da me per un favore?

— Signor sì: rispose il giovane: ed Ella comprenderà meglio la ragione della mia temeraria venuta, quando le avrò detto che uno di quei patrioti per cui vengo ad interessare la sua generosa bontà, è Mario Tiburzio.

Massimo d'Azeglio sogguardò un istante il suo interlocutore con acuità di sguardo profondamente scrutativa. La missione politica cui l'illustre scrittore aveva assunta non era ignota al partito assolutista che teneva allora l'impero in Piemonte, e ben sapeva l'Azeglio di essere osservato, spiato, e circondato di tranelli e d'insidie, affine di coglierlo in fallo ed aver un pretesto d'ordinargli lo sfratto dagli Stati del re, a dispetto delle sue aderenze e del suo nome. E che questo avvenisse prima ch'egli avesse potuto, non che compiere ma tentare l'opera per cui era venuto, sommamente avrebbe doluto all'Azeglio; quindi senza nascondersi per nulla, senza infingersi menomamente, stava egli in sulle guardie con quella finezza di discernimento che non poteva dirsi furberia, la quale troppo spesso confina coll'inganno e colla mala fede, ma che era una prudente avvedutezza naturale al suo ingegno, onde governava i suoi atti e parole.

Il fatto d'uno sconosciuto che gli si presentava senza ricapiti di sorta, e di colpo veniva a gettargli innanzi il nome di uno dei più esaltati tra i rivoluzionari italiani, era tale da far nascere sospetto anche nel più confidente e nel meno avvisato degli uomini; laonde Massimo stette un momento prima di rispondere, e affondò quel suo sguardo limpido e sereno negli occhi di Romualdo. Ma fu un istante. Osservatore acuto ed esercitato degli uomini e delle cose, il nobile patriota non tardò a leggere sulla fisionomia di chi gli era venuto innanzi l'onestà, la sincerità e insieme quella ammirazione per colui che veniva a supplicare, la quale, anche all'animo degli uomini superiori, è la dolcezza d'un omaggio non disgradito. Fece seder Romualdo innanzi a sè, e con piglio pieno di fiducioso abbandono e tale da ispirare la più compiuta fiducia, disse a sua volta:

— Ella conosce Mario Tiburzio?

Romualdo sentì l'obbligo di spiegare le relazioni che passavano fra lui e l'emigrato Romano, e di narrare il modo onde avevano avuto principio; poi finì per esporre come Mario fosse stato arrestato e al pari di lui tre altri giovani suoi amici, ne disse il modo e raccontò eziandio quanto era stato combinato fra lui e Mario, e quanto egli aveva già incominciato ad operare affine di ottenere distrutti i sospetti della Polizia e liberati i quattro giovani.

D'Azeglio lo ascoltò in silenzio, molto attento e con evidentissimo interesse. Poscia manifestò il più gran rincrescimento delle cose avvenute e il suo grandissimo desiderio che le cattive conseguenze di tali arresti si potessero impedire. Taciutosi un momento, recandosi sopra sè, si volse quindi con vivacità al suo interlocutore, dicendogli:

— È Ella venuta per caso affine di avere in me un altro testimonio da escludere l'identità di Mario?

— No, signore: rispose Romualdo con accento pieno di sincerità. A codesto non avevo nemmanco pensato.

— Tanto meglio!... Per quell'opera avrebbe trovato in me uno stromento affatto inefficace. Io non sono buono a mentire. Non è mica un elogio che mi faccio; è un fatto che espongo. La mia natura è così: a dire il contrario del vero non ci ho gamba, e le parole, se il voglio fare, mi si strozzano nella gola. Tutt'al più posso tacere il vero.

— Io ho pensato che Ella potrebbe aiutarci: disse allora Romualdo: il come, non l'ho nemmeno cercato. Mi sono detto fra me e me: quando egli sappia come stanno le cose non negherà di accordarci il suo patrocinio, e il modo di questo Massimo d'Azeglio saprà trovarlo assai più facilmente e meglio acconcio di quello che io gli saprei suggerire. Non sono stato a riflettere dell'altro, e sono venuto.

D'Azeglio sorrise, stette un poco assorto in sè, guardando traverso la piazza tutto bianca di neve, le brune muraglie del castello, la neve che continuava a fioccare con denso turbinar su se medesima, e in fondo alla scena, per così dire, il severo palazzo reale; poi disse ad un tratto, come cedendo ad un interno sentimento che prorompa:

— Ebbene sia: Ella ha ragione d'esser venuto. Tenterò la salvezza di quei poveri giovani, e con ciò tenterò eziandio qualche cosa di maggiore pel bene d'Italia.

Si tacque un momento quasi cercando le parole con cui aveva da esprimersi; poi crollando lievemente la testa con atto pieno di grazia e d'abbandono e sorridendo di quella sua guisa gentile ed amichevole, soggiunse:

— Io non ho autorità nè influsso di sorta presso nessuno degli alti funzionari che regolano a lor posta lo Stato, anzi sono loro grandemente in uggia ed in sospetto, e una parola mia farebbe peggio; non è quindi a nessuno di essi che penso indirizzarmi. Dacchè sono in Torino, quest'ultima volta, ho sempre pensato di domandare un'udienza al Re; ora le cose sono ad un punto che la desidero e la stimo necessaria più che mai. Domanderò sollecitamente questa udienza, e per essere sicuro del fatto mio, la domanderò per mezzo del marchese di Baldissero, il quale, benchè di opinioni affatto contrarie alle mie, mi stima, e cui io stimo oltre ogni dire. Al Re francamente, insieme con tutte le altre cose che voglio dire, parlerò dei suoi amici, signor Romualdo, e spero di ottenere dal cuore di Carlo Alberto la più clemente risposta.

— E non si può dubitare dell'esito: proruppe Romualdo con un calore contenuto che era un entusiasmo di buona lega frammisto a riconoscenza. Ella avrà tolto dalle angustie la famiglia di Benda, avrà salvata quella di Vanardi; avrà conservato all'Italia dei giovani che son pronti a dare per essa, quandocchessia la vita....

Qui si fermò ad un tratto, e chinò gli occhi con aspetto dubbioso ed esitante, come chi vede affacciarglisi ad un tratto una difficoltà od uno scrupolo di molta rilevanza.

— Ma, soggiuns'egli tosto di poi con accento privo della foga di poc'anzi, ma non di una certa dignitosa sincerità, sollevando di nuovo gli occhi sull'Azeglio che lo guardava sempre con quella sua attenzione benignamente osservativa: ma supplicare di grazia Carlo Alberto, noi... imperocchè gli è come se noi medesimi lo supplicassimo.... noi che in realtà congiuriamo a suo danno e vogliamo abbattuto il suo governo che stimiamo avverso ai destini ed ai diritti della nostra patria!... Lo dobbiamo noi? Lo possiamo in coscienza?...

Massimo d'Azeglio prese vivamente la mano del giovane e la strinse nella sua.

— Bravo! Esclamò. Ecco uno scrupolo che mi piace.

— E poi, continuava Romualdo, l'avere dal Re una grazia anco a quel modo ottenuta, non implicherebbe un tacito impegno da parte nostra di rinunziare ai nostri propositi e disegni? E noi ciò non possiamo fare a niun modo. Un giuramento solenne, e più ancora le nostre convinzioni non ce lo permettono. Fino alla morte, con ogni mezzo che ci si presenti, noi dobbiamo e vogliamo adoperarci per la libertà e per l'indipendenza d'Italia....

— E va benissimo: interruppe con vivacità l'autore diNiccolò de Lapi. E ciò dovete fare, e farete, ci conto su. Ma la questione sta nei modi di questo adoperarvi per la santa causa della patria. Certo riavendo da Carlo Alberto la libertà tolta loro dalla sua Polizia, i vostri amici non dovrebbero più vagheggiare nè tentare impresa nessuna che fosse contro la persona o lo scettro di quel Re... Io non voglio saper nulla dei vostri attuali progetti; ma conosco abbastanza le follie e le illusioni di quel partito a cui in disperazione d'altro mezzo avete dato il nome, per esser certo che voi scambiate per attuabili delle chimere impossibili. Non vi domando in nessuna guisa una promessa di rinunziare a quei pazzi disegni di cui le circostanze medesime vi mostreranno l'assoluta vanità. Sono sicuro che a quei propositi vi siete appigliati perchè non vedevate altro modo di agire in pro della libertà: quando io stesso vi possa additare un mezzo più sicuro e più leale da ciò, confido che voi l'adotterete eziandio, rinunciando alle tenebrose congiure.

— Questo mezzo, disse allora Romualdo, è certo quello di cui Ella ha già tenuto discorso a Mario: procedere verso l'indipendenza d'accordo coi Principi, ottenendo da loro medesimi a spizzichi la libertà.

Azeglio fece un cenno affermativo.

— Gli è quello, rispose, e primo fra i Principiin questa strada spero si possa ottenere Carlo Alberto.

— Ma chi si fida di lui? Chi può credere in esso?

— Vi domanderò di credere non alle sue parole, ma alle sue opere..... Senta, signor Romualdo: nell'abboccamento ch'io avrò col Re, il primo argomento del mio discorso non sarà quello dell'arresto de' suoi amici; gli parlerò delle condizioni, dei bisogni, dei desiderii d'Italia, delle speranze e delle aspirazioni di quel gran complesso di spiriti liberali che si viene formando per tutta la penisola, il quale non è più una congiura che si nasconda, non è più una setta, nè manco un partito, ma può dirsi ed è la opinione pubblica, che dalla sua universalità, dalla più chiaramente acquistata coscienza dei suoi diritti, viene prendendo il coraggio di manifestarsi all'aperta luce del giorno. Gli è di questo coraggio che abbiamo bisogno in Italia, più che di quello di cimentare la libertà ed anco la vita in cospirazioni segrete, cui forse la pura ed assoluta morale non approva nemmeno; gli è questa massa di tranquilli patrioti palesi che dobbiamo adoperarci ad accrescere con una legale ed onesta propaganda negli scritti, nei discorsi, in ogni attinenza nostra; perchè accrescendo questa massa aumenteremo sempre più la forza che ha da spingere sulla strada del patriotismo i Principi colle loro forze già belle e ordinate, senza bisogno di convulsioni, di guerra civile e di danni di nessuna specie. Parlerò adunque di codesto al Re, e lo metterò, come si suol dire, fra l'uscio e il muro, per non uscire di là, altrimenti che con una parola definitiva. Se questa sarà qual'io la desidero, e la spero, allora ogni opera di congiura sarà non che inutile, dannosa; e credo abbastanza nel vostro patriotismo per essere certo non la vorrete proseguire; allora non esiterò a chiedere a Carlo Alberto di rimandar liberi que' giovani che domani avrà di certo suoi soldati nella lotta dell'indipendenza. Se invece dalle risposte del Re non avrò la certezza della sua compiuta adesione al nuovo programma nazionale che io gli esporrò in tutti i suoi particolari, allora taccio affatto de' suoi amici e lascierò le cose alla salvaguardia della Provvidenza. Questo proposito le va?

— Compiutamente: rispose Romualdo con accento in cui erano riconoscenza insieme ed ammirativa adesione. Guardi, signor marchese.....

Azeglio lo interruppe sorridendo:

— Ah! lasci stare il marchese, la prego. I miei buoni amici, i popolani di Roma, mi chiamavano sor Massimo; è il modo con cui mi piace di meglio sentirmi a chiamare.

Romualdo s'inchinò.

— Quando Ella ci dica: sul mio onore potete fidarvi di Carlo Alberto, noi ci fideremo.

Massimo rimase un istante in silenzio, quasi come se fosse perplesso. Poi scosse la testa, si alzò e recossi alla finestra, dove si pose a guardare fiso verso il palazzo reale.

— Potrò io darvi quest'assicurazione? Là dentro, fra quelle muraglie laggiù, alberga una sfinge che tiene in pugno i destini d'Italia. Varrò io ad esserne l'Edipo? Uscirà essa, questa sfinge, dal suo cupo silenzio o dal dubbio linguaggio?... Vedremo. Ad ogni modo una cosa posso accertarle: ed è che non sarò ingannatore altrui che ingannato io stesso... ed ho già visto abbastanza di cose e conosciuto di uomini al mondo, per non lasciarmi così agevolmente ingannare.

Romualdo, dopo molti altri discorsi coll'illustre cittadino, uscì da quella modesta camera di locanda più ammiratore e più fiducioso che mai dell'intelligenza, del cuore e del carattere di Massimo d'Azeglio.


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