CAPITOLO XXII.

CAPITOLO XXII.La stanza in cui erano rinchiusi Maurilio e Selva nelle parti inferiori del castello, era fredda, piccola, umida, scura, selciata di mattoni la cui polvere non mai spazzata, in quel momento, trovavasi ridotta ad una specie di motriglia dall'umidità che ci entrava traverso le grosse inferriate e la fitta graticola vestita di ragnateli della finestrucola che in alto presso il soffitto si apriva nei fossi delle due torri, e le cui imposte ned erano chiuse nè potevansi chiudere neppure, per la semplice ragione che mancavano affatto.In quella stanza di prigione i mobili non facevano ingombro. Da una parte eravi un tavolato infisso al pavimento, per servire da letto; dall'altra parte una brocca di terra cotta piena d'acqua, e un bigonciuolo che serviva ad usi meno nobili ma necessari. Ecco tutto.Maurilio, venendo dalle stanze superiori dove c'era maggior luce, al suo entrare colà dentro non vide nulla che una chiazza bianchiccia in alto della parete di faccia alla porta, ed era la finestrina per cui penetrava un poco di barlume. Il secondino che dietro il cenno del Commissario lo aveva accompagnato a quella carcere, tirato ch'ebbe i chiavistelli, girato la chiave nella serratura, aperto il grosso battente dell'uscio cigolante sui cardini, senza tante cerimonie diede uno spintone per le spalle a Maurilio, affine di cacciarlo dentro, e col medesimo rumore che aveva fatto testè ad aprire, richiuse sollecitamente dietro di lui la pesantissima porta.Maurilio vide l'ombra d'un uomo che pareva sorger da terra, agitarsi innanzi a lui e slanciarsi verso di esso con una esclamazione; ricordò il suo ingresso nelle carceri del palazzo chiamato ancora oggidì ilcorrezionale, e si trasse indietro vivamente con raccapriccio di timore e di ripugnanza.Ma Giovanni, le cui pupille s'erano già temperate alla poca luce di quell'ambiente, aveva di botto riconosciuto in chi entrava l'amico suo, epperò si era affrettato al suo incontro.— Maurilio: diss'egli con un'intonazione di lieta sorpresa nella sua voce vivace e francamente sonora: poichè anche tu avevi ad essere uccello di gabbia, benedetto l'azzardo che ci congiunge: dico l'azzardo perchè ho troppa stima del signor Commissario per supporre solamente che questo possa esser l'effetto d'un gentile riguardo che ci abbia voluto usare.— Che? Esclamò Maurilio rassicurato e sentendosi rinfrancare di botto alla voce, alla presenza, alla stretta di mano, all'abbraccio dell'affettuoso amico. Sei tu, Giovanni? Arrestato anche tu!.... Oh! come mi fa piacere il trovarti.— Birbone! Disse Giovanni ridendo. Ti fa piacere vedermi in gattabuia!— Eh! no di certo. Voglio dire.....— So bene quello che vuoi dire: interruppe col suo riso schietto ed aperto Giovanni Selva. Ma qui, tocca a me, che ci sono entrato alquanto prima, il far gli onori dell'appartamento. Se non ci vedi ancora abbastanza, dammi la mano e lasciati guidare.Lo condusse al tavolato.— Qui, continuò, è il sofà; egli è vero che questo è anche il letto, e può, anzi deve servire eziandio da tavola. Semplificazione veramente ammirevole!..... To', imita il mio esempio, e siedi sulla sponda di questo tavolo-sofà-letto. Che bel vocabolo!... Non temere di guastarne la spiumacciatura pei tuoi sonni della notte, sibarita che tu sei. La sofficità di questi materassi non ci può patire. Non è qui che potrà darti fastidio la foglia di rosa male ripiegata sotto la tua schiena, te lo assicuro io. È presumibile che avremo delle belle ore innanzi a noi da guardare quel «breve pertugio» lassù, che ci lascia venire tropp'aria, troppo freddo e per compenso troppo scarsa la luce; per fortuna abbiamo piùsacca da vuotare a vicenda. Io ti dirò l'iliade del mio arresto, tu mi conterai l'eneide del tuo, e poi terminerai di espormi l'odissea delle avventure della tua vita. Oggi sono classico come il prof. Paravia e parlo come un'appendice di Romani. Possa quest'omaggio alla letteratura officiale rendermi benigni i Dei infernali di queste bolgie governative! Queste chiacchere non ci scalderanno, ma ci faranno passare il tempo. Siccome spero che non saremo condannati alla sorte del conte Ugolino, spero bene che finirà per venirci qualcheduno, da cui, mercè il sacrifizio dei pochi denari che ci hanno levato di tasca, potremo ottenere una coperta per non gelare come sorbetti e qualche mezzina di vino per non lasciare intorpidirsi, come già mi sento le mani, anche il cervello.Il programma di Giovanni fu seguìto appuntino. Dopo che l'uno e l'altro ebbero narrato a vicenda come avesse avuto luogo il loro arresto, dopo discorso non senza gravi apprensioni dei pericoli che sovrastavano a loro, agli amici ed all'impresa, Maurilio, pregatone di nuovo dal compagno, riprese il racconto della sua vita, interrotto all'alba di quella stessa mattina, quando Selva aveva dovuto correre da Francesco Benda per accompagnarlo in qualità di padrino al duello col marchese Ettore di Baldissero.— I giorni che passarono, poichè ebbi la fortuna di incontrarmi col signor Defasi; così incominciò a raccontare Maurilio, recatosi prima alquanto sopra sè come per evocare più nette innanzi alla mente le sue memorie: quei giorni furono i più lieti e tranquilli che io abbia passato ancora mai su questa terra. Quella buona e pietosa famiglia mi pose un vero affetto. I miei studi interessarono il capo di casa e i progressi del mio intelletto lo stupirono di molto. Ebbe di me stima assai più ch'io non meritassi, e quasi ammirazione. Volle che con lui e con i suoi, fossi non più nelle attinenze d'un inferiore, ma in quelle d'un uguale. Spinse al punto il suo affetto e l'estimazione per me che mi lasciò comprendere un giorno come non avrebbe disdegnato, me povero e senza famiglia, accogliere come figliuolo concedendomi la mano d'una delle sue ragazze.— Ed ecco entrare finalmente in campo la molla o segreta o palese, ma universale, delle azioni umane: la donna! Così disse Giovanni. Tu mi hai detto già che una violenta passione era venuta a impadronirsi del tuo cuore e darci fuoco a quella provvista di poesia che vi giaceva latente; questa passione era ella appunto per la figliuola del tuo principale?Maurilio scosse la testa con atto di negazione desolata.— No; rispose. Ah! fosse stato così! Avrei svelato al signor Defasi tutta la verità sul mio conto; ed egli così generoso verso tutti, così ammirato di me, avrebbe tuttavia concessomi l'onore della sua alleanza. La donna che avrei amata sarebbe stata mia. Ma il mio cuore invece — lo sciagurato ch'io sono! — non fu tocco dalle domestiche virtù e dalla modesta leggiadria delle figliuole del libraio; fu ad un punto acceso dalla fiera bellezza, dalle superbe grazie di tale, appetto a cui il povero trovatello è come innanzi alla gemma che orna il diadema d'una regina, il verme della terra.S'interruppe manifestamente esitante ancora innanzi alla rivelazione del suo segreto.Giovanni gli prese una mano e lo incoraggiò con una stretta, senza parole, e con uno sguardo affettuoso.Maurilio disse affrettatamente ed a voce bassa:— Amo la contessina Virginia di Castelletto, cugina del marchese Ettore di Baldissero.E poi, come uomo che ha detto una sua gran vergogna, nascose la faccia sconvolta nelle grosse mani.— Cospetto! Esclamò Giovanni con accento tra di meraviglia, tra di compassione. Per te questo amore è un terreno arido in cui non può nascere il menomo fiore d'una speranza. Tanto varrebbe esserti innamorato della luna! Valla ad arrivare! Mio caro, allorchè di queste passioni impossibili entrano nel cuore d'un uomo, conviene strapparle subito, ad ogni costo, anche portandosi via un pezzetto del proprio cuore, chi abbia senno, risoluzione e coraggio d'uomo siccome hai tu.— Eh! che cosa non ho io fatto per ciò? Proruppe Maurilio con impeto. Non ci ho potuto riuscire a niun modo. Questa fatale passione si è tenacemente impigliata al più intimo dell'esser mio, ha gettato le radici profonde nel substrato della mia natura, s'è fatta il sangue che palpita nel mio cuore, s'è insinuata in ogni circonvoluzione ove sta lo strumento del pensiero nel mio cervello, s'è fatta l'anima mia. Da questo miserabil corpo non si può togliere più che colla vita: dallo spirito forse mai più!... Forse l'ho già portata meco da esistenze anteriori, e seguiterò ad averla connaturata colla mia essenza individuale negli stadii infiniti della mia immortalità, aspirazione fors'anco ad una meta di felicità non arrivabile nel tempo, punizione e spasimo frattanto nella relatività delle vite incarnate.Agitò la sua testa grossa ed arruffata, lanciò dai suoi occhi profondi delle fiamme di sguardi: il sangue concitato gli colorò un istante i pomelli delle guancie e la vastissima fronte parve in quella accarezzata da una luce fosforica che la circondasse. La bruttezza delle sue corporee sembianze scomparve un istante sotto il fugace rivelarsi della luminosa natura dell'anima là dentro costretta. Una donna d'intelligenza l'avrebbe trovato in quel punto meglio che leggiadro, imponente e sublime.Sì: continuò egli lasciando vibrare la sua voce, che acquistò ancor essa un'insolita ed efficace armonia:questa passione, che fa da veste di Nesso all'anima mia, l'ho portata meco da altre vite, da altri mondi. Che cos'era quella indefinita ed incompresa aspirazione all'ideale che affannava fin dai primi anni l'inconscia mia natura? Che cos'era quell'ardore di innalzare nella schiera gerarchica delle intelligenze il mio spirito audace ed ambizioso, mercè lo studio ed il sapere? Che cosa quei tumulti inesplicabili che mi sobbollivano in petto, che mi facevano fra mille temerarie idee dibattersi la ragione, come nave senza governo in mar tempestoso? Che cosa quelle ineffabili chimere con sorrisi di donna e con isguardi d'angelo che passavano lucenti frammezzo alle mie fantasticaggini, adombrandomi un bene sconosciuto e cui non sapevo definire? La prima volta che io l'ebbi veduta, lei, appena fu comparsa a questi occhi, compresi tutto. La passione d'amore era lo svolgimento dell'anima umana, essa era la legge suprema del mondo morale come in quello fisico l'attrazione; e l'anima mia, fatalmente, per ignota necessità, era avvinta a quell'anima che mi si rivelava con tanto sfolgoramento di bellezza, oscuro pianeta di quell'astro lucente. Oh! come lo ricordo quel momento in cui la prima volta quella beltà raggiò nella penombra della mia esistenza! Se chiudo gli occhi, rivedo tal quale il luogo, il tempo, e lei, e me, ed ogni oggetto circostante.Chiuse diffatti gli occhi, e sulle sue pallide labbra si disegnò un ineffabile sorriso, da potersi paragonare a quello del Joghi, indiano, che nelle sue mistiche contemplazioni vaneggia di giungere al proprio assorbimento in Brama.E stette un poco, tacendo, in quella mossa prima di riprendere il suo dire.— Era una bella giornata di primavera; così riprese Maurilio di poi; un lieto raggio di sole entrava nella bottega dei signor Defasi e faceva ballare allegramente traverso il suo splendore i minutissimi atomi della polvere. Il principale era seduto ad una sua piccola scrivania esaminando i libri delle ragioni; io, assorto in una meditazione indefinita e indefinibile, guardavo la danza di que' minuzzoli di materia che turbinavano, all'aria che filtrava dall'uscio, entro quello sprazzo di luce.«Ad un punto una sfarzosa carrozza con due cavalli di prezzo si fermò innanzi alla bottega; un domestico in livrea disceso dal seggio del cocchiere ne venne ad aprire l'usciolo, e due donne uscite dalla carrozza si diressero verso il fondaco, di cui il domestico s'affrettò a spalancare l'uscio a vetri perchè potessero entrarci.«Di quelle donne io vidi una soltanto. La sua testa mi apparve in mezzo allo splendore del sole, più splendida ancora nello sguardo angelico, nel sorriso divino. Sopra i suoi capelli color d'oro la luce faceva come un'aureola di fuoco; la sua bellezza verginale spiccava su quel fondo ardente come una sublime figura del Beato Angelico sull'oro della sua tavola. S'avanzò con graziosa mossa verso il banco ingombro di libri; il lieve rumore del suo passo, il fruscio delle sue vesti mi parve un'armonia. La guardavo con occhi sbarrati, immobile, fiso, rapito, non più presente a me stesso, non più sulla terra, non più conscio di nulla che quella celestiale bellezza non fosse. Palpitavo e tremavo; sentivo un ghiaccio corrermi nelle vene e una vampa di fuoco precipitarmisi nel cervello. Credo che se avessi visto precipitare in quel punto sul mio capo un colpo della falce della morte, non avrei manco potuto muovermi a schivarlo, così ero impietrito. Era una visione beata che avrei voluto durasse una eternità. Ella parlò. Che cosa dicesse non so, non capii, ma bevvi avidamente coll'anima quella voce soave. Il padrone s'era alzato dal suo posto ed era venuto riverente incontro alle due donne. Egli rispose alcun che. Vidi che quella divina figura sorrideva, udii ancora una volta la melodia di quella voce; poi l'apparizione scomparve, la carrozza ripartì e mi sembrò che quella bellezza allontanandosi, seco portasse lo splendor del sole, che miravo con sì gaio e intento sguardo poc'anzi.«Allora essa trovavasi al primo sbocciare della sua giovinezza, quasi non uscita tuttavia dall'infanzia, eppure già donna per la imponenza dello sguardo, pel sentimento alto e profondo che si manifestava nelle sue sembianze, nel suo contegno, nel suo sorriso.«Apprendere chi ella fosse lo desideravo colla più intensa vivacità del mio volere, ma domandarlo non avrei osato mai. Il signor Defasi mi soddisfece dicendo egli stesso, non richiesto, appena ella fu partita:«— Che cara, bella e buona ragazza è questa mai! Essa è la contessina di Castelletto; e da qualche anno la è una delle migliori avventrici del mio fondaco. L'ho conosciuta che la era ancora una bambina, ed era già così affabile e graziosa come adesso, con una certa dignità fin d'allora, che era una meraviglia. Converrà mandarle subito questi libri che ha domandato.«Io sorsi di scatto dal mio cantuccio.«— Vado io stesso all'istante, signor Defasi: dissi vivamente parendomi un gran che il potere far subito alcuna cosa che lei in qualche modo riguardasse.«— Oh non c'è poi tutta questa premura: rispose affettuosamente il principale, che postomi, come ti ho detto, molta stima ed affezione ed innalzatomi, col migliorare delle sue fortune, al grado di suo primo commesso, scambiava quel mio ardore per zelo di volerlo contentare. Non occorre che vi scomodiate voi stesso, appena venga il galoppino lo faremo trottar lui.«— Oh no, caro padrone: io dissi quasi supplicando: lasciatemi andar me, subito.«M'accorsi alla guisa con cui il signor Defasi mi guardava, ch'e' molto stupivasi di quella mia insistenza, di cui non sapeva darsi ragione; sentii salirmi il rossore alle guancie come se vedessi scoperto quel mio segreto nato pur allora, e che già tanto m'era caro.«— Ho bisogno di uscire, balbettai, di prender aria, di fare un po' di moto. Ho il sangue al capo. Questo mi servirà di passeggio.«— Andateci pure allora: disse il principale colla sua solita bontà: e passeggiate quanto vi bisogna. Voi veramente state di troppo chiuso fra le pareti e fermo al lavoro. Ve l'ho detto tante volte che il vostro indefesso studiare vi farebbe male. La gioventù ha mestieri di aria libera e di moto. Nè dovete prendervi la menoma soggezione di me, perchè sapete bene ch'io sono disposto a darvi tutte quelle ore ed anco tutti quei giorni di vacanza che desideriate. Dunque to'; eccovi l'involto di libri che recherete al palazzo di Baldissero, e poi non vi aspetto più a casa che per l'ora di pranzo. Siamo intesi così?«Io lo ringraziai, presi il mio cappello, e coll'involto dei libri sotto il braccio via di corsa verso l'indicatomi palazzo.«Lungo la strada che avevo da percorrere, tenevo quell'involto con mani quasi tremanti, come per un tesoro che portassi. Ella quei libri li aveva già toccati, li avrebbe tenuti colle sue manine, avrebbeli introdotti nel santuario dei suoi appartamenti, posatili sul guanciale per leggerli la sera, avutili per delle ore sotto gli occhi. Li accarezzavo collo sguardo, li invidiavo coll'anima: li stringevo al cuore, come una cosa diletta. Mi pareva che essi dalle mie mani, passando nelle sue, dovessero stabilire una specie di legame segreto fra me e lei!...«Giunto alla soglia del portone, la voce del custode mi ridestò dai miei sogni di pazzo:«— Dove andate giovinotto? Mi domandò egli.«Quelle parole mi arrestarono con un sussulto, come se fossero le più inaspettate e strane, mi trovarono sprovveduto affatto di risposta da fare. Ristetti confuso e balbettante.«— Ebbene? Ripetè il portinaio. Siete sordo, o non sapete dove avete da andare?«In quella una carrozza soprarrivava di trotto serrato, e voltando rattamente sotto il portone, poco mancava che mi schiacciasse, interito e sbalordito com'ero.«Il portinaio che si spaventò forte del mio pericolo, mi prese ad un braccio e mi tirò con violenza in là, gridando metà con rampogna e metà con interesse:«— Siete proprio sordo, chè non sentite le carrozze che vi vengono addosso?«Una testolina dai capelli d'oro comparve alla portiera, ed una voce d'argento dimandò:«— Che cos'è stato?«Era lei! Io risentii il palpito nel cuore e la tenzone del sangue nel capo, di poco prima.«Il portinaio rispose; poi, siccome io continuava a tacere, vedutomi l'involto tra mano, il portinaio medesimo me lo prese, ne lesse la soprascritta, e disse alla signorina che io portava quella roba per lei.«Ella avvisò tosto che cosa fosse.«— Ah! i miei libri che mi manda il signor Defasi?«— Sì... sì signora: ebbi pur finalmente la forza di balbettare con voce che mi era strozzata nella gola e con labbra che mi tremavano dall'emozione.«Ella lasciò cadere su di me un suo sguardo benigno — su di me povero, oscuro, miseramente vestito, in così umile condizione sociale; — e disse con quell'accento la cui dolcezza al mondo nulla può eguagliare:«— Vi ringrazio.«Essa colla sua compagna salirono lo scalone: il domestico che era con loro prese dal portinaio l'involto e le seguì: io sentiva sempre nel mio orecchio l'eco di quella voce, il suono di quelle due parole.«Approfittai della licenza datami dal principale e corsi ad accarezzare le mie fantasticaggini nella solitudine dei viali. Di botto una crudele vergogna m'assalse. In quali miserabili forme ero io comparso innanzi a lei! Quasi avessi uno specchio davanti agli occhi la mia bruttezza e la mia povertà mi risaltavano visibili e spiccate alla mente che a forza doveva paragonarle alla beltà ed alla ricchezza di quell'angelica creatura. Oh! s'ella avesse saputo che da quel meschinello disprezzato e disprezzevole osava innalzarsi sino a lei la temerità d'un amore! Pensai a Quasimodo il mostro creato da Victor Hugo nellaNotre Dame de Paris, che ama supremamente la bellezza femminea incarnata nella grazia di Esmeralda. Ma in me c'era qualche cosa di più che non ci fosse in quell'embrione abortito d'uomo; ma il mio affetto era immensamente più nobile di quanto fosse la passione tra sensuale e canina di quell'essere mantenuto dall'organismo nella zona inferiore dell'animalità; ma in essa eziandio lo sguardo affermava che c'era qualche cosa di più della pura bellezza fisica. Se questa mia veste di carne troppo misera e disgraziata era indegna di rivolgere pure un desio a quella perfezione di forme, non erano in me l'anima e l'intelletto capaci di levarsi all'altezza e di parlare alla pari con quell'intelletto e con quell'anima? Superbamente mi dicevo che sì; un orgoglio immenso m'invadeva, e nella febbre di quell'agitazione pareva anche a me di aver nella volontà e nel pensiero una forza da sollevare il mondo, purchè trovassi il punto d'appoggio.«Come fare per poter comparire agli occhi suoi in quel modo che indegno non mi facesse della nobiltà non del suo blasone, ma della sua natura? Questopensiero si piantò fisso e potente nel mio cervello a regolare a suo capriccio tutti gli altri a lui subordinati. Ne immaginai mille di cose, tutte folli ed impossibili. Alla gloria fino allora non avevo pensato mai. Non mi era nata mai la speranza, nè il desiderio, nè manco l'idea che questa meschina personalità potesse innalzarsi al di sopra delle altre per essere ammirata dalla nullità comune. Allora, di colpo, vagheggiai la corona della gloria come un bene fra i più eccelsi; mi parve anche, nell'intensità febbrile del mio pensiero, un diritto della mia intelligenza. Oh! se avessi potuto recarle innanzi nella polvere calpesta da' suoi piedi una fronte cinta del diadema che dà la sovranità della mente riconosciuta e consecrata dalla fama! Ella avrebbe apprezzata questa grandezza; ella non avrebbe più guardato all'infelice viluppo, per accogliere quale sorella l'anima grande che si era manifestata, come quella Principessa che baciava amorosamente le labbra del deforme Alano Chartrain addormentato, per gli splendidi versi e pei sublimi concetti che uscivano da quelle labbra.«La gloria! la gloria. La mi abbisognava, la volevo. Essa mi appariva più splendida nel guerriero e nel poeta. Sognai di diventar Napoleone; sognai di esser Dante. Un Napoleone italico che combattesse le battaglie della liberazione della patria, e poscia, acclamato da tutta una nazione redenta e fatta potente, venisse a prostrarsi innanzi a lei per dirle: «La mia grandezza è opera tua, la mia gloria sei tu; vieni a circondarti tu pure di questa infuocata aureola che illumina il mio capo al di sopra del comune livello dell'umanità.» Un Dante, rincalzato da tutto il tesoro della scienza moderna, che gettasse di nuovo nel crogiuolo della sua fantasia tutti gli elementi della vita, del pensiero e dell'affetto, per trarne fuori l'enciclopedia del secolo travagliato, in un altro splendido poema che comprendesse l'universo.«Nemmeno pel pranzo non rientrai più in casa del signor Defasi. Mi ridussi nella mia cameretta, mi vi chiusi dentro e su quello scartafaccio su cui avevo cominciato a scrivere le emozioni dell'anima mia, le lotte e i conquisti della mia intelligenza, su quelle pagine scarabocchiai con mano febbrile i primi versi d'amore che erompessero dal mio cervello. Quell'immagine giovanile mi stava sempre dinanzi. Io le parlava come a persona viva che fosse presente e mi potesse ascoltare. Una folle illusione mi faceva quasi sperare che la intensità del mio desiderio e la forza delle mie preghiere varrebbero a comunicare, non ostante ogni distanza ed ogni separazione, all'anima di lei l'omaggio ed i tumulti dell'anima mia.«Avrei voluto sapere di essa il nome di battesimo; quel nome con cui l'aveva chiamata sua madre, col quale avrebbe avuto diritto di chiamarla l'uomo a cui ella avesse dato l'amor suo. Conoscevo dell'idolo mio la luminosa esistenza, non la voce con cui invocarlo ed evocarlo, non la parola sotto cui volgerle la mia adorazione. Mi pareva che sapendo questo nome era un raccostarmi di più a lei, era quasi un intromettermi nel santuario della sua esistenza, era una maggiore rivelazione del Dio a me suo adoratore. Come fare per giungere a questo scopo? Per un altro sarebbe stata la cosa più semplice di questo mondo: interrogar qualcheduno; forse lo stesso Defasi avrebbe potuto soddisfare alla mia richiesta; ma io non avrei voluto a niun conto parlare di lei ad anima viva. E tu se' il primo a cui ne tengo parola. Mi pareva una profanazione; mi pareva che qualunque a cui mi rivolgessi avrebbe sentito nel mio accento, avrebbe letto nel mio volto il mio caro segreto cui con infinito pudore volevo a tutti nascosto.«Una strana idea m'assalse. Mi ricordai ad un tratto di quell'aerea forma che fino dall'infanzia a lunghi intervalli era comparsa ai miei occhi, aveva parlato alla mia mente, confortatrice, consigliera, amorevole protettrice. Da lungo tempo ella non si era mostra più, ed io caduto, per conseguenza di alcune letture, in un nuovo scetticismo — e ti parlerò eziandio, se non l'hai discaro, di questi travagli dell'anima mia — io mi era sforzato a persuadermi che quelle apparizioni erano stati null'altro che fantasimi del mio cervello ed a ritenerle come illusioni morbose della mia immaginativa. L'amore che mi doveva ridonare la fede — la nuova fede su cui ora fonda il mio spirito l'edifizio delle sue convinzioni, dell'enciclopedia umana e delle conoscenze che è giunto e giungerà mai ad acquistare — la fede nel mondo superiore, senza cui manca all'essere uomo un elemento essenzialissimo pel suo proprio svolgimento e perfezionamento — l'amore che doveva ridonarmi questa fede, cominciò per farmi creder di nuovo alla realtà dell'esistenza e dell'intromissione nella mia vita di quello spirito incorporeo che mi era apparso in vaporose sembianze sotto forma di giovane donna.«Siccome mi era dolce pensare che fosse mia madre a visitarmi pietosa dal misterioso mondo di là della tomba; siccome non dubitavo che gli oggetti postimi addosso nell'abbandonarmi infante non appartenessero a mia madre, e specialmente quel rosario; io presi quest'ultimo dal luogo riposto in cui gelosamente lo custodivo, lo strinsi con passione fra le mie mani, me lo serrai sul cuore che palpitava concitato e con un'aspirazione indefinita, inesprimibile dell'anima, pregai:«— Madre mia, o qualunque tu sia, spirito mio benigno, vedi il mio desiderio e soddisfalo tu, se puoi. Spirito immateriale, tu devi leggere entro il pensiero, tu devi scorgere entro i segreti ripostigli dell'anima. Vieni pietosa a parlarmi di lei, vieni a darmi quella forza e quel merito che mi possano accostare all'altezza di quella creatura, vieni a svelarmi,sia pur anche il più infelice, l'avvenire di quest'amore che sento, che conosco essersi fatto la ragione e la sostanza della mia esistenza.«Stetti quasi tremante, con un palpito pieno di dolcezza, con un'intima emozione che mi faceva correre lievi brividi per le vene, stetti, nella mia cameretta invasa dalle ombre della sera, aspettando quell'aura leggerissima d'alito che mi pareva soffiarmi in fronte all'apparizione del fantasma, quell'opalino chiarore in mezzo a cui soleva disegnarmisi innanzi l'incorporea forma.«Aspettai vanamente.....»— Ah! Esclamò Giovanni, del quale lo pseudorazionalismo, rincalzato da un po' d'umore beffardo alla Voltaire si ribellava contro la secondo lui puerile credenza nelle apparizioni di esseri estraumani. La tua mente, rinforzata pel crescer cogli anni delle forze fisiche, rinvigorita per gli studi maggiori e più assennati, non era più capace di quelle fantasmagorie a cui si prestava nella puerizia e nella prima adolescenza.Maurilio fece un lieve sorriso scuotendo la testa.— Aspetta, aspetta: diss'egli. Tu ti affretti di troppo ad imbrancarmi nel gregge degli uomini positivi che credono soltanto a quell'universo di cui le parti si possono misurare col bilancino e scomporre nella storta del chimico. Ho passato per quello stadio ancor io: fu una crisi cui attraversò fra le tante, quest'anima; come già ti ho detto, l'amore me ne trasse, e l'apparizione dall'amore invocata ed evocata, fu il primo atto che mi riscattò dalla schiavitù in cui ero caduto del materialismo.— Dunque la tua apparizione ebbe luogo? Domandò Giovanni con più interesse di quanto la sua incredulità avrebbe fatto supporre.— Sì..... Attesala invano in quell'ora mesta e soave del crepuscolo, che era pure stata quella in cui mi si era presentata la prima volta, io tornai a discredere, e indispettito meco stesso, proverbiandomi della debolezza che mi dicevo esser cagione di cotali vane e sragionate lusinghe, uscii nuovamente di casa per tornare a dare sfogo almeno col moto del corpo, al tumulto dell'anima, all'agitarsi del pensiero.«Dove mi recassero le gambe, anche senza preciso comando della mia volontà, è facile indovinare. Uscii, riscotendomi, dalla riflessione in cui ero assorto, quando mi ritrovai in faccia al portone del suo palazzo. Mi fu impossibile strapparmi di là. Una forza centuplicata d'attrazione pareva inchiodarmi i piedi sopra i sassi di quel selciato. Il cuore mi batteva, mi batteva; la testa mi era rintronata; gli occhi non vedevano distintamente; i lumi che apparivano dalle finestre mi parevano mandare non raggi ma mille sprazzi di scintille che turbinavano come un fuoco d'artifizio; i rumori mi giungevano al cervello ora come lontani e traverso una tramezzatura soppannata, ora come accresciuti a cento doppi di forza da quasi indolorirmene.«Stetti colà, di questo modo, non so quanto tempo. La mia mente intanto sognava. Quest'io che s'agita in me vestiva nuove forme e conquistava nuovi destini. Il materialismo che aveva confuso e identificato me spirito a questa miserabil carne che mi circonda, che disconoscendo l'essere intimo e superiore mi aveva fatto credere che intelligenza, volontà e pensiero non erano che risultamenti della materia organata; questo crudele, empio e sofistico filosofismo cedeva di botto le armi all'invasione d'un amore che nulla aveva di sensuale ed aleggiava purissimo nelle sfere della spiritualità. Senza più contrasto riconobbi possibile che quella parte essenziale di me a cui la potenza appartiene di volere e di pensare, fosse di altre forme vestita, più nobili, più acconcie e leggiadre. Sentii nel carcere delle disadatte membra incatenata l'anima: ed è quest'anima cui riconobbi non indegna di amare a quel modo quella tanta idealità incarnata in tanta bellezza.«La nobile fanciulla rappresentava per me tutto quello che vi ha di superiore negli affetti e nella capacità intellettiva della natura umana. Fin da bambino l'anima mia, inconsciamente, aveva anelato a quel mondo superiore dell'idealismo, dove le deficienze della creazione inferiore nella grossolanità della materia non alterano, non avviliscono, non contraffanno l'archetipo dell'idea divina; il non aver mai potuto attingere colle mie aspirazioni pure un adombramento di quella suprema bellezza, i duri attriti della vita sociale in mezzo alle cui più grosse difficoltà il destino mi aveva balestrato, una scienza insufficiente, carpita, per così dire, a casaccio in mal digeste letture, mi avevano fatto disperare di giungere non fosse che alla soglia di quel mondo superiore, mi avevano fatto negare che quel mondo esistesse. Ad un tratto la luce di quella regione celeste mi raggiava di pieno negli occhi con quella verginale beltà. Io era forse indegno di arrivarlo; ma l'ideale esisteva e la perfezione di forme illuminata dall'idea in quell'essere di fanciulla n'era un'incarnazione sublime.«Perchè la mia anima non aveva ella vestite delle sembianze che stessero a paro con quelle di lei? Era ella una condanna, od una mia colpa od un'ingiustizia? Era codesto un segno dell'inferiorità essenziale dello spirito mio? Ma se nella chiostra del mio pensiero sentivo una forza che abbracciava i mondi, e più audace che non avessi trovato in altrui, si elevava a battere alla porta dei misteri della creazione! E questo era un mistero terribile e impenetrabile eziandio; ma era: che due anime, forse pari e degne l'una dell'altra per loro intima natura, si potevano trovare quaggiù separate per la disparità delle forme, per la distanza delle condizioni sociali, a distribuire le quali cose è forse una legge eziandio, ma a noi cotanto ignota che la chiamiamo caso. Ora l'opera di questo caso o leggemisteriosa potrebbe la volontà umana, collo sforzo portentoso del suo travaglio, distruggere, riparare, sconvolgere? In altri e più speciali termini, il povero trovatello, miserabile, brutto, disprezzato, reietto avrebbe potuto coll'intelligenza, colla virtù, colla grandezza dell'opera sua elevarsi sino alla superba fanciulla, bella, nobile e ricca, che a lui appariva nell'orizzonte della vita come all'umile pastore delle montagne la splendida luce della stella del mattino?«Ecco il quesito che già mi poneva dinanzi inesorabilmente, come l'enimma della sfinge, la febbre della passione.«Fino a quando sarei rimasto colà inchiodato a quei ciottoli della strada noi saprei dire; ma un avvenimento me ne venne a strappare. Quella medesima carrozza che la mattina era venuta alla porta del fondaco, uscì di sotto il portone del palazzo. Come un lampo mi passò davanti la visione di quella bellezza colla sua aureola di capelli d'oro. Non deliberai, non pensai, non seppi nemmeno quel che facessi; ma d'un balzo mi trovai seduto sulla predella di dietro della carrozza. Più volte mi avvenne poi di fare quel medesimo; ed ancora ieri sera di questa guisa l'accompagnai al ballo dell'Accademia. La carrozza si fermò alla porta del Teatro D'Angennes. Vidi lei discendere ed entrare colà dentro. Rimasi alcuni minuti perplesso. Non ero ancora entrato mai in nessun teatro: non osavo avventurarmi in quel luogo di cui non avevo la menoma idea; non sapevo come fare; ed una irresistibile forza mi traeva a seguitarla. Cedetti e di slancio m'introdussi nella stanza d'entrata come farebbe chi si gettasse in una voragine di fuoco. Il portinaio mi arrestò domandandomi il biglietto. Arrossito sino alla radice dei capelli, confuso, balbettante, mi feci spiegare che cosa fosse, come avessi da fare per procurarmelo, e mi affrettai a seguire le datemi indicazioni. Pagai ventiquattro soldi, che per me rappresentavano anche allora una somma di qualche rilievo, e seguii i passi di alcuni che entravano eziandio in quel momento.«Era già tardi: lo spettacolo incominciato e la folla in platea tale che ai nuovi venuti non era possibile più lo entrarvi. Dal di là della soglia nel vestibolo, di sopra le spalle e le teste di coloro che mi erano davanti, vidi un ambiente pieno di luce con in mezzo un lampadario ad innumerevoli fiammelle. I suoni dell'orchestra e i canti degli artisti lo riempivano d'armonia, e le onde sonore di quella musica venivano a percuotermi travelate e ad intermittenze la testa.«Dello spettacolo mi curavo poco; ma volevo vederla — lei!«Udii due de' miei vicini che si dicevano: — qui non si può veder nulla. Andiamo su inparadiso, chè qualche cantuccio da allogarci ce lo troveremo.«S'avviarono di fretta su per le scale, ed io li seguii.«Quando fui al secondo pianerottolo uno di quei tanti usci che erano nei corridoi, l'uscio appunto che si trovava precisamente in faccia a chi finiva di salire quella branca di scala, si aprì. Ne venne fuori un giovane, il quale avendo ancora da dire qualche parola a quelli che eran dentro, tenne un istante, standovi sulla soglia, mezzo aperta la porta. Rimasi piantato là innanzi. Il mio sguardo penetrato là dentro aveva visto disegnarsi sul fondo luminoso del teatro il divino profilo di lei. Ella teneva il gomito appoggiato al parapetto e la testa un po' reclinata posando lievemente sulla mano la guancia; ascoltava più che attentamente con emozione la musica, e la sua mossa naturale, abbandonata, di cui ben vedevasi ella non esser conscia per nulla, era la più graziosa, la più avvenente, la più adorabile ch'esser possa mai.«Ma ratto la visione fu tolta agli occhi miei. L'uscio s'era richiuso, il giovane era partito senza punto badare a me; io mi ritrovava più impacciato che prima di quel che dovessi fare. Essa era là, così vicino a me, separata soltanto da un uscio e da pochi passi. Ma codesto non mi bastava: gli era vederla ch'io voleva, di ciò avevo bisogno; l'ardente desiderio di contemplarla era insaziato in me e da non saziarsi. Salii di volo le scale che ancor rimanevano; giunsi nel loggione, e capii tosto che doveva esserci colà un punto da cui avrei potuto vederla. Corsi sollecito all'estremità verso il proscenio dalla parte opposta a quella dove avevo visto ch'essa si trovava; dall'ultima apertura d'onde non si può vedere sul palco scenico che da chi si trova in prima linea, ed ancora stentatamente, trovai modo di gettare uno sguardo nel sottoposto teatro. La vidi; e ciò mi bastò. Mi appoggiai colle spalle alla parete, e stetti senza più muovermi, senza più batter palpebra, cogli occhi fissi su quell'adorata visione.«Come già ti dissi, non ero stato mai in nessun teatro; quel caldo, quell'afa, quel rumore mai non mi avevano avvolto; era un tutto nuovo ambiente per me in cui non sapevo ancora, direi quasi, respirare, e per cui opprimendomisi il petto mi veniva impacciata la circolazione del sangue e procurato di questo un ingombro al cervello. Continuavano per me le percezioni ad essere confuse, pressochè senza giusta misura, ora troppo vive, ora troppo smussate, or tarde, or lente, uno stranissimo complesso che non sapevo più se era vita o fantasmagorìa, se realtà o sogno.«Musica teatrale e canto drammatico non avevo udito mai. Conoscevo solamente i canti di chiesa e il suon dell'organo che nella mia infanzia al villaggio m'intenerivano l'anima, senza pur ch'io ne sapessi e cercassi sapere il perchè. Di poi, dacchè ero a Torino avevo sentito scuotermisi le fibre esussultare i nervi a qualche marcia concitata suonata dai corpi di musica della guarnigione. Non conoscevo con linguaggio di melodia che due sole espressioni, la religiosa e la guerresca: tutto il resto degli umani affetti e delle passioni del cuore che trova una voce così efficace nell'infinito degli accordi musicali, era ancora libro chiuso per me. Ero in condizioni tali da rendermi le prime impressioni che ne ricevevo, le più forti e profonde che mai: quelle prime impressioni che in cuor giovenile hanno pur sempre intensità ed efficacia cotanta. Al momento in cui ero giunto ad allogarmi in quel cantuccio del loggione, suonavano pel teatro due voci, una d'uomo e l'altra di donna, due voci soavi che s'accordavano insieme a meraviglia in una melodia piena di passione e d'incanto. Aveva incominciato la voce di tenore, poi quella di donna aveva risposto e per ultimo si assembravano insieme con islancio d'inesprimibile effetto. Cantavan d'amore; si davano un addio, separati quali dovevano essere dalla sorte; si scambiavano un pegno del mutuo affetto che li stringeva, e si giuravano eterna la fede.»— Buono! Interruppe Giovanni: gli è laLucia di Lammermoorche tu hai udito.— Non so, rispose Maurilio, non avevo guardato i cartelloni, non li guardai nè anche di poi, non me ne venne pure il pensiero. Le parole non potevo capir bene, ma capivo a meraviglia la musica, e ne capivo ancora di più il significato e la bellezza, vedendone le emozioni dipingersi sulle sembianze di lei..... Quelle medesime emozioni che provavo io, nascosto nel mio cantuccio, compiutamente ignorato. Ella stava immobile, tutto tutto attenta alla scena, non prestando il menomo ascolto alle chiacchere che colla signora ond'era accompagnata facevano parecchi giovani civili e militari che si scambiavano e succedevano in quella loggia. Io ne vedeva di tre quarti il viso leggiadro, e il puro ovale delle sue guancie spiccava a meraviglia sul fondo rosso della tappezzeria; i suoi occhi di colore indefinito, ora verdi come il mare, ora azzurri come il cielo, ora scuri come una perla nera, limpidi sempre come la stella del mattino, i suoi occhi strani di cui non v'ha pari, di inesplicabile, ma sublime, ma inarrivabile bellezza.....— Un momento: interruppe di nuovo Giovanni Selva. Sì, gli è vero che gli occhi di quella ragazza sono veramente straordinarii ed hanno una certa segreta malìa che non si può definire; ve ne hanno pochi in verità di tali occhi, ma per bacco non sono i soli, e un paio di simili ce l'hai tu stesso, Maurilio.— Io? Esclamò il povero innamorato arrossendo sino alla fronte.— Tu, in verità. Sicuro! Più ci penso e più ci trovo una gran rassomiglianza fra questi tuoi che lucicchiano qui in queste tenebre come quelli d'un gatto e gli occhi di quella nobile donzella. Ma continuiamo il tuo racconto. Che cosa facevano quegli occhi ammirabili ed ammirati?— I suoi occhi si lumeggiavano così bene delle interne emozioni dell'anima che a me le rivelavano più chiaramente che non avrebbe potuto fare la parola. La tenerezza, la pietà, il nobile diletto delle generose commozioni apparivano nei raggi di quegli sguardi sicuri e modesti, non cercatori nè pur curanti dell'omaggio ammirativo d'altrui, e nella loro indifferenza della gente non disdegnosi nemmanco nè oltraggiosamente superbi. Si vedeva che in quell'anima risiedevano, come in loro proprio luogo, tutti i più degni affetti ed i più nobili sentimenti, i quali in quel punto, suscitati dalla malìa di quella musica, attestavano collo splendore dell'esterna bellezza la loro divina presenza. Oh! come sentii che era capace di sublimissimo amore quell'essere che m'accorsi palpitare com'io palpitava, a quelle onde di meravigliosa armonia! Oh come avvisai che felicissimo sarebbe l'uomo il quale potesse porre una mano su quel cuore e sentirlo battere per lui! A me il solo provare insieme con lei le emozioni di quei momenti, tornava un massimo diletto, pareva una ventura che alcun poco ci raccostasse. Quanti altri erano colà ad udire i medesimi suoni e partecipar quindi delle emozioni medesime! Eppure mi pareva che dalla massa comune noi due soli, ella ed io, ci separassimo per provare più veramente e più altamente quelle sensazioni che il genio del musico aveva voluto suscitare, e percepire più chiaro, più giusto, più completo l'ideale della sua creazione. Non ero geloso di tutti gli altri che dividevano meco la felicità di respirare nel medesimo ambiente di lei, di commuoversi delle medesime dolcezze; nessuno di certo sapeva innalzarsi alla altezza delle sensazioni di quell'angelica creatura; io superbamente mi dicevo che coll'ardore dell'amor mio ci arrivavo. Non ero geloso il meno del mondo di quegli eleganti che nel suo palchetto ciarlavano e ridevano con zazzere arricciate, con baffi incerati, con guanti bianchi alle mani e la lente nell'occhiaia, azzimati, ornati, studiati nell'acconciatura e nelle mosse, leggiadrissimi di bellezze da figurino, ameni fors'anco ed ingegnosi ed arguti nella conversazione e nel motteggio, ma senza un lampo nella fronte e negli occhi d'una superiorità qualsiasi dell'anima o dell'ingegno. Perchè esserne geloso? Ella se ne curava così poco!...«Lo spettacolo dopo quel canto a due fu interrotto, e grandi applausi suonarono per tutto il teatro durante più d'un quarto d'ora. Capii di poi che un atto era finito. Quel fracasso, a cui non ero abituato, mi rintronava fieramente con dolorosa vivezza entro la testa. Mi serrai al petto le braccia e chiusi gli occhi come se isolandomi per la vista, potessi anche sceverarmi dal baccano di quella folla strepitante in quella gran sala, che si apriva comeun vasto pozzo luminoso al di sotto di me, entro il quale mi pareva rimuggisse il demoniaco tumulto dell'inferno di Dante.«Mi pareva così di rientrare alquanto in me stesso, e ne avevo immenso bisogno. Quel giorno era troppo ricco d'emozioni per l'anima mia. Due tremende rivelazioni mi si erano fatte: quella dell'amore e quella d'un nuovo mondo nell'arte. L'intelligenza vacillava abbracciata tenacemente dalla passione, e sentiva che da questa stretta, fatale come la lotta di Giacobbe coll'angelo, doveva uscirne o ringagliardita con più forti ali al volo, o spossata ed impotente. L'idea vedeva squarciarsi dinanzi un velo, e il suo sguardo penetrava nella zona senza limiti e misure del sentimento dalle forme indefinite, e capiva che scorrendo in quel campo od avrebbe attinto nuova grazia alle sue creazioni, o si sarebbe smarrita nelle incertezze di contorni sfumati d'una sentimentalità senza sostanza. E l'amore intanto mi stringeva come con una tanaglia il cuore, mentre mi cantava sotto il cranio la melodia di quell'ultimo accento d'addio dei due amanti.«Le palpebre abbassate non mi precludevano così bene l'adito alle pupille della luce ond'era invaso il teatro, che nel campo scuro innanzi ai miei occhi non tardasse ad aprirsi come un cerchio rossigno, il quale allargandosi occupò tutto lo spazio indefinito della mia visione, e nel centro, frammezzo ad un'aureola più luminosa, mi apparve la figura di lei, quale avevo vista testè, quale non avevo che ad aprire gli occhi per vedere viva e reale.«La contemplai meco stesso, come un'immagine stampata nella mia mente. Intorno alla seria e dolce sua fisionomia aleggiavano, per così dire, le note melodiose di quel canto d'amore onde l'anima mia s'era impregnata; i suoi sguardi lampeggiavano di una luce sovrumana e mi parevano fissi su me raggiandomi addosso un soave calore. Ebbi di botto il bisogno di vedere la realtà di quell'immagine. Aprii gli occhi. Aimè! Essa era volta verso l'interno della loggia e non mi presentava più che le ricche ed abbondanti treccie dei suoi capelli dorati raccolte in un voluminoso ammasso sopra della sua nuca.«Ricominciarono i suoni ed i canti. Non ti dirò tutte le sensazioni che passarono nell'anima mia, perchè non la finirei più. Era un sogno, un mirabile succedersi di fantasie, di visioni impossibili, di chimere ineffabili. Non vivevo più della vita terrena; ero trasportato come in un'esistenza superiore, con altri sensi, con altre percezioni; ero nel delirio della pazzia o del genio: non mi riconoscevo più me stesso; non sentivo più di me che il mio amore in un turbine d'emozioni inesprimibili.«Il dramma musicale seguitava la sua splendida evoluzione di melodie. Udii i gemiti della fanciulla innamorata cui sacrificavano all'interesse in un matrimonio abborrito, imponendole un tradimento alla sua fede; udii i canti di festa per le infaustissime nozze; udii la voce di dolor disperato e il grido di maledizione che mandò l'amante tradito, tornato giusto a tempo per assistere all'irrevocabil sanzione di quell'infame patto che gli toglieva l'amor suo per sempre. Rabbrividii, raccapricciai, riarsi. Vissi della vita immaginata di quell'infelice, sentii me stesso trasportato in quegli avvenimenti ed io parte principale; soffrii del dolore di quella musica che piangeva, che minacciava, che supplicava, che malediva. Il concerto sublime, affatto nuovo per me, di suoni e di voci in quel grandioso finale che svolgeva la sua imponente frase solenne, mi produsse un magico effetto. Parevami di sentirmi capace di qualunque maggior virtù, di qualunque eroismo, di qualunque sacrifizio. Per lei, innanzi a lei, avrei incontrato felice la morte del martire....«Ella pure era trasportata e commossa.... Sì, certo; non era una folle superbia la mia, le nostre due anime si incontravano nei sentimenti medesimi.....«Come passarono rapidi quei momenti i quali pur tuttavia furono occupati da tanta immensità di pensieri e di sensazioni!.. Ella, prima che lo spettacolo terminasse, si partì. Non potei più rimanere colà neppur io. Feci il possibile per affrettarmi a venir fuori da poterla ancora vedere prima che salisse nella carrozza; ma la troppa gente che era stipata nel loggione, e traverso cui dovetti aprirmi il passaggio, mi ritardò talmente che quando fui alla porta del teatro, la carrozza da cui ella era trasportata più non poteva non che raggiungersi, vedersi nell'oscurità della notte.«Girai lungamente per le strade e le piazze di Torino, senza direzione, senza pensieri ben precisi nella testa, con tutto un caos di idee indiscernibili e di inesprimibili affetti. Batteva la più limpida luna che esser possa. Quei concenti musicali mi ronzavano dentro il capo, confusi l'uno coll'altro, vaghe reminiscenze che non potevo afferrare e far concrete. Pensavo a lei, pensavo al mio avvenire; poi ad un tratto mi ricordavo del villaggio e della mia infanzia, dei maltrattamenti della Margherita e delle soavi parole e della fisionomia amorevole di don Venanzio; di colpo tutto quel mulinìo di pensieri cessava e svaniva, e mi trovavo colla testa vuota, con una smemorataggine strana e che mi stupiva, con non altra sensazione più che una specie d'indolorimento nel cervello affaticato. I piedi mi si piantavano di per sè a quel punto dove mi trovavo; guardavo stupito o meglio stupidito intorno a me; fissavo la luna, le stelle, l'ombra scura delle case allungata nelle vie, il rossigno chiarore oscillante dei lampioni alle cantonate. Mi riscuotevo in sussulto ed un nuovo èmpito di pugnaci pensieri m'invadeva il cervello.«Corsi a casa e mi rinchiusi nella mia povera soffitta, entro cui guardava con quella specie di suocalmo sorriso la sembianza di volto della luna. Aprii le invetrate, e la fronte esposta all'aria fresca della notte mi appoggiai coi gomiti al davanzale e stetti là continuando quella corsa matta del mio cervello fra le più strane immagini alla più impossibile chimera.«La luna venne calando mano a mano, e poi sparì; mi rimanevano dinanzi le stelle tremolanti che mi parevano uno scintillìo di sguardi che mi osservassero dal fondo dall'infinito.«— Che cosa siete voi, esseri misteriosi dello spazio interminato? Esclamai tendendo loro le braccia con aspirazione dissensata. Soli di mondi innumerevoli, vedete voi travagliarsi nelle vostre sfere l'intelligenza? lottare la vita? palpitare l'amore? Vivete voi? Soffrite voi? Amate voi?.... E perchè? A quale conclusione camminate voi o mondi nell'eterno avvolgimento delle orbite vostre?.... La spiegazione di tutto l'universo è il nulla, il risultamento di tutto il lavoro della immensa natura è una cieca necessità senza ragione che in un momento può distrursi da sè stessa e ripiombare la materia nella fusione primitiva, e noi intelligenze che possiamo apprendere al nostro passaggio un lembo, un adombramento della verità, dobbiamo disfarci e disperderci nel nulla, perchè questa verità intiera non sia mai da nessuna intelligenza, da consciente volontà abbracciata? Perchè avremmo adunque l'idea dell'infinito? Perchè allora quest'amore che mi pare coesista eterno nell'anima mia e debba accompagnarmi nell'eternità del futuro?.... Oh amore! Sei tu dunque l'ultima ragion delle cose?.... Sei tu il centro di attrazione dell'universo? Sei tu il Dio supremo dell'esistente?«Un fiotto di fede e di poesia invase l'anima mia, su cui era passato l'amaro soffio della negazione. I versi e le immagini sobbollirono nel mio cervello. Mi slanciai al mio tavolino, accesi la mia lucernetta e con mano convulsa sotto l'impeto della pressante ispirazione, indirizzai a quella sublime bellezza che mi era apparsa nella vita, un secondo inno d'amore.«La testa mi abbruciava, il cervello mi doleva come se la fronte fosse un cerchio di ferro che soverchiamente stringesse l'intelligenza; il mio cranio pareva un letto di Procuste all'espansione del mio spirito; il sangue mi si affoltava nei polsi con penosa violenza. Mi parve ad un punto che il mio collo era troppo debole a sostenere il mio capo invaso e saturo da un mondo d'idee; posai le braccia sul piano della tavola e sopra di esse reclinai la testa occupata da tanta tenzone. Non mi parve chiudessi gli occhi, ma pure innanzi alle mie pupille la fiammella della lucerna si affievolì, si scemò, si ridusse ad un punto impercettibile che pareva una di quelle stelle di menoma grandezza che mi apparivano poc'anzi nell'abisso de' cieli. Dalla finestra che avevo lasciata aperta, entrò un fresco alito di vento che corse ne' miei capelli come la carezza leggiera d'una mano amorosa, che mi temperò l'ardor della fronte sfiorandola come il soffio d'un bacio soave. Nella mia stanza non era tenebra, e non vi era tuttavia luce terrena. Un indescrivibile chiarore pallido, azzurrigno, mite come il riflesso d'una perla, era diffuso intorno a me quasi una nebbia leggiera; somigliava alla luce delle nebulose, cui travede nelle incalcolabili distanze dello spazio il telescopio dell'astronomo. Era un sopore il mio? No. Ero tolto al movimento della vita, alle impressioni più grossolane dei sensi corporei, ma perdurava in me la coscienza di me stesso. Vi ha una razza d'insetti, i cui figli, appena sbocciati vermiciattoli, hanno mestieri di cibarsi del corpo vivo d'un'altra specie di animaletti. I genitori di questi crudeli vermi, i genitori che muoiono tosto dopo allogate nel nido le uova che saranno i loro figli cui essi non vedranno mai; i genitori, dico, per ammirabile guida di quell'istinto che è uno dei più grandi misteri della natura, vanno alla caccia di quegli animaluncoli della cui carne i loro nati avranno bisogno di pascersi, e poichè occorre che questa carne sia viva tuttavia, presili, col loro pungiglione li feriscono in guisa che la vita permane in essi, ma ogni possibilità di movimento è loro tolta da poter difendersi dal morso dei neonati e nemmanco fuggirlo.«Io era press'a poco in quella condizione. Vivevo e sentivo di vivere, ma nello stesso tempo era come dire sospeso il giuoco per cui la volontà trasmette i suoi cenni ai muscoli per via dei nervi, pareva fra la parte di me che determina e quella che obbedisce, sciolto momentaneamente il legame.«Tra la luce della lucerna offuscatasi e me, parvemi veder sorgere come un fumo biancolastro, come un vapore, una forma diafana che s'atteggiò a sembianze di donna. Un'intima contentezza mi nacque nel cuore e si dilatò per tutto l'esser mio. Era la mia visione che da tanto tempo mi aveva abbandonato: era dessa che tornava a visitarmi. La medesima incertezza sfumata di sembianze, ma in essa pure il medesimo adombramento di quel soave ed amoroso sorriso. La salutai con un'aspirazione del cuore entro il mio corpo immobile come un cadavere. Ella mi rispose con un moto avvenente del capo, poi si chinò verso di me; udii intorno a me suonare come un lieve susurro; parevami fosse quel venticello della finestra che murmurasse entro i miei capelli. Ma questo susurro, ma questo mormorio parlava. Capii le seguenti parole:«— Ella si chiama Virginia!«Virginia! Questo nome si ripetè come da un'eco sotto la volta del mio cranio, penetrò come una dolcezza sino al mio cuore, si stampò nella mia memoria per non iscancellarsene mai più. Intorno ad esso mi parvero raggrupparsi tutte le armonieche avevo udite quella sera o che mi risuonavano ancora in tumulto entro la testa. Mi parve che in vero non altro nome poteva essere il suo fuor di codesto; che dovevo saperlo e che l'avevo dimenticato; che invocandola con questo dolcissimo nome verginale doveva al mio rispondere il suo pensiero.— E questo, in realtà, è egli il nome di quella ragazza? Domandò Giovanni Selva.— Lo è: rispose Maurilio. Il mio spirito benigno non mi ha mai ingannato.— Senti: disse allora Giovanni con serio accento ponendo amorevolmente la destra sulle mani che Maurilio teneva intrecciate sulle sue ginocchia. Io non voglio contraddire per vaghezza di discussione le tue credenze a questo riguardo; ma in faccia ad avvenimenti che escono dalla cerchia comune dei fatti terreni, consentimi, ed anzi deve essere tuo desiderio eziandio, che tali avvenimenti si cimentino alla critica della ragione, e se si potrà trovare ad essi una spiegazione che non esca dai limiti della natura....Maurilio interruppe vivamente:— Ma nulla di quanto accade nell'universo mondo, non esce mai dai limiti della natura. Perchè l'uomo non ha tuttavia certificati con una scienza che ha la vista corta alcuni fenomeni cui trova più comodo negare; perchè non ha scoperto ancora le leggi onde questi fenomeni hanno origine e regola, superbamente afferma che quei fenomeni non sono nella natura, e che questa non ha leggi per essi. Ma la diva natura, che è la volontà e la logica di Dio, abbraccia tutto, tutto, tutto, l'esistente ed il possibile, il sensibile e il sovrasensibile; ed è uno strano e temerario rimpicciolirla il volerla rinserrare negli angusti termini dell'intelligibile e dell'apprensibile umano. Per me non vi ha nè sopranaturale, nè oltrenaturale; vi ha una immensa natura di cui l'uomo non apprende che una menoma parte: quella più direttamente in contatto con esso, della quale ha già ampliata colla scienza di molto la cognizione e l'amplierà ancora in avvenire, ma per non giunger mai in questa vita terrena ad abbracciarne pur l'idea del complesso. La chimica e la fisica hanno allargato di molto alla cognizione umana il campo della scienza della natura: le meraviglie dell'elettrico e del magnetismo afferrate dallo studio di questo secolo sarebbero parse cosa sopranaturale alla poca scienza dei nostri padri; la poca scienza di noi rigetta ancora fra le favole e le illusioni fenomeni cui non solo crederà ma spiegherà, come ha spiegato la legge dell'attrazione, la scienza dell'avvenire. Nulla dunque di sopranaturale, bensì di sottratto alla volgarità comune dei sensi dell'uomo...— Come vuoi: soggiunse Giovanni: ma pur tuttavia mi ammetterai che questi sensi, per quanto volgari, sono dati all'uomo perchè, mercè l'aiuto della ragione, colla potenza riflessiva e critica, e' si faccia capace di tutta quella verità cui possa arrivare. Quando la immensa maggioranza degli uomini, e con a capo di questa alcuni eminenti per ingegno e per istudio, affermano che certi fenomeni sono tutt'altro che esistenti nella realtà naturale delle cose, noi abbiamo un elemento di giudizio irrefragabile per credere piuttosto che la verità è dalla parte di codestoro. Tu mi dirai: sono invece i pochi dall'altra parte che, avendo una organizzazione speciale e più eletta, vedono e sentono meglio e più in là della grossolanità sensitiva della comune degli uomini. Ma chi ci può affidare della verità di siffatta ipotesi? È pur cosa posta in sodo che il cervello umano è, in parecchi individui ed in parecchi casi, soggetto all'allucinazione; nè tu vorrai darmi per apprensioni di alcuna parte di vero i delirii della febbre e della pazzìa, le chimere d'un fantasticante, le immagini dei sogni.— Chi sa? Ve ne possono essere dell'una e dell'altra sorte: fallacie del senso intimo e fugaci visioni guaste dal mezzo ambiente o dallo stromento apprensivo.— Ma quale allora la stregua a misurare il grado di attendibilità di queste manifestazioni e sceverarne i vaneggiamenti dalle realtà?— Quale? Quella ragione che tu invocavi poc'anzi colla sua critica riflessiva.— Ma la ragione comincia per dire a me che tutto questo è un assurdo.....— Ciò non è la ragione che lo dice; è un pregiudizio. Se tu, a mezzo del secolo scorso, avessi detto all'uomo più colto di quel tempo di criticismo e di acume osservativo, avessi affermato ad un enciclopedista che sapevi un mezzo di dar moto e spasimi ad un cadavere, il tuo ascoltatore, che voleva appunto mettere in seggie la natura e gettare abbasso tutto ciò che credeva all'infuori di lei; egli che non aveva ancora il menomo sentore del galvanismo, ti avrebbe risposto crollando le spalle che la sua ragione gli diceva la tua assertiva essere un assurdo.— La ragione, se non altro, mi dice fondatamente che quando d'un fenomeno si può dar la spiegazione che entra nei limiti delle leggi e delle regole conosciute, è pericoloso e nocivo, o quanto meno, è vano andar cercandone di strane spiegazioni che turbano ad ogni modo la logica di quel complesso di regole e di fatti cui comprende l'uomo sotto nome di natura...— Ne turbano il falso e ristretto concetto; si armonizzano invece in una più ampia apprensione dell'opera di Dio... E quando poi la ragione ti dicesse che colla spiegazione dei tuoi limiti e regole conosciute non si spiega niente?...— Aspetterei allora a pormene il quesito; e prima di ammettere che la scienza positiva ha torto, vorrei anzi ammettere che la mia intelligenza o il mio organismo sono in difetto. Del resto io vado molto guardingo nel riconoscere la realtà di questifatti non ispiegabili colle norme della nostra conoscenza scientifica moderna. Il più delle volte tali avvenimenti non sono niente affatto certificati. Ora qui, nel caso nostro, mi trovo a fronte una tua affermazione, a cui mi piace e devo prestare ogni credenza. Ma del fatto così provato nella sua materialità, lasciami cercare la ragione in quei fenomeni che per me sono naturali, non in quelli che eccedono la comprensione ch'io posso avere della natura. Se questa ragione la trovo in tal modo, perchè non mi vi acqueterei più volentieri che non in un ordine nuovo di fenomeni e di leggi a cui ripugna il mio intelletto, e di cui la scienza non mi dà la menoma prova?— Udiamo adunque la tua spiegazione materialista: disse Maurilio col suo strano sorriso.— Eccola. Lungo tutta la giornata la tua mente era rimasta fissa in un solo pensiero, la tua anima ferma in un solo desiderio: il pensiero di lei, il desiderio di saperne il nome. La passione, fattasi, appena sorta, gigante nel tuo cuore, la tensione continua della facoltà pensativa, l'effetto straordinario e profondo che fecero sulla tua natura impressionabile una stupenda musica primamente udita, un nuovo spettacolo non visto mai, cagionarono in te quel certo eccitamento nell'organo cerebrale, cui produce con più o meno differenza ed intensità la ebbrezza dei vapori alcoolici, il delirio della febbre, il misterioso fenomeno del sogno, quello stato speciale morboso della parte intellettiva pel quale certe fantasmagorie soggettive prendono proporzioni e natura di cose estrinseche, oggettive e reali. Tu non avevi pensato ad altro di tutto il giorno; era naturale che sognassi di codesto; il tuo organismo è disposto a queste astrazioni della fantasia ed a far concreti questi fantasmi del tuo cervello; nulla di più naturale che ciò succedesse in siffatta occasione e con tanto maggior potenza di verosimiglianza. Tu non hai visto che le idee del tuo cervello prender corpo apparentemente all'infuori di te nella lanterna magica d'un sogno, riflessione anormale ed inconscia del tuo pensiero.Maurilio scosse la testa, sorridendo ancora a quel modo.— E come va che questo sogno, che questa riflessione anormale, che questa fantasmagoria morbosa, o come vuoi chiamarla, mi apprese una verità che ignoravo? Poichè il fatto è che quel nome erami del tutto ignoto, e quello dettomi dall'apparizione fu il vero.Giovanni esitò un poco per cercare una ragione.— È un indovinamento, disse poi, che forse non si deve che al caso.— Ah! il caso? Esclamò Maurilio con accento di trionfo. Questa sì che è la spiegazione per cui non si spiega niente: questo sì che è il comodo mezzo d'uscir d'impiccio in ogni più grave quesito che vi affacci la natura e l'anima umana. La creazione? Il caso. L'armonia infrangibile di essa? Il caso. La presenza e la comparsa dell'intelligenza in mezzo al mondo della materia? Il caso..... No: questo cieco Dio, cui crea la cecità dell'uomo, non ispiega nulla. A seconda che sminuisce l'ignoranza umana si restringe l'azione e la potenza di questo nume senza ragione. Noi chiamiamo caso il risultamento di leggi che ci sono ignote così da non averne sospettato pure l'esistenza. Se l'umanità potrà progredire di tanto che legga in tutte le pagine del gran libro di Dio, il regno dell'azzardo, che mano a mano si rimpicciolisce, sarà del tutto scomparso.Fece una pausa di pochi minuti, recandosi sovra se stesso e stringendosi colle sue grosse mani la fronte vastissima, come per raccogliervi ed ordinare le idee che vi si agitavano per entro. Poscia ad un tratto risollevò il capo e riprese a parlare con più forza, e direi quasi con più autorità:— Ma non fu questo del nome di lei il solo vero che il mio benigno spirito in quella notte memoranda mi apprese. Ti ho detto che sotto all'influsso di quell'eccelso amore, già la fede aveva ripreso a picchiare alle porte della mia intelligenza per abbattervi la negazione trincieratavisi col sofisma, già aveva invaso l'anima mia colla ineffabile forza dell'affetto; ma difettava tuttavia la ragione logica e suprema che coordinasse gli elementi sparsi, che chiarisse i confusi, che assodasse i dubbi di quel sistema completo di credenze onde si compone la scienza prima dell'uomo: quella di Dio, dell'essere dell'anima nostra e del suo destino. L'amoroso spirito delle mie visioni mi formolò nella parola umana la verità apprensibile dal nostro limitatissimo intelletto dell'essere e della ragion delle cose. Vuoi tu udirla o Giovanni?— Sì, sì, con molto piacere: esclamò Selva che, non ostante la sua sino allora conservata indifferenza e quasi dovrebbe dirsi ripugnanza a tutto ciò che sapeva di metafisica, di superiore cioè alla ristretta materialità della creazione, sentivasi pur tuttavia vivamente interessato come da una nuova curiosità che ne avesse assalito lo spirito. Parla, chè io ti ascolto con ogni attenzione, non rinunciando certo al diritto di critica della mia ragione, ma non disdegnando a priori le allegazioni e gli argomenti della tua credenza.Maurilio, senza prepararvisi dell'altro, cominciò a parlare.

La stanza in cui erano rinchiusi Maurilio e Selva nelle parti inferiori del castello, era fredda, piccola, umida, scura, selciata di mattoni la cui polvere non mai spazzata, in quel momento, trovavasi ridotta ad una specie di motriglia dall'umidità che ci entrava traverso le grosse inferriate e la fitta graticola vestita di ragnateli della finestrucola che in alto presso il soffitto si apriva nei fossi delle due torri, e le cui imposte ned erano chiuse nè potevansi chiudere neppure, per la semplice ragione che mancavano affatto.

In quella stanza di prigione i mobili non facevano ingombro. Da una parte eravi un tavolato infisso al pavimento, per servire da letto; dall'altra parte una brocca di terra cotta piena d'acqua, e un bigonciuolo che serviva ad usi meno nobili ma necessari. Ecco tutto.

Maurilio, venendo dalle stanze superiori dove c'era maggior luce, al suo entrare colà dentro non vide nulla che una chiazza bianchiccia in alto della parete di faccia alla porta, ed era la finestrina per cui penetrava un poco di barlume. Il secondino che dietro il cenno del Commissario lo aveva accompagnato a quella carcere, tirato ch'ebbe i chiavistelli, girato la chiave nella serratura, aperto il grosso battente dell'uscio cigolante sui cardini, senza tante cerimonie diede uno spintone per le spalle a Maurilio, affine di cacciarlo dentro, e col medesimo rumore che aveva fatto testè ad aprire, richiuse sollecitamente dietro di lui la pesantissima porta.

Maurilio vide l'ombra d'un uomo che pareva sorger da terra, agitarsi innanzi a lui e slanciarsi verso di esso con una esclamazione; ricordò il suo ingresso nelle carceri del palazzo chiamato ancora oggidì ilcorrezionale, e si trasse indietro vivamente con raccapriccio di timore e di ripugnanza.

Ma Giovanni, le cui pupille s'erano già temperate alla poca luce di quell'ambiente, aveva di botto riconosciuto in chi entrava l'amico suo, epperò si era affrettato al suo incontro.

— Maurilio: diss'egli con un'intonazione di lieta sorpresa nella sua voce vivace e francamente sonora: poichè anche tu avevi ad essere uccello di gabbia, benedetto l'azzardo che ci congiunge: dico l'azzardo perchè ho troppa stima del signor Commissario per supporre solamente che questo possa esser l'effetto d'un gentile riguardo che ci abbia voluto usare.

— Che? Esclamò Maurilio rassicurato e sentendosi rinfrancare di botto alla voce, alla presenza, alla stretta di mano, all'abbraccio dell'affettuoso amico. Sei tu, Giovanni? Arrestato anche tu!.... Oh! come mi fa piacere il trovarti.

— Birbone! Disse Giovanni ridendo. Ti fa piacere vedermi in gattabuia!

— Eh! no di certo. Voglio dire.....

— So bene quello che vuoi dire: interruppe col suo riso schietto ed aperto Giovanni Selva. Ma qui, tocca a me, che ci sono entrato alquanto prima, il far gli onori dell'appartamento. Se non ci vedi ancora abbastanza, dammi la mano e lasciati guidare.

Lo condusse al tavolato.

— Qui, continuò, è il sofà; egli è vero che questo è anche il letto, e può, anzi deve servire eziandio da tavola. Semplificazione veramente ammirevole!..... To', imita il mio esempio, e siedi sulla sponda di questo tavolo-sofà-letto. Che bel vocabolo!... Non temere di guastarne la spiumacciatura pei tuoi sonni della notte, sibarita che tu sei. La sofficità di questi materassi non ci può patire. Non è qui che potrà darti fastidio la foglia di rosa male ripiegata sotto la tua schiena, te lo assicuro io. È presumibile che avremo delle belle ore innanzi a noi da guardare quel «breve pertugio» lassù, che ci lascia venire tropp'aria, troppo freddo e per compenso troppo scarsa la luce; per fortuna abbiamo piùsacca da vuotare a vicenda. Io ti dirò l'iliade del mio arresto, tu mi conterai l'eneide del tuo, e poi terminerai di espormi l'odissea delle avventure della tua vita. Oggi sono classico come il prof. Paravia e parlo come un'appendice di Romani. Possa quest'omaggio alla letteratura officiale rendermi benigni i Dei infernali di queste bolgie governative! Queste chiacchere non ci scalderanno, ma ci faranno passare il tempo. Siccome spero che non saremo condannati alla sorte del conte Ugolino, spero bene che finirà per venirci qualcheduno, da cui, mercè il sacrifizio dei pochi denari che ci hanno levato di tasca, potremo ottenere una coperta per non gelare come sorbetti e qualche mezzina di vino per non lasciare intorpidirsi, come già mi sento le mani, anche il cervello.

Il programma di Giovanni fu seguìto appuntino. Dopo che l'uno e l'altro ebbero narrato a vicenda come avesse avuto luogo il loro arresto, dopo discorso non senza gravi apprensioni dei pericoli che sovrastavano a loro, agli amici ed all'impresa, Maurilio, pregatone di nuovo dal compagno, riprese il racconto della sua vita, interrotto all'alba di quella stessa mattina, quando Selva aveva dovuto correre da Francesco Benda per accompagnarlo in qualità di padrino al duello col marchese Ettore di Baldissero.

— I giorni che passarono, poichè ebbi la fortuna di incontrarmi col signor Defasi; così incominciò a raccontare Maurilio, recatosi prima alquanto sopra sè come per evocare più nette innanzi alla mente le sue memorie: quei giorni furono i più lieti e tranquilli che io abbia passato ancora mai su questa terra. Quella buona e pietosa famiglia mi pose un vero affetto. I miei studi interessarono il capo di casa e i progressi del mio intelletto lo stupirono di molto. Ebbe di me stima assai più ch'io non meritassi, e quasi ammirazione. Volle che con lui e con i suoi, fossi non più nelle attinenze d'un inferiore, ma in quelle d'un uguale. Spinse al punto il suo affetto e l'estimazione per me che mi lasciò comprendere un giorno come non avrebbe disdegnato, me povero e senza famiglia, accogliere come figliuolo concedendomi la mano d'una delle sue ragazze.

— Ed ecco entrare finalmente in campo la molla o segreta o palese, ma universale, delle azioni umane: la donna! Così disse Giovanni. Tu mi hai detto già che una violenta passione era venuta a impadronirsi del tuo cuore e darci fuoco a quella provvista di poesia che vi giaceva latente; questa passione era ella appunto per la figliuola del tuo principale?

Maurilio scosse la testa con atto di negazione desolata.

— No; rispose. Ah! fosse stato così! Avrei svelato al signor Defasi tutta la verità sul mio conto; ed egli così generoso verso tutti, così ammirato di me, avrebbe tuttavia concessomi l'onore della sua alleanza. La donna che avrei amata sarebbe stata mia. Ma il mio cuore invece — lo sciagurato ch'io sono! — non fu tocco dalle domestiche virtù e dalla modesta leggiadria delle figliuole del libraio; fu ad un punto acceso dalla fiera bellezza, dalle superbe grazie di tale, appetto a cui il povero trovatello è come innanzi alla gemma che orna il diadema d'una regina, il verme della terra.

S'interruppe manifestamente esitante ancora innanzi alla rivelazione del suo segreto.

Giovanni gli prese una mano e lo incoraggiò con una stretta, senza parole, e con uno sguardo affettuoso.

Maurilio disse affrettatamente ed a voce bassa:

— Amo la contessina Virginia di Castelletto, cugina del marchese Ettore di Baldissero.

E poi, come uomo che ha detto una sua gran vergogna, nascose la faccia sconvolta nelle grosse mani.

— Cospetto! Esclamò Giovanni con accento tra di meraviglia, tra di compassione. Per te questo amore è un terreno arido in cui non può nascere il menomo fiore d'una speranza. Tanto varrebbe esserti innamorato della luna! Valla ad arrivare! Mio caro, allorchè di queste passioni impossibili entrano nel cuore d'un uomo, conviene strapparle subito, ad ogni costo, anche portandosi via un pezzetto del proprio cuore, chi abbia senno, risoluzione e coraggio d'uomo siccome hai tu.

— Eh! che cosa non ho io fatto per ciò? Proruppe Maurilio con impeto. Non ci ho potuto riuscire a niun modo. Questa fatale passione si è tenacemente impigliata al più intimo dell'esser mio, ha gettato le radici profonde nel substrato della mia natura, s'è fatta il sangue che palpita nel mio cuore, s'è insinuata in ogni circonvoluzione ove sta lo strumento del pensiero nel mio cervello, s'è fatta l'anima mia. Da questo miserabil corpo non si può togliere più che colla vita: dallo spirito forse mai più!... Forse l'ho già portata meco da esistenze anteriori, e seguiterò ad averla connaturata colla mia essenza individuale negli stadii infiniti della mia immortalità, aspirazione fors'anco ad una meta di felicità non arrivabile nel tempo, punizione e spasimo frattanto nella relatività delle vite incarnate.

Agitò la sua testa grossa ed arruffata, lanciò dai suoi occhi profondi delle fiamme di sguardi: il sangue concitato gli colorò un istante i pomelli delle guancie e la vastissima fronte parve in quella accarezzata da una luce fosforica che la circondasse. La bruttezza delle sue corporee sembianze scomparve un istante sotto il fugace rivelarsi della luminosa natura dell'anima là dentro costretta. Una donna d'intelligenza l'avrebbe trovato in quel punto meglio che leggiadro, imponente e sublime.

Sì: continuò egli lasciando vibrare la sua voce, che acquistò ancor essa un'insolita ed efficace armonia:questa passione, che fa da veste di Nesso all'anima mia, l'ho portata meco da altre vite, da altri mondi. Che cos'era quella indefinita ed incompresa aspirazione all'ideale che affannava fin dai primi anni l'inconscia mia natura? Che cos'era quell'ardore di innalzare nella schiera gerarchica delle intelligenze il mio spirito audace ed ambizioso, mercè lo studio ed il sapere? Che cosa quei tumulti inesplicabili che mi sobbollivano in petto, che mi facevano fra mille temerarie idee dibattersi la ragione, come nave senza governo in mar tempestoso? Che cosa quelle ineffabili chimere con sorrisi di donna e con isguardi d'angelo che passavano lucenti frammezzo alle mie fantasticaggini, adombrandomi un bene sconosciuto e cui non sapevo definire? La prima volta che io l'ebbi veduta, lei, appena fu comparsa a questi occhi, compresi tutto. La passione d'amore era lo svolgimento dell'anima umana, essa era la legge suprema del mondo morale come in quello fisico l'attrazione; e l'anima mia, fatalmente, per ignota necessità, era avvinta a quell'anima che mi si rivelava con tanto sfolgoramento di bellezza, oscuro pianeta di quell'astro lucente. Oh! come lo ricordo quel momento in cui la prima volta quella beltà raggiò nella penombra della mia esistenza! Se chiudo gli occhi, rivedo tal quale il luogo, il tempo, e lei, e me, ed ogni oggetto circostante.

Chiuse diffatti gli occhi, e sulle sue pallide labbra si disegnò un ineffabile sorriso, da potersi paragonare a quello del Joghi, indiano, che nelle sue mistiche contemplazioni vaneggia di giungere al proprio assorbimento in Brama.

E stette un poco, tacendo, in quella mossa prima di riprendere il suo dire.

— Era una bella giornata di primavera; così riprese Maurilio di poi; un lieto raggio di sole entrava nella bottega dei signor Defasi e faceva ballare allegramente traverso il suo splendore i minutissimi atomi della polvere. Il principale era seduto ad una sua piccola scrivania esaminando i libri delle ragioni; io, assorto in una meditazione indefinita e indefinibile, guardavo la danza di que' minuzzoli di materia che turbinavano, all'aria che filtrava dall'uscio, entro quello sprazzo di luce.

«Ad un punto una sfarzosa carrozza con due cavalli di prezzo si fermò innanzi alla bottega; un domestico in livrea disceso dal seggio del cocchiere ne venne ad aprire l'usciolo, e due donne uscite dalla carrozza si diressero verso il fondaco, di cui il domestico s'affrettò a spalancare l'uscio a vetri perchè potessero entrarci.

«Di quelle donne io vidi una soltanto. La sua testa mi apparve in mezzo allo splendore del sole, più splendida ancora nello sguardo angelico, nel sorriso divino. Sopra i suoi capelli color d'oro la luce faceva come un'aureola di fuoco; la sua bellezza verginale spiccava su quel fondo ardente come una sublime figura del Beato Angelico sull'oro della sua tavola. S'avanzò con graziosa mossa verso il banco ingombro di libri; il lieve rumore del suo passo, il fruscio delle sue vesti mi parve un'armonia. La guardavo con occhi sbarrati, immobile, fiso, rapito, non più presente a me stesso, non più sulla terra, non più conscio di nulla che quella celestiale bellezza non fosse. Palpitavo e tremavo; sentivo un ghiaccio corrermi nelle vene e una vampa di fuoco precipitarmisi nel cervello. Credo che se avessi visto precipitare in quel punto sul mio capo un colpo della falce della morte, non avrei manco potuto muovermi a schivarlo, così ero impietrito. Era una visione beata che avrei voluto durasse una eternità. Ella parlò. Che cosa dicesse non so, non capii, ma bevvi avidamente coll'anima quella voce soave. Il padrone s'era alzato dal suo posto ed era venuto riverente incontro alle due donne. Egli rispose alcun che. Vidi che quella divina figura sorrideva, udii ancora una volta la melodia di quella voce; poi l'apparizione scomparve, la carrozza ripartì e mi sembrò che quella bellezza allontanandosi, seco portasse lo splendor del sole, che miravo con sì gaio e intento sguardo poc'anzi.

«Allora essa trovavasi al primo sbocciare della sua giovinezza, quasi non uscita tuttavia dall'infanzia, eppure già donna per la imponenza dello sguardo, pel sentimento alto e profondo che si manifestava nelle sue sembianze, nel suo contegno, nel suo sorriso.

«Apprendere chi ella fosse lo desideravo colla più intensa vivacità del mio volere, ma domandarlo non avrei osato mai. Il signor Defasi mi soddisfece dicendo egli stesso, non richiesto, appena ella fu partita:

«— Che cara, bella e buona ragazza è questa mai! Essa è la contessina di Castelletto; e da qualche anno la è una delle migliori avventrici del mio fondaco. L'ho conosciuta che la era ancora una bambina, ed era già così affabile e graziosa come adesso, con una certa dignità fin d'allora, che era una meraviglia. Converrà mandarle subito questi libri che ha domandato.

«Io sorsi di scatto dal mio cantuccio.

«— Vado io stesso all'istante, signor Defasi: dissi vivamente parendomi un gran che il potere far subito alcuna cosa che lei in qualche modo riguardasse.

«— Oh non c'è poi tutta questa premura: rispose affettuosamente il principale, che postomi, come ti ho detto, molta stima ed affezione ed innalzatomi, col migliorare delle sue fortune, al grado di suo primo commesso, scambiava quel mio ardore per zelo di volerlo contentare. Non occorre che vi scomodiate voi stesso, appena venga il galoppino lo faremo trottar lui.

«— Oh no, caro padrone: io dissi quasi supplicando: lasciatemi andar me, subito.

«M'accorsi alla guisa con cui il signor Defasi mi guardava, ch'e' molto stupivasi di quella mia insistenza, di cui non sapeva darsi ragione; sentii salirmi il rossore alle guancie come se vedessi scoperto quel mio segreto nato pur allora, e che già tanto m'era caro.

«— Ho bisogno di uscire, balbettai, di prender aria, di fare un po' di moto. Ho il sangue al capo. Questo mi servirà di passeggio.

«— Andateci pure allora: disse il principale colla sua solita bontà: e passeggiate quanto vi bisogna. Voi veramente state di troppo chiuso fra le pareti e fermo al lavoro. Ve l'ho detto tante volte che il vostro indefesso studiare vi farebbe male. La gioventù ha mestieri di aria libera e di moto. Nè dovete prendervi la menoma soggezione di me, perchè sapete bene ch'io sono disposto a darvi tutte quelle ore ed anco tutti quei giorni di vacanza che desideriate. Dunque to'; eccovi l'involto di libri che recherete al palazzo di Baldissero, e poi non vi aspetto più a casa che per l'ora di pranzo. Siamo intesi così?

«Io lo ringraziai, presi il mio cappello, e coll'involto dei libri sotto il braccio via di corsa verso l'indicatomi palazzo.

«Lungo la strada che avevo da percorrere, tenevo quell'involto con mani quasi tremanti, come per un tesoro che portassi. Ella quei libri li aveva già toccati, li avrebbe tenuti colle sue manine, avrebbeli introdotti nel santuario dei suoi appartamenti, posatili sul guanciale per leggerli la sera, avutili per delle ore sotto gli occhi. Li accarezzavo collo sguardo, li invidiavo coll'anima: li stringevo al cuore, come una cosa diletta. Mi pareva che essi dalle mie mani, passando nelle sue, dovessero stabilire una specie di legame segreto fra me e lei!...

«Giunto alla soglia del portone, la voce del custode mi ridestò dai miei sogni di pazzo:

«— Dove andate giovinotto? Mi domandò egli.

«Quelle parole mi arrestarono con un sussulto, come se fossero le più inaspettate e strane, mi trovarono sprovveduto affatto di risposta da fare. Ristetti confuso e balbettante.

«— Ebbene? Ripetè il portinaio. Siete sordo, o non sapete dove avete da andare?

«In quella una carrozza soprarrivava di trotto serrato, e voltando rattamente sotto il portone, poco mancava che mi schiacciasse, interito e sbalordito com'ero.

«Il portinaio che si spaventò forte del mio pericolo, mi prese ad un braccio e mi tirò con violenza in là, gridando metà con rampogna e metà con interesse:

«— Siete proprio sordo, chè non sentite le carrozze che vi vengono addosso?

«Una testolina dai capelli d'oro comparve alla portiera, ed una voce d'argento dimandò:

«— Che cos'è stato?

«Era lei! Io risentii il palpito nel cuore e la tenzone del sangue nel capo, di poco prima.

«Il portinaio rispose; poi, siccome io continuava a tacere, vedutomi l'involto tra mano, il portinaio medesimo me lo prese, ne lesse la soprascritta, e disse alla signorina che io portava quella roba per lei.

«Ella avvisò tosto che cosa fosse.

«— Ah! i miei libri che mi manda il signor Defasi?

«— Sì... sì signora: ebbi pur finalmente la forza di balbettare con voce che mi era strozzata nella gola e con labbra che mi tremavano dall'emozione.

«Ella lasciò cadere su di me un suo sguardo benigno — su di me povero, oscuro, miseramente vestito, in così umile condizione sociale; — e disse con quell'accento la cui dolcezza al mondo nulla può eguagliare:

«— Vi ringrazio.

«Essa colla sua compagna salirono lo scalone: il domestico che era con loro prese dal portinaio l'involto e le seguì: io sentiva sempre nel mio orecchio l'eco di quella voce, il suono di quelle due parole.

«Approfittai della licenza datami dal principale e corsi ad accarezzare le mie fantasticaggini nella solitudine dei viali. Di botto una crudele vergogna m'assalse. In quali miserabili forme ero io comparso innanzi a lei! Quasi avessi uno specchio davanti agli occhi la mia bruttezza e la mia povertà mi risaltavano visibili e spiccate alla mente che a forza doveva paragonarle alla beltà ed alla ricchezza di quell'angelica creatura. Oh! s'ella avesse saputo che da quel meschinello disprezzato e disprezzevole osava innalzarsi sino a lei la temerità d'un amore! Pensai a Quasimodo il mostro creato da Victor Hugo nellaNotre Dame de Paris, che ama supremamente la bellezza femminea incarnata nella grazia di Esmeralda. Ma in me c'era qualche cosa di più che non ci fosse in quell'embrione abortito d'uomo; ma il mio affetto era immensamente più nobile di quanto fosse la passione tra sensuale e canina di quell'essere mantenuto dall'organismo nella zona inferiore dell'animalità; ma in essa eziandio lo sguardo affermava che c'era qualche cosa di più della pura bellezza fisica. Se questa mia veste di carne troppo misera e disgraziata era indegna di rivolgere pure un desio a quella perfezione di forme, non erano in me l'anima e l'intelletto capaci di levarsi all'altezza e di parlare alla pari con quell'intelletto e con quell'anima? Superbamente mi dicevo che sì; un orgoglio immenso m'invadeva, e nella febbre di quell'agitazione pareva anche a me di aver nella volontà e nel pensiero una forza da sollevare il mondo, purchè trovassi il punto d'appoggio.

«Come fare per poter comparire agli occhi suoi in quel modo che indegno non mi facesse della nobiltà non del suo blasone, ma della sua natura? Questopensiero si piantò fisso e potente nel mio cervello a regolare a suo capriccio tutti gli altri a lui subordinati. Ne immaginai mille di cose, tutte folli ed impossibili. Alla gloria fino allora non avevo pensato mai. Non mi era nata mai la speranza, nè il desiderio, nè manco l'idea che questa meschina personalità potesse innalzarsi al di sopra delle altre per essere ammirata dalla nullità comune. Allora, di colpo, vagheggiai la corona della gloria come un bene fra i più eccelsi; mi parve anche, nell'intensità febbrile del mio pensiero, un diritto della mia intelligenza. Oh! se avessi potuto recarle innanzi nella polvere calpesta da' suoi piedi una fronte cinta del diadema che dà la sovranità della mente riconosciuta e consecrata dalla fama! Ella avrebbe apprezzata questa grandezza; ella non avrebbe più guardato all'infelice viluppo, per accogliere quale sorella l'anima grande che si era manifestata, come quella Principessa che baciava amorosamente le labbra del deforme Alano Chartrain addormentato, per gli splendidi versi e pei sublimi concetti che uscivano da quelle labbra.

«La gloria! la gloria. La mi abbisognava, la volevo. Essa mi appariva più splendida nel guerriero e nel poeta. Sognai di diventar Napoleone; sognai di esser Dante. Un Napoleone italico che combattesse le battaglie della liberazione della patria, e poscia, acclamato da tutta una nazione redenta e fatta potente, venisse a prostrarsi innanzi a lei per dirle: «La mia grandezza è opera tua, la mia gloria sei tu; vieni a circondarti tu pure di questa infuocata aureola che illumina il mio capo al di sopra del comune livello dell'umanità.» Un Dante, rincalzato da tutto il tesoro della scienza moderna, che gettasse di nuovo nel crogiuolo della sua fantasia tutti gli elementi della vita, del pensiero e dell'affetto, per trarne fuori l'enciclopedia del secolo travagliato, in un altro splendido poema che comprendesse l'universo.

«Nemmeno pel pranzo non rientrai più in casa del signor Defasi. Mi ridussi nella mia cameretta, mi vi chiusi dentro e su quello scartafaccio su cui avevo cominciato a scrivere le emozioni dell'anima mia, le lotte e i conquisti della mia intelligenza, su quelle pagine scarabocchiai con mano febbrile i primi versi d'amore che erompessero dal mio cervello. Quell'immagine giovanile mi stava sempre dinanzi. Io le parlava come a persona viva che fosse presente e mi potesse ascoltare. Una folle illusione mi faceva quasi sperare che la intensità del mio desiderio e la forza delle mie preghiere varrebbero a comunicare, non ostante ogni distanza ed ogni separazione, all'anima di lei l'omaggio ed i tumulti dell'anima mia.

«Avrei voluto sapere di essa il nome di battesimo; quel nome con cui l'aveva chiamata sua madre, col quale avrebbe avuto diritto di chiamarla l'uomo a cui ella avesse dato l'amor suo. Conoscevo dell'idolo mio la luminosa esistenza, non la voce con cui invocarlo ed evocarlo, non la parola sotto cui volgerle la mia adorazione. Mi pareva che sapendo questo nome era un raccostarmi di più a lei, era quasi un intromettermi nel santuario della sua esistenza, era una maggiore rivelazione del Dio a me suo adoratore. Come fare per giungere a questo scopo? Per un altro sarebbe stata la cosa più semplice di questo mondo: interrogar qualcheduno; forse lo stesso Defasi avrebbe potuto soddisfare alla mia richiesta; ma io non avrei voluto a niun conto parlare di lei ad anima viva. E tu se' il primo a cui ne tengo parola. Mi pareva una profanazione; mi pareva che qualunque a cui mi rivolgessi avrebbe sentito nel mio accento, avrebbe letto nel mio volto il mio caro segreto cui con infinito pudore volevo a tutti nascosto.

«Una strana idea m'assalse. Mi ricordai ad un tratto di quell'aerea forma che fino dall'infanzia a lunghi intervalli era comparsa ai miei occhi, aveva parlato alla mia mente, confortatrice, consigliera, amorevole protettrice. Da lungo tempo ella non si era mostra più, ed io caduto, per conseguenza di alcune letture, in un nuovo scetticismo — e ti parlerò eziandio, se non l'hai discaro, di questi travagli dell'anima mia — io mi era sforzato a persuadermi che quelle apparizioni erano stati null'altro che fantasimi del mio cervello ed a ritenerle come illusioni morbose della mia immaginativa. L'amore che mi doveva ridonare la fede — la nuova fede su cui ora fonda il mio spirito l'edifizio delle sue convinzioni, dell'enciclopedia umana e delle conoscenze che è giunto e giungerà mai ad acquistare — la fede nel mondo superiore, senza cui manca all'essere uomo un elemento essenzialissimo pel suo proprio svolgimento e perfezionamento — l'amore che doveva ridonarmi questa fede, cominciò per farmi creder di nuovo alla realtà dell'esistenza e dell'intromissione nella mia vita di quello spirito incorporeo che mi era apparso in vaporose sembianze sotto forma di giovane donna.

«Siccome mi era dolce pensare che fosse mia madre a visitarmi pietosa dal misterioso mondo di là della tomba; siccome non dubitavo che gli oggetti postimi addosso nell'abbandonarmi infante non appartenessero a mia madre, e specialmente quel rosario; io presi quest'ultimo dal luogo riposto in cui gelosamente lo custodivo, lo strinsi con passione fra le mie mani, me lo serrai sul cuore che palpitava concitato e con un'aspirazione indefinita, inesprimibile dell'anima, pregai:

«— Madre mia, o qualunque tu sia, spirito mio benigno, vedi il mio desiderio e soddisfalo tu, se puoi. Spirito immateriale, tu devi leggere entro il pensiero, tu devi scorgere entro i segreti ripostigli dell'anima. Vieni pietosa a parlarmi di lei, vieni a darmi quella forza e quel merito che mi possano accostare all'altezza di quella creatura, vieni a svelarmi,sia pur anche il più infelice, l'avvenire di quest'amore che sento, che conosco essersi fatto la ragione e la sostanza della mia esistenza.

«Stetti quasi tremante, con un palpito pieno di dolcezza, con un'intima emozione che mi faceva correre lievi brividi per le vene, stetti, nella mia cameretta invasa dalle ombre della sera, aspettando quell'aura leggerissima d'alito che mi pareva soffiarmi in fronte all'apparizione del fantasma, quell'opalino chiarore in mezzo a cui soleva disegnarmisi innanzi l'incorporea forma.

«Aspettai vanamente.....»

— Ah! Esclamò Giovanni, del quale lo pseudorazionalismo, rincalzato da un po' d'umore beffardo alla Voltaire si ribellava contro la secondo lui puerile credenza nelle apparizioni di esseri estraumani. La tua mente, rinforzata pel crescer cogli anni delle forze fisiche, rinvigorita per gli studi maggiori e più assennati, non era più capace di quelle fantasmagorie a cui si prestava nella puerizia e nella prima adolescenza.

Maurilio fece un lieve sorriso scuotendo la testa.

— Aspetta, aspetta: diss'egli. Tu ti affretti di troppo ad imbrancarmi nel gregge degli uomini positivi che credono soltanto a quell'universo di cui le parti si possono misurare col bilancino e scomporre nella storta del chimico. Ho passato per quello stadio ancor io: fu una crisi cui attraversò fra le tante, quest'anima; come già ti ho detto, l'amore me ne trasse, e l'apparizione dall'amore invocata ed evocata, fu il primo atto che mi riscattò dalla schiavitù in cui ero caduto del materialismo.

— Dunque la tua apparizione ebbe luogo? Domandò Giovanni con più interesse di quanto la sua incredulità avrebbe fatto supporre.

— Sì..... Attesala invano in quell'ora mesta e soave del crepuscolo, che era pure stata quella in cui mi si era presentata la prima volta, io tornai a discredere, e indispettito meco stesso, proverbiandomi della debolezza che mi dicevo esser cagione di cotali vane e sragionate lusinghe, uscii nuovamente di casa per tornare a dare sfogo almeno col moto del corpo, al tumulto dell'anima, all'agitarsi del pensiero.

«Dove mi recassero le gambe, anche senza preciso comando della mia volontà, è facile indovinare. Uscii, riscotendomi, dalla riflessione in cui ero assorto, quando mi ritrovai in faccia al portone del suo palazzo. Mi fu impossibile strapparmi di là. Una forza centuplicata d'attrazione pareva inchiodarmi i piedi sopra i sassi di quel selciato. Il cuore mi batteva, mi batteva; la testa mi era rintronata; gli occhi non vedevano distintamente; i lumi che apparivano dalle finestre mi parevano mandare non raggi ma mille sprazzi di scintille che turbinavano come un fuoco d'artifizio; i rumori mi giungevano al cervello ora come lontani e traverso una tramezzatura soppannata, ora come accresciuti a cento doppi di forza da quasi indolorirmene.

«Stetti colà, di questo modo, non so quanto tempo. La mia mente intanto sognava. Quest'io che s'agita in me vestiva nuove forme e conquistava nuovi destini. Il materialismo che aveva confuso e identificato me spirito a questa miserabil carne che mi circonda, che disconoscendo l'essere intimo e superiore mi aveva fatto credere che intelligenza, volontà e pensiero non erano che risultamenti della materia organata; questo crudele, empio e sofistico filosofismo cedeva di botto le armi all'invasione d'un amore che nulla aveva di sensuale ed aleggiava purissimo nelle sfere della spiritualità. Senza più contrasto riconobbi possibile che quella parte essenziale di me a cui la potenza appartiene di volere e di pensare, fosse di altre forme vestita, più nobili, più acconcie e leggiadre. Sentii nel carcere delle disadatte membra incatenata l'anima: ed è quest'anima cui riconobbi non indegna di amare a quel modo quella tanta idealità incarnata in tanta bellezza.

«La nobile fanciulla rappresentava per me tutto quello che vi ha di superiore negli affetti e nella capacità intellettiva della natura umana. Fin da bambino l'anima mia, inconsciamente, aveva anelato a quel mondo superiore dell'idealismo, dove le deficienze della creazione inferiore nella grossolanità della materia non alterano, non avviliscono, non contraffanno l'archetipo dell'idea divina; il non aver mai potuto attingere colle mie aspirazioni pure un adombramento di quella suprema bellezza, i duri attriti della vita sociale in mezzo alle cui più grosse difficoltà il destino mi aveva balestrato, una scienza insufficiente, carpita, per così dire, a casaccio in mal digeste letture, mi avevano fatto disperare di giungere non fosse che alla soglia di quel mondo superiore, mi avevano fatto negare che quel mondo esistesse. Ad un tratto la luce di quella regione celeste mi raggiava di pieno negli occhi con quella verginale beltà. Io era forse indegno di arrivarlo; ma l'ideale esisteva e la perfezione di forme illuminata dall'idea in quell'essere di fanciulla n'era un'incarnazione sublime.

«Perchè la mia anima non aveva ella vestite delle sembianze che stessero a paro con quelle di lei? Era ella una condanna, od una mia colpa od un'ingiustizia? Era codesto un segno dell'inferiorità essenziale dello spirito mio? Ma se nella chiostra del mio pensiero sentivo una forza che abbracciava i mondi, e più audace che non avessi trovato in altrui, si elevava a battere alla porta dei misteri della creazione! E questo era un mistero terribile e impenetrabile eziandio; ma era: che due anime, forse pari e degne l'una dell'altra per loro intima natura, si potevano trovare quaggiù separate per la disparità delle forme, per la distanza delle condizioni sociali, a distribuire le quali cose è forse una legge eziandio, ma a noi cotanto ignota che la chiamiamo caso. Ora l'opera di questo caso o leggemisteriosa potrebbe la volontà umana, collo sforzo portentoso del suo travaglio, distruggere, riparare, sconvolgere? In altri e più speciali termini, il povero trovatello, miserabile, brutto, disprezzato, reietto avrebbe potuto coll'intelligenza, colla virtù, colla grandezza dell'opera sua elevarsi sino alla superba fanciulla, bella, nobile e ricca, che a lui appariva nell'orizzonte della vita come all'umile pastore delle montagne la splendida luce della stella del mattino?

«Ecco il quesito che già mi poneva dinanzi inesorabilmente, come l'enimma della sfinge, la febbre della passione.

«Fino a quando sarei rimasto colà inchiodato a quei ciottoli della strada noi saprei dire; ma un avvenimento me ne venne a strappare. Quella medesima carrozza che la mattina era venuta alla porta del fondaco, uscì di sotto il portone del palazzo. Come un lampo mi passò davanti la visione di quella bellezza colla sua aureola di capelli d'oro. Non deliberai, non pensai, non seppi nemmeno quel che facessi; ma d'un balzo mi trovai seduto sulla predella di dietro della carrozza. Più volte mi avvenne poi di fare quel medesimo; ed ancora ieri sera di questa guisa l'accompagnai al ballo dell'Accademia. La carrozza si fermò alla porta del Teatro D'Angennes. Vidi lei discendere ed entrare colà dentro. Rimasi alcuni minuti perplesso. Non ero ancora entrato mai in nessun teatro: non osavo avventurarmi in quel luogo di cui non avevo la menoma idea; non sapevo come fare; ed una irresistibile forza mi traeva a seguitarla. Cedetti e di slancio m'introdussi nella stanza d'entrata come farebbe chi si gettasse in una voragine di fuoco. Il portinaio mi arrestò domandandomi il biglietto. Arrossito sino alla radice dei capelli, confuso, balbettante, mi feci spiegare che cosa fosse, come avessi da fare per procurarmelo, e mi affrettai a seguire le datemi indicazioni. Pagai ventiquattro soldi, che per me rappresentavano anche allora una somma di qualche rilievo, e seguii i passi di alcuni che entravano eziandio in quel momento.

«Era già tardi: lo spettacolo incominciato e la folla in platea tale che ai nuovi venuti non era possibile più lo entrarvi. Dal di là della soglia nel vestibolo, di sopra le spalle e le teste di coloro che mi erano davanti, vidi un ambiente pieno di luce con in mezzo un lampadario ad innumerevoli fiammelle. I suoni dell'orchestra e i canti degli artisti lo riempivano d'armonia, e le onde sonore di quella musica venivano a percuotermi travelate e ad intermittenze la testa.

«Dello spettacolo mi curavo poco; ma volevo vederla — lei!

«Udii due de' miei vicini che si dicevano: — qui non si può veder nulla. Andiamo su inparadiso, chè qualche cantuccio da allogarci ce lo troveremo.

«S'avviarono di fretta su per le scale, ed io li seguii.

«Quando fui al secondo pianerottolo uno di quei tanti usci che erano nei corridoi, l'uscio appunto che si trovava precisamente in faccia a chi finiva di salire quella branca di scala, si aprì. Ne venne fuori un giovane, il quale avendo ancora da dire qualche parola a quelli che eran dentro, tenne un istante, standovi sulla soglia, mezzo aperta la porta. Rimasi piantato là innanzi. Il mio sguardo penetrato là dentro aveva visto disegnarsi sul fondo luminoso del teatro il divino profilo di lei. Ella teneva il gomito appoggiato al parapetto e la testa un po' reclinata posando lievemente sulla mano la guancia; ascoltava più che attentamente con emozione la musica, e la sua mossa naturale, abbandonata, di cui ben vedevasi ella non esser conscia per nulla, era la più graziosa, la più avvenente, la più adorabile ch'esser possa mai.

«Ma ratto la visione fu tolta agli occhi miei. L'uscio s'era richiuso, il giovane era partito senza punto badare a me; io mi ritrovava più impacciato che prima di quel che dovessi fare. Essa era là, così vicino a me, separata soltanto da un uscio e da pochi passi. Ma codesto non mi bastava: gli era vederla ch'io voleva, di ciò avevo bisogno; l'ardente desiderio di contemplarla era insaziato in me e da non saziarsi. Salii di volo le scale che ancor rimanevano; giunsi nel loggione, e capii tosto che doveva esserci colà un punto da cui avrei potuto vederla. Corsi sollecito all'estremità verso il proscenio dalla parte opposta a quella dove avevo visto ch'essa si trovava; dall'ultima apertura d'onde non si può vedere sul palco scenico che da chi si trova in prima linea, ed ancora stentatamente, trovai modo di gettare uno sguardo nel sottoposto teatro. La vidi; e ciò mi bastò. Mi appoggiai colle spalle alla parete, e stetti senza più muovermi, senza più batter palpebra, cogli occhi fissi su quell'adorata visione.

«Come già ti dissi, non ero stato mai in nessun teatro; quel caldo, quell'afa, quel rumore mai non mi avevano avvolto; era un tutto nuovo ambiente per me in cui non sapevo ancora, direi quasi, respirare, e per cui opprimendomisi il petto mi veniva impacciata la circolazione del sangue e procurato di questo un ingombro al cervello. Continuavano per me le percezioni ad essere confuse, pressochè senza giusta misura, ora troppo vive, ora troppo smussate, or tarde, or lente, uno stranissimo complesso che non sapevo più se era vita o fantasmagorìa, se realtà o sogno.

«Musica teatrale e canto drammatico non avevo udito mai. Conoscevo solamente i canti di chiesa e il suon dell'organo che nella mia infanzia al villaggio m'intenerivano l'anima, senza pur ch'io ne sapessi e cercassi sapere il perchè. Di poi, dacchè ero a Torino avevo sentito scuotermisi le fibre esussultare i nervi a qualche marcia concitata suonata dai corpi di musica della guarnigione. Non conoscevo con linguaggio di melodia che due sole espressioni, la religiosa e la guerresca: tutto il resto degli umani affetti e delle passioni del cuore che trova una voce così efficace nell'infinito degli accordi musicali, era ancora libro chiuso per me. Ero in condizioni tali da rendermi le prime impressioni che ne ricevevo, le più forti e profonde che mai: quelle prime impressioni che in cuor giovenile hanno pur sempre intensità ed efficacia cotanta. Al momento in cui ero giunto ad allogarmi in quel cantuccio del loggione, suonavano pel teatro due voci, una d'uomo e l'altra di donna, due voci soavi che s'accordavano insieme a meraviglia in una melodia piena di passione e d'incanto. Aveva incominciato la voce di tenore, poi quella di donna aveva risposto e per ultimo si assembravano insieme con islancio d'inesprimibile effetto. Cantavan d'amore; si davano un addio, separati quali dovevano essere dalla sorte; si scambiavano un pegno del mutuo affetto che li stringeva, e si giuravano eterna la fede.»

— Buono! Interruppe Giovanni: gli è laLucia di Lammermoorche tu hai udito.

— Non so, rispose Maurilio, non avevo guardato i cartelloni, non li guardai nè anche di poi, non me ne venne pure il pensiero. Le parole non potevo capir bene, ma capivo a meraviglia la musica, e ne capivo ancora di più il significato e la bellezza, vedendone le emozioni dipingersi sulle sembianze di lei..... Quelle medesime emozioni che provavo io, nascosto nel mio cantuccio, compiutamente ignorato. Ella stava immobile, tutto tutto attenta alla scena, non prestando il menomo ascolto alle chiacchere che colla signora ond'era accompagnata facevano parecchi giovani civili e militari che si scambiavano e succedevano in quella loggia. Io ne vedeva di tre quarti il viso leggiadro, e il puro ovale delle sue guancie spiccava a meraviglia sul fondo rosso della tappezzeria; i suoi occhi di colore indefinito, ora verdi come il mare, ora azzurri come il cielo, ora scuri come una perla nera, limpidi sempre come la stella del mattino, i suoi occhi strani di cui non v'ha pari, di inesplicabile, ma sublime, ma inarrivabile bellezza.....

— Un momento: interruppe di nuovo Giovanni Selva. Sì, gli è vero che gli occhi di quella ragazza sono veramente straordinarii ed hanno una certa segreta malìa che non si può definire; ve ne hanno pochi in verità di tali occhi, ma per bacco non sono i soli, e un paio di simili ce l'hai tu stesso, Maurilio.

— Io? Esclamò il povero innamorato arrossendo sino alla fronte.

— Tu, in verità. Sicuro! Più ci penso e più ci trovo una gran rassomiglianza fra questi tuoi che lucicchiano qui in queste tenebre come quelli d'un gatto e gli occhi di quella nobile donzella. Ma continuiamo il tuo racconto. Che cosa facevano quegli occhi ammirabili ed ammirati?

— I suoi occhi si lumeggiavano così bene delle interne emozioni dell'anima che a me le rivelavano più chiaramente che non avrebbe potuto fare la parola. La tenerezza, la pietà, il nobile diletto delle generose commozioni apparivano nei raggi di quegli sguardi sicuri e modesti, non cercatori nè pur curanti dell'omaggio ammirativo d'altrui, e nella loro indifferenza della gente non disdegnosi nemmanco nè oltraggiosamente superbi. Si vedeva che in quell'anima risiedevano, come in loro proprio luogo, tutti i più degni affetti ed i più nobili sentimenti, i quali in quel punto, suscitati dalla malìa di quella musica, attestavano collo splendore dell'esterna bellezza la loro divina presenza. Oh! come sentii che era capace di sublimissimo amore quell'essere che m'accorsi palpitare com'io palpitava, a quelle onde di meravigliosa armonia! Oh come avvisai che felicissimo sarebbe l'uomo il quale potesse porre una mano su quel cuore e sentirlo battere per lui! A me il solo provare insieme con lei le emozioni di quei momenti, tornava un massimo diletto, pareva una ventura che alcun poco ci raccostasse. Quanti altri erano colà ad udire i medesimi suoni e partecipar quindi delle emozioni medesime! Eppure mi pareva che dalla massa comune noi due soli, ella ed io, ci separassimo per provare più veramente e più altamente quelle sensazioni che il genio del musico aveva voluto suscitare, e percepire più chiaro, più giusto, più completo l'ideale della sua creazione. Non ero geloso di tutti gli altri che dividevano meco la felicità di respirare nel medesimo ambiente di lei, di commuoversi delle medesime dolcezze; nessuno di certo sapeva innalzarsi alla altezza delle sensazioni di quell'angelica creatura; io superbamente mi dicevo che coll'ardore dell'amor mio ci arrivavo. Non ero geloso il meno del mondo di quegli eleganti che nel suo palchetto ciarlavano e ridevano con zazzere arricciate, con baffi incerati, con guanti bianchi alle mani e la lente nell'occhiaia, azzimati, ornati, studiati nell'acconciatura e nelle mosse, leggiadrissimi di bellezze da figurino, ameni fors'anco ed ingegnosi ed arguti nella conversazione e nel motteggio, ma senza un lampo nella fronte e negli occhi d'una superiorità qualsiasi dell'anima o dell'ingegno. Perchè esserne geloso? Ella se ne curava così poco!...

«Lo spettacolo dopo quel canto a due fu interrotto, e grandi applausi suonarono per tutto il teatro durante più d'un quarto d'ora. Capii di poi che un atto era finito. Quel fracasso, a cui non ero abituato, mi rintronava fieramente con dolorosa vivezza entro la testa. Mi serrai al petto le braccia e chiusi gli occhi come se isolandomi per la vista, potessi anche sceverarmi dal baccano di quella folla strepitante in quella gran sala, che si apriva comeun vasto pozzo luminoso al di sotto di me, entro il quale mi pareva rimuggisse il demoniaco tumulto dell'inferno di Dante.

«Mi pareva così di rientrare alquanto in me stesso, e ne avevo immenso bisogno. Quel giorno era troppo ricco d'emozioni per l'anima mia. Due tremende rivelazioni mi si erano fatte: quella dell'amore e quella d'un nuovo mondo nell'arte. L'intelligenza vacillava abbracciata tenacemente dalla passione, e sentiva che da questa stretta, fatale come la lotta di Giacobbe coll'angelo, doveva uscirne o ringagliardita con più forti ali al volo, o spossata ed impotente. L'idea vedeva squarciarsi dinanzi un velo, e il suo sguardo penetrava nella zona senza limiti e misure del sentimento dalle forme indefinite, e capiva che scorrendo in quel campo od avrebbe attinto nuova grazia alle sue creazioni, o si sarebbe smarrita nelle incertezze di contorni sfumati d'una sentimentalità senza sostanza. E l'amore intanto mi stringeva come con una tanaglia il cuore, mentre mi cantava sotto il cranio la melodia di quell'ultimo accento d'addio dei due amanti.

«Le palpebre abbassate non mi precludevano così bene l'adito alle pupille della luce ond'era invaso il teatro, che nel campo scuro innanzi ai miei occhi non tardasse ad aprirsi come un cerchio rossigno, il quale allargandosi occupò tutto lo spazio indefinito della mia visione, e nel centro, frammezzo ad un'aureola più luminosa, mi apparve la figura di lei, quale avevo vista testè, quale non avevo che ad aprire gli occhi per vedere viva e reale.

«La contemplai meco stesso, come un'immagine stampata nella mia mente. Intorno alla seria e dolce sua fisionomia aleggiavano, per così dire, le note melodiose di quel canto d'amore onde l'anima mia s'era impregnata; i suoi sguardi lampeggiavano di una luce sovrumana e mi parevano fissi su me raggiandomi addosso un soave calore. Ebbi di botto il bisogno di vedere la realtà di quell'immagine. Aprii gli occhi. Aimè! Essa era volta verso l'interno della loggia e non mi presentava più che le ricche ed abbondanti treccie dei suoi capelli dorati raccolte in un voluminoso ammasso sopra della sua nuca.

«Ricominciarono i suoni ed i canti. Non ti dirò tutte le sensazioni che passarono nell'anima mia, perchè non la finirei più. Era un sogno, un mirabile succedersi di fantasie, di visioni impossibili, di chimere ineffabili. Non vivevo più della vita terrena; ero trasportato come in un'esistenza superiore, con altri sensi, con altre percezioni; ero nel delirio della pazzia o del genio: non mi riconoscevo più me stesso; non sentivo più di me che il mio amore in un turbine d'emozioni inesprimibili.

«Il dramma musicale seguitava la sua splendida evoluzione di melodie. Udii i gemiti della fanciulla innamorata cui sacrificavano all'interesse in un matrimonio abborrito, imponendole un tradimento alla sua fede; udii i canti di festa per le infaustissime nozze; udii la voce di dolor disperato e il grido di maledizione che mandò l'amante tradito, tornato giusto a tempo per assistere all'irrevocabil sanzione di quell'infame patto che gli toglieva l'amor suo per sempre. Rabbrividii, raccapricciai, riarsi. Vissi della vita immaginata di quell'infelice, sentii me stesso trasportato in quegli avvenimenti ed io parte principale; soffrii del dolore di quella musica che piangeva, che minacciava, che supplicava, che malediva. Il concerto sublime, affatto nuovo per me, di suoni e di voci in quel grandioso finale che svolgeva la sua imponente frase solenne, mi produsse un magico effetto. Parevami di sentirmi capace di qualunque maggior virtù, di qualunque eroismo, di qualunque sacrifizio. Per lei, innanzi a lei, avrei incontrato felice la morte del martire....

«Ella pure era trasportata e commossa.... Sì, certo; non era una folle superbia la mia, le nostre due anime si incontravano nei sentimenti medesimi.....

«Come passarono rapidi quei momenti i quali pur tuttavia furono occupati da tanta immensità di pensieri e di sensazioni!.. Ella, prima che lo spettacolo terminasse, si partì. Non potei più rimanere colà neppur io. Feci il possibile per affrettarmi a venir fuori da poterla ancora vedere prima che salisse nella carrozza; ma la troppa gente che era stipata nel loggione, e traverso cui dovetti aprirmi il passaggio, mi ritardò talmente che quando fui alla porta del teatro, la carrozza da cui ella era trasportata più non poteva non che raggiungersi, vedersi nell'oscurità della notte.

«Girai lungamente per le strade e le piazze di Torino, senza direzione, senza pensieri ben precisi nella testa, con tutto un caos di idee indiscernibili e di inesprimibili affetti. Batteva la più limpida luna che esser possa. Quei concenti musicali mi ronzavano dentro il capo, confusi l'uno coll'altro, vaghe reminiscenze che non potevo afferrare e far concrete. Pensavo a lei, pensavo al mio avvenire; poi ad un tratto mi ricordavo del villaggio e della mia infanzia, dei maltrattamenti della Margherita e delle soavi parole e della fisionomia amorevole di don Venanzio; di colpo tutto quel mulinìo di pensieri cessava e svaniva, e mi trovavo colla testa vuota, con una smemorataggine strana e che mi stupiva, con non altra sensazione più che una specie d'indolorimento nel cervello affaticato. I piedi mi si piantavano di per sè a quel punto dove mi trovavo; guardavo stupito o meglio stupidito intorno a me; fissavo la luna, le stelle, l'ombra scura delle case allungata nelle vie, il rossigno chiarore oscillante dei lampioni alle cantonate. Mi riscuotevo in sussulto ed un nuovo èmpito di pugnaci pensieri m'invadeva il cervello.

«Corsi a casa e mi rinchiusi nella mia povera soffitta, entro cui guardava con quella specie di suocalmo sorriso la sembianza di volto della luna. Aprii le invetrate, e la fronte esposta all'aria fresca della notte mi appoggiai coi gomiti al davanzale e stetti là continuando quella corsa matta del mio cervello fra le più strane immagini alla più impossibile chimera.

«La luna venne calando mano a mano, e poi sparì; mi rimanevano dinanzi le stelle tremolanti che mi parevano uno scintillìo di sguardi che mi osservassero dal fondo dall'infinito.

«— Che cosa siete voi, esseri misteriosi dello spazio interminato? Esclamai tendendo loro le braccia con aspirazione dissensata. Soli di mondi innumerevoli, vedete voi travagliarsi nelle vostre sfere l'intelligenza? lottare la vita? palpitare l'amore? Vivete voi? Soffrite voi? Amate voi?.... E perchè? A quale conclusione camminate voi o mondi nell'eterno avvolgimento delle orbite vostre?.... La spiegazione di tutto l'universo è il nulla, il risultamento di tutto il lavoro della immensa natura è una cieca necessità senza ragione che in un momento può distrursi da sè stessa e ripiombare la materia nella fusione primitiva, e noi intelligenze che possiamo apprendere al nostro passaggio un lembo, un adombramento della verità, dobbiamo disfarci e disperderci nel nulla, perchè questa verità intiera non sia mai da nessuna intelligenza, da consciente volontà abbracciata? Perchè avremmo adunque l'idea dell'infinito? Perchè allora quest'amore che mi pare coesista eterno nell'anima mia e debba accompagnarmi nell'eternità del futuro?.... Oh amore! Sei tu dunque l'ultima ragion delle cose?.... Sei tu il centro di attrazione dell'universo? Sei tu il Dio supremo dell'esistente?

«Un fiotto di fede e di poesia invase l'anima mia, su cui era passato l'amaro soffio della negazione. I versi e le immagini sobbollirono nel mio cervello. Mi slanciai al mio tavolino, accesi la mia lucernetta e con mano convulsa sotto l'impeto della pressante ispirazione, indirizzai a quella sublime bellezza che mi era apparsa nella vita, un secondo inno d'amore.

«La testa mi abbruciava, il cervello mi doleva come se la fronte fosse un cerchio di ferro che soverchiamente stringesse l'intelligenza; il mio cranio pareva un letto di Procuste all'espansione del mio spirito; il sangue mi si affoltava nei polsi con penosa violenza. Mi parve ad un punto che il mio collo era troppo debole a sostenere il mio capo invaso e saturo da un mondo d'idee; posai le braccia sul piano della tavola e sopra di esse reclinai la testa occupata da tanta tenzone. Non mi parve chiudessi gli occhi, ma pure innanzi alle mie pupille la fiammella della lucerna si affievolì, si scemò, si ridusse ad un punto impercettibile che pareva una di quelle stelle di menoma grandezza che mi apparivano poc'anzi nell'abisso de' cieli. Dalla finestra che avevo lasciata aperta, entrò un fresco alito di vento che corse ne' miei capelli come la carezza leggiera d'una mano amorosa, che mi temperò l'ardor della fronte sfiorandola come il soffio d'un bacio soave. Nella mia stanza non era tenebra, e non vi era tuttavia luce terrena. Un indescrivibile chiarore pallido, azzurrigno, mite come il riflesso d'una perla, era diffuso intorno a me quasi una nebbia leggiera; somigliava alla luce delle nebulose, cui travede nelle incalcolabili distanze dello spazio il telescopio dell'astronomo. Era un sopore il mio? No. Ero tolto al movimento della vita, alle impressioni più grossolane dei sensi corporei, ma perdurava in me la coscienza di me stesso. Vi ha una razza d'insetti, i cui figli, appena sbocciati vermiciattoli, hanno mestieri di cibarsi del corpo vivo d'un'altra specie di animaletti. I genitori di questi crudeli vermi, i genitori che muoiono tosto dopo allogate nel nido le uova che saranno i loro figli cui essi non vedranno mai; i genitori, dico, per ammirabile guida di quell'istinto che è uno dei più grandi misteri della natura, vanno alla caccia di quegli animaluncoli della cui carne i loro nati avranno bisogno di pascersi, e poichè occorre che questa carne sia viva tuttavia, presili, col loro pungiglione li feriscono in guisa che la vita permane in essi, ma ogni possibilità di movimento è loro tolta da poter difendersi dal morso dei neonati e nemmanco fuggirlo.

«Io era press'a poco in quella condizione. Vivevo e sentivo di vivere, ma nello stesso tempo era come dire sospeso il giuoco per cui la volontà trasmette i suoi cenni ai muscoli per via dei nervi, pareva fra la parte di me che determina e quella che obbedisce, sciolto momentaneamente il legame.

«Tra la luce della lucerna offuscatasi e me, parvemi veder sorgere come un fumo biancolastro, come un vapore, una forma diafana che s'atteggiò a sembianze di donna. Un'intima contentezza mi nacque nel cuore e si dilatò per tutto l'esser mio. Era la mia visione che da tanto tempo mi aveva abbandonato: era dessa che tornava a visitarmi. La medesima incertezza sfumata di sembianze, ma in essa pure il medesimo adombramento di quel soave ed amoroso sorriso. La salutai con un'aspirazione del cuore entro il mio corpo immobile come un cadavere. Ella mi rispose con un moto avvenente del capo, poi si chinò verso di me; udii intorno a me suonare come un lieve susurro; parevami fosse quel venticello della finestra che murmurasse entro i miei capelli. Ma questo susurro, ma questo mormorio parlava. Capii le seguenti parole:

«— Ella si chiama Virginia!

«Virginia! Questo nome si ripetè come da un'eco sotto la volta del mio cranio, penetrò come una dolcezza sino al mio cuore, si stampò nella mia memoria per non iscancellarsene mai più. Intorno ad esso mi parvero raggrupparsi tutte le armonieche avevo udite quella sera o che mi risuonavano ancora in tumulto entro la testa. Mi parve che in vero non altro nome poteva essere il suo fuor di codesto; che dovevo saperlo e che l'avevo dimenticato; che invocandola con questo dolcissimo nome verginale doveva al mio rispondere il suo pensiero.

— E questo, in realtà, è egli il nome di quella ragazza? Domandò Giovanni Selva.

— Lo è: rispose Maurilio. Il mio spirito benigno non mi ha mai ingannato.

— Senti: disse allora Giovanni con serio accento ponendo amorevolmente la destra sulle mani che Maurilio teneva intrecciate sulle sue ginocchia. Io non voglio contraddire per vaghezza di discussione le tue credenze a questo riguardo; ma in faccia ad avvenimenti che escono dalla cerchia comune dei fatti terreni, consentimi, ed anzi deve essere tuo desiderio eziandio, che tali avvenimenti si cimentino alla critica della ragione, e se si potrà trovare ad essi una spiegazione che non esca dai limiti della natura....

Maurilio interruppe vivamente:

— Ma nulla di quanto accade nell'universo mondo, non esce mai dai limiti della natura. Perchè l'uomo non ha tuttavia certificati con una scienza che ha la vista corta alcuni fenomeni cui trova più comodo negare; perchè non ha scoperto ancora le leggi onde questi fenomeni hanno origine e regola, superbamente afferma che quei fenomeni non sono nella natura, e che questa non ha leggi per essi. Ma la diva natura, che è la volontà e la logica di Dio, abbraccia tutto, tutto, tutto, l'esistente ed il possibile, il sensibile e il sovrasensibile; ed è uno strano e temerario rimpicciolirla il volerla rinserrare negli angusti termini dell'intelligibile e dell'apprensibile umano. Per me non vi ha nè sopranaturale, nè oltrenaturale; vi ha una immensa natura di cui l'uomo non apprende che una menoma parte: quella più direttamente in contatto con esso, della quale ha già ampliata colla scienza di molto la cognizione e l'amplierà ancora in avvenire, ma per non giunger mai in questa vita terrena ad abbracciarne pur l'idea del complesso. La chimica e la fisica hanno allargato di molto alla cognizione umana il campo della scienza della natura: le meraviglie dell'elettrico e del magnetismo afferrate dallo studio di questo secolo sarebbero parse cosa sopranaturale alla poca scienza dei nostri padri; la poca scienza di noi rigetta ancora fra le favole e le illusioni fenomeni cui non solo crederà ma spiegherà, come ha spiegato la legge dell'attrazione, la scienza dell'avvenire. Nulla dunque di sopranaturale, bensì di sottratto alla volgarità comune dei sensi dell'uomo...

— Come vuoi: soggiunse Giovanni: ma pur tuttavia mi ammetterai che questi sensi, per quanto volgari, sono dati all'uomo perchè, mercè l'aiuto della ragione, colla potenza riflessiva e critica, e' si faccia capace di tutta quella verità cui possa arrivare. Quando la immensa maggioranza degli uomini, e con a capo di questa alcuni eminenti per ingegno e per istudio, affermano che certi fenomeni sono tutt'altro che esistenti nella realtà naturale delle cose, noi abbiamo un elemento di giudizio irrefragabile per credere piuttosto che la verità è dalla parte di codestoro. Tu mi dirai: sono invece i pochi dall'altra parte che, avendo una organizzazione speciale e più eletta, vedono e sentono meglio e più in là della grossolanità sensitiva della comune degli uomini. Ma chi ci può affidare della verità di siffatta ipotesi? È pur cosa posta in sodo che il cervello umano è, in parecchi individui ed in parecchi casi, soggetto all'allucinazione; nè tu vorrai darmi per apprensioni di alcuna parte di vero i delirii della febbre e della pazzìa, le chimere d'un fantasticante, le immagini dei sogni.

— Chi sa? Ve ne possono essere dell'una e dell'altra sorte: fallacie del senso intimo e fugaci visioni guaste dal mezzo ambiente o dallo stromento apprensivo.

— Ma quale allora la stregua a misurare il grado di attendibilità di queste manifestazioni e sceverarne i vaneggiamenti dalle realtà?

— Quale? Quella ragione che tu invocavi poc'anzi colla sua critica riflessiva.

— Ma la ragione comincia per dire a me che tutto questo è un assurdo.....

— Ciò non è la ragione che lo dice; è un pregiudizio. Se tu, a mezzo del secolo scorso, avessi detto all'uomo più colto di quel tempo di criticismo e di acume osservativo, avessi affermato ad un enciclopedista che sapevi un mezzo di dar moto e spasimi ad un cadavere, il tuo ascoltatore, che voleva appunto mettere in seggie la natura e gettare abbasso tutto ciò che credeva all'infuori di lei; egli che non aveva ancora il menomo sentore del galvanismo, ti avrebbe risposto crollando le spalle che la sua ragione gli diceva la tua assertiva essere un assurdo.

— La ragione, se non altro, mi dice fondatamente che quando d'un fenomeno si può dar la spiegazione che entra nei limiti delle leggi e delle regole conosciute, è pericoloso e nocivo, o quanto meno, è vano andar cercandone di strane spiegazioni che turbano ad ogni modo la logica di quel complesso di regole e di fatti cui comprende l'uomo sotto nome di natura...

— Ne turbano il falso e ristretto concetto; si armonizzano invece in una più ampia apprensione dell'opera di Dio... E quando poi la ragione ti dicesse che colla spiegazione dei tuoi limiti e regole conosciute non si spiega niente?...

— Aspetterei allora a pormene il quesito; e prima di ammettere che la scienza positiva ha torto, vorrei anzi ammettere che la mia intelligenza o il mio organismo sono in difetto. Del resto io vado molto guardingo nel riconoscere la realtà di questifatti non ispiegabili colle norme della nostra conoscenza scientifica moderna. Il più delle volte tali avvenimenti non sono niente affatto certificati. Ora qui, nel caso nostro, mi trovo a fronte una tua affermazione, a cui mi piace e devo prestare ogni credenza. Ma del fatto così provato nella sua materialità, lasciami cercare la ragione in quei fenomeni che per me sono naturali, non in quelli che eccedono la comprensione ch'io posso avere della natura. Se questa ragione la trovo in tal modo, perchè non mi vi acqueterei più volentieri che non in un ordine nuovo di fenomeni e di leggi a cui ripugna il mio intelletto, e di cui la scienza non mi dà la menoma prova?

— Udiamo adunque la tua spiegazione materialista: disse Maurilio col suo strano sorriso.

— Eccola. Lungo tutta la giornata la tua mente era rimasta fissa in un solo pensiero, la tua anima ferma in un solo desiderio: il pensiero di lei, il desiderio di saperne il nome. La passione, fattasi, appena sorta, gigante nel tuo cuore, la tensione continua della facoltà pensativa, l'effetto straordinario e profondo che fecero sulla tua natura impressionabile una stupenda musica primamente udita, un nuovo spettacolo non visto mai, cagionarono in te quel certo eccitamento nell'organo cerebrale, cui produce con più o meno differenza ed intensità la ebbrezza dei vapori alcoolici, il delirio della febbre, il misterioso fenomeno del sogno, quello stato speciale morboso della parte intellettiva pel quale certe fantasmagorie soggettive prendono proporzioni e natura di cose estrinseche, oggettive e reali. Tu non avevi pensato ad altro di tutto il giorno; era naturale che sognassi di codesto; il tuo organismo è disposto a queste astrazioni della fantasia ed a far concreti questi fantasmi del tuo cervello; nulla di più naturale che ciò succedesse in siffatta occasione e con tanto maggior potenza di verosimiglianza. Tu non hai visto che le idee del tuo cervello prender corpo apparentemente all'infuori di te nella lanterna magica d'un sogno, riflessione anormale ed inconscia del tuo pensiero.

Maurilio scosse la testa, sorridendo ancora a quel modo.

— E come va che questo sogno, che questa riflessione anormale, che questa fantasmagoria morbosa, o come vuoi chiamarla, mi apprese una verità che ignoravo? Poichè il fatto è che quel nome erami del tutto ignoto, e quello dettomi dall'apparizione fu il vero.

Giovanni esitò un poco per cercare una ragione.

— È un indovinamento, disse poi, che forse non si deve che al caso.

— Ah! il caso? Esclamò Maurilio con accento di trionfo. Questa sì che è la spiegazione per cui non si spiega niente: questo sì che è il comodo mezzo d'uscir d'impiccio in ogni più grave quesito che vi affacci la natura e l'anima umana. La creazione? Il caso. L'armonia infrangibile di essa? Il caso. La presenza e la comparsa dell'intelligenza in mezzo al mondo della materia? Il caso..... No: questo cieco Dio, cui crea la cecità dell'uomo, non ispiega nulla. A seconda che sminuisce l'ignoranza umana si restringe l'azione e la potenza di questo nume senza ragione. Noi chiamiamo caso il risultamento di leggi che ci sono ignote così da non averne sospettato pure l'esistenza. Se l'umanità potrà progredire di tanto che legga in tutte le pagine del gran libro di Dio, il regno dell'azzardo, che mano a mano si rimpicciolisce, sarà del tutto scomparso.

Fece una pausa di pochi minuti, recandosi sovra se stesso e stringendosi colle sue grosse mani la fronte vastissima, come per raccogliervi ed ordinare le idee che vi si agitavano per entro. Poscia ad un tratto risollevò il capo e riprese a parlare con più forza, e direi quasi con più autorità:

— Ma non fu questo del nome di lei il solo vero che il mio benigno spirito in quella notte memoranda mi apprese. Ti ho detto che sotto all'influsso di quell'eccelso amore, già la fede aveva ripreso a picchiare alle porte della mia intelligenza per abbattervi la negazione trincieratavisi col sofisma, già aveva invaso l'anima mia colla ineffabile forza dell'affetto; ma difettava tuttavia la ragione logica e suprema che coordinasse gli elementi sparsi, che chiarisse i confusi, che assodasse i dubbi di quel sistema completo di credenze onde si compone la scienza prima dell'uomo: quella di Dio, dell'essere dell'anima nostra e del suo destino. L'amoroso spirito delle mie visioni mi formolò nella parola umana la verità apprensibile dal nostro limitatissimo intelletto dell'essere e della ragion delle cose. Vuoi tu udirla o Giovanni?

— Sì, sì, con molto piacere: esclamò Selva che, non ostante la sua sino allora conservata indifferenza e quasi dovrebbe dirsi ripugnanza a tutto ciò che sapeva di metafisica, di superiore cioè alla ristretta materialità della creazione, sentivasi pur tuttavia vivamente interessato come da una nuova curiosità che ne avesse assalito lo spirito. Parla, chè io ti ascolto con ogni attenzione, non rinunciando certo al diritto di critica della mia ragione, ma non disdegnando a priori le allegazioni e gli argomenti della tua credenza.

Maurilio, senza prepararvisi dell'altro, cominciò a parlare.


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