BALIA. Che fretta! orsú, mi parto.
EROTICO. Vorrei l'avessi fatto prima che detto. (Veggio Pardo venir alla volta mia, e stimo che venghi a ragionarmi delle nozze: non vorrei che, veggendomi ragionar con una vecchia, entrasse in sospetto che stessi innamorato).
BALIA. (Il cacciarmi che fa Erotico con tanta fretta da sé, mi fa sospettar qualche male. Veggio Pardo andar verso lui: qualche trama v'è).
PARDO. (Veggio Erotico; e mi par certo un gentil giovane: vien a me, vo' riceverlo come figlio). Ben venghi il mio caro Erotico, il mio carissimo figliuolo.
EROTICO. Dio vi accresca salute e vita, mio carissimo padre e padrone: padre in amore, padrone in riverenza. Vo' baciarvi le mani.
PARDO. Non mi fate questo torto, ché non lo comporterò: volete vincerla pure?
EROTICO. Perché è mio debito di farlo.
PARDO. Poiché dite che mi sète figlio, potrete trattarmi come vi pare.
EROTICO. E voi usando questi termini di cerimonie con me, è un quasi non tenermi per quell'amorevol figlio, che dite che io vi sia.
PARDO. Copritivi.
EROTICO. Desiderava in atto di riverenza star cosí; ma, poi che volete che mi cuopra, mi coprirò, essendo l'ubbidire un termine di creanza.
PARDO. Cosí merita un par vostro, nobile, ben creato e virtuosissimo.
EROTICO. Troppo gran cose stringete in breve fascio. Ma io vi resto con tanto maggior obligo, quanto meno conosco di meritarlo.
PARDO. Giá stimo che Trinca mio servo e Attilio mio figliuolo v'abbino detto quanto desiderio io abbia di apparentar con voi…
EROTICO. Ed il desiderio, che ho di servirvi, è cosí vivo e ardente, che non so che fare che da voi fossi creduto.
BALIA. (Fanno fra lor molte belle parole: vediamo dove riusciranno).
PARDO. … e però darvi Cleria, la mia figlia, per moglie. …
EROTICO. Conosco non meritarla per le sue rare qualitá; ma l'accetto per l'affezion che le porto, e per desiderio che ho di servirla.
BALIA. (Ohimè, parlano di dargli Cleria per moglie!).
PARDO. … E stimo ancor che v'abbino riferito, che non son per darle dote altrimente.
EROTICO. Mi basta la dote delli suoi meriti, la qual è piú tosto soverchia che bastevole; e io mi terrò ricchissimo, se mi vedrò possessore di sí infinito tesoro di grazie: onde mi parrebbe farle gran torto se non la rifiutasse.
PARDO. Io parlo chiaramente; ma contrastiamo dopo fatto il matrimonio.
EROTICO. Io non posso trovar modo in ricompensar tanto beneficio, che mi si fa, in darmisi Cleria; e per mostrar quanto mi sia grata la parentela, io rifiuto ogni dote.
BALIA. (Ragionano delle nozze di Cleria; e dice non voler dote. Giá si confrontano i contrasegni).
PARDO. Stimo che abbiate visto Cleria, per saper se vi piace la sua bellezza.
EROTICO. L'ho vista, e mi piace tanto, che non mi piacque altra giamai altro tanto. Cosí avesse auto ella maggior fortuna di aver conseguito sposo di maggior merito ch'io non sono, come ella è stata favoritissima dalla natura cosí delle bellezze del corpo come di quelle dell'animo.
PARDO. Ve l'ho dimandato, perché so che avete gran tempo seguita Sulpizia, la nostra vicina; e non vorrei, dopo aver sposata la mia figliuola, tornaste a lei, che mal agevolmente si scordano i primi amori.
EROTICO. Se ben molte volte m'avete visto passar per costá, l'ho fatto piú per passatempo che per amor che portassi a Sulpizia; e vi giuro che mai mi piacque.
BALIA. (O Dio, che parole son quelle che sento? or chi crederebbe che fussero uscite da quella bocca, dalla quale poco innanzi ne son uscite l'altre di sí contrario tenore?).
PARDO. Io non vorrei che la lingua fusse differente dal core.
EROTICO. Cavata mi sia la lingua insieme col core, se non è vero quanto io vi dico.
BALIA. (Aiútati, lingua, avviluppa bugie e giuramenti, per ingannar qualche altra poverella).
PARDO. Perdonatemi, se ne dimando con tanta instanza, perché dubito che, per qualche sdegno o martello passato tra voi, vogliate tor mia figlia. Io non ho altra che costei; e dandole un marito che sia stato innamorato di un'altra, non saria fra loro un contento giamai, però vi prego a dirmelo liberamente.
EROTICO. Voi che mi sète padrone, potete comandarmi, non pregarmi.
PARDO. Li vostri pari si pregano, non si comandano.
EROTICO. Piú grazia ne ricevo quando mi comandate, che non è il servigio che vi servo. Ma s'io amai giamai Sulpizia, faccia Idio che non conseguisca alcun desiderio; né son per amarla per l'avvenire, ché sempre piú tosto l'ho odiata che amata, e m'ho fatto beffe di lei. Ho ben amata la vostra Cleria dal primo giorno che la viddi; ma il rispetto dell'amicizia fra me e Attilio me ha vietato che non lo scoprisse, per non offenderlo con la mia indegnitá. Ma, poiché da voi mi vien offerta, apro il cuore e ve lo paleso.
BALIA. (Ahi, lingua traditrice e bugiarda, che ti sia cavata insin dalle radici! non bastava affermarcelo cosí semplicemente, se non confirmarcelo con giuramento?).
PARDO. Talché posso assicurarmi che non amate Sulpizia?
EROTICO. Di grazia, caro padre, non me la nominate piú, se non volete che la biestemme.
BALIA. (O povera Sulpizia, disamata, beffata e bestemmiata).
PARDO. Veramente, io non vi facea altra difficultá in queste nozze: non l'ho voluta conchiuder con mio figlio, fin che da voi non me ne fussi certificato, ch'io temea sempre di Sulpizia.
EROTICO. O maladetta sia Sulpizia! …
BALIA. (Tu solo, e chi generotti!).
EROTICO. … che fosse morta …
BALIA. (Tu ucciso, e morto!).
EROTICO. … e squartata!
BALIA. (E tu fatto in mille pezzi!).
PARDO. Or che me ne sono assicurato, datemi la mano in segno del matrimonio.
EROTICO. Ecco, volentieri ve la porgo.
PARDO. Ed io la stringo e bacio, in segno di parentela. Non manca altro che al tardo vengati col prete, e la sposiate. Mangiaremo cosí alla domestica, e non facciamo come certi ignoranti, che nel banchetto spendono la metá della dote.
EROTICO. Maggior grazia riceverei, s'andassimo a sposarla ora.
PARDO. Andiamo fra tanto al sarto per le vesti.
EROTICO. Andiamo dove comandate.
BALIA sola.
BALIA. O mondo immondo, o mondo tutto pieno di fallacie e d'inganni, or chi può vivere in te, che sia sicuro dalle tue insidie? O etá maladetta, o crudeltá, o barbarie, che a pena può adeguarsi col pensiero! O Erotico infidele e disleale! O Sulpizia troppo sincera e amorevole, per non dir troppo semplice e troppo sciocca! Dove è la fede che con tanti giuramenti fu data, e che tu osservata l'hai con tanta costanza dell'amor tuo? Taccino, come indegni di conversar fra gli uomini, coloro che incolpano le donne di volubilitá e d'inconstanza. Ite voi, donne, fidatevi de' giovani del tempo d'oggi, e massime di costoro di prima barba, larghi di promesse e ricchi di giuramenti, che in un punto amano e disamano, come li va il cervello: sono come i sparvieri, avidi sempre di nuove prede, che, se bene han un uccello preso nell'unghie, se ne veggono un altro, lasciano quello che hanno, per acquistar quello che va volando. Ecco perché Erotico mi scacciava da sé: e che trattava cosa buona per lei, e che molto l'importava. Misera Sulpizia! come restarai, poveretta, rinchiusa in una camera, mentre durerá la tua vita, a pianger la colpa della tua sciocchezza, d'aver creduto ad un uomo, con freggio d'infamia da non risanarsi piú mai. E come duo occhi suoi soli potranno piangere tanta sciagura? Ma ella volgerá la colpa sovra di me, come che del tutto sia stata cagione: si dolerá di me, mi biestemmará, come consigliera e adiutrice. Ma chi non arebbono ingannata tante lacrime, tanti suspiri e tanta ostinazione di star i mesi e gli anni intieri, di giorno al sol dell'estate, e le notti intiere al freddo, alle pioggie e a' tuoni dell'inverno? Non ho cuore di darle tal nuova: so che gridará, tramortirá, spiritará, diverrá forsennata. O Iddio, aiutaci tu, che puoi.
TRASIMACO. Quanto piú desidero Gulone, men lo posso incontrare…
TRINCA. (Per trovar il padron, vo cercando per le strade, ed egli deve star rinchiuso in camera. Ma veggio il capitano con le sue solite e accessorie stravaganze. Oh, come viene a tempo! credo che succederá il negozio, poiché ogni cosa mi cade a proposito).
TRASIMACO. … per dimandargli se son concluse le nozze. …
TRINCA. (Senza che gli ne dimandi, son sconchiusissime).
TRASIMACO. … Ché, accapandosi per sua cagione, s'acquisterá l'amicizia mia e quella di Pardo. …
TRINCA. (Io porrò tra voi tanta discordia, ch'in eterno sarete inimici).
TRASIMACO. … E sarò possessore d'una donzella bellissima. …
TRINCA. (La donzella la deve aversi in corpo, e non è boccon da tuoi denti).
TRASIMACO. … So ch'a lei sará caro, quando saprá ch'io la ricerco.
TRINCA. (Non bisogna sperarci, ch'altri la possiede prima di te).
TRASIMACO. Veggio il servo della sua casa, ne dimandarò costui.
TRINCA. (Fingerò non conoscerlo, per fargli piú creder quanto dico).
TRASIMACO. Dimmi, galante uomo, Gulone è in casa vostra?
TRINCA. Potrebbe ben essere, ché il mio padrone ha gran piacere quando dice mal d'altri.
TRASIMACO. Mi sapresti dir se ragiona mai dell'eroiche virtú d'un capitano?
TRINCA. Chi capitano?
TRASIMACO. D'un detto il Fracasso che ritrovandosi l'altro giorno in mezo un squadron di scavezzacolli e di tagliacantoni, che lo volevano assassinare, egli scagliandosi in mezo a tutti, s'incanò talmente, che a furia di crudeli fendenti, di orrendi mandritti e di orribili stoccate, cacciandosegli innanzi, li ruppe, li fracassò e pose tutti in scompiglio. …
TRINCA. Sí, sí, d'un certo capitano che certi mascalzoni vennero per assaltarlo, ma ch'egli si salvò con una bella ritirata.
TRASIMACO. … Ed una notte, incontrandosi con birri che gli voleano tor l'armi, minuzzò il capitano con tutta la birraria.
TRINCA. Mi ricordo che disse, che s'incontrò una notte con un bastone, che gli assettò molto bene il giubbone adosso.
TRASIMACO. Dico di certe sue virtú illustri.
TRINCA. Sí, sí, ch'era un gran musico…
TRASIMACO. Come musico?
TRINCA. … che cantaria molto ben laGirormettasu la striglia, che l'avea cantata tutto il tempo della sua vita.
TRASIMACO. Non sará quel capitano che dico io.
TRINCA. Un certo capitan Sconquasso o Fracasso o Babuasso, che s'avea posto questi nomi per spaventar le genti; che porta certi mustacci ingrifati e i peli della barba rabbuffati, con una ciera torta; e che parla con certi paroloni.
TRASIMACO. Non me ne sazio, se non darò essempio a' pari suoi, se non sarò un specchio a gli occhi di ciascuno. Non basterá il cielo a scamparlo dalle mie mani, ancor che fiammeggi di lampi, ancor che rimbombi de tuoni. Non so se fra tanto potrò sospender lo sdegno.
TRINCA. Sará forse vostro amico?
TRASIMACO. Non lo conosco. Passate innanzi.
TRINCA. Non vorrei che v'adiraste meco.
TRASIMACO. Dio te ne guardi, ché caderesti morto.
TRINCA. Ve l'ho dimandato, perché m'avete cera di capitano.
TRASIMACO. Son cosí in fatti, come vi paio in ciera.
TRINCA. E bisogno che rida, per non andar in pericolo di crepare.
TRASIMACO. Di che ridete?
TRINCA. Di nulla.
TRASIMACO. So che non sète matto, che di nulla ridete; ditelo, di grazia, se pur qualche obligo non contende questa mia curiositá!
TRINCA. Non è obligo di secretezza che possa impedirmi che non vi compiacessi; ma desidererei che non lo ridiceste ad altri, ché m'impediresti di non udir piú da lui delle sue castronerie.
TRASIMACO. Che Marte sia irato con me, né mi dia forza di spopolar cittá, di sconfigere e disfar eserciti, se lo ridico; e perdonate alla mia curiositá.
TRINCA. Egli l'onora di molti illustri titoli: d'un venerabil asino, e tanto grande, che basta per sei asini; di buggiardo, e che le veritá le tiene tanto secrete in corpo, che ci han fatto la ruggine; che non soffiò mai vento d'ambizione che non soffiasse in quel ballon del suo capo; e che nel tribunal della poltroneria, se si avesse a determinare chi fusse il magior poltron del mondo, senza dubio arebbe la sentenza in favore, perché basterebbe la sua poltroneria ad impoltronire tutti i poltroni del mondo; e che combatte piú con la lingua che con la spada…
TRASIMACO. Benissimo.
TRINCA. … e che la sopraveste della sua nobiltá è un ragazzame. Dice che suo padre fu giudeo, sua madre lavandaia, sua ava puttana, suo zio boia ed egli ruffiano; che si tinge la barba per parer giovane; che li pende tra le gambe una borsa quanto una zucca; che ha mal francese di sette cotte; e che si vanta che il re di Francia lo vuol per suo compagno, stipendiato dal re Filippo, presentato dal Gran Turco, ma che si crepa della maladetta fame…
TRASIMACO. Perché sparlar tanto di questo poveretto? che li venghi la peste alla lingua!
TRINCA. … Dice che l'invita a mangiar seco, e non mangia altro che vessiche sgonfiate; e che è tanta la sua spilorceria e spedaleria, che si parte morto di fame.
TRASIMACO. Come può cicalar tanto?
TRINCA. Ha lingua per sei cicaloni.
TRASIMACO. Non devrebbe pratticar con lui.
TRINCA. Dice che ci prattica per udir quelle sue millanterie, e se prende spasso de fatti suoi. Onde il padrone in modo se trafisse queste cose nel capo, che non sarebbe possibile cavarnele piú.
TRASIMACO. Mi avete detto a bastanza, perché la materia abonda troppo.
TRINCA. È piú di quello che mi avete dimandato.
TRASIMACO. Se posso ricompensar la fatica che avete durata per me, comandate e sarete servito.
TRINCA. È stato poco per sodisfar al debito mio con un par vostro.
TRASIMACO. Restate in pace, buon rivelante.
TRINCA. Andate in buon'ora, buon ascoltante, ser capitano.
PEDOLITRO vecchio.
PEDOLITRO. Ringraziato sia Idio, che pur son gionto al fin del mio viaggio, che son a Nola, patria mia. O Dio, che pericoli, che strazi, che fatiche, che spese! mangiar male, ber peggio, dormir in terra, assassinato dagli osti, da ladri, da fuorusciti e da vettorini. Oh, quanto si patisce fuor di casa sua! non lo può credere, se non chi lo soffre. Veramente, gran bisogno me ne trasse fuori, riscattar un figlio unico di man di turchi. Ma niuna altra cagione me ne caverá fuori, né figli né padri né anco per me stesso. Mai parea che finisse il viaggio, sempre ne restava a far piú del fatto. Le gambe ne han patito la penitenza. Mi vedo gionto a casa—e nol posso credere, né men che sia vivo, ma che qui sia gionto lo spirito mio. Ma chi è costui che vien in qua? certo è Pardo, mio antico amico. O, ben, che ho da trattar con lui. Signor Pardo, siate il ben trovato, non mi conoscete? Son Pedolitro vostro amico.
PARDO. Pedolitro.
PARDO. Chi si potrebbe conoscere cosí vecchio? e poi vestito alla turchesca? che sète stato prigione o ammalato, che avete cosí vigliacca ciera? perdonatemi, cioè macra e scolorita.
PEDOLITRO. Il mal mangiare, il peggior bere e il molto patire.
PARDO. Le tue vesti?
PEDOLITRO. Me l'ho mangiate in Turchia.
PARDO. In Turchia se mangiano vesti?
PEDOLITRO. L'ho vendute e impegnate all'osterie per mangiare. Ma io mi rallegro che vi vedo piú allegro e giovane che non vi lasciai.
PARDO. Donde si viene?
PEDOLITRO. Da Costantinopoli, per riscattar questo mio figlio che da bambino mi fu rapito da' turchi.
PARDO. E voi ancor ben venuto, caro figlio.
PEDOLITRO. Io rispondo in sua vece, ché non sa parlar italiano: Che siate il ben trovato.
PARDO. Ho grande allegrezza che siate tornato salvo.
PEDOLITRO. L'allegrezza vi si raddoppiará, ch'io vi porto una buona nuova di lá.
PARDO. Che forse il turco non arma alla primavera, e non infesterá le nostre marine?
PEDOLITRO. Dico, buona per voi.
PARDO. Voi siate il ben tornato, portandomi alcuna buona novella.
PEDOLITRO. Costanza vostra moglie vi saluta.
PARDO. Che forse dall'altro mondo?
PEDOLITRO. Che altro mondo? io non so altro mondo che questo, né mai mi son partito di qua.
PARDO. A che rinovellarmi la memoria e darmi questo dolore? ché mai mi ricordo della sua morte, ch'io non volessi esser morto mille volte. Costanza cara, io che fui cagion della tua rapina, son libero, e tu, per venir al mio comando, sei schiava. Oh, quanto la meritarei io la servitú che per me tu hai patito!
PEDOLITRO. Voi piangete la viva, come fusse morta.
PARDO. Come viva?
PEDOLITRO. Come la stimate voi morta? se non è morta fra duo mesi, che son di lá partito, ella è piú viva e piú gagliarda che mai.
PARDO. Ti fai beffe di me.
PEDOLITRO. Anzi, mi par che voi vi facciate beffe di me. Ma chi v'ha detto che sia morta?
PARDO. Attilio mio figlio e Trinca servo, i quali ho inviati col riscatto in Constantinopoli per lei e per Cleria mia figlia; e son alcuni mesi che son tornati di lá, e ha menato seco Cleria sua sorella, e mi ha riferito che Costanza era morta quattro anni sono; che se fusse stata viva, l'arebbe riscattata e condotta a Nola.
PEDOLITRO. Anzi, ella è viva e sana; e di vostra figlia non si sa nova se sia morta o viva piú di dieci anni sono, ma si tien per fermo che sia morta; ch'un sangiacco, cui ella serviva, l'avea menata fuori; e si dubita, per la gelosia della moglie, che l'abbia avvelenata, che vostra moglie n'ebbe a morir di dolore.
PARDO. Strane cose mi dite. Cleria è in mia casa; e il mio figlio e servo me l'han referito, quanto io vi referisco.
PEDOLITRO. Ed io vi dico che tutto vi è stato falsamente referito, perché conosco vostra moglie, a Nola, prima che vi fusse rapita, e la conosco pur quattro anni in Constantinopoli, dove mi son fermato per riscattar il mio figlio. Anzi, né di vostro figlio né del servo ho inteso cosa alcuna in Constantinopoli.
PARDO. Quasi che Constantinopoli fusse Nola, che si può saper chi vi cápiti.
PEDOLITRO. Se ben Constantinopoli è una cittá grandissima, e piú di Napoli, le domeniche noi tutti cristiani ci veggiamo nel tempio di santa Sofia, dove ci ragguagliamo e consigliamo delle nostre fortune e ci aiutamo l'un l'altro.
PARDO. Quanto piú dite, men vi credo.
PEDOLITRO. Ma a che proposito volervi dir queste bugie? Ma io non vo' che mi crediate. Eccovi una lettera che vi manda: conoscete la sua mano?
PARDO. Questa è la sua mano. O Dio, che stretta mi sento all'anima, che mi restò scolpita in mezo al cuore. Volesse Iddio che tu fussi viva, che verrei io in persona a riscuoterti; e quando non potessi, soffrirei in tua compagnia i tuoi dolori. Da che ti perdei, posso dir che non ho avuto un piacer in questa vita; e non meno l'ho amata morta, che l'amai viva.
PEDOLITRO. Leggetela, e vedete quanto vi scrive; e conoscete, quanto vi ha referito vostro figlio e il servo, tutto è bugia, e quanto vero sia quel che vi dico.
PARDO. Mi avisa avermi scritto molte lettere, e di niuna mai averne ricevuta risposta, né per lei esser mandato il riscatto; che spera esserle donata la libertá, e voler venirsene sola, come meglio potrá.
PEDOLITRO. Credetemi ora?
PARDO. Ed accioché voi crediate esser vero quanto vi ho detto, vo' che ragionate con mia figlia. Olá, fate venir qua Cleria per cosa che molto importa.
PEDOLITRO. Fatela calar, ché mi piace che non troverete altro di quel che vi dico: che Costanza vostra moglie è viva, e di Cleria non si sa novella.
CLERIA. Padre, che comandate?
PARDO. Costui è venuto da Turchia…
CLERIA. (Infelice me! costui sará venuto a far riscontro s'è vero che sia Cleria, e quanto falsamente l'abbiamo dato ad intendere).
PARDO. … e dice che Costanza sia viva.
CLERIA. (Che affermarò? che negherò? io non so che debba affermar, né negare, né che mi fare. Oh, fosse qui Trinca!).
PARDO. Dimandatela voi.
CLERIA. (Bisogna star in cervello). Volesse Dio che Costanza mia madre fusse viva! Ma voi come lo sapete?
PEDOLITRO. L'ho vista con questi occhi in Constantinopoli; e si duol del suo marito che in tanto tempo non abbi mandato a riscuoterla, e che Cleria sua figlia non sa se sia morta o viva, ma stima che piú tosto sia morta.
CLERIA. Voi dite cose impossibili, e sète cosí bugiardo nell'uno come nell'altro. Mia madre, che so che è morta, dici che sia viva; e io, che viva sono, dici che morta sia.
PEDOLITRO. Io non ci ho, in questo, interesse alcuno, né per conto d'interesse direi la bugia: e non essendo di natura bugiardo, godo nel dir la veritá.
CLERIA. Dice che Cleria sia morta, e io viva sono: il testimonio t'è presente.
PEDOLITRO. Ed io ti dico che tu Cleria non sei. Ma tu conosci chi son io?
CLERIA. Certo, no.
PEDOLITRO. Tu non sai chi sia io? riconoscimi bene.
CLERIA. Quanto piú penso, men ti riconosco.
PEDOLITRO. Perché schivi che gli occhi tuoi s'incontrino con i miei? ti vergogni, ti arrossisci e impallidisci.
CLERIA. Perché odo cose di meraviglia.
PEDOLITRO. Ed io ti conosco molto bene in casa di Pandolfo napolitano, che tiene alloggiamento in Veneggia, dove sogliono alloggiare tutti i peregrini napolitani.
CLERIA. Che Pandolfo? che alloggiamenti? Quanto piú segni mi dái, men t'intendo.
PEDOLITRO. Che parlo arabico o tartaresco? Fai della stordita, per non accettar la veritá.
CLERIA. Fai tu del cattivo, per farmi accettare il falso.
PEDOLITRO. Non m'hai servito duo mesi in casa di Pandolfo in Vineggia, quando cadei infermo duo anni sono?
CLERIA. O Dio, che ascolto!
PEDOLITRO. Dico che tu sei Sofia, intendi? a chi dico io?
CLERIA. Non dici a me, che Sofia non sono, però non rispondo.
PEDOLITRO. Mi piace piú tosto dispiacer a te e dir il vero, che piacer a molti e dir il falso: dico che tu sei Sofia sua serva.
PARDO. Non è meraviglia se t'inganni, ché nieghi il nome di Cleria e le dái quel di Sofia: nieghi quel che vedi, e non conosci quel che ti sta innanzi.
PEDOLITRO. Anzi, ella dice esser quella che non è, e niega quella che sia; e ancora persevera nella bugia.
CLERIA. Anzi, tu pur ardisci d'infamarmi, che sia serva d'un alloggiatore.
PEDOLITRO. Non sei dunque Sofia? poveretta, perché inganni te stessa?
CLERIA. Non piaccia a Dio che fussi Sofia, che tu dici, che sería serva d'altri e non figlia d'un gentil uomo.
PEDOLITRO. Ancor credete a costei?
PARDO. Le stracredo.
PEDOLITRO. Qual cagion vi muove, che crediate piú a costei che a me?
PARDO. Io credo al mio figlio e al mio servo.
PEDOLITRO. Fate male a credere a questi: guardatevi che non v'ingannino.
PARDO. Chi è dunque costei?
PEDOLITRO. Colei che vi dissi da principio.
PARDO. Costei non è Cleria?
CLERIA. (Cosí ti avesse rotto il collo per la strada!).
PEDOLITRO. Non so perché mi cenni e mi fai cert'atti: che mi vuoi significare?
CLERIA. Io cenni? io atti? veramente sei fuor di cervello.
PARDO. Orsú, non moltiplichiamo in parole: figlia, sali su. Tu,Pedolitro, poiché sei forastiero, vieni a desinar meco.
PEDOLITRO. Ho desinato. Andrò per saper alcuna novella de' miei.
PARDO. Potrete voi e vostro figlio fermarvi in casa mia e riposarvi, e poi a bell'aggio andar cercando de' vostri parenti.
PEDOLITRO. Non mi trattenete piú, di grazia.
PARDO. Almeno lasciate vostro figlio in casa mia, e voi andate cercando. Se li trovate vivi, verrete per vostro figlio; se non, restarete ad alloggiar meco.
PEDOLITRO. Questa cortesia accetto, che mio figlio resti con voi, mentre andrò cercando.
PARDO. Veramente, la venuta di costui m'ha posto in grandissima confusione; la mano di mia moglie è vera: perché costoro m'han detto, che sia morta? Dice che conosce costei in casa di un alloggiatore, e chiamata Sofia. A che proposito affermarlo cosí costantemente, se non fusse vero? E mi son ben accorto che arrossiva, impallediva, respondendo s'intricava, e non sapea quello che dicessi, e m'accorsi che l'accennava. Ma quello, che m'accresce il sospetto, è che in questo intrigo se ci trova intrigato il Trinca, che è il maggior trincato, furbo, allievo di forche, maestro di furberie. L'astuzia sua m'è di vergogna e di danno: e quando della vergogna poco conto ne facessi, ci è il danno di piú di cinquecento ducati. Ma ecco che vengono molto allegri. Vedrò come si risolveranno in questo fatto.
TRINCA. Padron, il vostro figlio sta in punto per le nozze, e vi priega che l'affrettiate.
ATTILIO. Sta medesimamente Erotico ad ogni nostro comando.
PARDO. Ben, chi vi disse che Costanza mia moglie era morta, e che Cleria fusse viva? Quando voi foste a Constantinopoli? perché non rispondi? Chi non risponde subbito, sta pensando alla scusa.
TRINCA. Come, non son stato io a Constantinopoli?
PARDO. Né tu né mio figlio.
TRINCA. Io non so come voi dite.
ATTILIO. (Ohimè, siamo rovinati!).
PARDO. Che rispondi?
TRINCA. Chi v'ha informato del contrario?
ATTILIO. (Come ti risolverai, Trinca?).
PARDO. Pedolitro, nostro cittadino, venuto ora di Constantinopoli, che ci andò quattro anni sono per riscuoter cotesto suo figlio; e mi ha recato lettera di mano di mia moglie che desia venire, e che di Cleria non si sa novella, molti anni sono. …
ATTILIO. (Mira la fortuna, a che ponto ha condotto costui di Turchia).
PARDO. … Dice che quella è Sofia, serva d'un allogiator in Vineggia: l'ho fatto affrontar insieme, e ce l'ha mantenuto in faccia.
ATTILIO. (Siamo spediti, non v'è piú rimedio. Trinca è perduto d'animo).
TRINCA. Padron, è cosí vero quanto v'ho detto, quanto l'amor che vi porto; e se trovarete il contrario, vo' che mi ponghiate in galera.
PARDO. Senza il tuo volere, ti ci porrò.
TRINCA. Vien qua tu: come tuo padre ha detto una buggiarda buggia? rispondimi. Vedete che tace.
PARDO. A che ti affatichi parlargli? non risponde, perché non intende l'italiano.
TRINCA. Gli parlerò in turchesco. Tu non mi scapperai. Cabrasciam ogniboraf, enbusaim Constantinopla?
ATTILIO. (O buon Trinca, o illustrissimo Trinca).
TURCO. Ben belmen ne sensulers.
PARDO. Che dice?
TRINCA. Che suo padre non fu mai in Constantinopoli.
PARDO. Dove dunque fu per riscuoterlo?
TRINCA. Carigar camboco maio ossasando?
TURCO. Ben sem belmen.
TRINCA. Dice che sono stati in Negroponte.
PARDO. Da Negroponte in Constantinopoli ci sono molte miglia.Dimandagli che camino han fatto per venire in Italia.
TRINCA. Ossasando nequet, nequet poter levar cosir Italia?
TURCO. Sachina busumbasce agrirse.
TRINCA. Dice che son venuti per mare, e non passati per Vineggia.
PARDO. O Dio, che umori stravaganti sono negli uomini! Che cosa ha spinto colui a dirmi cosí gran bugia, che sia stato a Vineggia, e portarmi una lettera di mano di mia moglie? Che mondo è questo?
TRINCA. Bisognarebbe far un mondo a vostro modo, o riformarlo. Han falsificato la mano di vostra moglie, per farvi qualche burla.
PARDO. Certo che dovea star ubbriaco; e giá lo tengo per tale, che stava rosso nel volto.
TRINCA. L'avete indovinata: e or gli lo vo' dimandare. Siati marfus naincon catalai nulai?
TURCO. Vare hecc.
TRINCA. Ho dettomarfusche vuol dire ubbriaco; ha detto che poco inanzi è intrato in una osteria nel viaggio, appresso Nola, e che ha bevuto molto bene, e che andava cadendo per la strada, e che appena or si potea reggere in piedi.
ATTILIO. (O Trinca divino, e come l'hai ben saldata!).
PARDO. Come in quelle due parole ha potuto dir tanto?
TRINCA. La lingua turchesca in poche parole dice cose assai.
PARDO. Orsú, ha voluto burlar Pedolitro. Quando ritorna, li vo' far un scorno da vergognarsene, e l'arò da oggi innanzi in quella opinione che si conviene. Andate a trovar Erotico; cercate Orgio, zio di Sulpizia, e diteli che stia apparecchiato per questa sera.
PEDOLITRO. Ho ritrovato vivo un mio fratello cugino; or vo' andar con mio figlio a casa sua. Della amorevole offerta, signor Pardo, ve ne resto obligatissimo.
PARDO. Pedolitro, la giusta cagion, che me ne dái, mi fa prorompere in tanta rusticitá. Ditemi si avete imparato in Turchia a beffeggiar gli amici.
PEDOLITRO. Né qui né in Turchia è convenevole.
PARDO. Perché darmi ad intendere che sète stato in Constantinopoli e visto mia moglie Costanza, e Cleria mia figlia chiamata Sofia e conosciutala serva d'un alloggiamento in Vineggia?
PEDOLITRO. Tal è, qual vi ho detto.
PARDO. Come l'avete vista in Vineggia, se voi non vi sète mai stato?
PEDOLITRO. Ci son stato a mio dispetto duo mesi infermo.
PARDO. Se sète stato in Negroponte e venuto in Napoli per mare, come sète stato in Vineggia?
PEDOLITRO. In Negroponte? e quando? chi v'ha detto queste bugie peggior delle prime?
PARDO. Tuo figlio.
PEDOLITRO. Come mio figlio ha potuto dirvele, se non sa parlar italiano?
PARDO. Trinca, il mio servo, l'ha parlato in turchesco, che l'ha imparato a parlar in Constantinopoli.
PEDOLITRO. Questo ha detto mio figlio?
PARDO. Anzi, di piú, che avete bevuto nell'osterie e state imbriaco, e non sapete dove abbiate il cervello.
PEDOLITRO. Mi fo la croce. Ierusalas adhuc moluc acoce ras marisco, viscelei havvi havute carbulah?
TURCO. Ercercheter biradam suledi, ben belmen ne sulodii.
PEDOLITRO. Dice che è vero che un uomo l'ha parlato, ma che non intendeva che dicesse. Comis purce sulemes.
PARDO. Perché dunque li rispondeva?
PEDOLITRO. Accian sembilir belmes mie sulemes?
TURCO. Accian ben cioch soler ben sen belmen sen cioch soler.
PEDOLITRO. Dice che, quantunque gli rispondesse e li dicesse che non intendeva quello che se li dicesse, pur gli parlava. Aman hierl cheret marfus soler, ben men comam me sulemes?
TURCO. Aman hierl cheret marfus soler ben men comam me sulemes.
PEDOLITRO. Dice che sempre diceamarfus; ma non possea imaginarsi che cercava da lui. Io stimo che il vostro Trinca sia un gran trincato e buggiardo e volpe vecchia.
PARDO. Dite voi che sia sí bugiardo?
PEDOLITRO. Ho errato in dir bugiardo, ma bugiardone.
PARDO. Voi accrescete l'ingiuria.
PEDOLITRO. Anzi dico bugiardissimo; anzi tengo per certo che vi abbi beffato.
PARDO. Non so che mi fa ostinato in saper la veritá di questo fatto. Di grazia, se mi amate, ditemi chiaramente se mi avete detto la veritá.
PEDOLITRO. V'ho detto la veritá, e ne torrei ogni pena per confirmarla, se ne fusse bisogno. Restate sano, che vo' andar a quel mio cugino.
PARDO. E voi andate salvo, poiché sète fatto libero.
PEDOLITRO. Ghidelum auglancic.
TURCO. Ghidelum baba.
PARDO. Io credo che si se cercasse per tutto il mondo fra vecchi canuti il piú balordo, stordito, goffo e scimunito, che sarebbe da me di gran lunga avanzato di balordaggine e di sciocchezza, perché m'accorgo che sono stato beffato, aggirato da quel furfante di Trinca e da mio figlio. L'esser stato credulo n'è stato cagione; e con aver sempre creduto che le bugie accompagnano ordinariamente le sue parole, e che mi voleva ingannare, non m'ha giovato crederlo. Ma s'io non me vendico, creda egli certissimo che sia goffo da vero, come mi stima. M'ha fatto sborsar trecento scudi e fattomi re de danari; ma io lo farò diventar re di bastoni. Mi vergogno di me stesso, ardo d'ira e di sdegno, ma suspico che trama d'amore ne sia cagione. Ma ecco mi sovragionge quest'altra seccaggine del capitano. Non so che voglia questa bestia da me; fuggirò per quella strada.
TRASIMACO. Fermatevi, gentiluomo, nella cui figlia è fondato il trionfo della illustre mia generazione.
PARDO. Ho da far altro, perdonatemi.
TRASIMACO. Sappiati che gli occhi balenanti e altitonanti di vostra figlia han fatto piú effetto nel mio cuore, che le bombarde e artigliarie ne' fianchi de' baluardi: onde io, che prendo le cittá, castelli e campi, son preso e ligato dalle sue bellezze. Sí che, deposta l'orribilitá del mio rigore e ammollita la feritá, vengo a chiederlavi per moglie, per non far mancar al mondo la razza de pari miei, e far una dozina di Marti, un'altra di Bellone, di Orlandi e di Rodomonti, e arricchirne il mondo: onde può tenersi la piú fortunata e felice donna che viva, e cosí voi a cui non poca autoritá vi recará la qualitá della mia persona.
PARDO. Non ho tempo da spendere in chiacchiere.
TRASIMACO. Fermatevi, dispetto di Marte. Si trattengono a ragionar meco la maestá di quel di Spagna e del Gran Turco, e voi non vi degnate ascoltarmi.
PARDO. Spedetela in brevi parole.
TRASIMACO. Quanto v'ha detto di me quel furfante di Gulone, tutto è mentita.
PARDO. M'ha detto che sète un gran capitano e ricco e veritiero.
TRASIMACO. E se fosse un par mio, lo disfidarei, nudo, con meza cappa, ad uccidersi meco in un steccato, ché per manco d'un pelo ci son entrato cinquanta volte.
PARDO. Poco me se dá.
TRASIMACO. E son cavaliero da tutti i quarti: cerchesi nel mio parentado, tutte son croci di Malta, di S. Stefano, di S. Giacomo e di Calatrava.
PARDO. Forse dubitavano che non li fusse pisciato adosso.
TRASIMACO. E quando veniva a mangiar meco, ho fatto come son solito di far a' miei squadroni: il pan a monti, i buoi a quarti, i capretti a squadre, il vino a botti: e se butta piú in casa mia, che non se ne vede in quelle de' gran signori.
PARDO. Ben bene.
TRASIMACO. E vo' che veggiate che conto tengono di me i principi del mondo: ho pieno il petto, i calzoni e le valiggie di lettere che mi mandano. Ecco quella a punto del Gran Turco: All'illustrissimo e strenuissimo cavaliero, il capitan Trasimaco de Sconquassi, mio carissimo amico e generalissimo delle mie genti. Ecco quella del re Filippo: Al venerabilissimo e stupendissimo capitan Sconquasso de Sconquassi de Squassamenti, miolugar tenientee general de' miei esserciti. Ecco quella del re di Francia: Al mio amatissimo Colonello e Maestro, sotto il quale ho imparato la milizia. Ecco quella de' veneziani e di altre republiche, ch'io non ne tengo conto; e io non son uomo di bugie, ma m'è cara la veritá.
PARDO. È tanto cara, che la serbate per voi; né ve ne cavarebbe una di bocca quante tanaglie ha il mondo.
TRASIMACO. Però non bisogna dar credito a furfanti; e volendo informarvi chi sia, andate in Persia e dimandate di me, che feci nella guerra fra turchi e persiani; andate in Tartaria e dimandate al Gran Can; andate al Giappone e dimandatene il re Quabacondono; gite nell'Indie, nel Messico, in Temistitan, e dimandate alli caccichi Abenemuchei, Anacancon, Aguelbana, Comogro, Ciapoton, Totonoga e Caracura, e altri e altri: cosí saprete chi sono.
PARDO. Mi vo' partir or ora per cotesti luoghi, e come mi sarò informato, tratteremo del matrimonio. A dio.
TRASIMACO. Almeno vi parteste con piú creanza; ma t'escusa la vecchiaia, che tutto il mondo non ti scapparebbe dalle mie mani. Assai mi curo io di tua figlia! Ho le regine che mi pregano: mi dava una sua figlia il Turco, s'accettava il bellerbeiato della Grecia; una sorella il Principe di Transilvania, se voleva esser suo vaivoda; la regina Lisabetta d'Inghilterra mi volea per marito, se volea pigliar la sua protezion contro Filippo secondo. Ma buon per te, che ti sei partito; ché or, che mi bolle il sangue, non mi terrebbe il rispetto ch'eri un vecchio rimbambito, barboggio. Non dovevi invecchiare, se non volevi diventar cosí ignorante.
TRINCA. (Ecco il capitano. O che maladetta sia la bestia, che ha piú dell'asino che del cavallo: non ho visto maggior poltrone che mangi pane: vorrei farlo venire alle strette col parasito: gonfiarò il ballon del suo capo con mantaci di vantamenti).
TRASIMACO. Férmati, o tu, di grazia; ch'or che ferve l'ardor dell'ira, e son tutto rabbia e furore, e la colera mi soverchia—ché l'induggio, che si frapone alle vendette, allarga le ferite del cuore,—vo' che sii spettatore del castigo, che vo' dar a quel poltron di Gulone, perché sei stato relator delle mie ingiurie.
TRINCA. Io non vorrei che ti attaccassi adosso inimicizia cosí grande; e bisognerá grand'animo a torsela con esso.
TRASIMACO. Puttanaccia, che me la faresti attaccare. Ho tanto animo che non lo cape il mondo tutto, e, standovi dentro, mi par di star in forno; desiderarei che fussero mille mondi, per stanziarvi piú a largo. Povero Alessandro Magno, che lo capiva un solo!
TRINCA. Parlate basso, di grazia, che non fusse qui da presso, e vi sentisse.
TRASIMACO. Sia maladetta quella maladettaccia sgualdrinaccia della fortuna, che mi fa udir questo. Ch'io parli basso? qual barba d'uomo mi basta a far paura? Vo' gridar che mi oda: vo' chiamarlo. O Gulone, Gulone, o furfantissimo Gulone!
TRINCA. Egli ha poca voglia di far bene: verrá gonfio d'ira a far questioni.
TRASIMACO. Lo farò scoppiare a calci. Va', chiamalo da parte mia.
TRINCA. Andrò a far l'ambasciata a vostro rischio: avertite che capitarete male: bilanciate prima e contrapesate le vostre forze.
TRASIMACO. Io, quando avampo di furia e di sdegno, son piú furibondo e ho piú furie adosso che le furie dell'inferno; e voltando gli occhi furiosi sopra alcuno, i lampi che n'escono fuori, lo brusciano vivo vivo. Lo farei fuggire, ancor che fusse Marte: sappi che son nato dentro le miniere di ferro, nodrito fra gli acciai; né il mio cuor ebbe mai altro oggetto che infringere, ingoiare e smaltir gli uomini e i cavalli, armati di metalli e di bronzo.
TRINCA. Quando Gulone ha fame, è bravo, è un mezo Orlando.
TRASIMACO. Egli bravo? o Marte, e chi è al mondo di me piú bravo, che fo venir la quartana all'istessa bravura? Se fusse altro che tu, che ardissi dirmi questo, li schiacciarei la testa com'una caldarrosta. Come egli si vedrá intorno questa statuaccia del mio corpo, queste spallaccie di Atlante, con questi torreggianti gamboni, con queste nerborute braccia fulminar la mia taglianasi, troncabraccia e mietigambe, tu vedrai i motivi che fará. Considera se son bravo, vedi che viso sfreggiato.
TRINCA. Piú bravo fu quello che te lo sfreggiò!
TRASIMACO. Voglio dir che non fuggo né volto le spalle.
TRINCA. Né quello fuggí o ti voltò le spalle, quando sfreggiotti il viso.
TRASIMACO. Ma bisogna allontanarsi da me, ché, quando ho prese l'armi e sto in furia di menar le mani, l'ira ministra fuoco e fiamme: cosí m'incarno e m'insanguino, la vista mi s'accieca di sorte, che non conosco né amici né parenti, tutti gli guasto egualmente; e le tintinnate della mia spada s'odono un miglio.
TRINCA. Eccolo che viene: o che portamento bizarro!
TRASIMACO. O che portamento da bestia.
TRINCA. (Stimo che oggi arò a crepar delle risa: sapendo quanto l'uno e l'altro sia poltronissimo, sarò spettatore di un mirabil duello). Sará ben che m'allontani io.
TRASIMACO. Fai da savio pòrti al sicuro. Ben venuto il poltrone.
GULONE. Ben trovato il poltronissimo.
TRASIMACO. La mala ventura ti ci ha condotto, ché ti ammazzi.
GULONE. Sí, pidocchi, come sei uso.
TRINCA. Capitano, ti vuoi uccider con Gulone?
TRASIMACO. Sí, bene.
TRINCA. E tu, Gulone, ti vuoi uccider col capitano?
GULONE. Volentieri.
TRINCA. Orsú, fatela da valent'uomini, uccidetevi insieme.
TRASIMACO. A me non conviene por la mia autoritá in bilancia con un par suo. O molto indegno della grandezza dell'animo mio! E poi a questo duello ci manca una degna corona di signori e di cavalieri spettatori, che mi dessero poi quello applauso che merito, e rendessero la mia vittoria piú famosa. Poi, per non esser la sua profession d'armi, vo' che ceda l'impeto dell'ira alla ragione e alla nobiltá della mia creanza: gli vo' far conoscere che son vero nobile, e cosí vo' vivere e morire, però non voglio competere altrimente con lui.
TRINCA. Ah, capitan valoroso, cosí vi fate fuggire di mano un'occasion di farvi illustre? non saresti un pusillanimo, se schivaste un cosí onorato pericolo?
TRASIMACO. Vien qua tu; è vero che hai detto mal di me? ché vo' farti in mille pezzi, ti guasterò tutto.
GULONE. Sí, che è vero.
TRASIMACO. Or, poiché hai confessato il vero, ti vo' perdonare. Tristo te, se me dicevi la bugia, tanto m'è nemica.
GULONE. Io voglio dir di nuovo mal di te.
TRASIMACO. Fatti in lá che non lo senta, ché non me ne curo.
GULONE. Io vo' che tu lo senta.
TRASIMACO. Tu mi vai punzecchiando e mi offendi troppo indiscretamente: non lo comporterò, cancaro!
GULONE. Ti venga a mente come m'hai disfidato: e son rissoluto uccidermi teco.
TRASIMACO. Arcitonante Giove, che audacia è la tua? Tu mi fai inserpentire, inantropofagare, improcustire, inneronire: con un sgraffio ti sconquasserò tutto, ti sganghererò le mascelle e i denti, che non potrai piú mangiare.
GULONE. Ed io quella lingua, che non potrai dir bugie.
TRASIMACO. Ti sminuzzerò le braccia, che non ti potrai piú imboccare.
GULONE. Ti romperò quella testa busa, priva di cervello, ché non vi nascano tanti grilli.
TRASIMACO. Ti torcerò quel collo, che non dará tanta briga al manigoldo, quando ti ará a strozzare: cosí non divorerai tante panelle, ché hai fatto carestia alle botteghe.
GULONE. O che manigoldo amorevole, o che franca lancia.
TRASIMACO. O che franca pancia. Ti farò dir altrimente, quando ti vedrai intorno questo fianco di balovardo…
GULONE. Bel balordo che sei.
TRASIMACO. … con questa spada in mano…
GULONE. Con un spedo piú tosto, ché saresti meglio guattero di tinelli.
TRASIMACO. … frapparti il viso.
GULONE. Tu non hai altro che frappe.
TRASIMACO. Non sei uso, com'io, alle batterie.
GULONE. Alle baratterie sei uso tu.
TRASIMACO. Alle bòtte di bombarde e di artegliarie.
GULONE. Di correggie, stimo io.
TRASIMACO. Mira il furfante che, burlandosi di me, scherza con la morte. Fatti indietro, poltrone.
GULONE. Ti sei fatto indietro tu, prima che lo dicessi. Tu sei come il gallo d'India: gonfia la gola, arrossisce la cresta, apre l'ali e le batte intorno, e sbuffa come si volesse far qualche gran cosa, poi si ritira. Férmati, schiuma de forfanti.
TRASIMACO. A tradimento, ah? cosí se tratta con i pari miei, trattenermi su le parole e poi attraversarmi le braccia? Falla da gentiluomo.
GULONE. Non fui mai gentiluomo: la farò da quel che sono.Ingenòcchiati, raccomanda l'anima a Dio.
TRASIMACO. E che, mi vuoi ammazzare?
GULONE. Tu sei indovino.
TRASIMACO. Se fussi indovino, non sarei venuto a questo termine: almeno fammi una grazia, fammi viver due ore sole.
GULONE. Perché due ore?
TRASIMACO. Che mi mangi quello apparecchio che avea fatto in casa per te; e, dopo mangiato, fammi morire, ché morrò contento.
GULONE. Che apparecchio era il tuo?
TRASIMACO. Una porchetta con una crustina sopra, che, masticandola, ti stride sotto i denti, poi si dilegua in latte in bocca; un pasticciotto di ostreghe boglite nel lor medesimo umore, che fanno a lor stesse un intingolo suavissimo, con certi aromati che ti fanno trasecolar la gola; un tegame di beccafighi con lardo e presciutto e cime tenere di zucche, di cui l'odore farebbe risuscitar i morti; una torta alla lombarda; con un vin prezioso di amarene che bacia, morde e dá calci.
GULONE. Ahi, traditore, mi cavi l'anima col tuo apparecchio: e' par che mi tocchino la cima del fegado. Se con l'imaginazione ne godo, che sarebbe quando fussimo su l'atto prattico? e lo dici a tempo, che ho lo stomaco piú vóto d'una vessica sgonfiata, e il pulmone brusciato per la sete. Ma tu mi vuoi tirar dietro questo tuo cibo, come i mastri di caccia tirano gli astori e li falconi; però a te non mancherá di mangiare: ti darò alcune nespole, che te le mangi per amor mio; e comincia ad assaggiarle, ché, per esserno un poco acerbe, non so come le manderai giú.
TRASIMACO. Ah, furfante! genti a piè, genti a cavallo, soldati, centurioni, dove sète? Olá, para, piglia! paggi, staffieri: e quando sarai stracco?
GULONE. Ecco, son stracco e ti lascio.
TRASIMACO. Amico, son partiti?
TRINCA. Sí, bene.
TRASIMACO. E non ci è rimasto alcuno?
TRINCA. Niuno.
TRASIMACO. Mirate, di grazia, con diligenza.
TRINCA. Niuno: ché tante parole?
TRASIMACO. E vi paion parole queste? son tutte bòtte e gagliardissime e di gran carico.
TRINCA. Veramente, carico delle vostre atlantiche spalle. Ma dove è la vostra bravura? come nebbia, il vento l'ha portata via, e s'è sparita.
TRASIMACO. Fortuna cagnaccia! Orlando non volea combatter se non con un solo; e io aver cento assassini sopra!
TRINCA. Non fu piú di un solo.
TRASIMACO. Fur piú di cento con l'arme in asta. Trinca. Non vi fur arme, solo l'asta.
TRASIMACO. Fur piú di cento, ti dico.
TRINCA. Non piú di uno, canchero! ti dico.
TRASIMACO. Cento cancheri, ti dico io.
TRINCA. Chi lo può saper meglio di me, che vi fui presente, e l'ho visto con questi occhi?
TRASIMACO. Chi lo può saper meglio di me, che ho patito le maladette bòtte su le braccia, sul collo e su le spalle, che andavano tutte a pieno, e parea che cadessero dal cielo?
TRINCA. Non fu piú di un solo.
TRASIMACO. Come? se mi sentiva piú legni addosso che non ha un bosco; e dove mi voltava, non vedeva altro che bastoni e cielo, e mi pareva che tutte le legne del mondo si fussero congiurate contro le mie spalle.
TRINCA. Non fu piú di un solo, ti dico.
TRASIMACO. Se avesse avuto cento braccia come Briareo, non potea far tanto macello: mi scoppettizava, mi bombardeggiava su le spalle, a guisa di batteria.
TRINCA. Un solo fu.
TRASIMACO. Perché non avisarmi? sei uomo di poca discrezione.
TRINCA. Mi pensava che volessi usar qualche stratagemma di guerra, qualche astuzia di gran capitano.
TRASIMACO. Io non consumo tempo in astuzie e stratagemme militari, mi risolvo alla prima.
TRINCA. Stimava che volessi straccarlo; e come fusse stracco delle braccia, saltargli adosso e strangolarlo.
TRASIMACO. Io mi terrei a vergogna uccider genti stracche, non son cose da pari miei vincer con astuzie; ma poiché era un solo, perché non entrar in mezo e avisarmi?
TRINCA. Dio me ne guardi, che mi fusse posto in mezo: mi avisasti prima, che, quando stavi infuriato, ammazzavi gli amici e gli nemici.
TRASIMACO. È vero quanto dici; ma, essendo un solo, dovevi avisarmi.
TRINCA. Vi sète portato, con le spalle, da un Orlando, e avete fatto un gran resistere; non l'arebbon sofferte dieci asini e dieci muli: e con poco decoro avete difeso il gran decoro della vostra capitanía.
TRASIMACO. Ci ho fatto il callo a simil battaglie, non è questa la prima volta: eccomi qui sano e salvo, in carne e in ossa; mi è passato il dolore, e sento piú dolore che sia stato un solo, che delle bòtte.
TRINCA. Lo potete andare a trovare, se volete far la vendetta.
TRASIMACO. Bisogna tempo e commodo per le vendette, e non correre a furia. E poiché s'è fuggito, mi si rimollisce lo sdegno. Vo' perdonargli; e come soglio vincer tutti, cosí vo' vincere me stesso. Viva, viva! e io insieme con lui. A dio.
TRINCA. A dio. Non ho visto poltron simile a costui, a giorni miei.
CONSTANZA vecchia, sola.
CONSTANZA. Io non posso se non infinitamente ringraziare Idio, poiché egli infinitamente m'ha favorito. Chi credesse mai che, stata vent'anni schiava in man de turchi, mi fusse donata la libertá dal mio padrone, per esser omai decrepita, e postami, con alcuni cristiani riscattati in compagnia, in una nave, venisse a Vineggia e indi a Nola mia patria? O terreno desiderato del paese! o aria, quanto mi sei piú cara di tutte l'arie del mondo! Se la fortuna mi favorisse in farmi trovar Pardo, il mio marito, e Attilio, il mio figlio, vivi, le perdonarei la servitú di vent'anni e la perdita di Cleria mia figlia; mi faria dimenticar de tutti i passati disaggi; né io arei che piú desiderar in questa vita. Ma veggio un giovane venir costá; dimanderò di lui.
TRINCA. Veramente, quel vento che minacciava tempesta, s'è dileguato in semplice ruggiada. Quel maladetto nolano, venuto da Constantinopoli, ci avea posto in evidente pericolo di perder quello che avevamo fin qui oprato felicemente.
ATTILIO. Mi era confuso e alienato di sorte, che era posto giá in disperazione; ma tu, con quella pronta bugia del parlar turchesco, la rimediasti assai bene.
TRINCA. Una bugia a tempo val tant'oro.
CONSTANZA. Gentiluomini, mi sapreste voi dir se Pardo Mastrillo fusse vivo?
ATTILIO. È vivo e in buona sanitade ancora.
TRINCA. (Cosí fusse egli morto e sotterra!).
CONSTANZA. Ed Attilio suo figliuolo?
ATTILIO. E Attilio parimente.
CONSTANZA. Idio, per colmarmi d'ogni contentezza, m'ha voluto racconsolar con la vita di l'uno e di l'altro.
ATTILIO. Chi sète voi, che tanto vi rallegrate della lor vita?
CONSTANZA. Son una donna che, quando Pardo e Attilio sapessero ch'io son viva e qui venuta, ne arebbono quella allegrezza che ne ho io.
ATTILIO. Ditelo, di grazia.
CONSTANZA. A voi non appertiene saperlo.
ATTILIO. E forse me s'appertiene piú che ad altri, perché io sonAttilio suo figliuolo.
CONSTANZA. Ed io son Constanza tua madre, che or giunge da Constantinopoli, con assai piú desiderio di vedervi che della propria mia acquistata libertade.
TRINCA. (Ecco l'altra perturbatrice d'ogni nostro bel disegno).
ATTILIO. (O Idio, che non si può nel mondo godere un bene, che non sia mischiato di alcun male: ecco, acquistando la madre, perdo il mio bene).
TRINCA. (Avemo resistito al primo impeto della fortuna; or non si può piú, alla gran tempesta che ne ondeggia intorno).
ATTILIO. (O mal, come vieni presto! o ben, come vieni tardo!).
TRINCA. (La sua venuta scompiglia quanto abbiam tessuto della nostra tela; e se l'altre se han potuto rimediare, a questa non ci ha rimedio alcuno).
ATTILIO. (Ho pregato Idio, che mi facesse veder mia madre, per non esser cosa, che piú desiderasse di vedere; or che la veggio, desidererei esser morto per non vederla, ché perdo Cleria, e io non vedrò mai piú cosa che mi piaccia). Voi dunque sète Constanza?
CONSTANZA. Io son quella infelice donna che venti anni son stata schiava di genti barbare.
ATTILIO. O madre, quanto mi sarebbe stata cara la tua venuta, se a piú opportuno tempo venuta fosse.
CONSTANZA. Figlio, non intendo che vogliate dire.
ATTILIO. Dico che in ogni tempo che voi foste venuta, fuor che in questo, la vostra venuta mi sarebbe stata oltre modo gratissima.
CONSTANZA. (Mi pensava che benigna fortuna m'avesse condotta in porto, alla mia patria conducendomi; ma or da contraria tempesta mi veggio risospinta fuori: la mia venuta, che stimava che fosse desiosamente desiderata, la veggio esser scacciata con fastidio). Figlio, se il mio venir ti apporta qualche noia, di grazia fammene consapevole.
ATTILIO. Madre, la cagion di ciò non può raccontarsi senza fastidio; entrate in casa, che è ben di ragione che avendo sofferta tanti anni la servitú di quei cani e tanti travagli nel viaggio, che vi riposiate; ma togliete a me ogni riposo, perché, entrando voi, ne cacciate me: sète voi fatta libera, per pormi in servitú: voi acquistate la patria, io perdo la patria e quanto possedeva. Né arei pensato mai che la vostra venuta fosse stata accompagnata da tanta amaritudine.
CONSTANZA. Figlio, non mi trafissero mai tanto i morsi della servitú, quanto or mi trafiggono i vostri dispiaceri. Onde vi prego per quello amor, che è ragionevol che mi portiate, che mi manifestiate la cagione del disturbo; ch'io, cosí povera feminella come sono, sarò da tanto di tornarmene in Napoli e viver mendicando disconosciuta, per non darvi vergogna: che, se ben la nobiltá nelle miserie fa risvegliar i spiriti generosi e signorili, con l'esser stata tanti anni schiava son spenti in tutto.
ATTILIO. Conosco, carissima madre, avervi offeso, e però mi vergogno manifestarlovi.
CONSTANZA. L'offese de' figli alle madri non passano la pelle: non sará mai tanto grande, che non sia vinta dall'affetto materno. Voi tacete? Manifestatela, figlio, ché troverete quel che vi dico.
ATTILIO. Madre, se promettete di perdonarmi e di rimediarvi, che di un male non se ne faccino molti, vi spiegherò il fatto come passi.
CONSTANZA. Ti giuro, figlio, per quella grande affezion che ti porto, che spenderei questo avanzo di vita in tuo serviggio. Che se non m'adoperassi per un figlio, per chi debbo adoprarmi io?
ATTILIO. Poiché cosí volete, vi scoprirò il tutto. Mi mandò mio padre con trecento scudi in Constantinopoli, per lo vostro riscatto. Venni in Vineggia per imbarcarmi per colá, e m'innamorai di una giovane bellissima, spesi i trecento ducati nel suo riscatto, la sposai, tornai a Nola, e diedi ad intendere a mio padre che voi eravate morta, e che avea riscattata Cleria, la mia sorella. E sotto nome di Cleria è stata ricevuta, per non dargli tal disgusto in quel poco tempo che potrá sopravivere. Or voi, entrando in casa e dicendo che quella non è Cleria vostra figlia, lo farete morir di dolore, né si terrebbe sodisfatto se non mi diseredasse e mi cacciassi fuor di casa.
CONSTANZA. E s'io dicessi che quella fusse Cleria mia figlia, ti saria di contento?
ATTILIO. Grandissimo.
CONSTANZA. Vi prometto dirlo; e l'accetterò per figliuola e per mia dilettissima nuora, mentre vivo, per amor vostro. Non sapete voi che le madri condescendono agevolmente a i desideri de' figliuoli, e li sono aiutrici verso i padri?
ATTILIO. Madre, ciò facendo vi arò piú obligo che della vita che donato mi avete, quando mi partoriste; ché, amando costei piú dell'istessa vita, donandomi costei, mi donate la vera vita.
TRINCA. Ma bisogna, padrona, quando v'incontrate, usar quelle accoglienze come si fosse la propria Cleria vostra figlia; e dimandandovi di alcune cose, le sappiate rispondere e, di quelle che non sapete, tacere.
CONSTANZA. Non son tanto goffa, che non sapesse fingere questo poco; e quando mai far non lo sapessi, l'amor che vi porto, mi sará miglior maestro che costui: so quello che si debba dire e tacere, e non me lo farò dir piú d'una volta.
ATTILIO. Trinca, sali su, fa' calar mio padre, che venghi a ricever la sua moglie tanto desiderata; e avisa la mia Cleria del trattato.
TRINCA. Volentieri.
ATTILIO. Or l'accoglienze, madre cara, che non vi ho fatte al primo incontro, datemi licenza che le facci ora, che possa abbracciarvi e baciarvi a modo mio. Madre, cara sopra tutte le madri, madre che mi sei per natura e per obligo, madre che due volte dái la vita al tuo figliuolo, che farò, mentre sarò vivo, per disubligarmi da tanto beneficio?
CONSTANZA. Poco è, figliuolo, quello che domandi che faccia per amor tuo; e prima che qui giungessi, ho desiata occasione di servirvi tutti.
ATTILIO. Ecco mio padre.
PARDO. O Constanza, carne mia, sei tu dessa over io non son io? o è forse questo un sogno? o fingo imagini a me stesso del desiderato bene? Tu sei ben dessa, e me ne sono assicurato, che con piú d'una guardatura ho confrontato l'imagine tua con quella che nel cuor impressa mi lasciasti.
CONSTANZA. O marito, marito caro, che, avendo perduta la speranza di non averti mai piú a rivedere, or veggendoti e abbracciandoti, non lo credo.