CAPITOLO QUARTOPER BELLOVESO
1.Preludio mirabile.
La piattaforma del tranvai è la glandola pineale della vita moderna. Trovandomi io un giorno sulla piattaforma d'un tranvai di Milano, un individuo con barba grigia e cappello verde alla calabrese mi stralunò in volto due occhi quasi bianchi spiritati, poi disse:
— Scusi, signore....
Non avrei mai immaginato che quegli occhi potessero pronunciare una frase tanto garbata. Mi rimisi dunque dalla prima impressione ch'era stata alquanto sgomenta.
— Scusi, signore: sa dirmi dov'è via Belloveso?
— Non so — risposi con la maggior grazia possibile. — Sa, — aggiunsi poi sentendo non so qual dovere di giustificarmi — io non sono di Milano.
— Ah.
Questo «ah» non fu un «ah» di quelli grassi, sdraiati, episcopali, che nei dialoghi della vita indicano soddisfatta conclusione e lasciano l'animo pacato: fu un «ah»arido, giallo di sarcasmi. I romanzieri non hanno ancora trovato la maniera di distinguerli nella scrittura, e mettono «ah» senz'altro, in tutt'e due i detti casi e anche nei loro infiniti intermedi e collaterali: la quale è una lacuna non lieve dell'arte nostra.
Io n'ero rimasto oscuratamente scontento e guardingo, mentre il tranvai continuava la sua rotolante corsa per le rette e le curve della Città Operosa.
Infatti l'uomo imminendomi ribadì:
— E se fosse di Milano?
— Se fossi di Milano — risposi con pronta dialettica — sarebbe più probabile, non però certo, ch'io sapessi dov'è via Belloveso.
La soddisfazione di questa nitida risposta mi ristorò: e per un momento credetti d'essere libero dal sorprendente personaggio, perchè subito egli si rivolse al più vicino dei nostri compagni di andare, uomo comune con cappello duro e spilla nella cravatta. Con gli stessi occhi e con la stessa voce domandò a lui:
— Scusi, signore, è di Milano lei?
— Sì — rispose il signore volonteroso col cappello duro — sono proprio di Milano, del Verziere.
— E lei che è proprio di Milano, sa dirmi dov'è via Belloveso?
— No: non l'ho mai neanche sentita nominare.
— Ma se l'avesse sentita nominare — incalzò l'incontentabile, — saprebbe dirmi perchè si chiama via Belloveso?
L'uomo comune s'inalberò:
— Come sarebbe a dire?
— Sa lei, signore di Milano, sa lei chi era Belloveso?
L'altro lo guardò un momento, poi guardò me, poi tutti gli altri intorno, torse un'occhiata più lunga alla strada che fuggiva sotto i nostri occhi: e d'un tratto, poichè il tranvai rallentava, scese precipitosamente e senza voltarsi indietro si inabissò nella prima via trasversale.
Il tranvai finì di rallentare e fermò del tutto. L'energumeno gentile tornò a me:
— Lei, signore, che almeno non è di Milano, la prego: scenda con me.
Non so quale forza mi spinse ad acconsentirgli.
Sopra una cantonata una guardia di città sonnecchiava a capo chino. L'amico lo svegliò:
— Vigile, sa dirmi dov'è via Belloveso?
L'altro riscosso mormorò:
— Pellevese, Pellevese.... nun saccio.
— Potrebbe guardare nella guida.
L'esule partenopeo si cavò blandamente di seno un libretto e cominciò a sfogliarlo:
— Come avete detto? Pellurese?
— No: Bel-lo-ve-so: col bi.
Il pubblico funzionario compitò con scrupoloso travaglio parecchi nomi del suo indice alfabetico: — Bec-ca-ria — Bel-fio-re — Bel-gio-io-so.... quest'è, Belgioioso?
— No: Bel-lo-ve-so.
— Bel-lez-za — Bel-li-ni — Bel-lot-ti.,.. mo' ce stiamo 'n coppa — Be-na-co.... no: Bellevese nun ce sta, Eccellenza.
Lo piantammo, chè era esausto. Seguivo faticosamente e con grande interesse la mia agitata guida. Lo vidi precipitarsi contro una carrozza vuota che veniva traballando placidamente verso noi. La fermammo, le demmo la scalata, occupammo il sedile. Quando ci sentimmo saldi nella conquistata posizione, il mio compagno comandò con aria sciolta:
— Portaci in via Belloveso.
Allora, con mia suprema stupefazione, avvenne questo fatto mirabile: che il vetturino non disse nulla, e neppure si voltò a noi; ma dette una frustata all'aria, una voce al cavallo, e partì; e tutti partimmo con lui.
E la carrozza camminò rassegnata e fatidica per vie folte e piazze illustri e ardimentosi crocicchi, tra la folla sonora onde Milano trae l'incitamento perenne al lavoro e all'impeto, alla Vita Intensa e alla Vita Operosa. Il mio compagno s'era chiuso in un degno silenzio; china sulla fronte la tesa verde del cappello calabrese ora si contemplava misticamente le quadrate estremità delle scarpe. Io rispettai quel silenzio e quella contemplazione. M'interessavo alle vicende del nostro andare e al civile paesaggio che percorrevamo.Ma già le piazze e le vie si facevano a mano a mano meno affollate e meno illustri. L'aspetto delle botteghe e delle case graduava rapidamente dalla metropoli al suburbio. Entrammo nell'ignoto. Raggiungemmo l'aborigeno. Ogni tanto la carrozza, mossa da non so quali occulte cagioni, invece di proseguire diritta svoltava in vie laterali, e quasi a ognuna di quelle mutazioni di rotta il colore delle muraglie e dei selciati si faceva più languido e afflitto. Le sfilate di muri grigi presentavano ormai rara l'interruzione di una donchisciottesca barbieria o d'una drogheria sudicia rinforzata dalla giunta d'un romantico bar.
Poi ai bar succedettero francamente le osterie, mentre la carrozza sobbalzava sempre più con singhiozzanti nostalgie dei lastricati lontani.
Essa proseguiva il suo cammino mortale, e a me l'anima si andava fasciando di lenta malinconia: ma ecco, dopo un incerto vagare tra larve di strade d'ambiguo colore e di spiriti crepuscolari, e dopo due o tre svolte più impensate, ecco di lì a poco m'accorsi che la luce si rifaceva nitida, ch'erano scomparse le cà nove e riapparsi i romantici bar con le drogherie luridissime: risentii un saluto d'aure familiari, spuntarono al mobile orizzonte più frequenti botteghe, poi grandi vetrate. Riudivo qua e là sonorità umane: e a mano a mano ritrovando il sorriso di vie e piazze note recuperai gli spiriti, fino a che per pochi ultimi audaci quadrivi mi riconobbi tornato presso al cuore del gran corpo di cui avevo rapidamente poco innanzi raggiunto gli arti più lontani.
A questo punto, senza espresso superiore comando nè per altre cagioni apparenti, il cavallo a capo chino ristette, la carrozza sostò, e noi tutti con essa e dentro essa fummo fermi.
Appunto in quell'istante il mio compagno ebbe conchiusa la sua contemplazione, e dalle quadrate estremità delle scarpe levò gli occhi ai due bottoni argentei ond'era insignito il dorso dell'auriga. Tutti tacevamo. Poi l'auriga si voltò e inclinò alquanto verso noi, candidamente così favellando:
—Avevi minga capii ben: che via l'à dit?
— Via Belloveso.
—Adess o capii: la gh'è minga quela via lì a Milan.
Il mio prodigioso compagno si volse a me e disse:
— Lo sapevo, che non c'era.
— E allora, — arrischiai — perchè la cerca?
— Perchè non c'è!
Tutti, il cavallo, l'auriga, la carrozza, il personaggio e io, eravamo muti e fermi: solo si mosse e, credo, mandò una tenuissima voce col suo scatto il meccanismo prestigioso del tassametro. Io ne distolsi lo sguardo. Il personaggio domandò:
— Di dov'è lei, signore?
Io ho sempre pronte diverse città natali a seconda delle varie occorrenze della vita. Ebbi la eccellente ispirazione di rispondere:
— Sono di Roma.
— Sa lei, signore, chi furono Romolo e Remo?
Rividi in un attimo nella memoria la scuola della mia puerizia, e recitai:
— Romolo e Remo, signore, furono i fondatori di Roma, capitale d'Italia.
— E che direbbe ella, signore, di un romano il quale non sapesse rispondere chi furono Romolo e Remo?
— Direi, signore, che è sordomuto.
— Sordomuto: sia ella benedetta ora e sempre per questa parola. I milanesi — e indicò con la mano spiegata la schiena dell'auriga, la coda del cavallo, il lastrico, la casa di fronte, la folla dei passanti — i milanesi sono dei sordomuti. Non sanno chi fu Belloveso. Belloveso fu il Romolo e Remo di Milano. Il gallo Belloveso, signore, che era nipote di un re dei Biturigi, quasi seicent'anni avanti Cristo varcò le Alpi e qui accampandosi fondò Milano, capitale morale d'Italia. E a Milano nessuno, nessuno, nessuno lo sa. A Milano non c'è una via, una piazza, un corso, un viale, un bastione, un monumento, un vicolo, un portico, un caffè, una scuola, un postribolo, che sia dedicato al nome di Belloveso. Scendiamo, signore. La carrozza la pago io o la paga lei?
— La paghi lei — proposi.
— Sì.
Pagò, e discese, e io dietro lui: ma mentre m'accingevo a salutarlo egli era scomparso, magicamente scomparso davanti a me, o che il movimento della folla me l'abbia sùbito nascosto, o che, come sembrami più probabile, vaporando nell'etere ei sia stato assunto, definitivamente o provvisoriamente, nei cieli.
Egli era scomparso; ma io, raggiunta in pochi passi quella che avevo sempre veduta essere la piazza del Duomo, io trovai ora che non vi scorgevo più il Duomo, nè il frivolo calamaio di bronzo del monumento a Vittorio Emanuele, nè intorno a esso il girotondo dei tranvai con i trolleys rigidi a scarrucolare verso il cielo; e nemmeno si stendevano più, ai lati di quella, lo scenario dei portici settentrionali nè l'obliquo fondale di Palazzo Regio: ma tutto il luogo era occupato non da altro che da basse capanne, in mezzo a suono di ferrame, perchè tra le capanne s'aggiravano vasti guerrieri baffuti con risa oscene. E bisognò qualche tempo e qualche sforzo alla mia fantasia avanti che mi riuscisse di ritrasformare a' miei occhi il rude accampamento dei Galli di Belloveso nel cuore civile e facondo della capitale morale.
L'ossessione mi tenne più giorni. Sotto la larva d'ogni ragioniere milanese vedevo corruscare un Biturigio superbo, ogni dattilografa parevami una sacerdotessa accorrente ad aggiunger fiamme a un sacrificio umano: vidi appunto sull'angolo del Corso sorgere ed elevarsi d'un tratto immani fantocci di vimini, alti come torrioni, e gli eubagi riempirli d'uomini vivi eappiccarvi il fuoco in onore di Hesus, dio sanguinolento armato di scure. Di là , all'aspro odore di quella fiamma, un druido spiegava ai milanesi la trasmigrazione delle anime d'una in altra forma mortale. Vidi anche sotto i miei sguardi la colonna di San Babila tumefarsi e coprirsi di corteccia rugosa e ramificando trasformarsi in quercia, e guerrieri braccati chiamavan quella quercia Teutates ardendovi attorno olocausti di cani.
Non mi riusciva sottrarmi alla suggestione morbosa. Riconoscendone esattamente l'origine, pensai che il passante grigio apparsomi un giorno sulla piattaforma del tranvai fosse stato una incarnazione dell'Antico Maligno, che s'era messo vaste scarpe quadrate per nascondere gli zoccoli. — O forse più semplicemente — mi dissi — quegli fu lo spirito stesso di Belloveso che nel mondo degli immortali non trova requie pensando all'immemore ingratitudine di venticinque secoli di posterità .
Occorreva, per liberarsi, placare lo spirito di Belloveso. In qual modo?
Forse un tempo, quand'ero immerso in classici studi, avrei pensato a scrivere su Belloveso una truculenta e compassata tragedia. Più tardi, poi che la vagante sorte m'ebbe sfiorato con le ibride penne del giornalismo — bizzarra chimera biforme tra l'arte e la vita pratica — avrei tentato di quetare lo spirito di Belloveso ed il mio con una serie di articoli agitanti la proposta di un monumento: tutti gli scultori e i procacciatori di Comitati sarebbero stati con me.
Ma erano i giorni in cui, colpito dall'aspetto deltempo nuovo, avevo stabilito d'uniformarmi a esso e darmi agli affari. Ed ecco dalla mia ossessione germinò l'idea d'un affare vasto e mirifico.
A Belloveso non possiamo offrire un monumento o una caduca tragedia.
Belloveso, primevo animatore della Città Operosa, dev'essere rammemorato con imporre il suo nome a una via della città stessa. Egli in persona, in quel giorno e in quella carrozza fatali, me lo ha suggerito.
A qual via? Egli principiatore del rozzo antico nucleo, deve avere per sè la via più moderna e perfetta: la più lontana da quei rudimenti: una via definitiva.
Occorre costruirla apposta. E bisogna ch'essa sia di tanto più grande e nuova delle presenti, di quanto le presenti sono più grandi e stabili e solenni delle capanne dei Biturigi di duemilacinquecento anni fa. L'ultima parola della modernità . Il non visto ancora tra noi. Una via costruita tutta, sì, tutta di grattacieli, di grandi grattacieli, di grattacieli di cemento armato: via Belloveso.
All'opera, ideatore, animatore, organatore: questa è speculazione, nel senso più maturo e degno della parola. All'opera dunque, Speculatore.
Il programma da attuare era semplice: un progetto edilizio, un preventivo per la costituzione di un capitale, un piano per lanciare e popolarizzare l'impresa.
Il lanciamento sarebbe stato facilissimo: bastava fondare una rivista d'arte, dedicata specialmente al rinnovamento dell'architettura. Sulla rivista iniziare immediatamente una impetuosa campagna, di natura pratica, a favore del cemento armato, e una di natura estetica per le case a molti piani: le industrie cementizie e le fabbriche di ascensori faranno ampiamente le spese della rivista.
Iniziato il movimento generale, subito esporre sulla rivista stessa l'idea della via nuova: ma l'offerta votiva di questa alla memoria del duce gallo (effettivo movente intimo della mia ideazione) apparirà come l'ultimo pensiero, una culta eleganza sovrapposta all'idea originaria, quasi un fregio.
La fame di case, che già in quel tempo travagliava insopportabilmente la vita della città , avrebbe favorito in modo incredibile il mio còmpito.
Verrà , dunque, dopo il lancio, subito il resto: e disegni e preventivi saranno opera dei competenti.
Ma prima d'interrogare i competenti, e di esporre a chicchessia il mio pensiero, buttai giù un piano a grandissime linee, quanto occorreva a far intendere la mia idea, così facile, ai capitalisti che avrebbero dovuto costituirsi in società per attuarla. Quella gente vuol cifre. E cifre siano. Bastano approssimative, per ora, tanto per dimostrare l'affare. — Ogni palazzo, calcolai, avrà duecentoventi metri d'altezza e centocinquantadi base: la via sarà di trentasei grattacieli, diciotto per parte, dacchè il numero 9 e i suoi multipli mi sono sempre stati propizi. Una via dunque — con i brevi intervalli tra un palazzo e l'altro — lunga circa tre chilometri: rettilinea. Trentasei case, ognuna di cinquanta piani.
Poniamo che ogni casa costi due o tre milioni: una spesa complessiva di circa cento milioni: quest'è il passivo.
E l'attivo: trentasei case, di cinquanta piani ciascuna, fanno in tutto mille e ottocento piani. Suppongo che ogni piano darà sei appartamenti: in tutto sono diecimila e ottocento appartamenti. Se ognuno di questi rende, per esempio, diecimila lire annue, fanno centootto milioni all'anno di attivo: e perchè in queste materie bisogna andar cauti, invece di centootto diciamo pure soltanto cento milioni annui di entrata. È quanto dire che il primo anno, il solo primo anno, dodici rapidi mesi di questa così fugace vita mortale, ripagheranno il capitale iniziale. E subito dopo la società , la mia società , ha un guadagno annuo di cento milioni.
Qualcuna di queste cifre sarà certo inesatta, forse qualche moltiplicazione sarà sbagliata, ma non importa: si correggeranno: si aumenterà , se occorre, il numero dei piani. Il freddo competente darà le cifre precise: io ero tutto invaso del calore della mia costruzione ideale; anche lo spirito di Belloveso parevami cominciasse, a queste semplici cifre, a placarsi.
Si noti che per fare cento milioni bastano diecipersone che mettano dieci milioni l'una, oppure cinque persone che ne mettano venti: qui non c'è neppure il dubbio d'avere sbagliato l'operazione aritmetica. Ed ecco via Belloveso.
Stesi questo piano in un accurato memoriale. Non mancai di aggiungervi certa considerazione che nacque nella mia mente mentre già avevo cominciato a compilarlo. Era questa. Quando, venticinque secoli sono, in seguito all'invasione dei Kymri nell'Aquitania il re Biturigio Ambigate mandò oltr'Alpe Belloveso (e questi stabilì l'accampamento che sarebbe divenuto Milano) — nello stesso tempo il fratello di lui (ch'era addobbato similmente d'un audace nome, Sigoveso) passò il Reno e andò a stabilirsi nella regione Ercinia in Germania. Quali accampamenti fondasse non so: ma parevami probabile che da qualcuno di questi fosse nata, come Milano da quelli, la tedesca città di Baden, che i Romani conobbero. Si sarebbe potuto cercare negli storici la maggior esattezza di tale mia induzione, ma intanto era certo che in una regione germanica era sorta una città sorella, o almeno cugina, a Milano: che, dunque, un'impresa identica alla mia qui, poteva a un parto farsi nascere là , in onore di Sigoveso; che forse le due imprese potevano originarsi insieme dalla società e dal capitale medesimo: in ogni modo ciò poteva dare origine a un'audace e utile veduta politica, poteva additare un legame franco-italo-germanico più saldamente fondato di quello che intravide Caillaux, e pregno forse di più maturabili destini.
Stesi dunque il mio complesso memoriale artistico-storico-finanziario-politico;lo portai a copiare in dodici esemplari a una dattilografa fidata: spesi in quella copia lire sessanta, che segnai sopra un candido quaderno come la prima spesa e insieme il primo atto effettivo della mia creazione.
Dopo avere riletto e corretto il memoriale, m'indugiai per poco in qualche pensiero domestico.
Stabilii di scegliere, nel centro della via, al numero 18, la mia casa. È giusto. Mi farò fare i biglietti di visita; i primi, credo, della mia vita, e con l'indirizzo: «18, via Belloveso, Milano». Abiterò al piano nobile, il cinquantesimo. Avrò un ascensore particolare che in trenta secondi, senza fermate ai piani intermedi, porterà su direttamente me, la mia famiglia, i miei amici. Perchè anche là gli amici verranno a trovarmi, come ora. Ma se verranno dopo le dieci di sera, non potranno più, come fanno ora, chiamarmi dalla strada per farsi gettare la chiave del portone. Faremo dunque nella nostra rivista una campagna perchè i portoni di Milano siano muniti di un campanello corrispondente a ogni appartamento, e di un congegno a pila elettrica per aprire il portone stesso dall'alto, come a Firenze,che almeno in questo è assai più civile di Milano. Ogni portone avrà così trecento bottoni elettrici, centocinquanta per parte: se ne potranno trarre motivi decorativi ultramoderni. Ma quale cuccagna per i nottambuli, fedeli al gioco candido e giocondo di sonare i campanelli e poi darsi fanciullescamente alla fuga!
Già da tre giorni gli esemplari del mio sublime piano smaniavano d'essere avviati ai loro destini. Io ero meno impaziente. L'opera era troppo grande perch'io dovessi economizzare qualche giorno o qualche ora, e affrettarmi a compiere quell'atto facile — la costituzione della società : — anzi mi piaceva trattenere ancora un poco la mia impresa nel mondo puro delle cose pensate e non ancor attuate. S'aggiunga che per il momento non sapevo bene a chi avrei potuto portare o mandare quei piani. Ma questo è il meno: a Milano — tutti lo dicono — basta andar camminando per le strade per vedersi scaturire l'oro attorno. Altri dice: — basta battere il piede sul suolo. Pensate quanto oro per colui che andasse a camminare per le strade battendo forte il piede in terra a ogni passo. Ma non folleggiamo dietro l'allettamento delle immagini e delle immaginazioni,com'era un tempo nostro deplorevole costume. Ora son tempi nuovi, anche per me. Così pensando arrivai al limite vago ove la città dalle tredici porte esita a dileguarsi nella campagna.
Andavo a caso. L'erba era polverosa e l'orizzonte era bigio, perchè Milano è un'austera città .
D'un tratto mi sorprese un fremito gradevole e inaspettato: sentii, al mio fianco, la presenza del mio Dà imone, e insieme mi resi conto che da parecchi giorni non l'avevo sentita più, che avevo operato fino a quel punto senza di lui.
— Dà imone — gli dissi — mi hai tu forse abbandonato? non sai dunque che sto maturando un'opera nuova, semplice e grande?
— Lo so.
— Senza l'aiuto tuo l'ho pensata, forse: ma non per questo devi disprezzarla: anzi d'ora in avanti la seguirai con affetto, come hai sempre seguìto tutte le cose della mia vita anche quando io facevo al contrario de' tuoi incitamenti.
— Fai pure — mormorò — se ciò ti diverte.
La sua freddezza m'indispettì. Non gli parlai più, ma lo sentivo a lato seguirmi e vigilarmi. Parevami sospettoso, e sospettoso mi feci io contro il suo sospetto, e contro lui stesso, contro il mio Dà imone, o Genio personale! Mi sforzavo di dimenticarlo, ma un disagio inesplicabile gemeva in fondo al mio spirito.
Sedetti sopra l'umile sponda d'un canale di poco lusinghevole aspetto ma di lunga e solida fama: quel Naviglio della Martesana, umanistica speculazione delcondottiero Francesco Sforza. Qua e là qualche piccola costruzioncina bislacca si dava importanza di villino: goffi pescecanili rutilanti di preziosità . La pianura si perdeva nel bigio infinito, tratteggiata da rigidi pali di ferro e da bassi alberi asciutti, potati d'ogni fronda e d'ogni ramo —. Qui — gridai nel mio pensiero — questo è il luogo!
E così forte e solenne fu il mio grido interiore, che le poche ville pretensiose, subito intimorite, si scostarono ognuna dal loro luogo, e portandosi via le torrette rosse e i cancelletti di ferro battuto, s'allontanarono e scomparvero; e insieme i pali di ferro e gli alberi di legno dileguarono; poi dalla terra bigia cominciarono a scaturire fasce di biancori gelidi che rapidamente al mio sguardo impietrivano allineandosi in una duplice fuga parallela, accennavano per un istante l'ondulamento d'un ritmo di danza; poi si arrestarono; elasticamente immobili e altissimi, guardando tutti a me con le pupille nere e rettangolari d'un numero infinito di finestre simmetriche: diciotto e diciotto eccelsi edifizi, in due file che andavano a incontrarsi e perdersi in direzione delle lontane e invisibili dolcezze delle regioni lacustri: diciotto e diciotto grattacieli di cemento armato; la mia creazione: via Belloveso. — Ecco-gridai generosamente al Dà imone — ecco l'opera nostra!
— Io non c'entro — rispose.
Mi voltai verso lui di scatto, dimenticando ch'egli è invisibile.
— Ma guarda! — incalzai. — Questa è la moderna bellezza. L'opera nostra: via Belloveso.
E mi rivolsi a ricontemplarla. Ora alle quarantamila finestre s'erano affacciate più di quarantamila teste vive d'ogni sesso e d'ogni età : non già i barbari Biturigi ch'io avevo salutati tra le capanne nel primo memorabile mattino, ma quaranta migliaia di modernissimi uomini, donne e fanciulli, che tutti insieme conclamavano verso l'avvenire del nuovo cuore operoso d'Italia.
Come fu finito il clamore, e le quarantamila teste s'erano ritirate, un grigio silenzio tornò a incombere su tutta la pianura, e di là mi premeva intorno e mi filtrava entro il cuore. La sudicia nebbia cominciò ad assediare e assaltare le belle case di cinquanta piani. Le vidi tutte barcollare davanti a' miei occhi inumiditi. Poi apparve un prodigio: chè ognuno dei piani di quelle parve sfaldarsi dal suo edificio, e, ogni piano, dico, per conto suo, per ogni parte si venne spostando qua e là orizzontalmente nell'aria e in aperte volute calarono a terra e si distesero a occupare tutto il suolo della pianura: ma ancora di là da essi nuova pianura dilagava, all'infinito, grigia e molle, tratteggiata innumerevolmente di pali di ferro e d'alberi di legno: poi il suolo riassorbì anche quella distesa di piani e rividi tornate le villette tronfie ridere con sofficienza dalle rosse torrette, in mezzo alla nebbia cinerea che cinge Milano, austera città .
Io mi alzai, infreddolito e aggranchito. Mi rimisi in sesto stirando le braccia e battendo i piedi in terra; ma in quel moto mi venne su dal profondo e scaturì per le fauci e squillò al cielo un ampio, sferico, fondamentale sbadiglio; uno sbadiglio quale non ricordo d'avermesso insieme il simile mai nella mia vita: cui risposero vastamente tutti gli echi della pianura e della lontana invisibile regione lacustre fino ai primi gioghi dell'Alpe.
Ecco una voce allegra del DÃ imone gridarmi:
— Così mi piace. Torniamo amici? Questo sbadiglio è il più bel pensiero che tu abbia fatto da parecchi giorni a questa parte.
— Così credi? — gli risposi. — Sta bene: facciamo la pace.
Mentre stavamo per raggiungere le prime vie della città , il Dà imone mi domandò ancora, con tono malizioso ma con bontà d'intenzione:
— E Belloveso?
— Stavo pensando — gli risposi — che sarebbe poco nazionale, e oggi anche poco politico, riferire troppo solennemente la nascita della Capitale morale d'Italia a un'origine gallica.