—Che è quella gondola?—disse Grazia al gondoliere, scattando in piedi.
—È la gondola dei morti, eccellenza: quelli sono i becchini.
—Andiamo via, andiamo via, Grazia—disse Ferrante rompendo il silenzio, dolcemente, volendo infrangere il malo incantesimo di quella giornata.
—No, no, voglio vedere—disse lei, duramente—gondoliere, fermati un poco.
—È meglio andare, cara, è meglio—ribattè lui, umilmente, crollando il capo.
Ma ella non gli dette retta. In piedi, appoggiata al divanetto di destra, guardava nel portoncino nero, donde arrivava un confuso mormorio.
—Voglio vedere questo morto—disse a sè stessa, senza distogliere gli occhi dal portoncino.
E quasi la sua anima desiosa di dolore, avesse avuto una forza magnetica, un tumulto si fece nell'ombra del portoncino, e fra un piccolo gruppo di donne e di uomini, portata da due altri becchini, comparve la bara; dietro le persiane di una finestra, al primo piano, si udiva un singhiozzo disperato e si vedeva una mano convulsa che tentava di aprirle, mentre qualcuno si opponeva, tenendole ferme. Questi volevano vedere la bara, che veniva caricata nella gondola funeraria: la piccola bara, la sottile bara, poichè era la bara di un bambino, e lassù, era certamente la madre del bimbo che singhiozzava e tentava disperatamente di aprire la finestra. A un tratto, con un moto svelto di gente pratica, i becchini gondolieri ficcarono la piccola bara sotto ilfelzee ne richiusero con un colpo secco la porticina. Il picciolo morto era solo, là sotto. Ai quattro lati delfelzefurono sospese delle povere e pallide corone di sfatti crisantemi, che una fanciulla piangente in silenzio aveva porto ai becchini.
—Andiamo via, presto, presto—disse nervosamente Grazia al gondoliere, ricadendo a sedere sul divanetto.
A un tratto era stata presa dall'orribile paura di dover fare la stessa via del morticino; e soggiungeva, mentre si allontanavano, senza voltare il capo indietro,presto,presto. Alle spalle il singhiozzo della persona che si disperava dietro la gelosia si era fatto più forte, più alto: la barca funeraria si metteva in moto. Ma era così lenta, che la gondola di Grazia e di Ferrante scomparve subito. Quando ebbero camminato per un pezzo, allora soltanto ella si voltò a guardare Ferrante, ma lo vide così travolto, così pallido, che ne ebbe orrore e pietà . E dopo un minuto di intensa riflessione, ella intuì, ella indovinò il pensiero di lui:
—Tu pensi al tuo bambino?—gli disse, sottovoce, nella faccia.
Ah, questa volta, questa volta, egli non ebbe il coraggio di negare: disse di sì, semplicemente, senz'altro. Ed ella, allargando le braccia, fece un atto di persona vinta, che lascia andare la sua vita al vortice soverchiante.
Pure, nella serata, ubbidendo alla sua natura buona e generosa, ella andò a lui, nella pace fredda del grande salone e lo pregò che le perdonasse. Si umiliava, tutta confusa, sentendo sempre più grande farsi la lontananza fra loro, cercando, con la bontà , con la pietà , di riavvicinare le loro anime, nuovamente. E lo vide tremare, come essa tremava, di dolore, di tenerezza, di compassione: egli le carezzò lievemente i capelli, con quel moto affettuoso, famigliare, aggiungendo qualche vaga parola di conforto: e l'uno voleva consolar l'altro, a forza, come di una grande sventura ignota, di cui nessuno dei due voleva pronunziare il nome. Nell'ombra del salone che solo la vampa del caminetto spezzava, gittando spruzzi sanguigni di luce sul vecchio tappeto veneziano, essi si tenevano per mano, frementi di dolore, balbettando incerte parole di consolazione e sembravano, insieme, in quell'ora bruna, in quella camera, la rovina di una grande cosa, i superstiti di un naufragio dove tutto avessero perduto.
Nè il sole novello, nè le miti giornate di ottobre, nè gli sforzi dei loro cuori coraggiosi e onesti, nè la paura della catastrofe che vedevano avvicinarsi e pure volevano scongiurare, potevano ridonare a Grazia e a Ferrante, ciò che era irreparabilmente fuggito. Ancora per vari giorni Venezia che tanti amori e tanti amanti ha visti e dovrà ancora vedere, per vari giorni la soave città languente di morte, vide questi due amanti nelle suecalli,nelle sue piazze, nelle sue chiese, sempre insieme, tenendosi sempre per mano, come se volessero comunicarsi un fluido che li legasse per sempre, come se volessero vincere un potere ignoto che aspirasse al dissolvimento. Incapaci di reggere alla solitudine della loro stanza segregata, della loro casa così piena di tristezza, incapaci di prolungare un dialogo solitario senza che li conducesse, istintivamente, inconscientemente, a una fatale conclusione, essi cercavano di mettere il mondo esteriore fra loro, desiderosi di quanto potesse distrarre i loro occhi e le loro anime. Quella semplice e bonaria vita esterna veneziana, li seduceva, non in sè, ma perchè li toglieva alla tetra domanda della loro coscienza; le lunghe stazioni sotto le Procuratie, innanzi ai piccoli tavolini del caffè Florian, dove si ripetono, meno ingenue e meno piacevoli, le scene goldoniane; le lunghe stazioni, in piazza, guardando il volo dei colombi che discendono a mangiare il miglio, buttato dalle candide mani di una fanciulla inglese, ammalata di nostalgia e di anemia; le lunghe stazioni nella basilica dove, sotto le arcate che pare abbiano profondità infinite, i lumicini delle lampade moresche brillano innanzi alle sacre immagini cristiane, innanzi ai santi e alle sante dalla faccia nera e dal vestito di argento; le lunghe stazioni sulla riva degli Schiavoni, nell'ora del tramonto, in una luminosità così fine, così trasparente che nessun paese possiede, che nessun poeta ha saputo descrivere e nessun pittore dipingere; le lunghe passeggiate per le straduccie strette che sembrano corridoi di una immensa casa, la compra di gingilli, di ricordi nelle microscopiche botteghe di Merceria e di Frezzeria; le lunghe contemplazioni artistiche nei musei e nelle gallerie, innanzi ai capolavori umani e divini di Carpaccio e di Gian Bellino, del grande Paolo e del superbo Tiziano. Qui erano più lunghe e intanto più pericolose le loro dimore, poichè la sublime arte veneziana è così fatta di amore supremo e di amore terreno, che è impossibile non amare o non parlare di amore, per essa. Queste manifestazioni così potenti della passione, mentre li attraevano, li lasciavano turbati sino agli strati imi del cuore. Più di una notte, levandosi nella veglia affannosa, uscendo dalla sua stanza nella bianca vestaglia come un fantasma che non avrà mai requie, Grazia andava fino alla porta della stanza di Ferrante e sentiva che anche lui vegliava, passeggiando, fumando, schiudendo la sua finestra per guardare il negro Canal Grande. Due volte sentì che egli scriveva, che scriveva tanto concitatamente che la penna strideva sulla carta. E a chi scriveva? Ella non osò mai chiamarlo, mai chiederglielo. Due volte Ferrante era uscito, solo, forse per impostare queste sue lettere; mai era giunta una lettera di risposta. L'angoscia che li ardeva, adesso, non era più che dolorosa: era una vampa che li consumava in una lotta contro un nemico sconosciuto che prendeva sempre più terreno, che ogni giorno guadagnava una piccola o una grande battaglia; era una fiamma che li devastava da cima a fondo, facendo il vuoto in essi, senza che le lacrime alla tenerezza valessero a smorzarne l'incendio. Nè l'uno diceva all'altro il segreto di queste veglie ardenti e desolate; ma ognuno lo indovinava questo segreto, sul volto dell'altro, senza parlare, anzi temendo di parlare. Ancora camminavano accanto, nella vita, tenendosi per mano: ma a un motto, a un gesto, tremavano di veder sparire l'amata figura daccanto. La solitudine, la solitudine a cui nessun segreto resiste, la solitudine che risolve a rilento o bruscamente tutti i grandi problemi morali dello spirito, era quella che li sgomentava. Avevano deserta la casa, ora. Un giorno, sul finire di ottobre, non sapendo dove portare il loro bizzarro tormento, s'imbarcarono sul vaporetto che porta all'isola del Lido, un'isola tutta verde, piena di piccole ville, che da una sponda dà sulla laguna, sul mare immobile, dormiente, dall'altra sponda sullo squillante, fragoroso, tempestoso Adriatico. È su quella sponda che si erge il bello stabilimento di bagni marini, dove accorre tutta Venezia e vengono italiani da tutte le parti, e anche stranieri, tanta è la gaiezza estiva di quel ritrovo. Ma nulla è più stranamente malinconico della città di svernatura al mese di agosto, e delle spiaggie di bagni quando l'estate è fuggita via, da tempo. I viali dell'isola erano deserti e il piccolotramvaiandava e veniva, pian piano, vuoto, tanto per fare le sue corse di quel giorno. Lo stabilimento aveva tutte le porte dei suoi camerini aperte; alcune sbattevano contro le pareti, per il vento forte del mare, le onde schiumavano rabbiose contro i pali, frangendosi. Nel grande salone-terrazza, non un'anima; solo il custode sonnecchiava nel suo casotto, malgrado il cattivo tempo. Grazia e Ferrante andarono ad appoggiarsi alla ringhiera, guardando quel grande mare burrascoso che li aspergeva di minute stille gelide. A un tratto una voce amica li riscosse dalla triste contemplazione: un altro solitario era, colà , un amico di entrambi, un gentiluomo meridionale, cuore profondo sotto apparenze un po' leggiere, un po' scettiche. Era il solo che aveva intravveduto la loro passione: e trovandoli colà non mostrò nè meraviglia nè freddezza. Per una stranezza Grazia e Ferrante oppressi dalla solitudine e dalle loro segrete torture morali, per quanto prima avevano odiato ogni contatto umano, per tanto in quel giorno furono contenti di trovare quell'amico, quel terzo. E la conversazione, sui banchi umidi di salsedine del vuoto stabilimento, fu insolitamente cordiale, come se un misterioso vincolo legasse spiritualmente quelle tre persone. E anche Giorgio, il gran signore ricercato dei balli e delle caccie, lontano da Roma, in quel posto così deserto, in quella giornata di temporale, pareva avesse dimenticato il suo leggiadro scetticismo, pareva che una nota più sentimentale, più tenera, vibrasse nel suo cuore e nella sua voce. Grazia che lo conosceva da anni glielo disse.
—È il contagio—disse Giorgio, con una velatura di sorriso.
—Della persona?—gli domandò Ferrante, serio serio.
—Anche. Ma è Venezia, sovra tutto. Io non posso ritornare in questo paese, senza sentir rinascere in fondo al cuore tutte le onde soffocate di tristezza.
—Anche voi?—mormorò Grazia, abbassando gli occhi.
—E perchè ci vieni?—chiese Ferrante.—Perchè scavare in sè questi strati così amari? I saggi sanno dimenticare.
—Sei un saggio, tu?—gli chiese ironicamente Giorgio.
—No—fece l'altro, con un senso di umiltà nella voce.
—E io neanche. Ogni anno vengo qui per un pellegrinaggio
—Religioso?—chiese Grazia.
—…. pietoso—rispose Giorgio.—Quando la vita esteriore più mi ha inaridito tutte le fonti del sentimento, quando più mi sento un freddo egoista capace di sacrificare tutto al mio piacere, quando più mi corrode la pazza vanità e la folle ambizione, allora io lascio Roma, lascio Parigi, lascio Londra e vengo qui, solo, a guarirmi, a diventar più umano, più buono. Voi ridete di me, forse?
—No, non rido—soggiunse Grazia, pensosa, guardando il mare coperto di bianca spuma.
Ferrante taceva, pensando.
—Venezia mi contrista e mi guarisce—disse il bel gentiluomo, con la contrizione di un penitente, passandosi la mano sulla fronte, a scacciarne le ombre che la offuscavano.
Stettero in silenzio, tutti tre: ognuno era preso dal proprio pensiero e il mare mugghiante accompagnava i voli di quelle fantasie. Fu Ferrante che si risolse a rompere il silenzio per il primo, sospirando chiedendo all'amico:
—Dicci questa istoria, Giorgio.
Giorgio guardò Grazia: e benchè ella non parlasse, lesse negli occhi di lei una preghiera.
—Che vi può importare, una storia d'amore?—domandò Giorgio ad ambedue, guardandoli.
Ma nuovamente vide in ambedue tanto ardente e doloroso desiderio di sapere, di conoscere, di misurare, che intravvide financo, dietro il desiderio, l'angoscia di ambedue. Intravvide, non si spiegò: intese che come a lui era necessario, in quel momento, uno sfogo, ad essi era necessario, in quello stesso momento, l'appagamento di quel tormentoso desiderio.
—Sentite—disse.—Io ho conosciuta quella soave donna a Livorno, quattro anni fa. Era una polacca; si chiamava Anna; aveva un marito brutale, e che ne era molto, molto geloso. Ella era piccola, delicata, con certi lunghi e folti capelli fulvi e una salute così delicata, che il più piccolo soffio di vento la faceva tossire. Così leggiadra e così debole, io l'ho amata più di tutte le donne opulente, trionfali, maestose, l'ho amata più di qualunque donna abbia mai incontrata, più di qualunque donna potrò mai incontrare sul mio cammino….
—Ella vi ha amato?—chiese ansiosamente donna Grazia.
—Sì—disse Giorgio con semplicità ,—Era buona e pia; ma mi ha amato, con tanto ingenuo trasporto, che io consumato alle esaltazioni della passione, fui scosso per la prima volta. Era così geloso il marito, che non le lasciava un'ora di libertà : qualche volta soltanto, quando ella andava in chiesa, poichè ella era cattolica e lui ateo. Bene, la cercai in chiesa: ella tremava, povera piccola, poichè diceva che questo era un sacrilegio, un'offesa a Dio, il quale ci avrebbe puniti, nell'amore nostro. Ma non poteva fuggirmi come io non potea trattenermi dal seguirla dovunque, dovunque….
Ferrante e Grazia, ora si guardavano.
—Tanto che—soggiunse Giorgio, preso dall'amarezza eccitante della sua narrazione—tanto che qualche cosa fu detta al marito; e da un giorno all'altro egli decise di partire. Oh quella notte! Coi piedi nudi nelle pianelle, ravvolta in uno scialle, tremando di freddo e di paura, Anna ebbe il coraggio di lasciare la sua stanza, senza svegliare suo marito e di venire da me, disperata, soffocando i singhiozzi. Ogni minuto che passava, di quella notte, poteva metterci in pericolo di morte, entrambi, eppure non sapevamo dividerci, delirando di amore e di dolore. Quando dovette lasciarmi, ella s'inginocchiò per terra e disse una breve preghiera, e sempre inginocchiata, giurò sopra un piccolo crocifisso di argento che le pendeva dal collo, che per il giorno venti di ottobre, alle dieci di sera, ella si sarebbe trovata a Venezia, ad aspettarmi: e che solo la morte avrebbe potuto impedirglielo….
—Venne?—domandò Grazia.
—Sì—riprese Giorgio—venne.—Aveva giurato. Io era da dieci giorni all'albergoDanieli, nascosto, inquieto, folle talvolta di paura, talvolta di speranza. Venne. Ma era morente, la piccola adorata; nè io seppi mai come aveva potuto sfuggire alla sorveglianza del marito, e quale lotta l'aveva ridotta in quello stato. Pure fingeva di star bene, per amarmi, per amarmi assai, sempre meglio, sempre più, mentre discendeva precipitosamente alla morte….
—Una breve stagione d'amore?—chiese Ferrante.
—Diciotto giorni.—Una sera che era andato fuori, costretto da un dovere inrecusabile, trattenendomi due o tre ore, al ritorno, non la ritrovai più. Era venuto il marito, improvvisamente, e l'aveva portata via. Per due giorni girai Venezia come un pazzo, cercandola. Non credevo a una immediata partenza. Poi mi misi disperatamente in via per la Polonia….
—E la raggiungeste?—disse Grazia, quasi affannando.
—No—fece Giorgio—era morta per viaggio.
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I tre amici, come si avanzava l'ora pomeridiana, uscirono dallo stabilimento e si avviarono lentamente verso la spiaggia lagunare dove ancorava il vaporetto che doveva ricondurli a Venezia.
—Voi avete dovuto molto soffrire di quella morte—osservò mestamenteGrazia che camminava fra i due uomini, rivolgendosi a Giorgio.
—Molto: ma per poco tempo. Sapete che il mondo dove viviamo e la vita che facciamo, non ci permette di soffrire che intensamente.
—È vero—disse Ferrante.
—Però—soggiunse Giorgio—quella poveretta è stata per me la grande, fuggente, sparente, idealità , buona e pura di cui tutti abbiamo bisogno per vivere, sia essa una finzione o una realtà , una donna o un'idea. Intendete ora perchè chiamo Venezia un pietoso pellegrinaggio; perchè Venezia mi sembra la tomba dove è sepolta tutta la poesia della mia vita; e perchè quando mi sento divenire perverso a furia di frivolezze e di scetticismo, io vengo qui a ricordare la dolce creatura vissuta e morta solo per l'amore.
S'imbarcavano, soli, sul vaporino; poichè niuno faceva più il tragitto dal Lido a Venezia. Rosso, rotondo, come disco di rame arroventato, il sole tramontava, basso sull'orizzonte. Erano seduti tutti tre sulla terrazzina di prora e tacevano. A un tratto Grazia, scuotendosi, disse:
—Povera donna! Avrebbe potuto vivere, amare, esser felice….
—Chissà !—disse profondamente Giorgio.—Se non fosse morta lei, sarebbe morto l'amore.
—È vero—-disse Ferrante.
—È vero—disse Grazia.
Nè più sino alla sera riparlarono di tal soggetto: tennero compagnia a Giorgio fino a che egli ripartì, alle dieci e mezzo per Roma, discorrendo quietamente e freddamente di arte, di poesia, di viaggi, della società romana e napoletana, cui appartenevano. Invece di prendere la gondola, per ritornare alla loro casa, in quell'avanzata ora notturna, essi, per un tacito accordo, se ne andarono per le strette vie, a piedi, ombre rasentanti le alte muraglie dei palazzi patrizii, salienti e discendenti per i ponticelli, fermantisi ogni tanto, per tacito accordo, a contemplare le nere acque dei canali. Non si davano il braccio, non si tenevano per la mano, non si parlavano: andavano col capo chino, senza neanche guardarsi, quasi l'uno non si accorgesse più della compagnia dell'altro. La stazione era assai lontana, dalla loro casa; il tragitto era lungo e camminando così vi misero più di un'ora. Arrivati innanzi alla piccola porta di terra, con una chiave Ferrante la schiuse. Ma non entrarono: si guardarono, immobili, con una gelida occhiata.
—Addio, Ferrante—ella disse, glacialmente.
—Addio, amore—egli disse, glacialmente.
E si allontanò, nella notte. La porticina si richiuse subito. In ambedue, la grande fiamma era spenta.
A Enrico Nencioni.
—Chiarina, ti presento un amico, Giovanni Serra—disse la padrona di casa, mentre Serra faceva un grande inchino.
—Oh Anna, ma io lo conosco!—esclamò Clara Lieti, vivacemente, stendendogli la mano con un atto famigliare.
—Veramente? E come?—soggiunse Anna, con quel falso interesse mondano, che copre di amabilità la perfetta indifferenza.
—Da vari anni…. da moltissimi anni…. da un numero infinito di anni, lo conosco—e Clara finì con una risatina squillante.
—Non tanti, poi, signora Lieti—osservò Giovanni Serra, quasi facendo una correzione di pura cortesia.
—Allora, tutto va bene, vi lascio insieme—concluse la gentile e frettolosa padrona di casa, allontanandosi verso gli altri gruppi che popolavano il suo salone.
Serra restò in piedi, presso la signora Lieti: e taceva. Malgrado la luce bonaria dei suoi occhi azzurri, la sua fisonomia aveva qualche cosa di austero, che contrastava con la mondanità dell'ambiente.
—Non sedete?—chiese Clara, reprimendo un breve moto d'impazienza.
Egli ebbe una fugace esitazione; poi, si sedette in una poltroncina, accanto a lei. A poca distanza da loro, tre signorine chiacchieravano e ridevano con due giovanotti.
—Perchè vi siete fatto presentare?—domandò Clara a Serra, rompendo il silenzio, parlandogli con una intonazione più intima nella voce.
—Non sono stato io. Mi ha detto, la signora Anna: venite, vi presento a una donna di spirito.
—Sono io, disgraziatamente….
—Come, disgraziatamente?
—Lo spirito è una gran disgrazia, per una donna—ella sentenziò, con una di quelle tetraggini improvvise che le oscuravano la sorridente faccia.
—Perchè, signora? E un dono affascinante, un dono conquistatore….
—Per conquistare che?
—I cuori degli uomini.
—Bella conquista!
—Non l'apprezzate più?
—No, Serra—ella disse, profondamente.
Egli la guardò, ma senza stupore. Si vedeva che non le credeva. Ella abbassò le palpebre, per celare un lampo d'ira passeggiera nei suoi dolci, ma anche fieri occhi castani.
—Mi duole, che vi abbiano presentato….—mormorò, poi, quasi parlando a sè stessa.
—Lo ripeto, non è colpa mia.
—… come se foste un estraneo—ella soggiunse, vagamente—mentre io ho pensato a voi…. spesso….
—Oh!—disse lui, con una incredulità modesta e cortese.
—… molto spesso—ella terminò, senz'aver l'aria di accorgersi della sua negazione.
—E come mai?—domandò lui, con un po' d'ironia, niente altro.
—Così—disse Clara tristemente e brevemente.
Giovanni Serra abbassò gli occhi, quasi celando una domanda che si potea forse leggere nel suo sguardo. Di lontano, mentre attraversava il salone per pregare una signora di cantare, Anna mandò loro un sorriso: li vedea discorrere, era contenta di aver bene collocati due suoi ospiti.
—Voi non credete alle voci interne dello spirito?—ella gli chiese, guardandolo fiso, con quei suoi occhi che il pensiero rendea più oscuri.—Voi non avete inteso che io pensava a voi?
—No, signora.
—Non credete a queste voci, o non ne avete inteso?
—Io ci credo, come credo purtroppo, a tutte le cose sentimentali: ma nulla mi ha detto nulla—e sorrise.
—Peccato! peccato!—ella soggiunse, a bassa voce.
Cantavano, adesso. Era una signora bionda e fine che, in giovinezza, si destinava al teatro e che un felice matrimonio aveva tolta al palcoscenico. Ma ella cantava dovunque, sempre, appena le domandavano di cantare, posando il suo manicotto o il suo ombrellino, levando la testolina dal colletto di pelliccia che ornava la sua mantellina, come un uccelletto canoro che vive del suo canto e morrebbe, se non cantasse. Tutti tacevano, nel salone: donna Clara Lieti ora guardava la cantatrice, quasi non volendo perdere una espressione di quel volto, sereno nella soddisfazione del canto. Poi, voltandosi verso Serra, pianissimo, gli disse, con un sorrisetto malizioso, tutta mutata nel viso:
—Non vi siete ammogliato, poi?
—Io? E perchè avrei dovuto ammogliarmi?
—Dicevano….
—Voi ci avete creduto?—egli le chiese, mostrando per la prima volta una ansietà nel viso.
—No, mai.
—Volevo dire—replicò lui, tranquillizzato.
—Mai creduto, mai—riprese Clara, sorridendo.—Poteano passar gli anni, potevate viaggiare, cambiar paese, cambiar viso, dimenticare la patria, ma ammogliarvi, no!
E le balenò il trionfo, nel viso. Egli si ritrasse: una espressione di austerità , di nuovo, gli chiuse il volto.
—Siete fedele, voi—esclamò lei, ridendo.
—Io, sì—replicò, a occhi bassi, duramente.
—Fedele,quand même—e rideva sempre più.
—Quand même, no, signora Lieti.
—Vale a dire?
—Vale a dire che il fedelequand même, è l'uomo che seguita ad amare, anche se è schernito, o vilipeso, o abbandonato. A me non è accaduto nulla di questo.
—Come?—diss'ella, diventata grave.
—Io non ho amato nessuna donna frivola o perfida….
—Oh sì, Serra, voi avete amata la più frivola e la più perfida fra le donne!—ella esclamò, pianissimo, con un velo di lacrime negli occhi.
—Che importaquella? Io ne ho amataun'altra—egli dichiarò pianissimo, guardando innanzi a sè, come se vedesse la visione di una creatura incorporea.
—Ahimè, sono la medesima persona—Clara disse, pianissimo, con una mortale tristezza.
—Per me, no.
—È una illusione, Serra. Ella era cattiva, e voi avete gittato il vostro cuore.
—Il mio cuore serba un divino ricordo, un ricordo ideale a cui resta fedele: e giacchè tutto si riassume e si risolve in illusione, signora, io preferisco la mia.
—E la donna umana, la donna terrena, quella fatta di ossa, di carne e di nervi, quella che vi ha fatto soffrire e vi ha fatto piangere, l'avete dimenticata, Serra?
A questa domanda così diretta, così limpida, che Clara gli faceva, con voce pianissima, ma tremante, egli rispose subito, pianissimo, ma senza tremare:
—No, per molto tempo.
—Per quanto tempo?
—Per cinque o sei anni, credo, portai questo tormento. Dopo, ebbi una grave malattia. Quando guarii, ero guarito anche del mio segreto tormento.
—Guarito? Completamente?
—Sì, signora, completamente.
—Felice? Felice?
—Sono come un uomo liberato da una grave e crudele croce. Quando la depone, egli si sente mortalmente stanco: e, forse, si domanda, se quella croce non era la sua vita.
—Non so che farei, per vedervi felice, Serra—essa gli mormorò, pianissimo, con tenerezza.
—Quando volete, sapete anche esser buona.
—Non siate così amaro. È da un'ora, che vi parlo con la più grande dolcezza.
—È così strana, per me, la cosa, che non la capisco.
—Perchè siete così ironico? Non sentite che vi parlo a cuore aperto?
—Quale cuore, donna Clara?
—Il mio cuore.
—Quello di dieci anni fa?
—Quello di oggi, Serra.
—Io non lo conosco, donna Clara.
—È un cuore pieno di umiltà e di tenerezza.
—E perchè?
—Così. Perchè la gente si stanca di essere cattiva, si disgusta della propria perfidia, ha la nausea di sè stessa!
—Pare impossibile, donna Clara.
—Non mi chiamate così!
—Non è il vostro nome? Il vostro bel nome luminoso e glorioso?
—È il duro nome di altri tempi; chiamatemi: Chiarina.
—Vi chiamerò: signora.
—Non siate così duro, Serra, ve ne prego.
—Io non sono che rispettoso.
—Il vostro rispetto è freddezza, è sarcasmo. Sapete che odio questa battaglia di freccie avvelenate.
—Signora Lieti, perdonatemi, se vi ho irritata.
—Non mi avete irritata, mi avete addolorata.
—E da quando in qua voi soffrite, signora?
—Ah il dolore è delle più trionfanti creature, sappiatelo!—ella disse, battendo le palpebre per diradare le sue lacrime.
Giovanni Serra tacque.
—Scusatemi, se vi ho detto qualche parola pungente—egli riprese, sottovoce.—Ma la vostra dolcezza, inaspettata, improvvisa, mi ha sconvolto. Perdonatemi. Nessun cuore vi è più devoto del mio, signora.
Ella lo guardò. Il pallore e la tristezza di quel bel volto di cui egli aveva adorato la gaiezza, lo colpirono. Anna si avanzava, tutta contenta, attraverso la gente che discorreva un po' qua, un po' là , ma riunita secondo le simpatie o gli interessi.
—Ebbene, sono rifioriti i ricordi?—chiese, mostrando i suoi bei denti bianchi di donna grassottella, elegante, fredda e felice.
—Rifioriti, certo—disse, levandosi, Clara.
—Viole mammole? Rose bianche?
—Crisantemi, crisantemi, Anna!—e sulla tetra parola fece una gran risata, si licenziò con un sorriso da Serra, con una stretta di mano da Anna, attraversò il salone, salutando ancora qualcuno ed escì.
Donna Clara Lieti, sotto l'atrio del gran portone magnatizio, in piazza Santi Apostoli, sentì un gran freddo. Erano gli ultimi di febbraio: ma sovra, nel salone, il caminetto era acceso, tanta gente vi si agitava, sotto le lampade coperte dai larghi paralumi rosei. Giù la via era fredda, nella prima ora della sera: nè via Santi Apostoli è molto frequentata. Ella affrettò il passo, chiudendosi meglio nella sua giacchetta di lontra, abbassando la faccia sotto la veletta, stringendo le mani nel manicotto. Tutto quello che era accaduto, sopra, da Anna, le appariva molto confusamente in questo primo momento di solitudine; ma a traverso il tumulto delle sue sensazioni, ella sentiva, nitidamente, tutta l'amarezza di una delusione. Come, perchè? Avrebbe forse preferito che Giovanni Serra le avesse parlato del passato, scherzando, come qualunque altro uomo avrebbe fatto, violando, nella realtà del presente e dell'oblio, tutta la sentimentalità di un grande e violento amore? No, lo scherzo l'avrebbe offesa intimamente, dandole una delusione. Avrebbe ella preferito che Giovanni Serra, l'uomo che ella avea ragione di stimare come il più leale che avesse incontrato mai, fingesse, innanzi a lei, un rimpianto che non sentiva? No, ella avrebbe inteso l'ipocrisia e ne sarebbe stata tristemente delusa. Avrebbe ella preferito che egli le facesse una scena violenta, come nei tempi in cui ella infliggeva a un amore giovane, onesto e ingenuo le torture di una glaciale civetteria e le perfidie di una fantasia muliebre mobilissima? Chi sa! Ella non sapeva bene che cosa avrebbe preferito, in quell'incontro con l'antica sua vittima, se l'oblìo assoluto, o la menzogna gentile, o il rinfocolarsi della passione: ma quello che era accaduto, non le piaceva. Era scontenta e triste. Sentiva di aver fatto troppi passi sovra un terreno infido, su cui aveva vacillato varie volte: e si pentiva della via intrapresa, così, obbedendo a non so quale segreto impulso del cuore. E dire che da tanto tempo, nel mistero della sua anima, ella si preparava a un incontro con Giovanni Serra; dire che aveva tanto desiderato, mitemente desiderato questo incontro e pensato con umiltà , con tenerezza, tutte le cose umili e tenere che gli avrebbe dette; dire che ella aveva tanto creduto all'effetto della bontà e della dolcezza, sovra un cuore che ella aveva abbeverato di fiele! L'incontro vi era stato, ma stupidamente combinato, senza poesia; ella aveva detto le cose umili e le cose tenere, ma le aveva dette male ed egli non le aveva credute; era stata buona e dolce, e non aveva fatto che tentarlo dolorosamente, rammentandogli i dolori passati. Ah come era triste, e scontenta, e affaticata, e infinitamente delusa, di tutto quello che era accaduto!
—Queste cose del passato,forse, bisogna lasciarle stare—pensò fra sè, e un sospiro le uscì dal petto.
Per andare al Corso ella non aveva osato, a quell'ora, prendere la via dell'Archetto che è deserta e male illuminata: così, aveva attraversato tutta la via Santi Apostoli, sul marciapiede, uscendo a piazza Venezia. Pensò se non fosse meglio, per rientrare in casa sua, in via Babuino, prendere una carrozza. Ma la folla, di quell'ora, al Corso, la rincorò: la sua vivace immaginazione ricevette una impressione, immediata, di distrazione.
—Non ci pensiamo—disse ancora fra sè, sentendo in fondo all'anima una delusione infinita.
Così, camminò lungo le botteghe fulgidamente illuminate, guardando con occhio distratto le vetrine. Quanto si pentiva di essere stata così affettuosa e così dolce, con Giovanni Serra! No, non avrebbe mai voluto apparirgli leggiera, frivola e schernitrice, come dieci anni prima; ma avrebbe dovuto trattarlo con disinvoltura, ecco, come se nulla fosse stato. Come un altro indifferente qualunque. Quasi quasi aveva tentato di farsi fare una dichiarazione d'amore, da lui! Quasi quasi gliene aveva fatta una, lei! E quello, intanto, glielo aveva detto così chiaramente, che non l'amava più! E tutto lo scetticismo naturale e giusto, che egli aveva alimentato nel cuore dieci anni, non era sgorgato, quando quasi quasi ella gli aveva detto di amarlo! Ora, nella via, Clara Lieti, soffriva atrocemente nell'orgoglio. Quasi aveva chiesto e non aveva ottenuto: quasi si era abbandonata ed era stata respinta. Un'ira si mescolava alla delusione; ella camminava più presto, internamente esaltata dalla ferita che aveva scoperto alla sua superbia. Poi, camminando, ad un tratto, l'ira cadde:
—Bene mi sta—pensò.—Raccolgo quel che ho seminato. Giovanni ha ragione.
Un uomo la raggiunse: erano in piazza San Marcello.
—Signora, buonasera….—e si cavò il cappello, mettendosele accanto.
Era Giovanni Serra. Un po' pallido, niente altro.
—Buonasera—ella rispose, con voce stanca.—Siete venuto via?
—Sì: avrei voluto scendere con voi di là …. ma siete fuggita, così…. e poi, si poteva notare….
—Oh, non importa!—diss'ella con un sorriso amaro.
—A me, importa.
La voce di Giovanni pareva meno breve, meno secca. Evitava di guardareClara.
—Posso accompagnarvi, un poco?—le chiese, frenando il tremore di emozione che lo vinceva.
—Sì, sì, anche molto.
—Non seccherà nessuno?
—Chi,nessuno?
—Qualcuno che vi ami e che voi amiate.
—Io non amo nessuno e nessuno mi ama, Serra—ella rispose, freddamente.
—Non è possibile, signora.
—Oh è possibilissimo, credetelo.
—Voi mi parete una donna degna dell'amore di tutto il mondo—e la guardò con un impeto di ammirazione, in cui parve risorgesse l'uomo di dieci anni prima.
—Siete stato sempre molto esagerato, per me, Serra—continuò ella a dire, con un freddo e triste sorriso—e mi avete abituata male. Vi assicuro che la gente fa di meno di amarmi, senza nessuno sforzo.
—Non vi conoscono—egli disse, a bassa voce.
—Anche chi mi conosce. Specialmente chi mi conosce.
—Siete in un periodo di pessimismo, signora.
—In verità , Serra, niuno pensa di me tutto il male che io ne penso. E sì che tutti mi giudicano assai mediocremente.
—Non parlate così—egli mormorò.
—Voi stesso, Serra.
—Io ve ne domando perdono. Ero tanto turbato…. mi avete parlato in un modo così strano….
—Già : è la mia nuova maniera, quella di esser buona—disse Clara, con un sorrisetto amaro e gelido—ma mi riesce poco, come vedete.
—Fare il male, vi piaceva di più?—egli le chiese, chinandosi a guardarla attentamente, come quando gli parea intravvedere la verità di quell'anima femminile.
Ma ella schivò la confessione. Rispose, di scatto:
—Piaceva di più agli altri.
—La perfidia? A chi, dunque?
—A voi.
—A me?
—Proprio. Se io fossi stata una buona e affettuosa donnina e non una civetta infernale, se fossi stata un'anima pia e tenera e non una beffarda e arida creatura, mi avreste amata ben poco, credetemi—e le lampeggiarono gli occhi, come in quei tempi in cui egli delirava per quegli occhi.
—Se voi foste stata non buona, ma umana, semplicemente umana, Clara—egli disse, a voce bassa—allora, voi non avreste disfatta la mia vita.
—Veramente, disfatta? Mi sembra che stiate benissimo—e sogghignò.
—Io non mi lagno, signora—rispose Serra, semplicemente, ma senza durezza—e non vi rimprovero.
Ella lo guardò, in silenzio. Veramente, in quel momento, mentre attraversavano piazza Colonna tutta fulgida di lumi, Giovanni Serra le parve invecchiato. Su quegli occhi azzurri che ogni tanto aveano qualche cosa d'infantile, parea che veli e veli di lacrime fossero passati, nell'ombra e nella solitudine, quando l'uomo può lasciar erompere il suo dolore, oltre le dighe della fierezza. Su quelle labbra si era posata una stanchezza che ella soltanto ora scorgeva, la stanchezza di aver invano chiamato un nome, di aver invano invocato un bacio, di aver invano singhiozzato, nelle ore solinghe dell'abbandono. Per la prima volta, e con una intensità profonda, ella sentì che vi hanno ferite che non si chiudono mai, e sentì che il tempo può portare via una vita, ma non può portare via un dolore da un uomo vivente.
—Quanti anni avete, ora, Serra?
Ella lo chiedeva, così, vagamente, tristemente.
—Trentaquattro, signora.
—Un uomo è giovane, a questa età .
—Anche una donna—egli disse, cortesemente.
Clara ebbe un lieve moto della testa. E con una infinita tristezza, soggiunse:
—Io non ne ho più trentaquattro, amico mio.
—No? Non eravamo coetanei?
—Eravamo? Non siamo più. Io ho centotrentaquattro anni, credo. È incalcolabile quanto io sia vecchia, Serra.
E mentre ella si abbandonava a quest'asserzione, piena di un vero dolore—ella soffriva moltissimo d'invecchiare—tendeva l'orecchio, a raccogliere la contraddizione. Ma egli non contraddisse; disse, con un ritorno di candore ammirativo:
—Per me, non sarete mai vecchia.
—Vecchissima, vecchissima!—insistette lei, a denti stretti.
—Non dite questo, non lo credete: io non lo credo.
—Io ho dei capelli bianchi, fra i neri.
—Ma non si vedono: io non li vedo.
—Perchè li nascondo o li mostro con disinvoltura. Se mi guardate bene, di giorno, ho una quantità di piccole rughe, accanto agli occhi e accanto alle labbra.
—Non si vedono; io non le vedo.
—Perchè rido sempre. Ma se sono triste, non so come, i miei capelli bianchi appariscono subito e le mie rughe si vedono tutte, sottili, che tagliano leggermente la pelle, visibilissime. Che orrore!
Aveva detto questo in fretta, eccitata, come una persona che si confessa di un suo grave errore, piena di dolore, con una brutalità di particolari, che le rendean fischiante, quasi flagellante la voce.
—Io vi vedrò sempre come vi ho amata, Clara—egli le rispose, con la sua buona voce consolante.
—Ah io sono vecchia, Serra: nessuno mi ama più e nessuno mi amerà più!—gemette ella, levando il manicotto, sino alla bocca, a soffocare un singhiozzo.
Turbato sino al profondo del cuore, egli non trovò parole per esprimere il suo pensiero. Forse non ne aveva neppure uno preciso, in quell'agitazione di sentimenti. Delicatamente, con una tenerezza paterna, egli le prese una mano guantata e la carezzò fra le sue:
—Poveretta, poveretta!
—Se sapeste, se sapeste!—ella balbettò, al massimo dell'emozione.
—So…. so qualche cosa….—e il calore della piccola mano che egli sentiva, dall'apertura del guanto, aumentava immensamente la sua confusione.
—Se potessi dirvi…. amico mio…. se potessi dirvi tutto—ed affannava, come se i più terribili segreti la soffocassero.
—Tacete…. non dite niente—egli le susurrò, all'orecchio.
—Che bene mi farebbe il parlare, amico mio! ah io mi sento affogare. Da anni e da giorni, io vorrei gridare, urlare, pur di gittar via la mia pena.
E lo guardava con occhi così dolorosi e così interrogativi, così invocanti un orecchio pietoso alle confidenze, che egli si arretrò. Era pallidissimo: ma Clara, nell'egoismo della sua angoscia, non se ne accorgeva.
—Non potrei ascoltarvi, Clara.
—E perchè, e perchè?
—Così: non potrei.
—Non mi siete amico, allora?
—Sì, vi sono amico—e parlava con un evidente sforzo.
—E non vorreste confortarmi?
—Vorrei, vi giuro che lo vorrei; ma così, non posso.
—Che crudele siete! Voi sapete che se io potessi dirvi la mia croce, essa sarebbe meno schiacciante, meno pesante; voi sapete che se io potessi piangere accanto a voi, a lungo, a lungo, piangere immensamente, infinitamente, queste lacrime mi laverebbero da ogni torbido proposito: e mi negate questo sollievo. Ah siete un crudele! Non eravate, crudele!
Si erano fermati all'angolo di via Babuino, dopo aver attraversata piazza di Spagna. Egli la guardava, immobile, con gli occhi pieni di dubbio.
—Ma che donna siete voi, Clara, che non dovete intendermi nè prima, nè poi? Io, vi debbo consolare, quando tutto il tempo della vostra gioia è stato dato ad altri? Io? Chi sono io? Niente, nessuno Così avete voluto che io fossi: niente e nessuno.
—Avete ragione—ella disse, domata a un tratto, caduta nella rassegnazione e nell'umiltà .
—Non vi rammentate che vi ho adorata come uno schiavo e che avete battuto sul mio cuore, come si batte sul dorso di uno schiavo? Non vi rimprovero, non mi lamento: ma voi mi domandate anche della pietà , voi che non ne avete avuta mai!
—Avete ragione—Clara ripetè, umilmente.
—Vi rammentate, Clara, che vi ho voluto bene così teneramente e che non me ne avete voluto mai? Vi ricordate che avete lasciato che io vi amassi, incoraggiandomi talvolta, talvolta avvilendomi, facendomi passare dalla gioia alla disperazione, in un giorno, e non volendomi bene mai, mai, nè prima, nè dopo, nè mai? È vero, o no?
—È vero, è vero—ella annuì, chinando il capo, fatta quasi più piccola dall'annichilimento, in cui la gittavano il rimorso e il rimpianto.
—Vi rammentate, Clara, che ne avete amato un altro, me presente, che avete voluto che io lo sapessi, che me lo avete detto, ridendo?
—Sì, sì, è vero.
—E ora, Clara, ora che sono passati dieci anni, ora che voi avete mutato il vostro cuore, come dite, ora voi siete come allora, voi volete che io vi conforti, perchè un altro vi ha lasciata. Voi siete crudele come in quel tempo, Clara: allora ridevate, adesso piangete, ecco la differenza!
—Scusatemi—ella mormorò, nel colmo dall'avvilimento.
—Ma io sono un uomo, Clara, e se posso avere spezzato il mio cuore, se posso aver vinto ogni desiderio e ogni speranza, sono sempre un uomo, e voi non mi potete raccontare i dolori, che vi ha dato l'amore di un altro!
—Perdonatemi!
E fece l'atto di volergli prendere la mano. Ma egli la ritrasse.
—Non mi avrete capito, mai, Clara. Morirò, ma non saprete nulla di me—concluse egli, più freddamente, essendo giunto quasi a vincere la sua emozione.
Così camminarono in silenzio verso la casa di Clara. Ella andava a capo basso, sentendo di avere errato ancora, di avere inutilmente violato la fierezza del proprio cuore, mostrandone il segreto dolore, a un uomo che non poteva avere pietà di lei: sentendo di avere nuovamente offeso quel cuore che era stato così intieramente suo e che ora non aveva più forza pel desiderio, avendone solo per la dignità . Più amaro crebbe in lei il rimpianto, comprendendo di essere passata accanto all'amore, alla devozione, alla dedizione più completa, senza accorgersene, abbandonando alla solitudine, all'angoscia questo cuore inutilmente devoto e inutilmente affezionato. Era troppo tardi, oramai, anche per far risorgere in questo cuore una mite affezione: troppo tardi, per ridare a questo cuore la bella luce della fiducia. Due volte, quasi fosse sola, ella fece un piccolo cenno definitivo, con la mano aperta che pendeva lungo la gonna e le cui dita pareva avessero lasciato andare un piccolo e prezioso tesoro. Camminavano accanto: ma ella che non aveva mai capito chi egli fosse, intendeva che le loro strade erano diverse. Quando furono innanzi al portone, si fermarono. Egli aveva l'aspetto più stanco che mai; ma niuna durezza vi fu nello sguardo con cui la fissò.
—Buonasera—ella disse, con un'intonazione monotona.
—Buonasera—egli rispose, cavando il cappello e facendole un grande saluto.
Ma non si lasciarono subito. Parea che si dovessero dire qualche altra cosa. Parea che ambedue sapessero di non doversi veder più e che una qualche cosa, più intima, più misteriosa, si dovessero dire. Ella gli stese la mano: egli la rattenne un poco fra le sue, ma senza stringerla. Ambedue sedavano a stento il tumulto delle loro anime. Poi, a un tratto, egli le domandò una cosa strana, impensata:
—Che fate ora, sopra?
—Io? Nulla.
—Qualcuno vi aspetterà ?
—No. Nessuno.
Il tono era della più perfetta franchezza.
—E voi, che fate?—chiese ella con eguale incoscienza.
—Vado a casa.
—A casa! E che ci farete?
—Non so.
—Buona sera, Giovanni—ella mormorò, facendo per andarsene.
Ah, quale sussulto, lo scosse! Ella che aveva sempre trovato antipatico, brutto, volgare il suo nome di battesimo, tanto che egli aveva finito per odiarlo, ella lo pronunciava adesso, dopo dieci anni, con tanta soavità ! Egli s'inchinò e le baciò la mano, leggermente. Si guardarono: ella volse le spalle; pian piano entrò nel portone, cominciò a salire le scale. Non era forse incerto il passo della donna, salendo per quelle scale, alla sua casa deserta? Il passo dell'uomo era incerto, andando alla sua casa deserta.
Ella lo ricercò, dopo soli tre giorni: ed egli che l'aveva fuggita per quattro o cinque anni, da quando Clara, dopo un lungo viaggio, era ritornata in patria, egli si lasciò ricercare e tenne l'invito. Fatalmente, Clara era troppo sola e troppo libera, adesso. Gli aveva scritto un biglietto fra il malinconico e scherzoso, per dirgli che la sera istessa sarebbe andata al vecchio teatro Argentina, dove cantavano una vecchia musica, l'Armida, di Glück. Ella vi arrivò prima. Vi era un gran ballo, quella sera, all'Ambasciata d'Inghilterra, e tutta la grande società romana era colà : l'Argentina era quasi vuota, male illuminata, freddina: pochi amatori di musica antica stavano nelle poltrone, immobili, a pregustare le melodie incantatrici. Clara era vestita di nero: stava in un palco di terza fila, di fianco, scelto apposta: una veletta nera le scendeva dal cappellino molto semplice e molto carino. Così, sembrava più piccola e più giovane. Serra tardò. Due o tre volte, ella pensò che non sarebbe venuto e si pentì di avergli scritto. Aveva la più ferma volontà di essere umile e schietta, ma il suo amor proprio dava dei sobbalzi all'idea di un rifiuto sprezzante. Però, quando egli entrò, senza far rumore, ella chiuse gli occhi, a nascondere la gioia del suo sguardo. Ella si voltò, gli sorrise e gli stese la mano:
—O ma belle ténébreuse….—egli disse, con una certa disinvoltura.
Il tono disinvolto durò così, un pochino. Poi, a lui sfuggì una frase pericolosa:
—Io non voleva venire….
—E perchè?
—Mah…. per paura.
—Paura di chi?
—Di voi.
—Di me? Paura?
—Me ne avete sempre fatta un poco, Clara.
—Io sono una povera scema—diss'ella, con la più perfetta umiltà —io non faccio paura a nessuno.
Ed era umile e semplice, nello stesso tempo: e una gran bontà le si leggeva negli occhi, nel sorriso, trapelava nella sua voce. Gli parve piccolina, così giovane e sempre così cara! Pure, volle dire quest'altra cosa lui:
—Credevo che non sareste venuta….
—Io? E perchè?
—Per farmi soffrire….
—Io vorrei che foste l'uomo più felice della terra, amico mio—esclamò ella, con una sincera convinzione.
Giovanni ebbe un sorriso malinconico. Disse, di nuovo:
—Sì, sì, ho creduto che non sareste venuta….
—Come avete potuto credermi così cattiva?
—Il mio animo è così combattuto dai dubbi, Clara—e il volto gli si turbò.
—No, no, non parliamo di ciò—ella replicò, subito, interrompendolo.—Fa male ad ambedue.
—È vero—egli consentì. Un sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra. Ma il pessimo demonio che si annida nelle anime buone e le fa tormentate e tormentatrici, gli fece soggiungere:
—Mancavate così spesso ai convegni, allora!
Ella guardò sul palcoscenico, un momento. Lo chiamò, poi:
—Giovanni?
—Che volete?
—Mi fate un piacere?
—Sì, subito.
—Vogliamo lasciare in pace il passato? Vogliamo non amareggiarci qualche ora graziosa, che possiamo passare insieme? Vogliamo essere anche per un mese, anche per una settimana, anche per una sera, due cari amici che si ritrovano, che non ricordano più i torti comuni, i torti di uno, è più giusto, e che si dà nno, ingenuamente, alla serenità e alla letizia di un colloquio senza ira e senza malintesi? Vogliamo?
—Potremo noi far questo?—chiese Giovanni ansiosamente.
—Se voi lo volete, sì.
—Io lo voglio, Clara.
E quetamente, tirandosi un po' indietro, i due si posero a discorrere sottovoce, guardandosi con dolcezza, l'uno prendendo la parola dall'altro, senza mai alterarsi, senza mai alzare il tono della voce, mentre la soave musica glückiana che culla l'incantesimo del cavalier Rinaldo, pareva cullasse quel dialogo così mite e così dolce. In verità , Clara fu perfetta, quella sera. Giustamente malinconica, ella seppe a tempo sorridere, perchè il loro colloquio non cadesse nella tetraggine, dove sarebbero risorti gli amarissimi ricordi del passato: e tutta una dolcezza fioriva dalla sua malinconia e dal suo sorriso, dalle sue parole come dal suo silenzio. Più, dal suo silenzio. Giacchè ella lasciò molto che parlasse lui, con le manine inguantate di nero congiunte sul suo ventaglietto a stelline d'argento, con il viso intento dietro il sottil velo nero, con gli occhi placidi e dolci, con la bocca tranquilla e dolce che approvava, con un gentil motto delle labbra. Sovra tutto, ella non rise mai. Si rammentava che egli, dieci anni prima, nei tempi dell'amore e del tormento, detestava quel suo riso squillante e clamoroso che le scopriva tutti i denti bianchi, che dava un non so che di feroce alle labbra rosee e che le riempiva gli occhi di scintille. Lo aveva tante volte visto fremere e impallidire, dieci anni prima, a quel mal riso beffardo e aveva sempre più riso, per ucciderlo a forza di risate, come in una leggenda! Non rise mai, quella sera, mentre Armida cantava le sue magiche canzoni, che davano le visioni ineffabili al sonno di Rinaldo. Lo ascoltò, serena, raccolta, con un'attenzione così dolce, che l'animo di Giovanni, restato in grande trepidanza sino all'entrata in teatro, si venne rassicurando, rianimando, rallegrando. Due o tre volte, involontariamente, egli alluse al passato, giacchè troppo il suo amore mancato aveva influito sulla sua esistenza, deviandola, torcendola ad altri ideali dello spirito, più alti, più inaccessibili e più tormentosi. Ma ella, dolcemente, non rispose alle allusioni che con un cenno di umiltà , abbassando il capo: ed egli si riprese subito, commosso da tanta dolcezza. Solo a vederla così, ascoltatrice intenta e cheta, tutta data alle parole che, egli le diceva, coi begli occhi limpidi nella loro nerezza, piccola, vestita di nero, senza gioielli, senza nulla che sfolgorasse, senza nulla che stridesse, egli si sentì invadere da una tale letizia dell'anima che giammai gli parve di averne provata una simile. Ella fu, in questo, perfettissima: giacchè lasciò svolgersi quell'alta consolazione spirituale, senza avere l'aria di sospingerla, di provocarla, di goderne come di un trionfo: e quando lo spettacolo finì, si levò in piedi, pian piano, prendendo il suo mantello. Egli fu più lesto di lei: ed ella sentì che mentre l'aiutava ad indossarlo, le sue mani tremavano. Allora, ella ebbe un pensiero orgoglioso, muliebre. Pensò:
—Ora mi dà un bacio.
Egli s'indugiò a metterle questo mantello ed ella sentì il suo respiro, sulla sua nuca: ma Giovanni non le dette il bacio. E come Clara aveva nascosto la sua subitanea ambiziosa idea, così nascose la sua pronta delusione. Nè fu una delusione fortissima. La dolcezza di quella serata, aveva ingannato anche lei. Ella sapeva bene di fare uno sforzo su sè stessa, per reprimere gli impeti del suo temperamento bizzarro e per essere assolutamente dolce: ma sperava di poter continuare così, sempre che lo volesse seriamente. E come lui credeva di aver innanzi una creatura trasfigurata, che gli avrebbe dato le fredde, tranquille e ultime tenerezze senz'amore, ma tenerezze sicure di un'amicizia muliebre, così ella si lusingava di poter essere questa amica gelida, affettuosa e quieta.
Però, ambedue, chiudendo gli occhi, si lasciarono andare a questa consolante fiducia. Egli cominciò a vederla più spesso. Ella era molto stanca, invincibilmente stanca della vita mondana che aveva fatta sempre: e si appartava volentieri. Se andava a una passeggiata, era in ore strane e in posti deserti: lo avvertiva, egli ci veniva. Se andava in un teatro era alle terze rappresentazioni, in serate vuote; e dieci minuti dopo il suo arrivo, entrava lui, nel palco, si sedeva in fondo, ella si tirava indietro, un poco. Vestiva di scuro, sempre; sapeva di piacergli così. Si può essere una semplice amica, ma si deve piacere all'amico. Parlavano con fredda tenerezza. Molto ella ascoltava: ma quando diceva qualche parola, era sempre sapiente, detta con la più squisita cautela sentimentale. Giammai un'allusione al proprio cuore, al proprio stato, nè diretta, nè indiretta: sempre la massima pietà per gli altri, la massima indulgenza per ogni peccato, come chi sa che è impossibile non peccare, quando si deve peccare. Egli si era mutato, però. Non poteva tenere il patto di non evocare il passato. Era la sua vita, il suo amore di dieci anni prima, e ricompariva sempre più spesso, fino a che divenne il solo soggetto dei suoi discorsi. Taceva da tanti anni e con tutti, che ora la verità di quella mortale passione sgorgava infrenabile. Ella ascoltava, stupefatta; ma non interrompeva mai. Veramente, egli aveva ragione: Clara non aveva mai capito quanto era stata amata: ora, lo capiva. Ogni tanto, quando egli le diceva una delle sue torture ineffabili di gelosia, di allora, ella faceva un atto come per chiedere perdono, un atto in cui ella si dichiarava colpevole, sì, ma incosciente, ma ignorante, ma degna di perdono. Egli la guardava con tanta tenerezza, che, senza parlare, le diceva di averle perdonato. Quando egli si meravigliava che ella avesse potuto essere così atroce, essa gli diceva di esserne stupita, di stupirsene, lei stessa: e ciò come se si parlasse di una donna assente, di cui si compatissero gli errori. E quando egli giungeva a narrare certe ore terribili in cui avrebbe voluto morire, pure di strapparsi dal petto questo amore, ella aveva una frase di pietà profonda, intima, raumiliata, la frase del carnefice pentito innanzi alla sua vittima:
—Voi siete buono.
Niente altro, diceva. Ella non si difendeva mai, nè si accusava: quando egli l'accusava, gli dava ragione, con un'occhiata, con un triste sorriso, con un cenno espressivo della bella bocca. Vi era un ritornello, che egli pronunziava sempre, nervosamente, a traverso i suoi racconti scuciti; un ritornello che rivelava l'attossicamento della sua vita, in tutte le sue più pure sorgenti, l'avvelenamento crudele di un sangue giovane e di un'anima, resa inetta a vivere e incapace di morire così. Il ritornello:
—Che veleno mi avete dato, che veleno!
Quando ella lo udiva, aveva un moto così pessimista della testa e della persona, sulla crudeltà muliebre, che egli si commoveva. Talvolta, tornava la frase:
—Quanto veleno, Clara, quanto veleno!
Ella diceva, allora, umilissimamente:
—Avete ragione.
Ma da questa sua umiltà voluta, e poi quasi fatta naturale, nei loro colloqui, da questo suo abbassarsi nella coscienza dei suoi gravi torti, da questo non difendersi giammai, da questo dargli ragione, sempre, da questo racconto triste e violento di un amore infelicissimo, ella trasse una nuova sensazione e un nuovo sentimento. Il senso della sua colpevolezza, verso Giovanni, giganteggiò ai suoi occhi: e il sentimento della riparazione divenne acuto e ardente, quanto era stata la colpa.
Così, mentre Giovanni risaliva tutta la piena della sua grande sciagura sentimentale e con la sua sensibilità fine e tenera ne approfondiva, narrandoli, tutti i dolorosi particolari, Clara che aveva un temperamento più fantastico che sensibile, esagerava, con una dura voluttà di abbassamento, contro sè stessa, la propria aridità passata e l'atroce perfidia. Tanto che, alla fine, secondandolo e sorpassandolo ella, ambedue sembrarono accanirsi contro una persona assente, lontana, morta, che ad ambedue avesse commesso i più gravi torti. Anzi quella lunga istoria intima, tenuta chiusa nel cuore per dieci anni di esistenza triste, priva di spirituali conforti, traboccando dalle labbra di Giovanni perdeva molta amarezza, nello sfogo: e la naturale indulgenza di quel cuore virile che non sapeva dimenticare, ma sapeva perdonare, trovava delle misteriose scuse alla donna che era stata con lui senz'amore, senza carità , senza pietà . Invece, quella medesima istoria, a Clara sembrava più lugubre e più ignobile che mai, quando ella pensava il come e il perchè della sua perfidia e della sua durezza. Internamente, ella si maltrattava, molto più che Giovanni l'avesse maltrattata mai, nei momenti di maggior furore. Ogni tanto, quando egli le aveva descritto una delle sue sere tragiche, di quel tempo, quando egli passeggiava le serate intiere sotto la sua casa, non per vederne le finestre illuminate, giacchè ella era fuori, a ridere, a divertirsi, ma per aspettarla quando tornava, per vedere con chi tornasse, per vedere il suo bianco volto nella oscurità , per udire quel riso alto e beffardo e per allontanarsi, non salutato, non riconosciuto, non visto, non rammentato, egli, col più tenero dei rimproveri, le prendeva le mani e le chiedeva:
—Come avete potuto essere così cattiva?
Ella non s'inteneriva, col viso chiuso, con le sopracciglia aggrottate, piena d'ira e di disprezzo contro questa Clara tanto colpevole, e rispondeva, duramente:
—Io sono stata sempre cattivissima.
—Chi sa….—mormorava lui, nella semplice clemenza del suo animo—chi sa per quali strane ragioni….
—Non v'illudete, Giovanni: per nessuna misteriosa ragione. Non vi fate di me una figura romantica. Io ero civetta, volgare e cattiva come l'ultima delle donne, ecco tutto.
—No, no, cara donna, non vi avvilite così—soggiungeva lui, colpito dai più bizzarri sentimenti, in contraddizione—io non voglio che vi avviliate. Forse, io fui ingiusto: forse, sono ingiusto ancora adesso. Chi soffre, chi ama, è così facilmente ingiusto.
—Voi siete il più onesto e il più buono fra gli uomini—ella rispondeva, con gli occhi velati dalle lacrime.
Tacevano. Spesso, in quel periodo acuto di reminiscenze, mentre Giovanni si lasciava andare alla immensa consolazione di parlare del suo amore passato, egli intravedeva confusamente, in queste tenere e tristi confidenze, non so quale pericolo. L'intensa attenzione con la quale Clara lo ascoltava, la squisita furberia sentimentale con cui lo interrogava, i suoi silenzii pieni di una repressa emozione, a un tratto facevano risorgere tutti i suoi dubbii e la sua anima sofferente si rigettava indietro, sgomenta di essersi troppo abbandonata. Spesso, diffidente vagamente, egli tentava di togliere il discorso, dicendo che questi ricordi lo turbavano troppo: ma ella l'obbligava, prima con la dolcezza, poi con una certa energia di volontà coperta di dolcezza, a ritornare alla triste istoria. Una sera, in una passeggiata al chiaro di luna, gli disse:
—Ditemi tutto. Forse mai più ci potremo vedere così liberamente e così spesso: forse, fra una settimana, fra un giorno, non ci vedremo più. Dite, dite, che io sappia, che io non muoia senza aver saputo, che qualcuno mi ha veramente amata.
—Potremmo non vederci più, Clara?
—La vita è oscura—ella rispose, profondamente.
Forse, per questo, ella moltiplicava gli incontri, dandogli sempre dei nuovi convegni, ansiosa, affannosa, come se il tempo le fuggisse, come se ella avesse qualche misteriosa chiamata altrove e che la presentisse. Ella arrivava più presto, portando dei fiori nelle mani, come era il suo costume, un po' pallida sempre, sotto le fini velette nere, vestita quasi sempre di nero, piccola, con un viso che si levava verso lui, esprimente una immensa ansietà negli occhi dolci che egli aveva adorato, nella bocca ancora fresca e vivida che era stata la sua adorazione. Si stringevano appena la mano e si mettevano accanto, passeggiando piano, non vedendo nessuno, andando per le vie più strane e più remote, perdendosi per ore intiere, parlando di quel passato che ella evocava, con un motto, con un gesto. E più il tempo trascorreva, più cresceva in lei, in duplice corrente spirituale, un infinito rimpianto per il passato e un acuto rimorso. Di lontano, questo amore di cui ella aveva riso, in pubblico, questo amore di cui ella si era burlata, come una pessima femminetta, questo amore per cui ella aveva avuto il più palese disprezzo, questo amore si faceva più alto, più puro, più spirituale, staccato dal tempo e dallo spazio, sciolto dalla realtà dei fatti. In certe sere, in cui lui la riaccompagnava a casa, sino al portone, non volendo mai salire sopra—non voleva salire, era inflessibile, non voleva metter piede in casa sua—dopo aver ancora chiacchierato a lungo, nell'ombra, ella saliva sopra, così smorta che pareva svenisse. Nella casa non vi era che un sol lume, nella sua stanza da letto; ed ella l'attraversava, questa muta e deserta casa, all'oscuro, a tentoni, guardando nell'ombra. Ma quando giungeva nella sua stanza da letto, ella si gittava sul letto, col capo nascosto nei cuscini, piangendo, singhiozzando, sull'irreparabile:
—Che ho fatto, che ho fatto! Che amore ho perduto, per sempre, per sempre!
Acuto rimpianto e acuto rimorso! Essa, forse, nel furore contro sè stessa, esagerava, dipingendosi come l'anima femminile più turpe comparsa nella gran falange muliebre; ma non era men vero che la esistenza di Giovanni Serra era stata infranta da quella passione infelice, tanto che egli non aveva raggiunto, come il suo cuore e il suo talento meritavano, nè la gloria, nè la felicità : non era men vero che egli era un essere senza molla interna che lo spingesse, senza desiderii e senza speranze: non era men vero che, per questo amore, egli aveva gittato la sua salute, la sua gioventù e la sua fortuna: non era men vero che egli possedeva la più preziosa qualità umana, che è l'onestà , e la sublime virtù che è la bontà . Come non doveva Clara piangere, nella solitudine della sua stanza, tutte le più ardenti e le più amare lacrime su questo amore perduto e su questo cuore infranto? Come non doveva sentire in sè, temperamento mobile e violento, assetato di amore, assetato di felicità , la ribellione contro l'irreparabile?
Invero, si trovava di fronte all'irreparabile: ed era quello che le faceva torcere le braccia, nella notte, quando per tutta una serata ella aveva udito il mormorio dell'amore, al suo orecchio, ma di un amore finito, morto. Giacchè ogni parola, ogni frase di Giovanni Serra, pur restando nella più fine gentilezza da uomo a donna, pur avendo la poesia della tenerezza, diceva a Clara, che egli non l'amava più. Invano ella, con l'animo ansioso—era questa, la sua ansietà —interrogava ogni tono di voce, scrutava il senso riposto di ogni motto, rifaceva, da sola, tutto il loro dialogo, per scoprirvi una sottil luce presente. No, non l'amava più, malgrado la commozione che egli aveva, sempre, nel lasciarla, nel rivederla, malgrado il fascino che subiva, malgrado la gran tenerezza che dominava ogni suo atto. Amore vissuto tanto tempo e così ardentemente e ora sepolto sotto un mucchio di gelida cenere che una mano andava smovendo, mano sapiente che conosceva la storia di quel fuoco e di quella vampa e che la rievocava, sulla fredda cenere. Giovanni non parlava quasi mai del presente, con un atto di finezza d'animo, quasi dolendogli di non poter ancora ardere come prima, quasi sembrandogli un'offesa al suo idolo, la fiamma spenta e le ceneri gelate. Non diceva nulla, ma si capiva così chiaramente, che nulla più, più nulla, non la più piccola scintilla ardeva innanzi alla cara donna, simulacro vano della passione, morto, come la passione era morta. Ed ella, sì, singhiozzava nelle sue notti senza sonno su quella grande fiamma spenta, sentiva di essere passata accanto alla felicità senza vederla, allontanandosene per sempre, ma esclamava, fra l'inutile pianto: