The Project Gutenberg eBook ofLe Amanti

The Project Gutenberg eBook ofLe AmantiThis ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online atwww.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.Title: Le AmantiAuthor: Matilde SeraoRelease date: March 4, 2006 [eBook #17909]Language: ItalianCredits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at http://www.braidense.it/dire.html)*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE AMANTI ***

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online atwww.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: Le AmantiAuthor: Matilde SeraoRelease date: March 4, 2006 [eBook #17909]Language: ItalianCredits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at http://www.braidense.it/dire.html)

Title: Le Amanti

Author: Matilde Serao

Author: Matilde Serao

Release date: March 4, 2006 [eBook #17909]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at http://www.braidense.it/dire.html)

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Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the

Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at http://www.braidense.it/dire.html)

1894.

OPERE di MATILDE SERAO,

(Edizioni Treves).

All'erta, Sentinella!racconti napoletani, 3.ª ed. L. 4—Il romanzo della fanciulla, 4.ª edizione 2—Il paese di cuccagna, romanzo, 2.ª edizione 5—Il ventre di Napoli(1885), 3.ª edizione 1—L'Italia a Bologna. Con 15 incisioni 2— GLIAmanti, pastelli, 2.ª edizione 4— LEAmanti4—

1894.

Riservati tutti i diritti.

Milano. Tip. Treves

A Rocco Pagliara.

Nell'ora tarda della sera, partita l'ultima persona amica o indifferente, per la quale essa provava l'orgogliosa e invincibile necessità di mentire, chiuse tutte le porte ermeticamente, piombata la casa nel profondo silenzio notturno, interrogate con lo sguardo sospettoso fin le fantastiche penombre della sua stanza solitaria, dove sola vivente era una pia lampada consumantesi innanzi a una sacra immagine, prosciolto il suo spirito dall'obbligo della bugia e le sue labbra dall'obbligo del sorriso, ella si lasciava abbruciare dalla grande fiamma. Immobile, con le palpebre socchiuse e le mani abbandonate lungo il corpo, ritta come un bianco fantasma nel mezzo della sua stanza, sentiva un flusso di calore salire alle guancie delicatamente brune e smorte, un flusso di calore vivificarle il cervello, un'onda di lacrime calde pungerle i bellissimi grandi occhi bruni. Scorrevano taciturnamente, senza singhiozzi, le lacrime calde sulle guancie e le avvampanti guancie se le ribevevano: dal cuore e dal cervello che ardevano, si diffondeva per tutta la persona l'impetuoso torrente di quel calore ed ella sentiva tutte le sue piccole vene palpitare nella fiamma che le dilatava. Lo scoppio della passione lungamente represso, in quel generoso organismo, assumeva la forma di febbre ad altissima temperatura: ed essa, vacillante, come se avesse smarrito il senso di ogni altra cosa che la sua febbre non fosse, si lasciava cadere sul letto, rigida, con la vestaglia bianca che si stendeva come un sudario sul broccato scuro della coltre. Così, sola, con gli occhi sbarrati ove si disseccavano le estreme lacrime, guardando il soffitto pieno di ombre, col petto sollevato da affannosi sospiri come i febbricitanti, ella abbruciava di passione per l'assente, per il lontano: nè le sue labbra convulse osavano pronunziarne il dolce nome, temendo che le fatali sillabe pronunziate in quel silenzio, in quella solitudine, rivelassero a tutto il mondo il suo segreto. Sopra un fondo di fiamma, nella sua fantasia che vampeggiava, ella vedeva scritte le sillabe divoratrici di quel nome, in lettere nere e vive, talvolta immobili, talvolta confondentisi in una bizzarra danza; ma non osava pronunziare quelle sillabe seduttrici; temeva di struggersi, dicendole; temeva di morire di dolcezza, pronunziandole.

Quell'entrata così vibrante di febbre appassionata, nelle prime ore della notte, si ripeteva due o tre volte; pareva che ella si assopisse in un soave abbruciamento di sangue, in un seguirsi di fiammeggianti visioni, dove talvolta, accanto al nome adorato, si veniva a delineare vagamente un fiero profilo maschile, dove uno sguardo superbo e amoroso lampeggiava; ed ella sentiva tutto il suo spirito carezzato, cullato da questa visione; la veglia si tramutava in sopore febbrile e in sogno. Ma, ogni tanto, la visione diventava così vera, così viva, così fremente di amore che ella udiva, sì, udiva, una voce sommessa pronunziare il suo nome: ella trabalzava, ripresa da un soffocante impeto di passione, cercando con le mani, nell'oscurità, quelle calde mani amate; soffocava, bruciava. Si levava come un'anima errante, andava al balcone, sollevando la pesante tenda di broccato, schiudendo le imposte di legno, appoggiando l'acceso volto sul gelido cristallo. Era alta la notte; nella strada non passava alcuno; spesso, il freddo vento notturno agitava le fioche luci dei lampioni, riempiendo la via di bizzarre forme oscure; o qualche viandante in ritardo, ignoto, a capo basso, passava senz'accorgersi di quel balcone quietamente, mitemente, illuminato, dietro il quale stava un'ombra immobile; qualche malinconica carrozza notturna, vuota, dal cocchiere sonnacchioso, dal sonnacchioso cavallo, veniva lentamente dall'alta ombra della via, si perdeva lentamente, lontana, nella bassa ombra della via. Ella guardava questo spettacolo di oscurità e di pace, con gli occhi intenti, sentendo il freddo esteriore penetrare dalla fronte, dalle guancie, dalle labbra che quasi baciavano il cristallo: la sua febbre si calmava; le vene battenti si chetavano; il petto, oppresso, respirava più liberamente; macchinalmente ella si staccava dai cristalli, richiudeva le imposte, lasciava ricadere le molli, strascicanti tende di broccato, faceva un paio di giri nella sua stanza, guardando talvolta nell'alta e stretta specchiera la sua figura bianca e i suoi occhi che bruciavano sempre. Come tutti quelli che soffrono d'insonnia, per una forte causa morbosa o per una forte causa morale, ricoricandosi, ella sentiva come un grande refrigerio, dolcissimamente parea che si dovesse addormentare nel ricordo, nella speranza del suo amore. La passione consumatrice nell'ora che fuggiva, si faceva tutta tenerezza letificante, diventava un fresco soffio che le alitava sulla fronte, sugli occhi, sulle labbra, sulle mani, come a vincerne il bruciore, ed ella si assopiva, nuovamente, con le labbra che si muovevano a una benedizione. Ma, ad un tratto, un incubo mostruoso, senza nome, qualche cosa come un'orribile paura, la scuoteva, la faceva balzare sul letto, come cercando soccorso, non sapendo, non conoscendo, non pensando più nulla, vinta da uno spavento folle. Era allora che, levatasi, nella penombra, in preda a un delirante bisogno di soccorso, ella andava a buttarsi innanzi alla sacra immagine, prostrandosi sul gradino dell'inginocchiatoio, abbassando il capo sul duro legno di quercia, dicendo rapidamente le preghiere, per non pensare, per non sentire, pregando, pregando, pregando, con un fervore di anima disperata, restando lì, attaccata a quel legno, come se fosse quello della sua salvazione. Ma sia che l'alba la sorprendesse dietro i cristalli del suo balcone, o distesa sul letto con gli occhi spalancati, o sonnecchiante malamente, o immersa in preghiere con le labbra frementi sui grani di legno del suo rosario, certo che, a quell'ora gelida, la sua febbre era domata, era caduta: ella tremava di freddo, pallida, con le labbra violacee, con la bocca amara, con le ossa rotte, quasi uscisse dal terribile abbraccio della terzana; il viso le si era allungato e come pietrificato in un'espressione di sofferenza; i capelli le ricadevano sul collo, disciolti, prendendo certi profili tragici, che solo le chiome delle donne appassionate hanno. Invano cercava di riscaldarsi, buttando sul letto una pelliccia, facendo un gran fuoco nel caminetto, accendendo tutti i lumi della sua stanza: fra quel grande calore esteriore ella batteva i denti, si addormentava rabbrividendo, rabbrividendo, livida, con la fiamma del caminetto che crepitava, con le candele la cui fiammella strideva nel calore, col sole mattinale che entrava, scintillando, fra i velluti, i broccati e le pelliccie, non giungendo a riscaldare quel gelido corpo di donna dormiente, dalle palpebre scure e fredde come il granito, dalle labbra assottigliate e tremanti ancora di freddo. Come la mattinata scorreva, entrava la cameriera, trovando le candele che si consumavano, le legna arse che si coprivano di cenere, il sole che invadeva tutta la stanza gaiamente, e quel cadavere dormiente, che riaprendo gli occhi, rabbrividiva ancora, come se ritornasse dal gelo di un sepolcro. Ogni mattina, sopra un piatto di argento, la cameriera porgeva una lettera. Ma già la maschera umana aveva velato la sembianza della povera febbricitante: ed ella stendeva la mano, con indifferenza, a prendere quella lettera, aspettava che la cameriera avesse spento i lumi, riacceso il caminetto, spalancato le imposte al sole, aspettava, intorpidita e immobile.

—Si sente male?—diceva la cameriera, guardando il volto bruno e smorto della sua padrona che ella amava.

—No: ho freddo—mormorava la padrona, stringendo la lettera d'amore nella mano sottile e agghiacciata, senza neppure guardarne la busta, come se fosse inutile aprirla.

La fanciulla devota le riassettava le molli coltri scomposte dall'insonnia, le rialzava i cuscini disordinati su cui era abbandonata la foltezza dei capelli neri, la interrogava con una umile occhiata: ma vista la padrona tutta perduta in un pensiero, usciva discretamente dalla stanza, chiudendone la porta, aspettando di esser chiamata per ritornare. Allora soltanto, con un atto breve, quasi convulso, la smorta signora faceva saltar via la busta lacerata e leggeva la lettera tutta bruciante di passione che il suo amore le scriveva.

Lettera incoerente e puerile, balbettìo talvolta bizzarro, talvolta monotono di frasi stravaganti che si ripetevano, si accavallavano, si confondevano, si affannavano sulla carta, come nell'anima malata di chi le scriveva. Eppure egli non era nè un fanciullo, nè un pazzo, nè un infermo; era un uomo di trent'anni, vigoroso, completo nella sua manifestazione morale, che aveva saputo vivere, amare, soffrire. Era un forte lottatore che le aveva coraggiosamente combattute le sue battaglie, talvolta vinto, spesso vincitore, mai domato: era un sagace conoscitore di sè stesso, delle cose e degli uomini, capace di grande scetticismo e di grande entusiasmo, poichè questa è la vita, e saggio chi sa apprezzarla e viverla così. Eppure quell'amore nato tardi, nato improvvisamente, come quei misteriosi e voluttuosi fiori del tropico che germogliano ricchi e violenti, in una notte, quell'amore impetuoso destinato a essere soffocato sotto le apparenze fallaci della cortesia, gli faceva tremare i polsi come se lo assalisse, a ogni suo nuovo tumulto, il ribrezzo tragico dell'agonia. In certe ore di pensiero, quando gli era concesso di dialogare con l'anima sua, egli si stupiva della brevità di quella passione, della sua semplicità, mentre sentiva dentro sè scardinato ogni senso della realtà, mentre si sentiva preso per la vita e per la morte. Una sera, in un ballo, egli aveva scambiato poche parole con la bruna e pallida signora che ancora portava il nero vestito del lutto, dopo tre anni di vedovanza, che bizzarramente trascinava al ballo il nero vestito e la persona stanca, senza sorrisi, senza gioia: e come per un'attrazione ipnotica, egli aveva seguito dovunque il nero strascico di velluto ondeggiante, cupo velluto bruno, simile alle acque nere di un lago che gli alberi coprono: egli aveva fissato gli occhi sedotti sopra la mezzaluna di opali lattee, scintillanti in riflessi siderali azzurrini, che mettea una luce selenitica fra i neri capelli di donna Grazia: e come la snella persona muliebre si muoveva, indolentemente, da un salone all'altro, egli sentiva di doverla seguire, come un'ombra. Levando lenta lenta le palpebre, essa lo guardava, ogni tanto, tacendo: e una irradiazione di fascino partiva da quei grandi occhi neri, arrivava sino a lui, intensa, vibrante, conquidendolo, a poco a poco, ma continuamente, ma sicuramente. Nè egli tentava difendersi. Aveva, in quell'ora, il cuore arido e la vita fatta deserta, se non libera da una secreta catastrofe famigliare: la donna cui avea dato il suo nome era assente, lontana, nemica, egli era solo, in tutta la sua lunga giornata, solo. Perchè difendersi? Si sentiva debole e misero come un fanciullo abbandonato, mentre tutti applaudivano alla sua fermezza di carattere, al suo coraggio virile, alla dignità fiera che gli aveva suggerito la risoluzione più confacente al suo onore; egli si sentiva timido e fragile come lo stelo secco, che nelle mattinate di autunno va in cenere sotto il piede brutale del viandante, e lo sguardo di quella donna parea tremasse di tenerissima pietà, parea che gli dicesse:

—Vieni.

Breve romanzo e intenso, condotto fuor di loro da una mano invisibile: un giorno si erano incontrati fuori Roma, in quella umida, lugubre via Angelica, lungo il fiume tragico che ogni giorno ha il suo morto. Chi aveva strappato la dama ai suoi convegni aristocratici per mandarla a contemplare i vortici traditori del Tevere? Chi aveva preso l'uomo alla sua ambizione, alla sua politica, ai suoi affari? Esiste dunque una fatalità nella passione; o il cuore ha la sua seconda vista, che è anche qualche cosa di fatale; o vi è nell'anima una seconda vita latente, incosciente, sopra cui nulla può la volontà?

—È vero che mi ami?—le aveva chiesto lui, arrossendo e impallidendo, come se quella fosse la prima volta che parlasse di amore.

—Sì—ella aveva detto, senz'altro.

La virile mano dell'uomo aveva sfiorato la sottile mano guantata di nero. Si guardavano e si sentivano bruciare di passione; una uguale grande fiamma li ardeva. Più la reprimevano e più essa divampava internamente, consumando le loro forze in una febbre singolare. Temevano il mondo, malgrado che fossero liberi; lo temevano con una paura di tutti i momenti, con un tremore come d'imminente catastrofe. Niuno aveva il diritto di muovere loro un rimprovero, eppure essi temevano tutto, l'uomo che passa e sogghigna, la donna che passa e sorride, l'impiegato postale che consegna la lettera con uno sguardo d'intelligenza, il servo che domanda permesso prima di entrare, l'amico che assume un'aria discreta, l'amica che interroga con un cenno: la più umile, la più sciocca creatura li faceva fremere di spavento. Forse, amandosi in quella forma così rovente, sentivano di abbandonarsi a una passione tanto diversa dai miseri e fallaci amori quotidiani, da dover meritare l'invidia, il biasimo e la calunnia; forse, il segreto è la grande condizione dell'intensità. Così si vedevano, alla sfuggita, ogni tanto, avendo messo nella rapida ora tanti sogni, tante speranze, tanto fuoco d'amore, che non trovavano parole, soffocati, come coloro che hanno le vertigini degli altissimi pinnacoli; in tre o quattro mesi, fra la primavera e l'estate, vivendo egli a una villa sui colli albani, essa nella palazzina campestre fra gli aranci di Sorrento, si erano incontrati due volte, per due giornate, in un villaggio presso Milano, la prima volta, a Baia la seconda volta. Tutta la loro vita era sospesa a quei due giorni di passione ardente; tutto l'intervallo fra quei due giorni non era che una lunga aspettazione di giorni aridi e annoiati, di notti vegliate, in una rivoluzione del cuore e dei nervi. Ad ambedue, quando, per consolare le ore di lontananza, essi evocavano quelle due giornate, appariva come una grande fiamma lieta e alta e divorante; il ricordo era vasto, immenso, vago, quale un oceano di fuoco, sopra cui qualche punta appariva, come estremo albero di nave sommersa. Insistentemente egli si rammentava il volto smorto di lei, quando ella si affacciò al vagone fermato nella stazione di Monza e, malgrado ogni suo impeto di evocazione, pur volendo fermamente rivederla col suo delicato e profondo sorriso delle ore più felici, egli continuava ad avere innanzi quella faccia pallida di donna morente. Egli cercava di rianimare tutti i suoi ricordi, di quei due giorni, come ella era vestita, la foggia della sua acconciatura, le parole che aveva dette, il tono della sua voce: ma una sola sensazione, acuta, squisita, gli ritornava, con la persistenza di un martello sull'incudine: il profumo che avevano i guanti morbidi di Grazia e le mani sottili profumate. Quando le scriveva di quei giorni, confusamente, egli ritornava sempre a dire di quella faccia pallida allo sportello e di quelle mani odorose, di quei guanti così profumati "…che è quel profumo, dimmi, dimmi, amore, perchè io l'ho confitto nell'anima e ogni tanto mi fa piangere, come un fanciullo, perche il mio amore è lontano e io non posso avere, sotto le mie labbra, le sue mani inebrianti?…" Ed ella nella fiorita campagna sorrentina, quando i villeggianti vicini, o i suoi ospiti, ritirandosi, l'avevano lasciata sola, libera, ella voleva far riapparire fantasticamente quei due indimenticabili giorni di oasi; ma armandosi con la stessa forza, con la stessa intensità, lo stesso inesplicabile fenomeno psicologico avveniva in lei ed ella non poteva che ricordare qualche scintilla della grande fiamma. Fra un turbine roteante d'impressioni, rammentava soltanto, Grazia, un sorriso enigmatico alla sua domanda: e tu, perchè mi ami? Sì, egli aveva avuto un sorriso bizzarro, lungo, pieno di un segreto profondo: ella rivedeva sempre innanzi agli occhi quel sorriso acuto, crudele, che parea le nascondesse la verità, tormentosamente. E nelle orecchie, nel cervello di Grazia restava una sensazione fissa, continua, invincibile, il ricordo dellasuavoce, quando la chiamava sommessamente, teneramente, dolorosamente, come se chiedesse amore e soccorso, come se invocasse pietà: Grazia, Grazia, Grazia!…

Così identica era la loro passione nel carattere, nella profondità, nella misura che il grande sogno da realizzare nacque nelle loro fantasie esaltate, contemporaneamente, germogliando nello stesso pomeriggio autunnale, nella stessa ora di disperazione, mentre erano lontani lontani, per molte miglia. Ambedue furono colpiti dal medesimo, irresistibile desiderio, contro cui nulla più poteva difenderli; ambedue arsero di tale desiderio come se fosse il più alto, l'estremo delle loro anime. L'immenso avvenire innanzi, alle loro esistenze ancora giovani, li sgomentava con la sua solitudine arida, mentre essi portavano in cuore di che riempirlo per sempre, di una strabocchevole felicità. Al punto in cui la grande fiamma che li ardeva era giunta in entrambi, era loro insopportabile vivere ancora, divisi, lontani, estranei: lo stesso cupo dolore li abbatteva. La paura del mondo, delle sue ciarle, delle sue calunnie veniva man mano scomparendo innanzi a questo bisogno di amore, di felicità che è in fondo a tutti i temperamenti umani, più freddi e più silenziosi, e che nell'ora della passione parla di una voce che nulla fa tacere. Per chi si sacrificavano? In nome di quale principio, di quale idea, di quale persona? Su quale altare sconosciuto deporre l'olocausto della loro passione?

—Io non posso più soffrire, la mia vita finisce—scriveva Grazia.

—Io non posso più soffrire, il mio coraggio è esausto—scrivevaFerrante.

In tale ardente impazienza, la loro sensibilità sentimentale raffinata dai sogni, dalle insonnie, dalle lettere incoerenti, si era fatta così acuta, così squisita, così fremente alla minima impressione, che quanto li circondava era complice del loro abbandono. Quando donna Grazia passeggiava sotto gli ombrosi viali della sua villa di Sorrento e fra gli aranci odorosi le arrivava il canto sottile di qualche voce innamorata, un improvviso fiotto di lacrime la inteneriva: e coloro che l'accompagnavano, si meravigliavano. Quando ella vedeva, nella sera, dalla sua terrazza, levarsi la luna sul golfo napoletano e tutte le case intorno soffondersi di bianca luce molle, una collera le saliva alla gola, di non essere via, di non essere con lui, in quell'ora di dolcezza, una collera contro il tempo che fuggiva, contro gli ostacoli che si frapponevano al suo amore e contro sè stessa che non sapeva vincere gli ostacoli. E a Roma, l'autunno è apportatore di novi, profondi turbamenti alle anime già turbate: quando Ferrante portava il suo vagabondaggio a Villa Borghese, dove ancora i viali pare che conservino la appassionata fantasima di Beatrice Cenci, ogni ombra femminile, snella, dal volto pallido e bruno dietro la veletta, lo facea trasalire; quando egli portava il suo vagabondaggio serotino a uno dei teatri, bastava che dietro alla nuca bionda di una donna, in un palchetto, si profilasse il volto di un uomo innamorato perchè egli si sentisse, a un tratto, immerso in una disperazione inguaribile. Allora, lontani, divisi, si tendevano le braccia come creature anelanti, che sanno un posto solo dove appoggiare il capo stanco: ed è questo il petto della persona che adorano, assente, lontana.

E allora, confusamente, nella crisi fatale di questa passione, si venne delineando un piano di amore, imperfetto, vago, ma che conduceva a un sol desiderio: quello di rivedersi, di stare insieme, lungamente, per sempre. Ognuno di loro, invece di perdere la propria forza in vani conati di dolore, avrebbe cercato di adoperarla a vincere tutti gli ostacoli morali e materiali per potersi riunire, fra quindici, fra otto giorni, in un paese solitario, tranquillo, in un ambiente di poesia e d'amore, dove potessero passare sconosciuti o indifferenti alla folla, o ravvolti in una comune indulgenza. Chi di loro due disse la parola: Venezia? Chissà! Fu così, naturalmente, che i loro cuori si fermarono su quel mite orizzonte di arte e di quiete, su quell'ambiente di case mute e sommerse nel languore che la morte precede, su quella città dove l'amore pare abbia la sua naturale atmosfera di pensiero, di lirica umana. Venezia, Venezia! Fu il nome amabile, seducente, che videro brillare ogni giorno, ogni ora; innanzi alla loro immaginazione; parola magica che fece scomparire tutte le altre; sillabe ravvolgenti e incantatrici da cui le loro anime prese, legate, non si potettero svincolare mai più. E man mano le loro lettere andarono perdendo tutto quel carattere d'indefinito, tutta quella vaghezza di contorni, quel continuo agitarsi errabondo dello spirito, quella incoerenza di anime deliranti: la passione addossata al muro della realtà, era entrata in un periodo positivo, pratico, preciso. Ogni giorno, sotto la volontà inflessibile, sotto la doppia inflessibile volontà, il loro piano acquistava linea, colore, cifra; il suo aspetto di fatto si veniva così minutamente facendo reale, che, già quasi quasi, per Grazia e per Ferrante, parea di vivere in quella realtà. Accanto a questi particolari definiti, matematici, dove la loro insofferenza si appagava, come per il fatto compiuto, ogni tanto, ma sempre più scarsamente, si veniva allogando qualche scoppio improvviso di frase amorosa: oppure una parola soltanto: Venezia. Anche l'aspetto degli amanti era mutato. Si eran fatti, nell'esteriore, freddi, risoluti, distratti in un pensiero o in un'azione, sempre occupati in qualche cosa, schivando, con la freddezza, la folla degli estranei e anche quella degli amici. Parlavan poco, brevemente. Non più le belle passeggiate della penisola sorrentina vedevano comparire il bruno volto pensoso di donna Grazia: ma in una stanza accanto alla sua erano aperti tutti i bauli, tutte le valigie della casa e la cameriera, che le voleva bene, ignorava ancora la destinazione che prendeva la sua signora. Ella vedeva che ogni giorno donna Grazia veniva chiudendo, in quei bauli e quelle valigie, tutto quanto aveva di prezioso come valore e come ricordo: ella vedeva che donna Grazia si aggirava per la casa, in vestaglia di lana bianca stretta alla cintura da un mistico cordone di seta nera, guardandosi intorno come trasognata, considerando le pareti vuote e i cassetti aperti, come se volesse portare via ancora qualche cosa.

—La signora parte per un lungo viaggio?—chiese timidamente, un giorno, la fanciulla devota.

—Lungo, lungo….—mormorò vagamente, donna Grazia.

—E io debbo venire?

—No…. Meglio che non veniate—soggiunse donna Grazia.

—Tutta sola, un lungo viaggio?—osò chiedere ancora la ragazza.

Donna Grazia chinò il capo e non rispose: un velo di tristezza le passò sulla faccia. Tacquero.

E Ferrante, come il giorno della partenza si approssimava, non andava più nei soliti ritrovi di Roma autunnale: male o bene, ma con una febbre di uomo preoccupato, aveva cercato di risolvere alcuni affari stringenti, assorbito, distratto, accettando qualunque peggiore risoluzione, purchè fosse immediata. Quando i suoi intimi lo vedevano ricomparire, per un momento, gli domandavano, sorpresi:

—Ma che fai, dunque?

—Parto—rispondeva lui, pensando ad altro.

—Dove vai?

Egli faceva un cenno vago, come di paese molto lontano. Per discrezione, gli intimi non chiedevano altro: sapevano quale tragedia morale avesse sconquassata la sua famiglia e molti supposero qualche improvvisa, bizzarra decisione. Anzi, la voce ne corse, avvolta in veli misteriosi. Una sera, un amico più affettuoso, più insistente, andò a casa di lui: e lo trovò solo, fumando, con le finestre aperte, ma col caminetto acceso dove buttava delle carte, dopo averle lette. Sul tavolino vi erano altri pacchi di lettere, un grosso portafoglio di pelle, tutto sdrucito, due o tre libri dalla legatura usata e un paio di minute pistole nella loro scatola che pareva quella di un gioiello.

—Che fai, ti vuoi ammazzare?—domandò ridendo l'amico.

—Forse—rispose Ferrante, ridendo un poco, ma poco. Nè dissero altro, mentre nel caminetto le lettere avvampavano allegramente.

Così, nell'alba bigia in cui donna Grazia partì da Sorrento per Napoli, mentre aveva detto ai suoi amici che sarebbe partita solamente la sera, in quell'alba bigia, la sua devota cameriera, vedendola andar via, avvolta nel grande mantello bruno, avvolta nel bruno velo che le circondava il capo, il viso, il collo, si chinò, commossa, a baciarle la mano:

—Io la rivedrò, nevvero?—chiese, cercando di trattenere le lacrime.

—Forse—disse donna Grazia, andandosene, senza voltarsi.

Tanto la fatalità li aveva vinti, ambedue.

Donna Grazia non vedeva nè il mite sole che rallegrava le vie di Napoli, nè le azzurrità fini del cielo e del mare, nè la folla lieta che si godeva quel giorno soave: chiusa nella carrozza da nolo, guardando ogni istante il piccolo orologio sospeso alla cintura pur senza vederne l'ora, ella divorava lo spazio con la mente, cercava di ripetere per la millesima volta il calcolo del tempo e dello spazio, per chetare la propria impazienza. Sarebbe partita da Napoli per Roma alle due e cinquantacinque, col treno più celere, tutta sola nel suo compartimento; sarebbe giunta a Roma alle otte e trentacinque della sera; alla stazione avrebbe ritrovato Ferrante e dopo un'ora e mezzo, in cui non sarebbero neppure entrati in Roma, sarebbero ripartiti, via Firenze e Bologna, per Venezia, insieme. Insieme! Pensando, ripensando, pronunciando sottovoce questa parola, ella vedeva scomparire l'ora, il tempo, lo spazio tutto, una nebbia le scendeva sugli occhi, una lieve vertigine le confondeva ogni moto. Insieme! Fu macchinalmente che pagò il cocchiere, scendendo allapartenza, nella stazione, stringendo fra le mani il sacchetto dove erano i suoi valori più preziosi. La grande galleria coperta dove si prendono i biglietti era quasi vuota. Ella non vi badò.

—Di prima, per Roma—disse, affannando un po' al bigliettinaio.

—Ecco—fece quello—ma si affretti, perchè il treno parte.

Improvvisamente, presa da una orribile paura, ella si mise a correre, vedendo appena la sua strada, urtando le persone, lasciando appena il tempo alla guardia di tagliare il biglietto, arrivando sul terrapieno, appena a tempo per vedere il treno delle due e cinquantacinque allontanarsi lentamente. Ella tese le braccia e gridò, come se avesse potuto fermarlo. Un facchino sorrise; mentre gli impiegati della stazione, raccolti in gruppo, la guardavano con curiosità. Alla paura ella sentì subentrare una grande angoscia e una grande vergogna: rientrò nella sala di aspetto, deserta, si andò a buttare in un cantuccio, stringendo le labbra per non singhiozzare dietro il velo, stringendo nelle mani nervose, convulsamente, il manico di cuoio della borsetta. Perdere il treno, che miseria, che disgrazia ridicola, che tragedia buffa! Le pareva un'avventura così sciocca, così volgare che non sembrava possibile fosse capitata proprio a lei, nel momento supremo in cui si decideva la crisi del suo amore; era fremente di sdegno e di onta. Tanta forza di volontà, tanto impeto vincitore, tanto magnetismo trionfante di amore, tanta elettricità condensata… e farsi buttare a terra da un orologio che non va, o da un cocchiere che non ha saputo sferzare il suo cavallo. Avrebbe pianto di collera. Vediamo, quale era la piccola, meschina causa, la causa stupida per cui tutto l'edifizio era crollato? E cercava, invano, di ricordarsi: se era stata la propria lentezza nell'annodarsi il velo in casa sua, a Napoli, nel suo appartamento solitario; o l'esser tornata indietro, un momento, per aver dimenticato un taccuino da cui non si separava mai; o il non aver trovato immediatamente la carrozza da nolo; o perchè il cocchiere avea prescelto la stretta, difficoltosa e ingombra via di Forcella alla via della Marina, per andare alla stazione. Chi lo sa! Si trattava di cinque minuti, di soli cinque minuti, cinque piccolissimi, cortissimi, brevissimi minuti, che si perdono così naturalmente, così facilmente un po' qui, un po' là, senza saper come: e la loro perdita, poi, equivale alla rovina di tutto un sogno!

Fu solamente dopo un'ora di riflessioni amarissime, che ella sentì un soffio di rassegnazione penetrarle nel cuore: ma pur essendosi calmata, un'amaritudine gliene rimase. Si levò, risolutamente: andò a leggere l'orario, sulla parete stuccata di bianco. Avrebbe potuto partire soltanto la sera, alle dieci e quarantacinque. Circa sette ore di attesa! Pure, non ebbe il coraggio di rientrare in città, a Napoli; le sarebbe parsa una rinunzia completa. Avrebbe aspettato nella stazione. Non l'avrebbero mandata via, da quella sala d'aspetto? Non aveva mai viaggiato sola: non sapeva niente. Il guardiano le si accostò, guardandola curiosamente. Ella gli donò subito cinque lire: si sentì meno timorosa. Cercava di ricostruire il suo piano. Bisognava, innanzi tutto, telegrafare a Ferrante—e tal pensiero la faceva arrossire, pensava che avrebbe egli detto, trovandola così sciocca, così distratta da perdere il treno. Che dirà, che dirà?—si andava domandando, mentre girava intorno alla stazione, senza ritrovare l'ufficio telegrafico. Alla fine lo trovò. E allora non seppe dove indirizzare il telegramma; non seppe che cosa dire, si sentiva così irritata e umiliata, con sè stessa, col caso, che lacerò i fogli, senza riescire. Alla fine, mettendo l'indirizzo della stazione di Roma gli telegrafò, così confusamente, che le riesciva impossibile partire prima delle dieci e quarantacinque, senza aggiungere le ragioni di questoimpossibilee soggiunse, umilmente:perdonami. Lo soggiunse, poichè non potea resistere all'idea del dolore di lui, Ferrante, non vedendola giungere alla stazione di Roma, trovando un telegramma invece della sua persona. Oh quelle sette ore di attesa! La pallida signora, vestita di un grande mantello bruno, tutta chiusa in un grande velo di garza bruna, snella e flessuosa nella persona, dall'andatura un po' lenta, un po' stanca, fu vista da per tutto, ripetutamente, nella stazione, per quel pomeriggio e per quella sera. Innanzi alle lunghe vetrine del libraio e nella sala gelida dei bagagli, camminando, fermandosi, sfogliando distrattamente un libro, aprendo un giornale illustrato; di nuovo alla sala del telegrafo, donde telegrafò a Sorrento, a due o tre persone che non la interessavano punto; verso le sette nella sala delbuffet, dove prese un brodo e una tazza di caffè, malgrado che non avesse fame, seguendo con l'occhio distratto i multicolori avvisi dellamacchina Singer, dellaCoca Butone della ferrovia lombarda aiTre laghi; fu vista finanche fuori stazione, passeggiare in giù e in su, facendo voltare tutti quelli che la incontravano, mentre essa guardava, certo senza vederli, il malinconico giardinetto della piazza, e le carrozze da nolo disposte intorno come i raggi di un cerchio, e le insegne dondolanti degli equivoci alberghi dal fanale verde o rosso; e da capo, come se ella non potesse stare ferma, fu incontrata al telegrafo, alla posta, nei terreni incolti della Piccola Velocità, presso il venditore di libri e di giornali, su e giù, su e giù per tutte le gallerie. Questo irrequieto fantasma muliebre vide empirsi e vuotarsi le sale di aspetto dei viaggiatori che partivano successivamente per le linee di Salerno, di Castellammare, di Foggia, di Aquila: vide fermarsi e andarsene i treni carichi di uomini, di donne, di borghesi e di contadini, che se ne andavano ai loro affari, al loro lavoro, alle loro cure. E nella ultima ora di attesa la invase una stanchezza profonda; rincantucciata in un angolo della sala di aspetto, silenziosa, immobile, col sacchetto sulle ginocchia, ella guardava le ondeggianti fiammelle del gas che il vento della sera agitava, e fu il guardiano della sala che l'avvertì della partenza—tanto in lei si era fatta la convinzione che era inutile più partire, che Ferrante non l'amava più, che tutto era finito. Tutta la notte del viaggio, lunga, lenta, con le sue numerose, monotone fermate, ella la passò in una veglia dolorosa alternata da qualche torpore doloroso, tutta sola nel suo compartimento, tremando di freddo malgrado le coperte e le pelliccie. L'alba si levò sulla severa campagna romana; donna Grazia dormiva, ora, pallida pallida, e solo i tre lunghi, striduli fischi del treno che entrava in Roma la riscossero. Le parve di uscire da un sogno triste: il sole illuminava le prime case di Roma, e la nebbia romana, e il fumo del treno, una felicità di calore e di luce l'avvolse, scendendo dal vagone, poggiando la sua mano sottile guantata sempre di nero in quella tremante di Ferrante. Si guardarono, così, lungamente, fra la folla, tenendosi per mano, camminando quasi portati.

—Sei venuta, poi….—mormorò lui, cercando di dominare la propria emozione, intensa, soffocante.

—Credevi che non venissi più?—chiese lei, con uno sguardo scrutatore, fermandosi un minuto.

—Sì, l'ho creduto—soggiunse lui, chinando gli occhi, confessando con quelle parole tutte le angoscie della sua serata e della sua nottata.

—Mi perdoni?—domandò lei, umilmente, dolorosamente, sentendo bene che fra loro era già sorto e consumato il primo dolore.

—Non dir così: tu ti puoi dare e ti puoi ritogliere—disse fermamente lui, guardando altrove, per non far vedere che sforzo questa fermezza gli costava.

Essa non rispose. Poteva dirgli che il proprio ritardo non era stata una crudele esitazione, l'idea novamente feroce di spezzare quell'amore: poteva semplicemente dirgli che era stata la perdita di cinque minuti, per annodare il velo del cappello, o per prendere il taccuino dimenticato e che quindi ella aveva perduto il treno. Le parve, questa ingenua narrazione, così ridicola, così volgare, che non osò farla; e lasciò, per viltà, che perdurasse quell'amaro malinteso, quel senso triste di sfiducia che era nato nell'animo di Ferrante.

Adesso, col facchino dietro, erano in piazza della stazione.

—Dove andiamo?—ella chiese.

—Non so….—rispose Ferrante, incerto.—Avremmo dovuto partire ieri sera. Stanotte, io non sono rientrato in casa mia, ero così turbato….

—Quando parte, il prossimo treno, per Firenze?—diss'ella, brevemente.

—Alle dieci e mezzo, fra tre ore.

—Tre ore, tre ore….—mormorò Grazia, come pensando.

—Vuoi che ti accompagni a casa mia…. non vi è nessuno…. o in albergo?—E il verboaccompagnareera stato molto sottolineato.

—No, no, a casa tua—rispose subito Grazia, con una paura nella voce.

—Allora, in albergo?—soggiunse lui, pazientemente.

—…. Sì,… ma senza entrare in Roma—e abbassò gli occhi, come vergognandosi.

—Vi è ilContinentalequi dietro, in Piazza Margherita, non ti stancherai molto.

Seguìti dal facchino che portava le loro robe, vi andarono; sottovoce come se indovinasse le intenzioni di Grazia, Ferrante chiese due stanze al segretario dell'albergo; sottovoce costui gli domandò se le voleva vicine, e Ferrante gli disse subito che non importava. Grazia saliva innanzi, chinando il capo; alla porta della sua stanza, il segretario li salutò. Ella restò ferma, guardando Ferrante, con la mano appoggiata sulla maniglia della porta.

—Rammentati, è alle dieci e mezzo: verrò a prenderti alle dieci—disse Ferrante, gelidamente.

Le fece un saluto corretto e si allontanò subito.

Ella entrò nella sua stanza e vi si chiuse, buttandosi pesantemente sopra una poltrona: si sentiva morire di tristezza, sentiva di essere disamorata, crudele con Ferrante, eppure non trovava ancora uno slancio di tenerezza, un impeto di passione per fargli dimenticare tutte quelle noie, quelle punture, quei disinganni, quelle amarezze. Ma tanta gente era loro intorno, dovunque, alla stazione, in piazza, nell'albergo, gente estranea, è vero, ma curiosa, dall'orecchio teso, dallo sguardo acuto! Ella si era chiusa nella sua stanzetta, stanzetta piccola, linda, ma banale come tutte le stanze di albergo, ma fredda con tutto il lieto sole autunnale che vi entrava; Grazia si era chiusa lì dentro, e un profondo pentimento le veniva in cuore, pel modo come aveva trattato Ferrante; la propria ingiustizia verso quel forte e docile amante che nulla chiedeva, che non si lagnava, che cercava di allontanarsi, di ecclissarsi sempre, onestamente, correttamente, mentre nell'anima gli ardeva la grande fiamma, questa propria ingiustizia, le faceva orrore, le sembrava un egoismo mostruoso, la crudeltà di una donna glaciale che pospone sempre il mondo all'amore. Rivoltata contro sè stessa, si levò per chiamare, per far avvertire Ferrante di venire da lei: voleva buttarglisi alle ginocchia per farsi perdonare, poichè egli solo era buono e giusto. Ma mentre era lì per premere il campanello elettrico, udì parlare sommessamente, nella stanza attigua. Si fermò: non era sola dunque, malgrado che si fosse chiusa a chiave? Aveva dei vicini, a destra e a sinistra, forse da tutte le parti, che, come ella udiva la loro, avrebbero udita la voce di Ferrante e la sua, parlando d'amore? Oh questi alberghi, che realtà, che realtà meschina, sconfortante, nauseante! Tornò alla poltrona, vi si sedette, senza far rumore, aspettando che le voci cessassero; forse i vicini sarebbero usciti, partiti: allora ella avrebbe chiamato Ferrante, per farsi perdonare. Ma le voci dopo qualche intervallo di silenzio, brevissima pausa, si udivano di nuovo: erano quelle di un uomo e di una donna, che discutevano pacatamente; si afferrava ogni tanto una parola, facevano il conto del loro viaggio. Ella fremeva, si agitava sulla poltrona, sperando sempre, a ogni momento di silenzio, che i vicini se ne fossero andati: ma quietamente essi ricominciavano a chiacchierare, con un'intonazione monotona, senza stancarsi. Per un momento Grazia si turò le orecchie quasi piangendo, al colmo di un urto nervoso che le poche ore di cattivo riposo del treno non avevano calmato: malediceva questi vicini che le rubavano quelle altre ore di felicità. Andò ad aprire la finestra della stanzetta, per sottrarsi a quell'incubo: il sole allietava tutto il piazzale della stazione, la giornata era dolce e bella, Grazia, stette guardando come un fanciullo che un nulla distrae, le persone che passavano sulla piazza. Così assorta, non udì che la seconda volta, quando bussarono alla sua porta. Era Ferrante: ma non entrò, rispettosamente.

—Andiamo?—diss'ella sorridendogli.

—Sì—disse lui, sentendo e vedendo la luce di quel sorriso, per la prima volta.

Ella mise il suo braccio sotto quello di lui: si appoggiava lievemente. Non potea dirgli nulla: ma vi era nei suoi occhi, nella sottile mano guantata, in ogni movimento della persona tanta femminile tenerezza, una così affettuosa domanda di perdono che egli dovette intenderla, in tutta la sua manifestazione: due volte, per le scale in penombra, si fermò a guardare il volto della sua donna, quasi volesse imprimersi nel cuore quella espressione così viva. Chi li vide passare di nuovo, sulla piazza, per la stazione, andando a mettersi nel vagone, in quella bionda mattinata di autunno, intese, certamente, che passava sul capo di quei due felici una silenziosa ora celestiale. Di quanto intorno ad essi avveniva, quei due più non sapevano: una macchinale coscienza, memore di altri viaggi, di altre partenze li guidava nella loro vita esteriore: una coscienza meccanica che si chetò, anch'essa, quando il treno fu partito da Roma. Erano soli. Una parte delle tendine color di legno erano tirate, contro il sole che si avanzava; solo da due cristalli si vedeva il paesaggio fuggente. Ferrante si era seduto accanto a Grazia: la mano di lei era fra le sue, stretta mollemente: a un certo momento ella la ritirò, ma soltanto per sollevare il suo velo bruno; la picciola mano fedele ritornò subito fra quelle dell'amor suo. Nè dicevano nulla. La delizia di due amanti, soli nel vagone fuggente per la campagna, fuggente innanzi ai villaggi e alle piccole città, ha poche delizie che la eguaglino: tanto è acuto il senso di libertà, di amore inconturbato, di oblìo terreno che dà quella fuga. Non esistono più nè lo spazio, nè il tempo, nè l'uomo, nè la vita: esiste solamente l'amore, nella sua massima condizione d'indipendenza, trasportato lontano, lontano, dove non vi sia che amore. Che dirsi? Ogni tanto ella sentiva che Ferrante la chiamava per nome, ripetendone due o tre volte le sillabe incantatrici: ma forse non la voce di Ferrante, era l'anima che parlava e l'anima di Grazia stava a sentire. Due o tre volte, a un lembo di paesaggio illuminato di sole, a un piccolo paese sospeso lungo i fianchi di una collina, innanzi a una grande pianura maestosa, i due volti si accostavano, dietro allo stesso cristallo, per vedere come era bello il mondo esteriore, non quanto quello che portavano nel cuore. Tacevano. Sentivano che era quella l'ora invocata tante volte, nelle insonnie della notte, nelle vuote mattinate, nelle sere affannose; sentivano che era quella la realtà del loro infinito desiderio, l'amore nella solitudine suprema; e sembrava loro che qualunque parola dovesse turbare questo sacro raccoglimento, questa concentrazione di felicità. Niuno sapeva più nulla di loro: essi non sapevano più nulla, di niente: e poteano dire che il mondo era scomparso, o era stato assorbito nella incommensurabile dolcezza del loro amore. Solo quando il sole cominciò a discendere sulla poetica campagna toscana, un senso di malinconia si mescolò, naturalmente, a tanta dolcezza. Era una mestizia fuor di loro, che veniva dalle cose: il paesaggio verde, i colli così pittoreschi, e le bianche case, e il fiume mormorante sul greto, e i campanili dei villaggi si fecero prima rossi, poi violacei, poi bigi: tutti i veli avvolgenti, misteriosi, malinconici del tramonto salirono dalla terra al cielo. Parve che il treno corresse meno rapidamente, come preso anch'esso da una fiacchezza; le voci delle stazioni erano meno vivaci, meno allegre, alcune sembravano rauche, altre fioche; il fiume, apparendo, riapparendo, assunse un aspetto tragico, di acqua traditrice gorgogliante; la stretta di mano di Ferrante che teneva nella sua quella sottile di Grazia, si allentò, come se lo cogliesse una improvvisa, crescente debolezza e la mano sottile si raffreddò sotto il guanto. Videro un cimitero: un piccolo cimitero di paesello a mezza costa, con quattro o cinque cipressi e poche lapidi bianche.

—Beati i morti—ella disse sottovoce quasi parlasse a sè stessa.

—Chissà!—le rispose lui, sul medesimo tono.—Forse amano ancora.

—Tu hai tombe, per il mondo?—gli domandò lei, piegandosi a guardarlo, in quella penombra crepuscolare.

—No: ma tutti abbiamo delle tombe, in noi.

—Molte cose hai veduto morire?

—Molte cose e molte persone che son vive.

—È triste, è triste—diss'ella ributtandosi indietro, sulla spalliera.

—La tristezza è in fondo alle anime: non bisogna andarla a cercare—soggiunse Ferrante, come se pronunziasse una sentenza.

Tacquero. Ella aveva abbassato il velo sul viso di nuovo e il capo sul petto. Egli si levò, guardò dallo sportello opposto, nella penombra, per qualche tempo; poi ritornò vicino ad essa, sedendosi.

—Grazia?

—Ferrante?

—Che hai?

—Nulla—fece lei, con un gesto largo.

—Dimmi, dimmi che hai.

—Quello che hai tu—rispos'ella, enigmaticamente.

—Non parlare di me: io sono una quercia fulminata. Tu non puoi essere come me; sei così giovane, e così bella, Grazia, e così destinata alla felicità!

—Io ho paura…. paura….

—Di che, amore, hai paura?

—Della vita.

—Fole!—egli esclamò, sorridendo nella penombra.

—E della morte, della morte, assai più.

—La morte è lontana—fece lui.

—Taci, taci—mormorò Grazia—forse passiamo innanzi a un altro cimitero.

Quasi presa da un vago ma forte terrore, ella si era stretta a lui, infantilmente, poggiandogli la guancia sulla spalla, chiudendo gli occhi. Quei due sportelli su cui non erano tirate le tendine di lana, quegli sportelli oramai neri, nella sera fitta, affascinavano la donna, come se fossero aperti sull'infinito. Egli se ne accorse, vedendola immobile, estatica, con gli occhi sbarrati sul nero orizzonte che fuggiva dietro i cristalli: volle fare un moto per levarsi, per tirare le altre due tendine.

—No, no—lo supplicò lei, stringendosi ancora, socchiudendo gli occhi.

Restarono così: il lumicino ad olio del vagone tremava, pareva dovesse spegnersi ogni momento. Bizzarre ombre danzavano. sui divani: tenendola stretta a sè, bimba spaurita, Ferrante sentiva che Grazia affannava un poco. L'aria si era raffreddata. Una angoscia li opprimeva, entrambi, angoscia ignota, angoscia di chi ha intravvisto il negro problema dell'infinito. Due o tre volte egli volle muovere una mano per carezzarle i bruni capelli: ma ella temendo che Ferrante la lasciasse, rabbrividì di paura. Due o tre volte egli disse, sottovoce, come un soffio amoroso:

—Grazia! Grazia!

Ma ella fremeva, fremeva, e gli diceva:

—Taci, taci, taci.

Tanto che il lungo, sonoro fischio, triplicato fischio della vaporiera, le fece gittare un grido di spavento.

—È il fischio di allarme, nevvero—domandò, piena di ambascia, quasi che non fosse possibile, in quel momento, altro che una grande catastrofe.

—No, no, è Firenze.

—Tre fischi, grave pericolo—balbettò lei ostinata.

—È Firenze, è Firenze, cara.

L'arrivo spezzò l'incubo. La carrozza in cui essi viaggiavano avrebbe proseguito sino a Venezia, attaccandosi, al treno in partenza da Firenze; ma per la partenza ci voleva un'ora e mezzo.

—Scendiamo?

—Sì, sì, sì—disse lei, levandosi, subito, avida di moto, di luce.

—Vuoi pranzare, nevvero, cara?—chiese lui, trattandola infantilmente.

—Sì, subito, subito—fece ella, attaccandosi al suo braccio, con un'improvvisa disinvoltura.

Ora, per il livido chiarore del gaz, nella calda sala del Doney, seduta di fronte a lui, togliendosi lentamente, con un moto seducentissimo, i lunghi guanti neri, raddrizzando i numerosi anelli delle sue mani gemmate, appoggiando le lunate spalle a un seggiolone e distendendo i piedini sopra uno sgabello, ella era ridiventata la bella, vivace signora dei convegni aristocratici, dei balli inebbrianti, dei folleggiantipique-niques. Anzi, mentre i nervi le si chetavano nel senso di riposo che dà una sala lucente, tiepida, con qualche mazzo di fiori sparso qua e là, con una folla rumorosa che si rallegra nell'apprestamento del cibo, a questa sua bella serenità si mescolava la maliziosa soddisfazione della donna che gusta la libertà, il piacere bizzarro e pericoloso della prima, audace avventura di amore. Essere in compagnia di Ferrante che l'amava, che ella amava, guardandosi negli occhi, sorridendosi, innanzi a molta gente e senza punto curarsi della gente, pranzando insieme, come due sposi innamorati, parlando pianissimamente, a fior di labbro, ciò costituiva per lei una nuova, acre, vivida, soddisfazione umana, quasi, che ella esercitasse una lungamente meditata vendetta, di tanti pranzi di cerimonia, noiosi, banali, fra persone indifferenti e antipatiche. Una novella impensata trasformazione si faceva in lei: ella si sentiva fatta di umana argilla, si sentiva donna, si sentiva felice di quella libertà conquistata a prezzo di tante lacrime, assaporava con lentezza raffinata la sua parte di felicità terrena. Ferrante, con lo sguardo profondo dell'amore, le leggeva nell'anima; uno strano sorriso di conquista gli vagava sulle labbra; ed ella che vedeva questo sorriso di conquista, non se ne offendeva, no, anzi ne pareva singolarmente orgogliosa. Un senso segreto ma traboccante di sfida le saliva dal cuore, ribellatosi al cervello: una sfida contro tutto quello che aveva venerato, di cui aveva avuto, sino allora, rispetto e paura: parevale sentire, in quell'ora, la inutilità dell'abnegazione, la vacuità del sacrificio, la ingratitudine del mondo a qualunque privazione morale fatta per esso. E come questi superbi e acri pensieri le passavano nell'anima, corrodendone il buon metallo lucido del carattere, Ferrante seguiva questo passaggio e nel suo orgoglio di uomo si gloriava del cangiamento. Donna Grazia prese dei fiori, una grossa manciata di fiori, dalla fioraia che glieli offriva non senza timidezza: i morti fiori autunnali di cui ella adornò il suo grande mantello bruno, fra occhiello e occhiello: e dopo aver aspirato lungamente il fiore, quasi impercettibile profumo di una rosa thea, lo offrì a Ferrante con un muto cenno, con uno sguardo pieno di amore, sguardo così vibrante di elettricità che l'uomo impallidì. Adesso passeggiavano su e giù, nella galleria di aspetto, coperta di cristalli, e curiosamente donna Grazia si fermava a tutte le piccole botteghe, dove si vendevano dei nonnulla, piccoli ricordi fiorentini, chincaglieria povera di viaggiatori sentimentali ed economici. Essa volle comprare le noci intagliate che raffigurano la cupola di Santa Maria del Fiore, le scatolette di legno d'ulivo che vengono da Lucca e portano sul coperchio le due rondinelle fuggenti, col motto francese;je reviendrai, le scatole da guanti, di paglia, foderate di raso azzurro o rosso. Pareva una bimba bizzarra e ingenua, al suo primo viaggio; essa risalì nel vagone, ridendo, ridendo, buttando sui sedili i fiori, gli oggettini, andando e venendo, con le guancie un po' calde e le belle mani che sembravano farfalle gemmate, volitanti di qua e di là. Siccome non si partiva ancora, Ferrante le chiese permesso di passeggiare sul terrapieno, per fumare una sigaretta.

—Fuma pure—disse lei, crollando il capo, ridendo ancora sottovoce.

Egli accese la sigaretta e si appoggiò a uno dei pilastri della tettoia, fumando silenziosamente, immobile, guardando il vagone, fisamente, come se là fosse tutta la sua vita, come se gli fosse impossibile di perderlo d'occhio. Improvvisamente ella si era fermata, nel vano dello sportello aperto, appoggiando la testa allo stipite di legno, e guardava Ferrante che fumava. Attorno a loro i viaggiatori si arrabattavano per trovare i migliori posti, per la notte: qualcuno si fermava innanzi al vagone, di cui donna Grazia sbarrava l'entrata, ma si ritirava subito, tanto quell'alta e snella figura di donna pareva lei posta a guardia della carrozza. Ferrante prese ancora un'altra sigaretta bionda, l'accese, la fumò, imperturbabile fra il chiasso di quella partenza per la linea Bologna-Venezia. Donna Grazia si era seduta dietro lo sportello, ma teneva il busto un po' inclinato, per guardare ancora il suo compagno di viaggio: quando gli vide gittare metà della seconda sigaretta, spenta, mormorò sommessamente:

—Non vieni?

Egli dovette più che udire, intendere, tanto era fioca la voce seduttrice: fu nel vagone in un attimo, tirandosi dietro lo sportello.

—Fuma anche qui: non mi fa male—disse lei, mettendosi di nuovo i guanti, mollemente.

—No, no, tu devi dormire—rispose lui, con una tenerezza quasi fraterna.

Ma fra le pelliccie, gli scialli, le coperte, al caldo, ella si addormentò assai tardi. Teneva gli occhi chiusi, però, lasciandosi prendere da tutta quella dolcezza dell'amore e delle cose; ogni tanto, con un moto adorabile di stanchezza, li schiudeva e trovava gli occhi di Ferrante fissi su lei, così teneri, così amorosi che la magnetizzavano di nuovo, nella dolcezza.

—Non dormi?—chiedeva ella, vagamente, come se parlasse in sogno.

—Non ho sonno—diceva lui facendole cenno di chetarsi, sorridendo tacitamente.

Solo nel mezzo della notte, ella trabalzò, scossa da un grande fragore, vedendo una gran luce rossastra.

—Che è?—gridò, levandosi a metà.

—Niente, non aver paura: passiamo sul Po.

Sulle rive nere del fiume, nella notte, grandi cataste di legna secca bruciavano: attorno ad esse i guardiani del fiume vegliavano e si riscaldavano, temendo l'inondazione autunnale.

—Dormi, non aver paura—soggiunse lui, lasciando ricadere la tendina, sedendosi accanto a lei, passandole lievemente la mano sui capelli, per chetarla.

Quando ella si risvegliò di nuovo, all'alba, avevano già oltrepassato Mestre, erano sulla stretta lingua di terra che attraversa la laguna. E non si vedeva altro, da tutte le parti, che una grande estensione di acqua immobile, senza che un solo soffio ne agitasse la tinta argentina, opaca. Ogni tanto una pianta acquatica, senza fiori, senza foglie, cioè un cespuglio di rami nudi e neri, irti come spini, usciva dall'acqua: o un pilone nero, un po' inclinato, sorgeva dal fondo. Una lieve nebbia argentina ma senza luccicori fluttuava sull'acqua, e tutto l'orizzonte era della stessa tinta, senza che si potesse distinguere dove l'acqua finisse, dove cominciasse il velo di nebbia. Un vento umido e molle alitava. E il vagone parea molle di umidità, tutto il treno pareva andasse sull'acqua dormiente, attraverso la nebbia, fra il fiato umido e soffocante.

—Ecco Venezia—disse Ferrante, un po' ansioso, guardando più il viso di Grazia che il paesaggio.

—Non vi è—diss'ella, vedendo solo la laguna e la nebbia, tremando un po' nella voce, pallidissima.

Si risedette; due volte mise la testa fuori del cristallo, guardò attorno, lungamente; si passò le dita sulla manica, come per sentire se fosse molle di umidità. Alla fine, fra la laguna e la nebbia, sorse qualche profilo bigio di una massa più oscura.

—Ecco Venezia—ella mormorò, quasi fra sè.—Pare una tomba.

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Come tutte le altre mattine, fosse avvolto nella bigiastra velatura il Canal Grande e la chiesa della Salute, e lontano, laggiù, scomparisse addirittura il canale della Zuecca; o la lenta pioggia di ottobre piovesse solingamente su quell'acqua dormiente, su quella chiesa dormiente, su quei palazzi dormienti; o il biondo sole illuminasse i tenui azzurri del cielo e le sagome fini della chiesa e circondasse l'isola di San Giorgio in un'aureola di luce; come in qualunque mattinata, Ferrante entrando nel salotto pieno di fiori, trovò donna Grazia seduta, nel vano dello stretto e lungo balcone a ogiva, guardando vagamente il paesaggio. Ella portava sempre una delle sue vestaglie di lana bianca, dalla forma di peplo, che odoravano di violetta, poichè fra le arricciature di merletto del collo, fra le morbide pieghe del petto, alla cintura, spuntavano dei freschi mazzolini di violette. Ella guardava, con gli occhi fatti quasi più grandi e un po' vitrei dalla lunga contemplazione.

—Che hai?—disse Ferrante, baciandole le mani.

—Nulla—fece lei, con un piccolo sorriso.

—Mi ami sempre?

—Sempre, sempre.

E un cenno largo, come ad accennare un fatto ineluttabile, accompagnò la monotonia di quella voce dove pareva si fosse infranta ogni corda di vivacità.

—Sei triste, mi pare—disse lui, chinandosi a guardarla meglio.

Ella sorrise ancora, senza rispondere, gli dette, con un atto gentile, uno dei suoi mazzolini di violette; egli lo prese, l'odorò e poi lo rigirò fra le dita, senza parlare.

—Anche tu sei triste?—chiese ella, levando su la testa, con un gesto affettuoso.

—No, cara. Venivo a chiederti se volevi uscire.

—…. Sì—disse lei, dopo una pausa,—Dove andiamo?

—In giro—fece lui.—Dove tu vuoi.

Invece, la voce di lui era un po' stanca. Senza dire altro, ella si levò e passò nella sua stanza a vestirsi. Occupavano un vasto appartamento mobiliato, in uno dei magnifici palazzi del Canal Grande, dirimpetto alla chiesa di San Giorgio: appartamento mobiliato con qualche traccia del lusso antico, a cui si mescolava tutta la confusione fra comoda ed elegante del lusso moderno. Ma le stanze erano tanto grandi che parevano vuote, sempre; le finestre, i balconi erano così piccoli che la luce vi entrava scarsamente, anche nelle più limpide giornate; e malgrado i fiori di cui Grazia riempiva tutte le stanze, tutti gli angoli, tutti i tavolini, i saloni non si rianimavano, restavano freddi e muti come se fosse impossibile farvi risuscitare anche una finzione di vita. Grazia e Ferrante stavano sempre insieme; spesso, lui, per discrezione, si ritirava nella sua camera, lasciava Grazia libera; ma dopo un poco, era preso da tale insoffribile malinconia, che cercava di lei, e la trovava così insoffribilmente malinconica, che si tendevano le mani, come se l'uno dovesse salvare l'altro. Quando erano insieme, certo, di fronte a quel paesaggio grandioso ma dormiente, in quell'ambiente di cose morte e di cose moribonde, fra quei colori che erano stati vivaci ed erano pallenti, fra quel silenzio grande di uomini e di fanciulli, certo, non avevano la grande giocondità delle anime intensamente felici; ma si teneano per mano, quieti, silenziosi, senza sussulti e senza tristezza. Si ricercavano, dunque, ansiosamente, come se dovessero sempre partire per un lungo viaggio, come se dovessero iniziarsi ad un altissimo diletto spirituale, come se dovessero raccontarsi tutto un romanzo misterioso, il romanzo del proprio cuore: ma, essendo insieme, parean subito appagati, senza bisogno di dire nulla, anime che già l'ambiente aveva impregnate di sè. Così quel giorno, come tutti i giorni, solo dopo pochi minuti di assenza, donna Grazia ritornò per uscire, vestita tutta di nero, come sempre, mentre in casa era sempre vestita di bianco: sul nero vestito, qua e là, dai merletti, dalla cintura, facevan capolino i freschi mazzolini di violette.

Andarono, per i grandi saloni, per la scalea scuriccia: un servo aprì loro il portone che dava, per tre scalini, sulla laguna. L'acqua appena appena fiottava, contro il marmo corroso. Il barcaiuolo che sedeva a prora della gondola, senza far nulla, aspettando, si levò subito e domandò qualche cosa, nel suo dolce dialetto:

—Ha detto—spiegò Ferrante a Grazia, interrogandola—se deve togliere ilfelze.

—Sì, sì—rispose ella subito—lo tolga pure; lì sotto si soffoca.

E aspettarono: il gondoliere, con un certo moto bizzarro, essendo entrato nella negra cabina dagli ornamenti di ferro lucido, ne sollevò con le spalle tutta la parte superiore, simigliante alla gobba nera di un dromedario, al coverchio di una lunga bara di ebano dalle intarsiature artistiche e dalle finestrine microscopiche: sempre portandola sulle spalle, la depose innanzi al portone, raccomandando al servo questo negrofelze. La gondola ora aveva la sua aria di barca da passeggiata, con l'elegante rostro lucido a prora, i due posti di divano, a poppa, foderati di panno nero, adorni di cordoni e di fiocchi di lana nera, sgabelli neri su cui appoggiare i piedi. Grazia e Ferrante vi si sedettero, senza dire nulla: e il gondoliere cominciò a remare verso il Rialto, senza aver loro chiesto nulla. Quel giorno lo scirocco era più pesante del solito e dava pena al respiro. Delle zàttere cariche di carbone andavano per il Canal Grande, con un moto così lento che pareva quasi indistinto; l'uomo della zàttera puntava sul fondo del canale con una lunga pertica e, facendo forza, e camminando sulla zàttera in senso inverso della corrente, la faceva avanzare. Era tutto bruno, arcuato, quasi piegato in due, e passando vicino, Grazia udì uscirgli dal petto un gemito rauco e cadenzato, quello che esce dal petto dello spaccalegna.

—Questo non canta certo le ottave di Torquato Tasso, come dicono i poeti di Venezia—osservò Ferrante, nel cui cuore lo scetticismo soverchiava ogni tanto il sentimento.

—Eppure questa laguna avrebbe dovuto esser fatta solo per l'amore e per l'arte—mormorò ella, aspirando il profumo di un mazzolino di violette—non per il duro lavoro e per la miseria.

—Gli uomini guastano tutto—osservò sentenziosamente Ferrante.

—Sì—approvò lei, chinando il capo.

La gondola andava lentamente, fra il gorgoglìo delle acque smosse; a un certo punto, lasciando il Canal Grande, infilò un piccolo canale, fra due alti palazzi grigio-verdastri. Così faceva sempre il gondoliero che li conduceva in giro, senza chieder loro dove volessero andare. Due o tre volte lo aveva chiesto: ma essi si erano guardati in faccia, esitanti, non sapendolo. Ora, non domandava più. A ogni voltata di piccolo canale gli usciva dal petto un grido gutturale di avvertimento; a cui spesso rispondeva un altro grido, simile, dall'altro gondoliere che gli veniva incontro, con la sua gondola.

—Perchè le gondole sono così nere, nere dappertutto, nel panno, nel legno, nei cordoni, nei fiocchi?—domandò distrattamente donna Grazia.

—Portano il lutto della repubblica—rispose Ferrante, che aveva accesa una sigaretta e fumava.

—Veramente?—fece ella, guardandolo.

—Veramente.

—È triste, è triste—susurrò lei, colpita.

Ma sbucavano in Cannaregio, il quartiere popolare, le cui case sono piccole, le cui finestre sono adorne del bucato familiare, le cuifondamentasono continuamente battute dai vivaci zoccoletti delle donne: ed è un andirivieni, al sole, di bimbi biondi, di donnine dai capelli neri e ricci, a ondate fulve, di uomini piccoli e tarchiati dai mustacchi folti, ispidi e rossastri, mentre l'allegro e lezioso dialetto forma un brusìo, dovunque. Anzi, dinnanzi a una casa, vi erano certi suonatori di chitarra, seduti per terra, mentre una donna in piedi, sotto l'arco del portone, cantava una bizzarra melopea, gutturale, quasi orientale, chiamata lastrega, che un coro di donne e di bambini riprendeva, a ogni ritornello, con voce sorda e grave.

—Qui sono allegri, almeno—disse donna Grazia, un po' rinfrancata, sollevandosi sui cuscini.—Restiamo qui, un poco.

Sotto l'arco di un ponticello, accanto al traghetto, la gondola si fermò. I due amanti tacevano, mentre il gondoliere si riposava. La canzone dellastregacontinuava, grave, come una canzone di Costantinopoli o di Algeri: ma i suonatori e i cantanti sogguardavano spesso i due signori della barca, intimiditi, mentre la musica, a poco a poco andava diventando più debole, più bassa, come scoraggiata dalla presenza di quegli estranei. Una ragazza snella, dallo sciallino di lana rossa, che distendeva una fune da un anello ad un altro sullefondamenta, per mettervi ad asciugare delle matasse di seta tinta, si fermò nel suo lavoro, facendo solecchio con la mano, per vedere se quei signori se ne andavano.

—Andiamo via, non disturbiamo questa buona gente—disse Grazia.

—Sono poco abituati ai forestieri: il Cannaregio è un quartiere di poveri, di operai—rispose Ferrante.

La barca si allontanò, mentre, alle spalle, ricominciava l'allegro brusìo del dialetto, ricominciava il ticchettìo degli zoccoletti sullefondamentadi pietra levigata, ricominciava la canzone costantinopolitana dellaStrega. Andarono innanzi molto tempo, incontrando pochissime gondole, trovandosi a un tratto in un largo canale deserto: un canale così vasto, così torbido nelle sue acque immobili, così malinconicamente intonato che donna Grazia, per vincerne l'impressione, ne chiese il nome al gondoliere.

—È il Canale Orfano, eccellenza.

E la gran leggenda tragica, che era durata, sinistra e tetra, per centinaia di anni, la leggenda di tutti quei condannati, innocenti o rei, che dopo aver agonizzato per giorni e mesi nelle carceri soffocanti della Repubblica, in una notte oscura, facevano l'ultimo loro viaggio sotto ilfelzeopprimente della gondola, per essere strangolati tacitamente e gittati nelle acque profonde del Canale Orfano, si parò innanzi alla fantasia dei due amanti, con tutti i fremiti di sgomento che tale visione truce può dare.

—Il fondo deve essere coperto di scheletri—disse donna Grazia, guardando fissamente l'acqua.

—Torniamo indietro—soggiunse Ferrante con voce alterata.

Tornarono: e come il gondoliere affrettava il movimento dei suoi remi, donna Grazia gli fece cenno, con la mano, di far piano: pareva che temesse di disturbare quei morti. Ancora, silenziosi, vogarono per i canali, muti, quasi stanchi, non guardandosi neppure. Il movimento della gondola, a lungo, li gittava in un intorpidimento di tutti i sensi; tanto che neppure l'ora fuggente aveva più valore per essi. Canali seguivano canali: l'acqua era, dove verdastra, dove bigia, dove semplicemente torbida, dove con un'opaca oscurità di carbone: palazzi seguivano i palazzi, portoni pesanti chiusi come da secoli, gradini corrosi dalla salsedine, alti pilastri piantati nelle acque per legarvi le gondole e che s'inclinavano come se fossero presi da una inguaribile debolezza, finestre senza cristalli, ma le cui imposte verdi sembravano sbarrate per sempre. Ogni tanto un monastero, una chiesa, una bottega d'infilatrice di perle; di nuovo portoni chiusi a catenaccio e finestre serrate sino all'ultimo piano. La linea era pura, bella, artistica: la poesia che traspirava da tutto l'ambiente era grande, ma portava un profumo di fiori morti. E i due cadevano in un languore di mestizia che ne domava ogni entusiasmo, che ne annullava ogni impeto di vitalità.

—Qui, dicono fuggisse Bianca Cappello, per andarsene con l'amante a Firenze—disse Ferrante indicando una finestra bassa di un grande palazzo.

—Oh!…—fece Grazia, senza aggiungere altro.

E dopo un poco, sogguardando l'uomo che amava, facendo cadere le parole, ad una ad una, gli chiese:

—Tu sei stato un'altra volta, a Venezia?

Egli intese la profondità della domanda e il pericolo della risposta: una rapida emozione gli scompose il volto. Ma fu incapace di mentire.

—Sì: un'altra volta—rispose nettamente, buttando nel canale la sigaretta spenta.

—…. Molto tempo fa?—aggiunse ella, con la freddezza e la tenacità di un giudice che interroga.

—…. Non molto.

Ella tirava, macchinalmente, ad una ad una, le violette dal mazzolino che teneva nelle mani e dopo averle fatte girare intorno al dito, le buttava in acqua, seguendole un momento con l'occhio. Poche ne rimanevano, smorte, quasi appassite nella larga foglia verde che le accartocciava, penzolanti sugli stelucci.

—Eri solo?—finì d'interrogare lei, sempre tenendogli piantati gli occhi sul volto.

Egli non rispose, nè prima, nè dopo, sentendo la crescente crudeltà di quel dialogo. Non rispose e volse il capo altrove. Allora ella, con l'aria di una persona perfettamente convinta, guardò un'altra volta le sue ultime violette e con un atto risoluto, le buttò in laguna, tutte. Ostinatamente, per nascondere il rivolgimento del suo spirito, egli guardava dall'altra parte; e anch'essa si mise a fissare un punto qualunque dell'orizzonte. Una brutta gondola passò: le finestrine delfelze, senza i soliti delicati ornamenti di ferro lucido, erano chiuse coi lucchetti, come una cassa forte. E sulla porticina delfelze, a guardia, stavano seduti due carabinieri in tenuta di viaggio e coi fucili fra le gambe, immobili, in quell'attitudine seria, pensosa, che dà loro come una nova aureola di rispetto. Era la gondola del carcere che avendo preso alla stazione i carcerati e i carabinieri, li conduceva per la laguna, alla tetra dimora. Grazia seguì con l'occhio il nero convoglio filante sulle acque; poi abbassò il capo sul petto, reprimendo le ardenti lacrime che le salivano agli occhi. Fu più innanzi, in un canale laterale che si lega al Canal Grande nel sestiere di Dorsoduro, che incontrarono la più tetra barca della laguna. Era tutta nera, come le altre, ma mancava di quella grazia civettuola della gondola di passeggiata: non aveva, a prua, il rostro lucido; era più larga, più piatta; si dondolava goffamente sulle acque: e i due gondolieri, invece del solito gabbano fra cittadino e marinaro, invece del solito berretto, portavano una giacchetta nera e un cappello a cilindro, con una coccarda nera. Stava ferma, la gondola, innanzi a un portoncino aperto; due o tre donne erano sotto il portoncino.


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