III.LO SCETTICISMO.
Pure, disperando di tutto, non credendo ai piaceri dei sensi, alle gioie dell'amore, ai premii della gloria, alla consolazione della famiglia, alla bontà dei simili, alla possibilità del progresso; resta ancora un'àncora, la più salda: Dio. Quei beni che il mondo nega possono essere a usura compensati dal cielo; se il corpo umano e la stessa terra che lo sostiene sono condannati a perire, una vita immortale può sorridere all'anima. La fede è l'ultimo rifugio.
Ma la fede dev'essere cieca, e lo spirito indagatore la distrugge. Fin dai primi anni della sua vita morale, quando gl'insegnamenti paterni erano ancora da lui ascoltati, quando la pietà cristiana ereditata dalla nascita, succhiata col latte, era in lui fervida, il Leopardi cominciò, se non a dubitare, a discutere. Nel suo studio sugliErrori popolari degli antichiegli esaminò prima degli altri i molti che si riferiscono alla Divinità; ma ciò che al moderno,al cristiano, sembrava errore, fu pure la credenza di quegli antichi Padri dei quali egli doveva più tardi invidiare la sorte! Se gli uomini s'ingannarono una volta, chi assicura che non si possono ingannare ancora? Egli quasi presentiva questa conseguenza della sua critica, quando s'ingegnava di distinguere la superstizione dalla religione e la credulità dalla fede. “La superstizione, dice Teofrasto, è un timore mal regolato della Divinità. Questa definizione non conviene all'uopo nostro. Più opportuna è quella di un moderno: La superstizione è un abuso della Religione nato dall'ignoranza. Avrebbe potuto dire: è un effetto dell'ignoranza di chi pratica la religione.„ Egli così si studia di dimostrare a sè stesso la ragionevolezza dell'esame. “Il volgo è naturalmente religioso. Questa qualità è ottima. Ma quasi nessuna delle buone qualità del volgo si contiene dentro i suoi limiti, e tutto ciò che eccede i suoi limiti è cattivo in quanto li eccede. La sola scienza può fissare il punto preciso, oltre il quale non debbono estendersi gli effetti di una virtù, o di una prevenzione giusta ed opportuna. È impossibile che l'ignoranza conosca questo punto, e per conseguenza è quasi impossibile che le stesse buone qualità del volgo non producano qualche cattivo effetto. La Religione ha prodotta la superstizione; e poichè il male che nasce da un gran bene suol esseregrande ancor esso, è evidente che la superstizione deve essere un male considerabilissimo, poichè la Religione è il più grande di tutti i beni, ed essa corrompe la Religione. Il rispetto giustissimo, che si ha per questa augusta madre della umanità, applicato a cose chimeriche, rende difficilissimo al saggio il guarire i popoli dalla superstizione. Massime erronee si venerano come quelle che insegna la più pura delle dottrine, si vuole che esse facciano causa commune colla Religione, e si crederebbe, rigettando quelle, mancare a questa. Il popolo reputa empio chi disprezza l'oggetto delle sue superstizioni: un uomo nemico dei pregiudizii è, secondo lui, un irreligioso.„ Non potrebbe darsi che il popolo avesse ragione? Per creder bene non bisogna credere tutto? Quando il dubbio comincia, chi può dire dove si arresterà? Egli si sdegna perchè “il nome di Filosofo è divenuto odioso alla più sana parte degli uomini. Ormai esso non significa più che infedele.„ Ma quest'effetto non è purtroppo naturale? Non si produrrà, non è sul punto di prodursi anche in lui? Per ora egli se ne sdegna, e tenta rassicurarsi, e scioglie un inno alla fede nella quale è nato: “Sì, dice Bacone, una tintura di filosofia allontana gli uomini dalla Religione. Verità terribile, ma della quale possiamo consolarci con ciò che soggiunge quel gran conoscitore dello spirito umano: una cognizionesoda della filosofia li riconduce al suo seno. Religione amabilissima! è pur dolce poter terminare col parlar di te ciò che si è cominciato per far qualche bene a quelli che tu benefichi tutto giorno; è pur dolce poter concludere con animo fermo e sicuro, che non è filosofo chi non ti segue e non ti rispetta, e non v'ha chi ti segua e ti rispetti che non sia filosofo. Oso pur dire che non ha cuore, che non sente i dolci fremiti di un amor tenero, che soddisfa e rapisce; che non conosce le estasi in cui getta una meditazione soave e toccante, chi non ti ama con trasporto, chi non si sente trascinare verso l'oggetto ineffabile del culto che tu c'insegni. Comparendo nella notte dell'ignoranza, tu hai fulminato l'errore, tu hai assicurata alla ragione e alla verità una sede che non perderanno giammai. Tu vivrai sempre, e l'errore non vivrà mai teco. Quando esso ci assalirà, quando coprendoci gli occhi con una mano tenebrosa minaccerà di sprofondarci negli abissi oscuri che l'ignoranza spalanca avanti ai nostri piedi, noi ci volgeremo a te, e troveremo la verità sotto il tuo manto. L'errore fuggirà come il lupo della montagna inseguito dal pastore, e la tua mano ci condurrà alla salvezza.„
Dalla stessa osservazione del dolore umano egli trae, nei primi tempi, la prova di una vita futura: “Tutto è o può essere contento disè stesso, eccetto l'uomo; il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell'altre cose.„ E della gravezza di questo dolore egli chiama testimonio Dio. “Tu sapevi già tutto ab eterno„ dice al Redentore, “ma permetti alla immaginazione umana che noi ti consideriamo come più intimo testimonio delle nostre miserie. Tu hai provata questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla, tu hai sentito il dolore e l'infelicità dell'esser nostro.... Pietà di tanti affanni, pietà di questa povera creatura tua, pietà dell'uomo infelicissimo, di quello che hai veduto, pietà del genere tuo, poichè hai voluto aver comune la stirpe con noi, esser uomo ancor tu.... Ora vo' da speme a speme, e mi scordo di te, benchè sempre deluso.... Tempo verrà ch'io, non restandomi altra luce di speranza, altro stato a cui ricorrere, porrò tutta la mia speranza nella morte, e allora ricorrerò a te. Abbi allora misericordia....„ Ed alla Madre di Dio: “È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici! È vero che questa vita e questi mali sono brevi e nulli; ma noi pure siam piccoli, e ci riescono insopportabili. Tu che sei grande e sicura, abbi pietà di tante miserie....„
Nutrito di cultura classica, egli è meglio di tanti altri in grado di conoscere per quali caratteri la predicazione cristiana si distingue dalle credenze pagane. “Gesù Cristo fu il primoche distintamente additò agli uomini quel lodatore e precettore di tutte le virtù finte, detrattore e persecutore di tutte le vere; quell'avversario d'ogni grandezza intrinseca e veramente propria dell'uomo; derisore d'ogni sentimento alto, se non lo crede falso, d'ogni affetto dolce, se lo crede intimo; quello schiavo dei forti, tiranno dei deboli, odiatore degl'infelici; il quale esso Gesù Cristo dinotò col nome di mondo.... Negli scrittori pagani la generalità degli uomini civili, che noi chiamiamo società o mondo, non si trova mai considerata nè mostrata risolutamente come nemica della virtù, nè come certa corruttrice d'ogni buona indole, e d'ogni animo bene avviato. Il mondo nemico del bene, è un concetto, per quanto celebre nel Vangelo, e negli scrittori moderni, anche profani, tanto o poco meno sconosciuto dagli antichi.„ Di questo concetto pochi al pari di lui apprezzeranno l'esattezza; la sua propria esperienza non glie l'ha dimostrata, quando invece dell'aiuto e dei premii ai quali aveva diritto, non ha trovato altro che trascuranza e derisione?... Ma il carattere più segnalato del cristianesimo, l'idea fondamentale che lo distingue dall'idea pagana, è una sfiducia del mondo più larga, più profonda; è la disperazione di trovar mai la felicità sulla terra. E se la religione di Gesù dice che questa terra è una valle di lacrime, che i beni di questo mondo sono nulla, chi meglio delLeopardi, la cui vita è tutta una croce, potrà intenderla? Chi più totalmente di lui comprenderà questa sfiducia di poter trovare la felicità nello stato umano?... Ma la stessa enormità del dolore che gli fa intendere la verità predicata dal figlio di Dio, lo distacca ultimamente dalla fede: “S'ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente l'infelicità umana dall'iniquità e dalle cose commesse contro gli Dei; ma per lo contrario non d'altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità.„ Il suo spirito indagatore vuol sapere il perchè del dolore. Se la vita è un circolo di creazione e distruzione continue, e se “quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi tu,„ chiede l'Islandese alla Natura, “quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose?...„ L'asiatico Pastore errante canta, rivolto alla luna:
Pur tu, solinga, eterna peregrina,Che sì pensosa sei, tu forse intendi,Questo viver terreno,Il patir nostro, il sospirar, che sia;Che sia questo morir, questo supremoScolorar del sembiante,E perir della terra, e venir menoAd ogni usata, amante compagnia.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,Che sì pensosa sei, tu forse intendi,Questo viver terreno,Il patir nostro, il sospirar, che sia;Che sia questo morir, questo supremoScolorar del sembiante,E perir della terra, e venir menoAd ogni usata, amante compagnia.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir della terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
Ma se l'immortale giovanetta conosce il tutto,egli, il semplice pastore, il cantore dolente, dice guardando il cielo, considerando sè stesso:
A che tante facelle?Che fa l'aria infinita, e quel profondoInfinito seren? Che vuol dir questaSolitudine immensa? ed io chi sono?Così meco ragiono: e della stanzaSmisurata e superba,E dell'innumerabile famiglia,Poi di tanto adoprar, di tanti motiD'ogni celeste, ogni terrena cosa,Girando senza posa,Per tornar sempre là donde son mosse;Uso alcuno, alcun fruttoIndovinar non so....
A che tante facelle?Che fa l'aria infinita, e quel profondoInfinito seren? Che vuol dir questaSolitudine immensa? ed io chi sono?Così meco ragiono: e della stanzaSmisurata e superba,E dell'innumerabile famiglia,Poi di tanto adoprar, di tanti motiD'ogni celeste, ogni terrena cosa,Girando senza posa,Per tornar sempre là donde son mosse;Uso alcuno, alcun fruttoIndovinar non so....
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io chi sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia,
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so....
Egli non sa null'altro fuorchè il suo dolore. E disperatamente Saffo chiede il perchè del dolore suo proprio:
Qual fallo mai, qual sì nefando eccessoMacchiommi anzi il natale, onde sì torvoIl ciel mi fosse e di fortuna il volto?In che peccai bambina, allor che ignaraDi misfatti è la vita, onde poi scemoDi giovinezza, e disfiorato, al fusoDell'indomita Parca si volvesseIl ferrigno mio stame?
Qual fallo mai, qual sì nefando eccessoMacchiommi anzi il natale, onde sì torvoIl ciel mi fosse e di fortuna il volto?In che peccai bambina, allor che ignaraDi misfatti è la vita, onde poi scemoDi giovinezza, e disfiorato, al fusoDell'indomita Parca si volvesseIl ferrigno mio stame?
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatti è la vita, onde poi scemo
Di giovinezza, e disfiorato, al fuso
Dell'indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame?
Un arcano consiglio muove gli eventi: nessuno risponde all'incauta domanda:
Arcano è tutto,Fuor che il nostro dolor. Negletta proleNascemmo al pianto, e la ragione in gremboDe' celesti si posa.
Arcano è tutto,Fuor che il nostro dolor. Negletta proleNascemmo al pianto, e la ragione in gremboDe' celesti si posa.
Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si posa.
Bruto non conosce questa rassegnazione; egli si sdegna e si ribella:
A voi, marmorei numi,(Se numi avete in Flegetonte albergoO su le nubi) a voi ludibrio e schernoÈ la prole infelice....Forse i travagli nostri, e forse il cieloI casi acerbi e gl'infelici affettiGiocondo agli ozii suoi spettacol pose?
A voi, marmorei numi,(Se numi avete in Flegetonte albergoO su le nubi) a voi ludibrio e schernoÈ la prole infelice....Forse i travagli nostri, e forse il cieloI casi acerbi e gl'infelici affettiGiocondo agli ozii suoi spettacol pose?
A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice....
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozii suoi spettacol pose?
Ma a nulla vale lo sdegno come a nulla vale la rassegnazione: i destini umani si compiono in mezzo al silenzio delle cose, all'indifferenza della natura: la luna versa immutato il suo raggio sui campi delle battaglie che mutano la faccia delle nazioni,
e non le tinte glebe,Non gli ululati spechiTurbò nostra sciagura,Nè scolorò le stelle umana cura.
e non le tinte glebe,Non gli ululati spechiTurbò nostra sciagura,Nè scolorò le stelle umana cura.
e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Nè scolorò le stelle umana cura.
“Imaginavi tu forse„, chiede la Natura all'Islandese, “che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro, che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me ne avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, e non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anchemi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.„ E la ragione riconoscerà anche la giustezza di questo argomento; ma ne sarà forse lenito il dolore, o sarà reso più sopportabile? La ragione risponderà: “Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande istanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poichè spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dicoora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non potevo sconsentirlo nè ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia?....„
Così egli dibatte il formidabile enimma; ma tutte le domande restano senza risposta, tutti i ragionamenti si spuntano contro il ferrato mistero, tutti i gridi del dolore vanamente si perdono. Aspetti la morte: egli vedrà allora la faccia della verità. Ma perchè ciò avvenga, bisogna che, dopo morto, egli pur viva d'un'altra specie di vita! E non vuole. La morte, sì; purchè sia la fine totale, il nulla. L'aspettazione della morte, dice Porfirio, “sarebbe un conforto dolcissimo nella vita nostra, piena di tanti dolori„; ma egli si duole di Platone che ha tolto da questo pensiero ogni dolcezza, anzi lo ha reso il più amaro di tutti, col dubbio terribile che la vita dell'anima continui oltre tomba. Il dubbio di questa vita avvenire turba, non conforta, la vita presente; “e non sì potendo questodubbio in alcun modo sciorre, nè le menti nostre esserne liberate mai, tu hai recati per sempre i tuoi simili a questa condizione, che essi avranno la morte piena d'affanno e più misera che la vita.„ Dovunque è mistero e terrore. Se le mummie del Ruysch una notte si destano, se riacquistano tanto di vitalità da pensare e parlare, dicono che hanno paura della vita come, vivendo, ne avevano della morte:
Come da morteVivendo rifuggìa, così rifuggeDalla fiamma vitaleNostra ignuda natura;Lieta no, ma sicura,Però ch'esser beatoNega ai mortali e nega ai morti il fato.
Come da morteVivendo rifuggìa, così rifuggeDalla fiamma vitaleNostra ignuda natura;Lieta no, ma sicura,Però ch'esser beatoNega ai mortali e nega ai morti il fato.
Come da morte
Vivendo rifuggìa, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura,
Però ch'esser beato
Nega ai mortali e nega ai morti il fato.
Non bisogna dunque destarsi. Il sonno, il sonno profondo, senza sogni, senza coscienza dell'essere, è la sola condizione felice. Quando la Terra e la Luna fanno strepito contendendo, la Terra pietosamente non vuol spaventare i suoi abitatori nè rompere il loro sonno, “che è il maggior bene che abbiano.„ Il sonno continuo di tutte le cose sarebbe preferibile alla vita. “Se il sonno dei mortali fosse perpetuo,„ canta il Gallo silvestre, “ed una cosa medesima colla vita; se sotto l'astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, nè strepito di fiere per le foreste, nè canto diuccelli per l'aria, nè susurro d'api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l'universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova?„ E se il sonno è necessario, esso dimostra la malignità della veglia. “Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, ristorarsi con un gusto e quasi con una particella di morte.„