V.LA GLORIA.
In questo paese, del quale le condizioni non gli sono lieve causa di dolore, potrà egli sperare di trovar un compenso alle tante sue sciagure? Poichè quasi ogni azione gli è stata contesa, e il pensiero e lo studio è stato tutta la sua vita, potrà egli ottenere il premio di questa attività: la gloria?
Della gloria ha avuto una brama ardente. “Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria.„ A diciotto anni, questa non è in lui presunzione: tali prove ha dato del suo ingegno, che il Giordani gli può scrivere: “Io ho innanzi agli occhi tutta la vostra futura gloria immortale.„ E il proposito del giovane è più che mai di raggiungerla: “Non voglio vivere fra la turba: la mediocrità mi fa una paura mortale; ma io voglio alzarmi e farmi grande ed eterno coll'ingegno e collo studio.„
Gli eruditi lavori dell'adolescenza cominciano a fruttargli le prime pubbliche lodi. Il Cancellieri, nella suaDissertazioneintornoagli uomini dotati di grande memoria, stampa: “Quali progressi non dovranno aspettarsi da un giovine di merito sì straordinario?„ e cita il giudizio dello svedese Akerblad: “Parmi che così erudita Opera di un Giovine ancora in tenera età sia di ottimo augurio per l'Italia, che potrà sperare di veder un giorno a comparire un filologo veramente insigne.„ Ma le prime canzoni levano più alto grido. Vincenzo Monti, a cui sono dedicate, gli scrive: “Il core mi gode nel vedere sorgere nel nostro Parnaso una stella, la quale se manda nel nascere tanta luce, che sarà nella sua maggiore ascensione?„ Il Trissino dice che gli Italiani debbono confortarsi molto di possederlo, Il Cancellieri lo chiama “fenice dell'età nostra„; il Giordani gli riferisce che si parla di lui “come di un Dio.„ Che moto di legittimo orgoglio non deve sollevarlo sulla mediocre umanità! Quante soddisfazioni, quanti onori, quanti trionfi la sua fantasia non deve promettergli! Questa volta essa non può esagerare: certo, se di tutti gli altri beni non è destinato a conoscere altro che il nome, non gli potrà mancare nessuno di quelli che procura la fama.
Noi abbiamo visto qual conto facesse il padre della sua grandezza e come largheggiasse per assicurarla. Finchè il giovane resta a Recanati, da una parte i suoi concittadini lo maltrattano come sappiamo e lochiamanopoetacon intonazione di scherno; dall'altra poco e male egli può sapere che cosa si pensi di lui nel resto del mondo: “Io tra le altre fortune ho quella di fare stampare le cose mie e non saper mai che cosa se ne dica: se piacciano, se non piacciano, se si stimino mediocri, se pessime, in guisa che un mio libro stampato è per me come se fosse manoscritto.„ Pubblica la traduzione del secondo canto dell'Eneide, e non gli giova “ad altro che a donarne tre copie in tutto e per tutto, non contando io per niente quel mezzo centinaio che n'ho fatto seminare tra questa vilissima plebe marchegiana e romana.„ E il suo lavoro resta ignorato a Roma, “dove pur vedo che si parla di cento altre traduzioni, che in coscienza non posso dire che sieno migliori.„ Stampa le sue canzoni e non sa come pubblicarle: “Io sono ignorantissimo di queste cose, non ho commercio letterario con nessuno, e con tutte queste copie in poter mio, non volendone un mezzo soldo, non so che diavolo me ne fare.„ S'arrovella aspettando tempi migliori; e intanto, perchè l'amor della gloria non gli sia pericoloso, si propone di obbedire a certe massime prudenti: “Ama la gloria, ma, primo, la sola vera; e però le lodi non meritate, e molto più le finte, non solamente non le accettare, ma le rigetta, non solamente non le amare, ma le abbomina; secondo, abbi per fermo che in questa età,facendo bene, sarai lodato da pochissimi, lasciando che altri piaccia alla moltitudine e sia affogato dalle lodi; terzo, delle critiche, delle maldicenze, delle ingiurie, dei disprezzi, delle persecuzioni ingiuste, fa quel conto che fai delle cose che non sono; delle giuste non ti affliggere più che dell'averle meritate; quarto, gli uomini più grandi e più famosi di te, non che invidiarli, stimali e lodali a tuo potere, e inoltre amali sinceramente e gagliardamente.„ Ottiene infatti qualche amicizia letteraria, sente dirsi cose lusinghiere da quelli che lo ringraziano del dono dei suoi opuscoli; ma già le delusioni cominciano. La difficoltà di stampare a sue spese, l'impossibilità d'inchinarsi a giornalisti ed a critici, gli fanno considerare come la più sicura, anzi la sola approvazione che le sue opere possano ottenere sia quella della propria coscienza. “Ma queste cose perchè ve le scrivo? Eh via che nè la nostra virtù, nè la delicatezza del cuor nostro, nè la sublimità della mente nostra, nè la nostra grandezza non dipendono da queste miserie, nè io sarò meno virtuoso nè meno magnanimo (dove ora sia tale) perchè un asino di libraio non mi voglia stampare un libro, una schiuma di giornalista parlarne. Oramai comincio, o mio caro, anch'io a disprezzare la gloria, comincio a intendere insieme con voi che cosa sia contentarsi di sè medesimo, e mettersi colla mente più in su dellafama e della gloria e degli uomini e di tutto il mondo. Ha sentito qualche cosa questo mio cuore per la quale mi par pure ch'egli sia nobile; e mi parete pure una vil cosa voi altri uomini, ai quali se per aver gloria bisogna che m'abbassi a domandarla, non la voglio; chè posso ben io farmi glorioso presso me stesso, avendo ogni cosa in me, e più assai che voi non potete in nessunissimo modo dare.„
Il proposito è di quelli che si chiamano filosofici, come opposti alle idee pratiche. In questa filosofia tanto più è difficile che egli perseveri, quanto maggiori sono le manifestazioni del suo ingegno, quanto più calda è l'espressione della meraviglia dei pochissimi che lo conoscono. Il Giordani s'adopera per lui, per fargli ottenere un posto a Roma; ma il giovane sa di esservi sconosciuto, “e non dico di non meritarlo; dico bene che infiniti altri che lo meritano quanto me, sono senza paragone più noti e stimati e lodati e riveriti che non son io; la qual cosa non mi muove punto nè mi dee muovere per sè stessa, ma mi pregiudica in questo ch'io non avendo nessuna fama, non ne posso cavare quelle utilità reali che ne cavano coloro che n'hanno, comunque se l'abbiano. Sicchè non è dubbio che i vostri uffici non mi possano giovare assaissimo.„ Ma l'amico suo non riesce, nè a Roma nè in Lombardia. Intanto il Pindemonteingelosisce di lui per il suo saggio di traduzione dell'Odissea; il giovane risponde giustificandosi, umiliandosi: “Io non ho mai veduto nessuna parte dell'Odisseadel Pindemonte. Non so neppure se l'abbia tradotta e pubblicata tutta; solamente quel saggio che stampò alcuni anni prima del mio. So ben questo, che la sua traduzione si potrebbe paragonare alla mia così bene, come una gemma a un ciottolo.„
Un giorno, stanco delle lunghe aspettazioni senza alcun ottenimento, egli pone da parte il suo orgoglio e s'inchina dinanzi al Mai perchè gli ottenga di farlo uscire da Recanati procurandogli la cattedra di lingua latina vacante nella Biblioteca vaticana, della quale il Monsignore è primo Custode. “Ho vissuto sempre in un piccolo paesuccio, non ho conoscenze, non amicizie, non appoggi di sorta alcuna. Così che dopo avere perduto ogni altro vantaggio della vita, mi vedo ridotto a perdere interamente anche quell'ultimo frutto degli studi, che è la conversazione degli uomini insigni, e quel poco di fama, che ogni piccolo uomo si lusinga e desidera di acquistare. Ma chi vive sepolto in un paese come questo, non può mai sperare di farsi, non dico famoso, ma neppur noto in nessuna parte della terra. Tutte le fatiche, tutti i dolori, tutte le perdite che ho sostenute sono vane per me. Io mi vedo qui disprezzato e calpestato dachicchessia; tutte le speranze della mia fanciullezza sono svanite; ed io piango quasi il tempo consumato negli studi, vedendomi confuso con la feccia più vile degli scioperati e degl'ignoranti.„ Per queste ragioni “implora la misericordia„ di lui; e il Monsignore il cui nome sarà famoso presso i venturi grazie al canto che il giovanetto gli ha intitolato, non vuole o non sa contentarlo; anzi pubblica più tardi un frammento del Libanio “o per fare dispetto a me, o sapendo di certo che col pubblicarlo, lo levava di mano a me che già l'aveva trovato.„
Andato a Roma, egli s'accorge che nella gran città, dove sperava di ottenere quella fama negatagli nel piccolo luogo natale, è ancora più difficile esser conosciuti ed ammirati; e vede la miseria del mondo letterario che da lontano gli sembrava tanto bello: “Quel vedere la gente fanatica della letteratura anche più di quello ch'io fossi in alcun tempo, quel misero traffico di gloria (giacchè qui non si parla di danari, che almeno meriterebbero d'esser cercati con impegno), e di gloria invidiata, combattuta, levata come di bocca dall'uno all'altro; quei continui partiti, de' quali stando lontano non è possibile farsi un'idea; quell'eterno discorrere di letteratura e discorrerne sciocchissimamente, e come di un vero mestiere, progettando tutto giorno, criticando, promettendo, lodandosi da sè stesso, magnificandopersone e scritti che fanno misericordia, tutto questo m'avvilisce in modo, che, s'io non avessi il rifugio della posterità e la certezza che col tempo tutto prende il suo giusto luogo (rifugio illusorio, ma unico e necessarissimo al vero letterato), manderei la letteratura al diavolo mille volte....„ I dotti stranieri lo apprezzano molto più che non gl'Italiani; ma non per le qualità delle quali egli è più orgoglioso. “Qui in Roma io non sono letterato (il qual nome, se è vero, è inutile coi Romani, inutile coi forestieri), ma sono un erudito e un grecista. Non potete credere quanto m'abbiano giovato quegli avanzi di dottrina filologica che io ho raccolto e raccapezzato dalla memoria delle mie occupazioni fanciullesche. Senza questi io non sarei nulla cogli stranieri, i quali ordinariamente mi stimano, e mi danno molti segni d'approvazione.„ Ma se egli spera di poter essere portato via, all'estero, da qualcuno di costoro, spera invano, Il ministro di Prussia gli dà gran lode per i suoi studi filologici e gli dimostra molto interesse e gli promette di esercitare tutta la sua influenza presso il governo pontificio per ottenergli un impiego: ma non glie l'ottiene; l'otterrebbe se egli consentisse a farsi prete!
A Milano, a Bologna, stipendiato dallo Stella, deve fare per conto di questo libraio studii che abomina, “un librettaccio noioso„, il commento del Petrarca, “calice di passione„dal quale non aspetta “nè onore nè piacere alcuno, bensì noia ineffabile e riso di molti che mi conoscono, dell'essermi occupato in queste minuzie pedantesche.„ E deve persuadere il libraio a non fargliene compiere un secondo dello stesso genere: “Eccomi a dirle del Cinonio. Trovo che questo lavoro sarà dei lunghi e noiosissimi, altrettanto e più che il Petrarca, senza stimolo alcuno di fama o di lode all'autore. Ciononostante, giudicando ella che esso debba riuscirle utile, eccomi a servirla. Ma avendo io già pubblicata col mio nome un'opera affatto pedantesca, com'è il comento al Petrarca, mi prendo la confidenza di porle in considerazione che il pubblicarne un'altra dello stesso genere, non potrà essere senza che il pubblico mi ponga onninamente, e per viva forza, in quella classe, dalla quale colle mie parole e cogli altri miei scritti ho tanto cercato di separarmi: nella classe di quelli che deprimono e rendono frivola, nulla, ridicola agli occhi degli stranieri la nostra letteratura, e con ciò servono mirabilmente alle intenzioni dell'oscurantismo: nella classe dei pedanti. Io la prego però di volere avere al mio nome questa compassione di salvarlo da questo epiteto, nel quale esso incorrerà inevitabilmente se la nuova opera sarà annunziata per mia....„ E quando poi questo libraio si dispone a stampare le sueOperette morali, gli vuol metterequesto libro di altissima filosofia nellaBiblioteca per dame!
Nessuno è riuscito a fargli avere un impiego: nessuno glie l'otterrà. Una promessa, il segretariato dell'Accademia di Bologna, sfuma nonostante l'appoggio del Bunsen. Lo stesso Bunsen gli dà come cosa fatta la sua nomina alla cattedra di eloquenza greca e latina; il giovane lo prega di fargli anche ottenere dal cardinale segretario di Stato la somma occorrente al viaggio da Bologna a Roma, non avendo la possibilità di farlo a spese proprie, e il Bunsen stesso mette a sua disposizione il denaro occorrente; ma tutto va a monte: egli non ottiene altro che “una nuova prova del quanto poco, anzi nulla, ci possiamo noi confidare in questo nostro Governo gotico, le cui promesse più solenni vagliono meno che quelle di un amante ubbriaco.„ Ancora il Bunsen gli propone una cattedra in Germania, a Berlino o a Bonn; ma, oltre che la cosa non è sicura, la salute rovinata non gli consente oramai di vivere in climi tanto rigidi. Il Colletta, cercandogli una cattedra in Toscana, non è più fortunato. Non è più fortunato il Maestri cercandogliene un'altra a Parma: glie ne darebbero una, ma di storia naturale!... I suoi concittadini, dopo tanta indifferenza e tanta diffidenza, hanno sentore della sua grandezza; essi pensano un giorno a lui, ma non per giovargli, bensì per giovarsene;lo eleggono ad un posto non letterario, ma politico; lo nominano deputato durante la rivoluzione del Trentuno, quando egli è lontano, tanto lontano che la rivoluzione quasi finisce prima che egli risponda rinunziando ad un ufficio al quale non è nato.
Con tutta la sua dottrina, egli deve contentarsi di vivere dei pochi scudi che gli paga ogni mese il libraio Stella e dell'emolumento di lezioni private. Come una “fortuna„ sollecita dal Vieusseux di esser posto in relazione col libraio Antonelli, disponendosi ad accettare, tra per le condizioni del mercato librario, tra per lo stato della sua salute, gli sterili e odiati lavori di compilazione. Se stampa opere originali, deve pregare gli amici di trovargli sottoscrittori. Se concorre con leOperette moralial premio quinquennale di mille scudi che conferirà l'Accademia della Crusca, il Vieusseux gli assicura che, riguardo alla lingua e allo stile, cose che gli Accademici dovrebbero considerare principalmente se volessero esser fedeli al loro primitivo istituto, nessuno potrà competere con lui; ma il valore dell'opera sua non basta: bisogna raccomandarsi, essere raccomandato. “Il Capponi vi conosce„, gli scrive il Colletta, “vi pregia, vi ama; ma egli non ha sullo Zannoni la forza che voi credete; nè lo Zannoni può tutto in quel coro di canonici. Sento in predicamento il Botta; e certamente per molesta sopra a tutti: ma che storia! che stile! Quanto perderebbero le lettere italiane s'egli avesse imitatori! Se gli accademici hanno in pregio il puro, il gentile e il bisogno d'Italia di bello scrivere, le opere vostre saran preferite, perchè in qualità di stile voi non avete superiore o compagno.„ E il Capponi e il Niccolini difendono la sua causa, ed anche lo Zannoni dicono che si mostri giusto a suo riguardo; ma l'Accademia conferisce il premio proprio al Botta; e neppure dà a lui la prima menzione onorevole; gli concede soltanto la seconda. Per tutta consolazione, due anni dopo lo nomina suo socio corrispondente. Ma le semplici soddisfazioni d'amor proprio che importano oramai all'infelice cui mancano i mezzi di vivere? “Riempirti il naso di fumo„, scrive alla sorella, “non mi dà più l'animo, e mi fa nausea.„ Egli non ottiene quei compensi reali ai quali è anche sul punto di divenire indifferente; se pure li ottenesse, non vi sarebbe un senso di secreto avvilimento nella rinunzia ai sogni di gloria pura e disinteressata?
Ed a che cosa si riduce per lui questa gloria? All'amicizia di qualche grande anima, alle liete accoglienze di Bologna e di Firenze, alle lodi in versi del Muzzarelli e del Missirini, alle lodi in prosa e a qualche traduzione che gli vengono dall'estero. E quante miserie, quante invidie, in cambio! All'Accademiadegli Arcadi dicono male di lui; egli ne ride, ma sotto alle risa si sente la ferita dell'amor proprio: assicura che prova “un gran piacere quando sono informato del male che si dice di me„; ma che specie di piacere è questo?... Un anonimo scrive al suo editore, e il suo editore gli comunica il seguente giudizio sul commento del Petrarca: “Non posso a meno di dirgli che quella operetta del Petrarca colle note mi par cosa inettissima; e degna d'esser letta da uno scolaretto sgusciato dalla Grammatica.„ Per difendere la forma delle sue prime dieci canzoni, egli deve comporre lunghe annotazioni filologiche; per difenderne il contenuto, lo critica egli stesso in un articolo ironico, senza firma. E il Tommaseo lo vitupera e lo dileggia, e compone epigrammi sulla sua deformità corporale. E del Rosini è amico, ma egli deve aver paura di dare al De Sinner la notizia della caduta delTassoa Firenze “perchè sapete che gli sdegni letterarii del Rosini non sono sempre inoffensivi. „
E poichè il destino non risparmierà questo grande sciagurato mai, neppure nella morte, egli si spegne a Napoli durante l'epidemia colerica, quando nessuno s'accorge della perdita che ha fatta l'Italia, quando la sua salma a stento è sottratta dal Ranieri alla fossa comune dove tutti i morti, per misura di pubblica salute, sono confusi. E un Cicconi, nellaGazzetta di Francia, gli tesse unelogio funebre pieno di vituperii; e il Tommaseo dissuade il libraio parigino Baudry dal pubblicare un'edizione postuma delle sue opere. E lo stesso Ranieri, che pure gli è stato tanto amico, un giorno, dopo molti anni, scrive un libro nel quale avvilisce ed offende la sua memoria.
PARTE SECONDA.
IL PENSIERO.