—Andiamo dunque.
Qui donna Adele, volgendosi per chiamare i tre mariti, che se ne stavan ritti a poca distanza da loro, disse sottovoce alle nobili compagne:
—Guardate, guardate codesti tre pivieri che se ne stanno dormendo su d'una zampa, e ciò dicendo, si recò colle amiche nella sala delle danze, tenendo dietro al conte Galeazzo che già l'aveva preceduta…
In mezzo a tanto frastuono, generato dai cicalecci minuti ed incessanti, dal suono delle mandole, degli arpicordi e dei liuti, dal fervore delle danze, s'udì netto un piccolo, ma acuto strido, e tosto uscire dal cerchio danzante una giovinetta fanciulla rossa, infuocata come una ciliegia e irata più d'una vespe, staccatasi improvvisamente da un giovane barone francese.
Quel barone era un gendarme del re, era un capitano d'una delle compagnie de' lancieri di Francesco. Aveva fatto la sua prima giornata campale a Marignano, e per la prima volta era venuto in Italia. Aveva un volto rosato e giovanile, adombrato da capelli biondissimi, con un nasino vôlto in su, e due occhi cerulei lucentissimi, pieni di quel fuoco fosforico che dinota un gran fervore di concupiscenza, e una colonna vertebrale soggetta a troppo frequenti fremiti. Ora quel capitano di una compagnia di lancieri s'era fatto lecito un gesto villano colla nobile e virtuosa fanciulla e aveva creduto d'avere a prendere una rocchetta d'assalto.
Vedevasi in lui l'impronta di quell'imprudente sicurezza, di quella leggerezza boriosa e avventata, congiunta a un deciso valor personale, che tanto distingueva i giovani gendarmi dell'esercito di Francesco.
Il Mandello era lì presso, aveva visto ogni cosa assai bene, e gli era venuto il sangue alla testa. Se avesse veduto che la fanciulla avesse corrisposto alle prime amorose gentilezze del giovane, il suo dispetto sarebbe stato anche maggiore, pure, rintuzzandolo pel momento, l'avrebbe poi tuffato nell'oltrepò, come era solito di fare, quando vedeva una cosa che gli dispiaceva, ma che tuttavia non gli era possibile riparare; ma in quest'occasione, avendo la fanciulla mostrato una dignità e compostezza di contegno ammirabili, non gli sembrò giusto che quel biondo e sfacciato mostricciuolo avesse a passarla impunemente, e così, fatti due salti e a furia trattolo fuor dal circolo che tuttavia danzava e datagli una formidabile tentennata, gli disse in francese, e in tuono assai alto, quattro parole, che volevan dire così:
—Io so benissimo com'è fatto Parigi, e bisogna dire che le tue sorelle abitino la contrada di coda di Brie, e più volte sien state prese dalle guardie del buon ordine, se tu credi che tutte sien fatte a un modo le donne; però ti dico, che sei uno schifoso cialtrone, e indegnissimo di stare con gentiluomini e con gentildonne.
Ad una simile apostrofe egli è ben naturale che qualunque uomo si sarebbe risentito, dato anche che nelle vene, invece di sangue gli fosse scorso pappina di fava, per ciò è facile a pensare, come si trasmutasse il volto del giovane gendarme alle parole del conte Mandello. In prima la risposta che gli diede fu pari a quell'invettiva e peggio; poi le mani corsero alla spada, ed essendo accorsi gentiluomini francesi e lombardi da tutte le parti per impedire si turbasse così la giocondità delle feste, ottennero che i due cavalieri uscissero di lì, e scegliessero quel qualunque luogo fosse loro piaciuto per ammazzarsi senza incomodo altrui. Il capitano degli arcieri cercò due padrini, che trascelse fra' tanti che gli si esibirono. Il conte Galeazzo Mandello fece altrettanto, percorse collo sguardo un centinaio di facce, domandò quel favore ai dieci o dodici che gli stavan presso. Ma il profondo e generale silenzio che s'era fatto per tutta la estensione del padiglione a quello scoppio di ira dei due campioni non fu interrotto da nessuna voce che rispondesse alle replicate domande del conte. Solo quel giovane che un momento prima aveva sentito il peso di quella terribile paterna rimesta, tremando dal capo alle piante per l'impazienza convulsa, provò una forte tentazione di profferirsi al Mandello, ma gli era rimpetto la faccia quadra e burbera del conte padre, e così, senza neppure fare un passo innanzi, dovette accontentarsi di mordersi le labbra, e di star queto; così moltissimi altri giovani si sentivano salir su la fronte un rossore insolito, ma eran tenuti in freno dai provvidi padri, e quel vituperevole silenzio tuttavia continuava; il Mandello intanto, ferito nella parte più sensibile dell'animo suo:
—Stolido ch'io fui, diceva tra sè, a rompere in quest'ora una regola di sei anni, e a non guardare altrove quando la fanciulla fu offesa, e a non ubbriacarmi più di quanto non ebbi mai fatto in questi sei anni d'inerzia e d'intemperanza, per dimenticare l'ingiuria altrui e la viltà nostra—e ciò pensando, girò ancora uno sguardo per tutta l'ampiezza della sala, ma nessuno rispose; e, almeno fosser stati contenti a non rispondere, ma taluni, di una stolidezza senza pari, accostatisi al biondo gendarme, lo pregavano a dimetter l'ire, e a non far caso delle parole del conte, a cui gli insulti dell'ebbrezza non permettevano dir mai cosa che stesse bene.
Questi fatti che raccontiamo sono, senza dubbio, ingratissimi ad udirsi, come quasi impossibili ad esser creduti, quando si pensa che molti de' gentiluomini che popolavano quelle sale appartenevano a quel glorioso ceppo di cavalieri milanesi e lombardi che non molti anni prima, al tempo di Francesco I e Galeazzo Sforza, mandati in Francia ad aiutar re Luigi,più che uomini erano stimati; quando si pensa che fra tutti coloro c'era ingegno, senno, coraggio, e tutto quel bel complesso di cose, che mai non manca nel tessuto della stoffa italiana, a così esprimerci! ma avendo in odio il dominio sforzesco, e convinti, che allo spargersi dei gigli fosse per piover manna sulle belle contrade di Lombardia, s'acconciavano a sopportare qualunque insulto fosse lor venuto dalla Francia; eran corpi, altra volta poderosi di gioventù e di bellezza, afflitti di presente da un momentaneo contagio, che violentava ogni loro virtù, e faceva che il loro senno naturale cedesse sopraffatto da' torti giudizj e della cieca passione.
E fu ventura che il giovane gendarme, trasportato dall'ira, non ascoltasse ragioni; e dicendo ai propri padrini che si rimanessero, giacchè l'avversario non poteva trovare i suoi, se ne uscì col conte Galeazzo Mandello,
Usciti, il pensiero che nacque nel capo ad ambedue fu quello di cercare un luogo solitario e remoto, dove non ci avessero a capitar spettatori. Il conte Galeazzo, il quale sapeva benissimo quanti luoghi fossero adatti a ciò, senza dir nulla al gendarme, e persuaso che costui lo avrebbe seguito, a scansare la moltitudine che s'affollava per tutto quel tratto di strada che era Rugabella e la statua di San Giovanni Nepomuceno al ponte, cominciò a prendere per viottoli, ma essendovi dappertutto persone in volta, dovettero percorrere un gran tratto di strada. Finalmente, il conte affrettò il passo, e trovò più breve il prendere la direzione per la piazzetta di San Martino in Nosiggia, dove rispondeva il suo palazzo, in prima perchè gli era balenato uno strano pensiero in mente, poi perchè era quella in fatto tra le più spopolate della città , se si eccettuano le ore, in cui scolari e monelli venivan lì a batter le mani, e a mandar voci e grida.
Egli è a sapersi, che in un angolo di quella piazzetta, sin dal secolo XIV, in occasione della peste memorabile che devastò mezza Europa, fu eretta una cappella detta di San Rocco, la quale, per la posizione che aveva con un palazzetto contiguo, aveva prodotto certe combinazioni d'angoli da generare un'eco mirabile; il quale ripeteva più volte il più minuto suono, perciò veniva chiamata anche la piazzetta dell'Eco, e i monelli venivano qui a passare il loro tempo godendo a sentir ripercosso tante volte il baccano che facevano. Su questa piazzetta vennero dunque i due campioni; ora avvenne che, attraversandola, il Mandello inciampasse in un corpo disteso quant'era lungo sul selciato, probabilmente il corpo avvinazzato di un qualche gabellino, e desse un tal barcollone che minacciò cadere. Il giovane gendarme, che era nojato di quella lunga passeggiata e ancora non sapeva ove v'andrebbe a fermarsi e, rifacendosi sull'ingiuria ricevuta, si sentiva abbruciare, còlta quell'occasione per parlare e pungere il suo nemico:
—Signore, gli disse, mi pare non siate ben fermo sulle vostre gambe; dunque, se siete ubbriaco, vi concedo d'andare a letto stanotte, che alle nostre spade non sarà già per venir la ruggine, e all'alba ci ammazzeremo.
Il Mandello, a quelle beffarde parole, non credette già d'avere a rispondere con altrettante, ma non potendosi dominare, si voltò di tratto; e lasciò andare sulle guancie rosate del gendarme due sonori schiaffi, il cui rumor secco venne quattro volte ripetuto dall'eco della cappelletta di San Rocco. Incidente che promosse la volontà di ridere nel conte, e accrebbe a mille doppi il furore e la rabbia del giovane gendarme.
Per questo insulto non ebbero bisogno di dirsi a vicenda: questo è il luogo adatto. Le spade sarebbero uscite impetuose dalla guaina, anche se fosse stato di mezzodì, e tra una folla di persone; così senza preliminare di sorta, quelle s'incrocicchiarono. La superiorità che aveva il conte Mandello con chicchefosse nel lavorare di punta, era così incontestata, così prodigiosa, che non è a far nessuna maraviglia se al terzo colpo la spada, dalla mano intormentita del giovane gendarme, balzasse a dieci passi di distanza. Il conte Mandello, non volendo in nessun modo stendere sul terreno l'avversario, volle fare un colpo che, senza spargimento di sangue, finisse il duello, e contentissimo che gli fosse riuscito così facilmente, tosto ripose la spada, intanto che il giovane borioso, che riputavasi espertissimo e formidabile schermidore, percosso di stupore che un colpo solo del ferro avversario fosse così terribile che il braccio e la mano non gli potessero regger contro, si rimase avvilito e sconcertato, in dubbio di quanto gli convenisse fare. Ma, a determinare ogni cosa, s'aprirono in quella molte finestre del palazzo che rispondeva sulla piazzetta; era il palazzo dello stesso Mandello ed erano i servi che a quel martellare minuto delle spade, s'erano affacciati.
Il conte, che non voleva continuare il duello, avendo fermo di non ammazzare l'avversario, diede allora una voce, che tosto fu riconosciuta, e dopo pochi minuti tutti i servi del Galeazzo, con torcie accese, furono intorno ai due combattenti.—Quel ch'è stato è stato a buona guerra, disse il Galeazzo all'altro, e quand'anche voi persisteste a voler continuare il duello, io vi dico che rifiuterei, giacchè non siete voi quel tale che possa star contro a me; favorite dunque in mia casa, chè ci sarà qualche conforto per voi.
E rifiutandosi il giovane, lo prese allora con forza per la mano, e traendoselo seco, lo condusse nel suo appartamento, sempre circondato da' suoi servi, che gli facevan lume colle torce.
Il Mandello si diede a passeggiare per quella camera, e pareva che attendesse a pensare qualche strana cosa. Improvvisamente si volge a un servo, e gli dice:
—Va qui un tratto alle Case Rotte, numera le porte a dritta, entra nella seconda, cerca del notajo Benintendi, di' che venga qui subito, che ho bisogno di lui.
Il servo partì, e il conte continuò a passeggiare assai grave e contegnoso.
Il giovane barone, senz'arme accanto, chè la spada trovavasi ancora sulla piazzetta, era chiuso in mezzo da quattro servi, a' quali il conte aveva fatto motto di non muoversi, se non comandati.
A un altro aveva ingiunto recasse nella camera uno scoppietto, che tosto fu portato, e la bocca dell'arme micidiale venne adatta sulla forcina in modo, che avesse dirimpetto il giovane barone. Tutto ciò venne eseguito assai tranquillamente, senza spender molte parole.
Il giovane guardava, taceva, e cominciava a pensare e a temere. D'indole stranamente avventata e spavalda, a un gioco lungo non sapeva resistere. Il suo coraggio, allontanata la fiamma dell'ira istantanea, aveva cominciato a sbollire, e, cosa strana a dirsi, quella medesima luce fosforica che di solito brillava nella sua cerulea pupilla, si era quasi spenta del tutto. In conclusione, il biondo gendarme era ridotto alla condizione d'una boccetta di spirito volatile, alla quale da qualche tempo si fosse levato il turaccio.
Comparve finalmente il servo col notajo.
—Vogliate perdonarmi, caro messere, disse il conte al nuovo venuto, se v'ho mandato a sturbare in quest'ora tarda, ma non c'era a perder tempo in nessun modo, e occorreva che voi apponeste il vostro tabellionato a una tal coppia di righe, che ora stenderò io medesimo, e che questo signore sottoscriverà . Abbiate dunque la bontà di attendere un poco che, in un quarto di minuto io mi spaccio. Così dicendo, si gettò a sedere, prese una penna e scrisse una mezza pagina, che tosto diede al notajo.
Questo, messosi a leggerla, quando fu a un certo punto, tutto compreso di maraviglia, e non potendo reprimere la voglia di ridere, guardò in faccia al conte dicendo:
—Avrei creduto si trattasse di far la ricevuta di una sommetta di ducati nuovi di zecca, non già di codesta mercanzia…. Del resto, purchè costui, che ci ha il massimo interesse, non metta innanzi delle difficoltà , e s'accontenti, io son qui pronto ad apporvi il tabellionato, e a far le cose in tutta regola, che già tanto vale una moneta quanto un'altra, e quella di cui è parola in questo scritto, ha sempre questo vantaggio di non mancar mai di peso.
Il Mandello, sorridendo, si volse allora al gendarme con un contegno alquanto serio.—Signore, gli disse, siccome abbiam combattuto senza padrini, e non c'è nessuno che possa attestare che da me non vi fu fatta violenza, quando mai venisse a voi la tentazione di vendere qualche vescica, così, dalla vita alla morte, fate grazia di apporre il vostro nome qui dove, in tre parole, c'è la storia genuina di quanto avvenne fra noi stassera. Questi intanto è il notajo Benintendi, che, per la regolarità dell'atto, ho voluto fosse presente anche lui, e mettesse il suo nome accanto al vostro…. Ecco qui, scrivete, e tosto uscirete.
Il barone francese, cui pareva mill'anni di non trovarsi all'aperto: "Infine, pensò tra sè, un gendarme non perde il proprio onore, se confessa di esser stato vinto in duello; d'altra parte, i suoi concittadini medesimi hanno mostrato d'aver men stima di lui che di me; e forse in questo momento egli è ubbriaco; dunque, non me ne può venire gran scorno e forse non si parlerà più nè di duello, nè d'altro." La conseguenza era precipitata; ma esso avea voglia d'andarsene, bisogna compatirlo, così, senza leggere la scritta, che già non avrebbe capito, per esser stesa in italiano, ci mise il nome.
Il notaio fece altrettanto, e ci pose il suo ghirigoro.
Chi volesse poi avere innanzi agli occhi il facsimile della scritta e delle firme, eccolo:
"Confesso io sotto segnato, per la pura verità , qualmente la notte del 17 settembre 1515, alle ore due, sulla piazzetta di San Martino, in Nosiggia, il col. Galeazzo dei conti Mandello, commendatore dell'ordine di San Michele in Francia, habbia incrocicchiata la sua colla mia spada a buona guerra, et che il suddetto conte mi habbia disarmato. Itèm, accuso al suddetto colconte Galeazzo la ricevuta di N. 2 sonori schiaffi che il medesimo a me consegnò tra guancia et guancia la sera stessa, et che furono ripetuti quattro volte dall'eco della cappelletta di S. Rocco. Ciò che qui confesso per la pura verità et perchè il sudd. conte cav. Galeazzo ne faccia quell'uso che le parerà et piacerà .
"Sott.Barone Coislin
"Capitano della 4.a compagnia dei lancieri del re.
N. M. (Benintendi)".
Quando la scritta fu sottosegnata e tutte le formalità furono adempiute, il conte Galeazzo lesse ad alta voce quanto aveva scritto, poi, rivolto al giovane gendarme, gli disse in francese quel che noi mettiamo qui tradotto:
—Signore, gli disse, non avrete a male se questa carta sarà fatta circolare per tutte le gentili mani delle nostre belle milanesi; così nè uno sguardo, nè un sorriso, nè una parola vorranno gettare a voi, neppure per carità , e quand'anche vi rifugiaste colà , dove il vizio ha fatto l'ultima sua prova, neppure in que' luoghi troverete femmina sì proterva che si lasci pizzicare da voi. Son donne curiose le nostre, e non amano i volti sfregiati, voi mi comprendete. Cosi, finchè rimarrete qui, il tempo vi scorrerà assai tristo e privo di conforto al tutto, tanto che v'augurerete trovarvi ancora fra le corpulenti borghesi di Reims, e l'istinto copulativo insaziato vi condurrà a mal termine. Ora ne potete andare, ma serbate in memoria bene, che fra le donne, delle quali avete mostrato far così poca stima, l'onestà non è minore della loro bellezza.
Il lettore avrà notata una certa contraddizione tra queste parole dette al gendarme e alcune altre dette al Palavicino…. ma è appunto una tale contraddizione che fa molto onore al carattere del Mandello.
Il biondo gendarme, tutto mogio e costernato, uscì fuori finalmente, accompagnato da quattro servi che gli fecer lume colle torce.
Quando il conte Galeazzo si trovò solo, si tolse il piumato berretto, si svestì la cappa di broccato d'argento, gettò lontano da sè tutti quegli ornamenti che da tre anni non s'era mai mossi intorno, e tutte quelle delicatezze necessario, a chi si reca fra le pompe e le delizie d'una lesta, pentito oltremisura d'averle riprese per mezza giornata, di aver rotta un momento la sua regola, d'avere con una momentanea sobrietà fatta più lucida la propria intelligenza, e d'essersi così procurato il dispiacere di vedere e di provare in sè troppo più di quello che faceva di bisogno. Indossò ancora la sua semplica cappa di velluto nero e, gettatosi nella sua gran seggiola, chiamò l'uomo di camera. Questi capì ciò che voleva il conte, e un momento dopo, sulla tavola che gli stava d'innanzi, a promovere il buon umore, fu recata una batteria di bottiglie e di tazze dove l'oltrepò ribolliva e frizzava. E quella sera ne bevè una così smoderata quantità , che quando sentì il bisogno di recarsi a dormire, dovendo passare per certe sale che conducevano alla camera da letto, v'impiegò molto più tempo che non faceva bisogno, e, giunto che vi fu, al lume della candela che pei densi vapori che gli erano andati alla testa, gli pareva avvolta come in una nebbia, penò molto a trovare la rimboccatura delle coltri, nè gli riuscì più facile il cacciarsi sotto. Da quel giorno in poi la sua intemperanza d'eccesso in eccesso giunse a tal punto, che parve volesse minacciare perfino la sua salute. Il suo fine altro non era che di mettere una sì balorda confusione nella propria testa, da non conoscer più in che mondo si fosse. Finchè si rimase a Milano, non fece mai più vedere la sua faccia in pubblico; e quando sentì bisogno di moto e d'aria libera e sana, si ritrasse a vivere in campagna lontano dagli uomini, lontano dai rumori, lontano da tutto ciò che gli potesse recar qualche noia…. Ma vorrà durar sempre in questa ragione di vita sì vergognosamente inerte?… Ma sarà irremissibilmente perduto quest'uom forte, da cui la società avrebbe potuto cavare così grande vantaggio? Gli eventi incalzano gli eventi, e stanno or forse a maturarsi quelli che lo scuoteranno dal vituperoso letargo.
Intanto che si sviluppò e si sciolse questo intrigo che abbiamo raccontato, nelle sale delle feste era avvenuta cosa di ben più grave momento. Elia Corvino che, avvolto ne' suoi panni signorili, passeggiava da più di due ore fra tante cappe e tanti mantelli, col pensiero e collo sguardo attentissimo a tuttociò che succedeva nelle sale, e mai non aveva perduto di vista i tre personaggi dei quali gli conveniva sapere ogni benchè menomo movimento, quando vide staccarsi dalla sua sposa il magnifico signore di Perugia, e recarsi nelle sale da giuoco (ove fin dal principio della notte s'era ritratto il Bentivoglio con alcuni baroni francesi), e lasciar la Ginevra insieme alla moglie del masciallo Chaumont, (quel Chaumont che aveva dato un salvacondotto ai Bentivoglio la prima volta che ebbero a fuggire da Bologna); allora s'accorse che se non sapeva approfittare di quel momento, forse ogni speranza era perduta, e per sempre. Non senza una certa inquietudine, che s'apprende anche agli uomini più audaci ed avvezzi a tentar cose che, non riuscendo, possono produrre la propria e l'altrui rovina; guardava di tanto in tanto per la fuga delle sale fino alla gran porta d'ingresso per vedere se mai entrasse il fratello ad annunziargli qualche nuovo inciampo, che troppo temeva dell'insofferenza del Palavicino e del suo carattere impetuoso; inquietudine che, durando a lungo, gli aveva vestito la parte superiore del volto di un vivissimo rossore, pari a quello che solea coprire le guancie di Bonaparte la vigilia delle sue battaglie; ma l'impresa a tentarsi, se non era di sì alta importanza, non era però d'esito meno incerto e men difficile; però assai perplesso, stava in aspettazione. Quando ad un tratto la voce sonora del conte Galeazzo Mandello, alzatasi al disopra del generale frastuono, e le parole non meno sonore e impetuose del giovane francese produssero in un subito quel generale silenzio che sappiamo, e tosto, per un impulso comunicato macchinalmente a tante persone in una volta sola, la folla tutta quanta trasse nella sala donde le voci erano uscite. La maraviglia e l'impaziente desiderio di venire in cognizione del fatto, aveva in un momento scomposti tutti quei cento gruppi di persone che s'eran formati di distanza in distanza. Così anche il maresciallo Chaumont abbandonò il braccio della moglie, questa, il braccio della Ginevra, la quale per esser tutta agitata e compresa della sua terribile condizione, non potendo venir scossa da verun altro accidente, rimase indietro più di dieci passi. Accorse allora il Corvino con quella sicurezza di chi vede non poter più mancar l'esito all'intento. Accorse, e s'avvicinò alla Ginevra dicendo:Signora, vostro padre vi chiama.
La Ginevra si volse.
—Vostro padre e il magnifico Baglione vi chiamano là ; e additando una sala a sinistra, che da un lato metteva nelle sale da giuoco, da un altro nei corridoi d'uscita, con molta gentilezza di modi e con quel fare cavalleresco, al quale non doveva esser nuovo, la prese pel braccio e la trasse con sè.
La chiamata del padre e la presenza del gentiluomo, sebbene non fosse di sua conoscenza, eran cose tanto naturali, ch'ella non ci fece sopra neppure un pensiero, e neppure un momento stette in forse di seguire il cortese gentiluomo.
Questo intanto, come l'ebbe tratta nella sala vicina:
—Sono già usciti di qui, disse; certo che vi attendono al vestibolo o il Baglione s'è già messo in carrozza, non potendo più sopportare il rumore e il caldo eccessivo delle sale. Permettete dunque che v'accompagni io stesso.
Elia Corvino, che sapeva benissimo com'è fatto il cuore umano, aveva contato sull'alterazione d'animo, in che naturalmente doveva trovarsi quella sera la Ginevra, alterazione che non gli avrebbe permesso di notare quanto ci poteva essere di men regolare in un fatto qualunque, e, per verità non s'era ingannato.
Attraversato dunque il lungo corritoio per mezzo a due file di servi gallonati, senz'accidente di sorta, pervennero finalmente sul limitare della soglia del vestibolo posticcio, messo a drappi, a drappelloni di frange d'oro ed a festoni di fiori. Il murmure alto, incessante della folla minuta che s'accalcava intorno al vasto padiglione, per vedere entrare ed uscir cappe signorili, il calpestìo di quelle cento cavalcature che s'attendevano là , giacchè la maggior parte dei gentiluomini soleva ancora a que' tempi recarsi dovunque a cavallo, il cicaleccio di quel migliaio di palafrenieri che ingannavano così la noia dell'aspettare, gl'irrequieti movimenti di quei trenta o quaranta cocchi a due ruote, chè le carrozze propriamente dette a quattro ruote furono introdotto molto più tardi, le grida dei cocchieri, lo sbattere delle fruste, avvolse i due che usciron fuori all'aperto in un turbine così vasto e così forte di frastuono, che, anche parlando ad alta voce, non si sarebbero intesi.
Allora il fratello del Corvino, che d'accanto alla lettiga (o carrozza che dir si voglia) del Palavicino, stava sull'ale e non aveva pur un momento stornato lo sguardo da quella uscita, accorse, appena li raffigurò, colla prestezza di chi si fa a raccogliere una moneta d'oro caduta di tratto, e non voglia esser prevenuto dalla folla che già accalcandosi fa a chi prima arriva. Accorse, si recò presso la Ginevra, è disse:
—È in lettiga! venite, presto!
A queste parole l'Elia Corvino si slanciò innanzi, gettando un'occhiata d'iraconda impazienza su tutta quella folla che poteva impedire alla carrozza d'allontanarsi rapidamente di lì, si recò presso lo sportello, che già stava aperto, e del braccio aiutò la Ginevra a salire. Alla giovane in quel momento si conturbò l'anima d'uno di quelli eccessi di sconforto disperato che ci rendono insensibili a tutto ciò che ne succede d'intorno. Credette salire nel cocchio del Baglione, che tutti erano d'una forma a quell'epoca, per esserne recentissima la moda e l'introduzione in Italia; credette che l'uomo che se ne stava ravvolto sdraiato in un canto fosse l'odioso vecchio, dal quale non era cosa che più oramai la disgiungesse, provò quell'orrore senza lagrime e senza parole che tramesta l'anima, di chi sale la scala del patibolo, e gli mette tal tremito per tutta la persona, che cadrebbe se non fosse sorretto. E il Corvino sentì infatti pesarsi sul braccio il corpo della Ginevra come se, perduta ogni virtù vitale, fosse stato per ripiegarsi su di sè e cadere inanimato in quel punto. Finalmente riuscì ad adagiarla, chiuse le cortine di corame damascato e si ritrasse. Tra quel formicolaio di cavalcature, di bussole, di lettighe e di moltitudine si fece uno slargo, e i cavalli dovettero procedere assai lentamente, finchè la folla non fu al tutto diradata. Il Corvino s'indugiò per qualche tempo per assicurarsi pienamente della riuscita dell'opera sua. Ma quando pensò a togliersi di lì, un grido, che doveva esser stato acuto, ma che gli giunse all'orecchio velato e fioco, attraverso a tanto rumore, lo colpì e io sconvolse. Si attese ancora qualche tempo in una gran perplessità . Ma vide finalmente ricomparirsi innanzi il fratello, che gli disse:
—Sono usciti di città adesso; non c'è più nessun pericolo.
—Ma la Ginevra mandò un grido, mi pare, un momento fa?
—Era troppo naturale; ma nessuno non volse neppure la testa, e, quel ch'è fatto è fatto.
Assicurato allora che quel grido, se pure non svanì inavvertito a tanta moltitudine, non aveva però fatto muovere un passo a nessuno, il Corvino si mosse per rientrar nelle sale, desideroso di venire in cognizione di due cose: della cagione che aveva promosso quelle parole di ferro e di sfida, che un momento prima avevano conturbato la giocondità della festa e giovato così bene al suo intento; e dell'effetto che sarebbe per produrre sul Bentivoglio e sul Baglione l'improvvisa scomparsa di Ginevra. Per verità , che ambedue codeste cose, e la seconda segnatamente, meritavano bene ch'ei ritornasse nelle sale, ma pensatoci due volle, e veduto che non era senza pericolo, che era troppo facile l'essere stato veduto colla Ginevra da qualcheduno, che si poteva venire a schiarimento, e non era improbabile il non poterne uscir netto, fermò invece d'allontanarsi sull'istante.
In quella, udito batter l'ore alla chiesa di San Nazaro, pensò che poteva in quella notte medesima, giacchè non era tardissimo, recarsi al palazzo del Morone, e quando non fosse in castello col duca, dargli la notizia che pareva esser tanto desiderata da quell'illustre personaggio.
Il Morone abitava in quella contrada, alla quale fu poi dato il suo nome, e lo conserva tuttora; conveniva perciò all'Elia Corvino far molta via prima di arrivarci; ma il pensiero dei quattrocento gigliati che avrebbe contato, e la soddisfazione d'aver saputo condurre a così buon termine il suo disegno, del quale aveva già incominciato a disperare, gli fecero parer brevissimo quel tratto di strada, e s'avviò. Giunto in quella contrada, e veduta illuminata l'ultima finestra del palazzo:
—C'è senz'altro, disse; ora staremo a vedere se mi si vorrà aprire a quest'ora. E accostatosi alla porta, e preso il martelletto, diede quattro colpi risoluti. Dopo qualche momento, dalla finestrella che stava ad un dei lati della porta, uscì una voce:
—Chi è che picchia a quest'ora? Chi cercate?
—Son io, e cerco dell'illustrissimo messere.
—A quest'ora? tornate domani; a quest'ora non riceve nessuno, quand'anche fosse sveglio.
—È sveglio senz'altro, ed io, da star qui, vedo il lume dalla finestra del suo studio. Io mi chiamo Elia Corvino, ed annunziatemi a lui, che vi dirà subito d'aprirmi.
—Bene, bene, aspettate che vo e torno.
Dopo quasi una mezz'ora, senti il rumore delle spranghe di ferro che scorrevano, e vide la porta aprirsi.
Fu introdotto, e salì nel gabinetto del Morone.
—Che gran novità ti ha fatto venire da me a quest'ora? domandò il Morone con una voce che pareva alquanto alterata, appena vide spuntare la testa del Corvino.
—Vi reco tal nuova infatti, per la quale domani tutta Milano ne sarà sossopra, e due vecchi disperati. Quella infelice Ginevra Bentivoglio, che all'alba di quest'oggi medesimo fu sposata al Baglione, annoiatasi di lui, in pochissime ore, e prima di numerar tutte le grinze della vecchia sua pelle, senza far tanto rumore, ha trovato il modo di fuggire col Palavicino; e può darsi benissimo che, in questo momento, senta scoccar le otto all'orologio dell'abbazia di Chiaravalle.
—La novella potrebbe esser buona; ma sarebbe stata migliore, se si fosse sparsa ieri piuttosto che oggi, e che la Ginevra fosse fuggita ancor fanciulla, anzichè moglie.
—Non tutto ciò che si vuole si può, illustrissimo. Del resto, la Ginevra, a rigor di termini, è fanciulla tuttora, e se mai volesse votarsi alla Vergine, questa non la rimanderebbe.
—Si ha qualche notizia del Baglione o dell'altro?
—Per ora no; ma si può bene essere indovini. Peccato per altro, che la vecchiaia li abbia lasciati senz'unghie, chè la lotta tra l'orso nero e l'orso bianco che, due anni fa, mise a rumore il serraglio ducale, si sarebbe rinnovata.
—Quand'è così, va benissimo, disse il Morone con una voce sottile, e sorridendo.
—Ci ha poi ad essere un'altra novità .
—Di' presto, e spacciati.
—Ho sentito nelle sale delle feste la voce sonora del conte Galeazzo a sacramentare, credo che fosse, con uno di que' giovani baroni francesi, il quale, trasportato dall'ira, rispondeva in tuono alto esso pure, con una voce in chiave di clarinetto che passava le orecchie. Minacciava insomma uscirne qualche sconquasso; del resto, le mie notizie non vanno più in là .
—Aveva forse il solito suo male, il conte?
—Tutt'altro; anzi era benissimo in sè stesso; lo sentii parlare quattro parole con assai dignità al connestabile di Borbone.
—Se sarà nato qualche sconcio, la sua croce di S. Michele lo salverà . Ora veniamo a noi! Domani tu sarai da me all'alba, che darem corso a quello che tu sai, e ad altro se occorrerà . Intanto mi bisogna star solo, chè ho a scrivere questa lettera al re, e a te non rimane altro che di fare la buona notte.
Il Morone si mise allora a sedere allo scrittoio, e il Corvino, uscito che fu, si recò finalmente a dormire il suo sonno nel solito covile al quinto piano, contentissimo del fatto proprio come lo era forse stato mai prima di allora.
Del rimanente, è ben ragionevole che il Corvino fosse quella notte così pago di sè, che, giovato dalla fortuna, le cose gli eran corse di maniera, che a nessuno trapelò mai per allora da chi fosse stato immaginato e colorito quell'arrischiato disegno, e la scomparsa della Ginevra Bentivoglio avvenne così felicemente, che nessuno se ne accorse, e parve davvero che i destini avesser voluto, in quell'avventura, intervenire espressamente col loro aiuto.
Ed ecco come in proposito si esprime un cronista contemporaneo ai fatti che raccontiamo:
"Alli diciassette del suddetto mese(settembre),in tempo che al tentorio di Porta Romana si facevan gazzarre per l'arrivo delli Franzesi, improvvisamente è scomparsa dalle feste la diuina figliola del Magnifico Bentiuoglio, Signore di Bologna, nè per allora si è mai potuto trovar come; et fu con grandissima maraviglia et scandalo de li Milanesi quando corse la voce, essere la predicta figliola fugita con il Marchese Palavicino, et magis conoscendosi da ognuno quanta fusse la virtù de la figliola et quela del predicto giovine".
Ora vogliam rifarci indietro un momento, a ritrovarli ove li abbiam lasciati.
Le sensazioni che provar può un uomo, il quale dannato a una perpetua prigionia, passa, la prima volta, dal giorno, dalla luce, dal rumore, nella tetra oscurità di un sotterraneo, dove, quasi fosse scagliato fuor del mondo e della vita, assai tempo prima di morire, sa che la propria esistenza vi si consumerà impreteribilmente; furono le sensazioni che assalirono e strinsero l'animo della Ginevra nel frattempo che la lettiga a ruote, avendo a rompere dinanzi a sè le onde impetuose di una folla stivatissima, procedeva lentamente e a fatica. Il sentirsi chiusa in così breve spazio con colui che ella teneva pel suo vecchio consorte, il sentirne il respiro frequente e affannato le dava una noja indicibile; persino il mantello di lui che, per le scosse del cocchio, veniva a toccare e a strofinare il raso delle sue vesti, promoveva in lei quello schifo di chi sente il tatto di cosa sudicia e fetente. Aveva nel sangue l'agitazione e lo spavento di chi si vede a lato il carnefice, e provava quel ribrezzo pauroso di chi è costretto a viaggiare con un cadavere; perciò s'andava sempre più rimpiattando nell'angolo della lettiga, come per allontanarsi, mentre amaramente rimproveravasi di non aver saputo star forte contro alla paterna volontà ; ed ora che s'accorgeva che l'angoscia del trovarsi insieme al vecchio era mille volte più dura di quanto ella medesima aveva sospettato prima d'esser congiunta a lui, tormentavasi sempre più di non aver avuto il coraggio di rifiutare un così orribile supplizio.
In quanto al Palavicino, continuava nella direzione di que' pensieri che da due ore lo tormentavano, alterati in quel momento da nuove ansie, da' nuovi timori; ad ogni tratto che percorreva la lettiga temeva insorgesse d'improvviso una voce, un grido tra la moltitudine, e il suo nome ripetuto dalle voci furibonde del padre, del marito della Ginevra, passasse di bocca in bocca tra la folla maravigliata, e si accorresse da tutte le parti a circuirlo, a togliergli d'accanto la Ginevra. Lo scandalo, le vergogne, i pericoli, le sventure che ne sarebbero derivate lo facevan ardere e gelare; si rodeva tra sè che il cocchio procedesse così lentamente, e la stizza e la noja e lo struggimento gli era più incomportabile in quanto era costretto a starsene tranquillo in un angolo, silenzioso, immobile, avvolto nel proprio mantello, ed era impazientissimo di svelarsi alla Ginevra, di troncare quelle dolorose incertezze, di sollevare la fanciulla da quella condizione tormentosa, in cui naturalmente ella doveva trovarsi da molti dì.
Ma la folla a poco a poco cominciò a diradarsi, a dividersi, a non apparir più che in qualche gruppo sparpagliato, a lasciar finalmente sgombra la via del tutto. Allora i cavalli presero il trotto, e la lettiga fu tratta innanzi rapidamente. A un certo punto i palazzi, le case finivano, e cominciava un basso muro che cingeva le ortaglie. Il disco della luna lucentissima in un bel cielo sgombro e stellato non essendo più coperto dall'altezza degli edifizj, vibrò un raggio nell'interno della lettiga e rischiarò il volto accorato della Ginevra. Svolgevasi in quella il Palavicino dal suo mantello e, credendo fosse opportuno il momento, si volse, mosse il labbro mandando un debol suono di voce, e guardò la Ginevra, che guardò lui.
Fu in quel momento che, all'orecchio di Elia Corvino arrivò, velato e fioco, attraverso al frastuono, quel grido che lo aveva messo in apprensione.
Del resto, quel che avvenne nella mente e nell'animo della Ginevra al vedere dinanzi a sè, come se per arte di magia fosse avvenuto un repentino tramutamento, la faccia bella e giovanile del Palavicino, invece della turpe canizie del Baglione, che tumulto scompigliato di nuove sensazioni, e di nuovi affetti succedesse in lei, non può essere spiegato che da quel grido ch'ella non potè trattenere, e che fe' correre un gelo per l'ossa al Palavicino, il quale si tenne perduto, tanto timore lo prese che, accorrendo la moltitudine, fosse presto un terribile intrigo. Per un moto involontario, aveva bensì a quel grido gettato un lembo del mantello sulle soavi sembianze dell'atterrita fanciulla, a tentare di soffocarlo a mezzo, intanto che, per un altro moto d'istinto rattenendo persino il fiato, si era ristretto tutto in sè, quasi credesse sfuggir così alle ricerche della moltitudine. Il cuore gli voleva scoppiar sotto il giustacuore. Per buona ventura non accorse nessuno, i cavalli, sferzati dal cocchiere, che s'era spaventato la sua parte, raddoppiarono la corsa, la strada si fece sempre più deserta e silenziosa.
Ma il timore si accrebbe nel giovane Palavicino, quando s'accorse d'esser presso alla porta della città , dove era probabile che oltre la solita scorta di gabellieri ci sarebbe stato un rinforzo dei lancieri del re. Pensando allora che un altro grido non sarebbe di certo passato inavvertito, e che la rovina poteva esser pronta;—Zitto, per carità , disse sommesso alla Ginevra, con quel maggior fervore che può darsi ad una preghiera, e colla maggiore soavità che può avere l'affetto. Zitto, per carità , o noi siamo perduti; io e voi.
In quella, il bisbiglio di più voci, qualche sghignazzamento, una turpe canzonaccia cantata da una rauca voce, alcuni passi ferrati che facevan suonare il terreno, l'avvisarono che si passava sotto l'archetto della porta della città . Non era fibra che non gli tremasse, ma la carrozza fu tratta oltre veloce, e finalmente egli altro non vide che cielo ed alberi.
Allora, sciolta la Ginevra, amorevolmente la chiamò per nome.
Ma alle prime sensazioni, quali altre erano succedute nell'animo di lei?
Se il Manfredo fosse stato il suo promesso, se mai non fossero insorti ostacoli ad avversare i loro amori, se in quel momento si fosse trovato con lui per un procedimento comune delle umane cose, sicura che il proprio padre amava e benediceva l'affettuosa corrispondenza, ed era vicina la solennità delle nozze; ella, per quell'istinto di femminile ritrosia, che di tutto si adombra, quand'anche fosse stato egualmente forte l'amor suo pel giovine, pure sarebbesi comportata seco con assai riserbo. Ma in questo momento l'affetto per lui, che da tre anni era l'assiduo suo pensiero, proruppe invece con un impeto sì eccessivo, che a tutt'altri che a lui sarebbe quasi parso indizio di pazzia. Un certo che di febbrile alterazione che aveva nel sangue da qualche ora, quell'improvviso passaggio da uno stato ad un altro, così diversi, così opposti, quell'istantanea gioia, quell'estasi suprema successa al gelato terrore che da più giorni non le lasciava aver bene, le generarono nell'animo tal mistura di commozioni così eccezionali, che giunsero persino a far tacere in lei quel non so che di femminile alterezza e di ritrosia che le era sì proprio, per la qual cosa in sulle prime, tutto bagnando di lagrime il volto del Palavicino, si lasciò andare senza ritegno ai più teneri ed espansivi vaneggiamenti dell'amore.
Fu lo scorrere però di alcuni pochi secondi… e a un tratto s'arrestò… atterrita s'arrestò, come se una voce cui non le fosse possibile disobbedire, d'improvviso le suonasse minacciosa e fatale, e si ritrasse e tornò a rimpiattarsi nell'angolo della carrozza con uno sforzo straordinario dell'animo e delle membra, quasi che al posto del Palavicino si fosse messa a seder davvero la squallida e truce figura del Baglione. Fu straziante l'angoscia di lei quando, sulla predella dell'alture dell'abbazia di Chiaravalle, atterrita dal severo sguardo paterno, aveva messa la propria nella mano tremante del Baglione; più straziante ancora quando, poche ore prima, a lei discinta, il vecchio s'era accostato. Ma l'angoscia di questo momento le fu insopportabile, e il sangue con tant'impeto le si tramestò nella regione del cuore, che sentendo distendersi un gelo su tutta la superficie delle sue fragili membra, provò quell'alienazione di spiriti, e quel prostramento assoluto di forze, che ci fa presentire in che modo si passi da questa all'altra vita.
Il Manfredo se ne accorse, e stette in grandissimo timore fino a tanto che la fanciulla non si riebbe affatto.
I parossismi della passione e del dolore non possono durare che brevissimi istanti, per quanto sia straordinaria e terribile la condizione in cui l'animo si trova, e a quei parossismi subito susseguono de' momenti di calma, calma certamente non invidiabile, ma tale almeno, che alla mente permette di connettere delle idee con qualche ordine, alla bocca di parlare, agli occhi di piangere.
Riavutasi così la Ginevra, e pensando al padre, al Baglione, all'audacia del Palavicino, di cui, in barlume, le pareva d'aver indovinato il disegno, e prevedendo le nuove e più atroci sventure che ne sarebbero derivate.
—Ah! Manfredo, che avete voi fatto? gli disse. Che intenzioni sono le vostre?… io tremo solamente a pensarci.
—Una fortunata combinazione, rispose il Palavicino, non ci mancò, e spero che nell'avvenire….
—Ma chi v'ha consigliato a far questo, Manfredo?
—E puoi domandarlo? e non sapevo io il tuo dolore, e non conosceva i tuoi desiderj? altra volta io t'ho veduto in ginocchio, e t'ho udita scongiurare Iddio perchè ti liberasse dal Baglione. Oggi poi, chi m'aiutò ad aiutarti, mi disse le tue lagrime e la tua disperazione. Pensa dunque che colui non ti riavrà mai più, che tu sei con me ora, e per sempre lo sarai!…
—Per sempre, di' tu? ah, Manfredo io l'ho desiderato, è vero, io l'ho sperato; ma pur troppo, ciò che tu di' non può essere. Io tremo di trovarmi qui con te…. Il Baglione è mio marito.
Ella pronunciò questo nome con un accento sì amaro, che il Palavicino ne fu scosso. Vi fu un momento di silenzio, durante il quale non s'udiva che il trotto serrato dei cavalli, e il soffio dell'aria che fendevasi contro la carrozza.
—Io ebbi a pensar male di te, Ginevra, soggiunse poi il Palavicino; tu avresti potuto star forte contro la violenza altrui, ma nell'animo tuo, fu ben più potente assai il timore di tuo padre che l'amore di me. Io non avrei fatto così.
—Ma e tu, rispondeva allora la Ginevra con un impeto nel quale assai chiaramente sentivasi la mestizia profonda, che hai saputo far tu? Perchè mi hai abbandonata, quando più era bisogno che venissi pronto a darmi aiuto?
Il Palavicino taceva e sospirava.
—Perchè non hai tu voluto ascoltare quella soave e cara donna di tua madre che, bagnata delle mie lagrime, mi promise ti avrebbe costretto a rimanere? sai tu poi quel che a me bastò l'animo di fare in quella notte?… Ciò che nessun'altra donna avrebbe mai fatto, l'ho fatto io, Manfredo. Io voleva in ogni modo parlare a tua madre, e non vedendo altro mezzo, uscii tutta sola di palazzo, e tutta sola, essendo la notte alta e disastrosa, attraversai la pubblica via. Dio sa quello che si pensò di me da coloro che mi avranno veduto. Ma le mie e le preghiere di tua madre non valsero… sei uscito al campo egualmente, e, senz'altro aiuto, io non potei sostenere la severità del padre, e fui perduta per sempre…
Qui le lagrime prorompendole a furia, e soffocandola i singhiozzi, più non potè parlare. Il Palavicino malediva tra sè il momento che, senza un frutto al mondo, era uscito di città , e non sapendo che rispondere, taceva, ascoltando quel pianto e que' singhiozzi.
V'era una certa ineffabile attrattiva in quei gemiti della fanciulla, ch'egli sebbene percosso nel più profondo dell'animo, pure, a poco a poco si sentì rapir via insensibilmente dal mestissimo suono, provando una sensazione quasi gradevole.
Cessò il pianto alla fine, ella tornò a ricomporsi, tornarono a parlare fra loro. A un tratto la Ginevra, rispondendo a quanto erale venuto dicendo il Palavicino:
—Questo non sarà mai, proruppe, sarebbe una vergogna, uno scandalo; nessun'anima buona non potrebbe sentir più compassione delle sventure mie. O tu mi prometti adesso che tosto penserai a condurmi in qualche santo ricovero, dove nessuno possa venirci, nè tu stesso, o in questo momento medesimo io mi getto di qui, e così, come mi verrà fatto meglio, mi strascinerò a piedi sino alla casa dei padre mio.
Quanto più i desiderj e lo stato dell'animo la tenevan stretta al Palavicino, tanto più, come a vincere la difficoltà di una virtù che riusciva ardua troppo pel suo cuore, e a tentare uno sforzo disperato, procurava esagerare la volontà propria esprimendosi di quel modo risoluto e impetuoso, pure, mentre stava ad attendere una risposta dal Palavicino, temendo averlo offeso colle troppo dure parole:
—Tu sai perchè io ti domando questo, gli disse con una straordinaria dolcezza, tu vedi che io non posso stare con te, e che questi istanti medesimi che teco ho trascorsi, furono già troppi. Però, io ti scongiuro, Manfredo, a provvedere alla mia sicurezza ed alla mia fama.
—E per che cosa pensavi tu ch'io ti consigliassi a fuggire ben lontano con me? per provvedere alla tua sicurezza appunto; ma la tua fama non m'era già indifferente. I tuoi virtuosi costumi a chi sono più noti che a me, e a francare ogni tuo timore quella cara e virtuosa donna di mia madre sarebbe venuta a stare con noi, e affidata alle sue cure, alle sue soltanto, tu saresti stata come in un santuario; e tutto il mondo lo avrebbe saputo…. Pure, se tu persisti nel tuo proposito, io non sarò già quello che ti contraddica… a me basta che tu viva illibata e sicura, e considerando che, anche diviso da te, per quanto fosser lunghe le distanze e innumerati gli anni, non appartenendo a nessun altro, tu appartenesti a me solo, io saprei pure trovare qualche conforto alle sciagure mie… e penso che non vi è nulla ancora di perduto, o Ginevra, giacchè, se la natura farà il debito suo, non vivrà eterno il vecchio Baglione, e i nostri desiderj saranno esauditi nell'avvenire. Io ne ho fiducia. Intanto la tua pura virtù sarà da me, come cosa divina, altamente rispettata.
Queste parole misero un vivissimo raggio di speranza nei pensieri abbujati della Ginevra, la quale ajutata e sospinta da quel conforto, si slanciò allora nel futuro con un'alacrità e una confidenza straordinarie.
I cavalli intanto che, di corsa, s'erano allontanati forse quattro miglia dalla città , inoltrandosi adesso per un terreno paludoso, e sprofondandosi coi garretti nell'umida mota, cominciarono di necessità ad andare di passo. Cessato così lo scalpito dei cavalli, i due giovani si tacquero per non farsi udire dall'uomo che li guidava. Scoccarono in quel punto stesso, quasi due miglia lontano all'orologio dell'abbazia di Chiaravalle, le otto ore, il cui rimbombo, per quel vasto silenzio della notte, percorrendo in decrescenza le regioni dell'aria, giungeva all'orecchio dei fuggitivi indefinito o solenne, talchè alle loro fantasie parea di sentirvi come una promessa che venisse dall'alto.
Usciti a stento da quel palude ingrato, entrarono in una via affondata tra due alte rive sparse di macchie d'ogni generazione; ma s'accorsero qui, che la noja durata alcuni momenti prima era stata ben leggiera in confronto della noia a cui correvano incontro. E un'afa insopportabile cominciò tra quelle macchie a tormentarli, come se l'atmosfera d'improvviso si fosse condensata gravitando sulle loro teste, e la stagione fosse retrocessa ai dì della canicola.
Sentendo allora tra i rami e le frondi dei querciuoli e delle marruche un vasto e impetuoso stormire, i due giovani, ad ispirare, per confortarsi, qualche soffio di brezza passeggiera, misero la testa fuori dello sportello, ma, nauseati dal grave odore che lor ventava in volto, ne la ritrassero tosto nascondendola tra i panni.
—Ci accostiamo alla campagna tra S. Donato e Malignano, dove s'è data la battaglia, disse allora il Palavicino alla Ginevra che, quasi atterrita, gli aveva chiesta la causa di quella nuova noia. Non c'è altra via che metta al mio castello d'Acquanera; ma il cammino non durera più d'un'ora, e presto ne sarem fuori, coraggio.
In quella lasciatisi addietro le macchie, si trovarono in uno slargo di campagna; anche qui il terreno era tutto un mollume, e i cavalli di necessità dovettero ancora rallentare la corsa. Ma grado grado che la carrozza procedeva innanzi per quella vasta pianura, sempre più cresceva quel non so che di pesante caldura, quel fetore, quella nausea insopportabile.
E un'altra cosa insolita, e che più forse metteva nei loro animi una sensazione che somigliava alla paura, era il silenzio universale, nel quale a un tratto venivano ravvolti ogni qualvolta sostasse l'unghia dei cavalli; un silenzio profondo, assoluto, tetro e ben diverso dai soliti silenzi notturni. Passando, tre dì prima, a notte chiusa per quel campo, s'udivano que' suoni indistinti, que' mugolii lontani, que' gemiti vaghi che fondendosi in una cosa sola, ci avvisano che la natura è tranquilla, ma non è morta. I zufoli dei rigogoli sui più alti rami degli orni, le dolci musiche dei rosignuoli dalle siepi, dai platani, i tremoli squilli delle palombelle fra i rami delle guercie, i cicalecci monotoni dei grilli dagli ippocastani, il picchiare minuto e incessante dei rostri ne' rami delle piante, le peste improvvise e rapide de' lepratti, dinotavano al viandante ch'egli non era già solo in quel vasto campo, e ch'era circondato da migliaia e migliaia d'esseri viventi.
Ma in quella notte, in quell'atmosfera fattizia, regnava un silenzio di tal sorta, che quasi, pareva d'essere fuori della terra, e la cagione non era difficile trovarsi. Chi avesse voluto rovistar per le siepi, tra l'erbe arsicce e peste della campagna, sui rami secchi, tra le frondi ingiallite, avrebbe trovato a miriadi i cadaveri piccioletti d'infinite generazioni d'uccelli; i superstiti a torme di migliaia, s'eran rifuggiti, a sette, a dieci, a più miglia di distanza. I nidi anch'essi dei grilli erano abbandonati, che i buffi d'un'aria pesante e pregna delle putridi esalazioni che venivano dal campo, successi d'improvviso all'umida frescura della notte, e all'aure soavi di mille fragranze, lì avevan fatti emigrar di conserva.
Trascorso però un bel tratto di cammino, d'improvviso, in mezzo a quella solitudine s'udì un rumoroso sbatter d' ali. Era una torma di gufi e d'upupe che, svolando rasenti la carrozza, ferivan l'aria con un rombazzo fischiante, mentre su in alto un nugolo più fitto d'un'altra generazione di volucri la fendevan in quella medesima linea tenuta dalla torma più bassa; e subito un gracchiare aspro, tumultuoso, avvisava ch'eran corvi calanti alla pianura, e parevan quasi volessero rispondere ai singulti intermittenti dell'altro stuolo che viaggiava più basso. E stringeva l'anima di una cupa e ferale tristezza il sapere quale istinto, spingeva quei voli, che tra le fradice carni dei cadaveri avevan pure a fermare le penne. E in quella un buffo di vento, pregno d'un odore fetentissimo, ammorbante e come di sangue, soffiò quasi ad annunziare, che quelle legioni della morte andavano a sicuro viaggio, a certa preda.
La carrozza s'accostava intanto sempre più verso Marignano, e i fuggitivi tutti ristretti in sè, nascosto il viso tra i lini e il drappo delle vesti, via rapidi dai loro pensieri, non pronunciavano una parola…. D'improvviso la carrozza s'arresta, dà indietro; il nitrito de' due cavalli, tremulo spaventato, acuto come il suono d'una chiarina, si diffonde per la silenziosa solitudine. I due giovani s'affacciano allo sportello e guardano. Impennandosi, rinculavano i cavalli, e ricadendo sulle zampe le puntavano nel terreno, ritte le orecchie, aperte le narici, sbuffanti. Alcuni cadaveri giacenti nelle loro armature, come in un cofano da inumarsi, ingombrando la via per dove occorreva passare, li avevan fatti adombrare al punto, che non c'era verso di cacciarli innanzi; pure il flagello del cocchiere potè più dell'ombria e, a un tratto, presero la rincorsa, trascinando la carrozza saltelloni sulle armature che, suonando, si spezzavano a brandelli. Trasportati così velocemente, i due giovani presto si trovarono colà dove la campagna prendeva la massima estensione, e qui una nuova scena tanto più orrenda, quanto più vasta apparve loro dinanzi.
Soltanto il cielo era sereno, e sgombro come nei dì prima dell'orrida battaglia; le stelle luccicavano nell'infinito firmamento, il raggio lunare era ancor mite e vestito ancora di quell'azzurro perlato che di solito sparge tanta malinconica soavità ovunque va a posarsi; tutto insomma era ancor bello e calmo negli spazi dell'aria. Calma, bellezza, splendore, che troppo contrastava a tutto quanto era sparso su quelle insanguinate arene del campo.
E qui il silenzio non era più così perfetto, così continuato come a tre, a quattro miglia di distanza. Di tanto in tanto s'udivano improvvisi rumori, forti e secchi scoppi, come d'aria che squarci violentemente un ostacolo per trovare un'uscita. Si sarebber dette canne di schioppetti e di colubrine che si rompessero per un'esplosione di polvere; ma era tutt'altra la causa di quei rumori… la qual subito fu chiara, quando i cavalli di nuovo aombrarono impennandosi e nitrendo spaventati.
Per un gran tratto di terreno all'intorno, si vedevan giacenti, distesi per terra, in molte e diverse positure, in lunghissime file, ammonticchiati alla rinfusa di tre, di sei, di più ancora, corpi di quadrupedi. Nè a tutta prima non si poteva dar loro che quest'appellazione, che, anche senza l'oscurità della notte, non si poteva conoscere che eran cavalli, se non forse per gli arredi, pei freni, per le selle, tanto il loro corpo era cresciuto, era ingrossato a dismisura al punto da farli scambiare per altrettanti elefanti o rinoceronti. Ed era la fermentazione maturatasi nel loro interno che li faceva gonfiare, e gonfiar grado grado, sinchè la cute, tesa, assottigliata, screpolata, sanguigna, stirandosi fluiva a fendersi in due, in più parti, dando quei violentissimi e rumorosi crepiti che ogni tanto si facevano udire, anche a molta distanza, pel vasto silenzio, e i corpi, aprendosi così, davan uscita alle viscere che più non vi potevan capire, riversandosi, per molto spazio in giro, in spargimento di sapie nerissima, a corrompere il terreno, a impregnar l'aria di esalazioni letali. Inorriditi e nauseati, uscivano finalmente di mezzo a quelle file, ma tosto i cavalli tornavano ad arrestarsi, al lampo tremulo che partiva da un largo cerchio d'armati e d'armi, e da una luce bianchiccia riflessa da un'acqua; lancie, picche, spadoni, borgognate lucenti gettate alla rinfusa sul terreno, rifrangevano i raggi lunari; soldati a centinaia giacevano intorno intorno a quell'ampia gora d'acqua, colle teste, alcune sull'orlo, altre riverse, altre pendule, altre immerse al tutto nell'onda fimosa, colle braccia distese col ventre a terra. Feriti, presi da dolori atrocissimi, prossimi a morire, s'eran sentiti un'arsura, un incendio nelle viscere, una sete rabbiosa, spasmodica. Lenti, rifiniti, zoppicanti, a strascico, barcolloni, erano per lungo tratto iti in cerca d'una fonte d'acqua viva; trovatala, vi s'eran gettati sull'orlo, avidissimi avevan immersi labbri nella gora, e pendenti su quella, non anco saziati, avevan mandato l'ultimo respiro… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I due giovani, per quanto procurassero affrettarsi su questa lugubre scena, dovettero per altro impiegare assai tempo ancora prima d'uscire di quella campagna. Durante il quale, i loro animi subirono quegli effetti e quelle scosse che mai non si cancellano dalla memoria.
Come i tremoli chiaroriDell'azzurro interminato,Cadean scarsi, cadean lugubriSul terreno insanguinato,Ed al guardo il fean più truceRivestendolo di luce.
Ahi! così dei due fuggentiDentro all'alme perturbate,Fiochi i gaudi si mescevanoAlle larve inesorate,E più cupo il duolo uscivaDalla gioia fuggitiva.
. . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .
Ma di sè stesso immemore,Sulla mortal pianura,Pensò l'afflitto giovane,Pianse l'altrui sventura,E il fato che terribileSulla sua terra sta;
E allor sull'individuoAmor, nell'ansio petto,Sentì improvviso sorgereQuel generoso affettoChe tutti i figli abbracciaD'un'infelice età .
Eppur pel terren lubrico,Ovunque giri il guardo,Non v'è fratel cui lagrimi,Sangue non v'è lombardo,Tutti da lunge vennero:Il vinto—il vincitor.
Ma se il concittadinoSangue non fu versato?Se fu l'intatto popoloAlla città serbato?Non è destin che temperiIn lui l'acre dolor?
. . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .
Fosse strage di fratelli,[1]Fosser lutti immemorabiliNel suo senno desiò;
Ma il tripudio degl'imbelli,Che del sole, ancor si nutronoSovra l'alma gli pesò;
Ah sui tumuli cruentiFiammeggiar vedrìa l'orgoglioChe domato ancor non fu,
Le speranze… rinascentiDalle squallide reliquieD'una prodiga virtù.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ma tosto, ai rotti anélitiDella gentile oppressa,Al fervoroso murmureOnd'è una prece espressa,La nova e forte angosciaIn cor sentì svenir,
E divinando il mobileTenor del pio pensiere,Anch'ei gli affanni solvereTentò nelle preghiere,E della cara vergineAi voti i voti unir.
Allor stretti si volseroAl cielo in un desìo,Pregâr le sorti dubbieA lor svolgesse Iddio,Scovrirne almen pregaronoL'arcana volontà …
. . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .
Ma Lei lodate, improvidi,Che in suo rigor pietosaD'oggi vi chiude i termini,Che la ragion nascosaDei dì venturi a giungereA voi l'ala non dà ;
Morir, se intero il tramiteDel dì vi fosse innante,Vorreste, inerti al gaudioDel fuggitivo istante,S'anco ne fia più liberoE più securo il vol;
E s'anche oltre l'orribileE diuturno lutto,D'inestimabil premioVi fia promesso il frutto,Dei luminosi giorniRifiutereste il sol…
. . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .
Ed or che ai preghi teneraGettò la eterna MenteSulle severe pagineLo sguardo onniveggente,De' vostri mali il cumoloSì grave a Lei sembrò,
Che già volea distruggereI preparati eventi,Temprare a voi l'esiglio,Trarvi sulle fiorentiVie, per mezzo a gioieChe mai non destinò;
Ma le speranze, o miseri,Non liberate ancora;Fu indarno.—Iddio ne' misticiSilenzi di quest'ora,I detti indeprecabili,Guatando a voi, mandò:
Ite—la prova è orribileCui vi porranno i Fati,Ma io guardo a lor, ma numeroI giorni guerreggiati—Ma più di tutti piangerePerchè dovete, io so…
[1] Con queste strofe, alludendo al fatto storico che la battaglia di Marignano fu combattuta dai Francesi pel loro re e per sè medesimi, e dagli Svizzeri ed altri mercenari pel duca Sforza e pei Milanesi, l'autore vorrebbe dire, che se in luogo d'aiutarsi col braccio altrui, i Milanesi medesimi avesser combattuto per sè e pel loro duca, dato anche il caso che avesser toccata una sanguinosa sconfitta avrebber trovate buone speranze nella superstite loro dignità e nel loro valore.
Siamo nel 1517, quasi due anni sono trascorsi, la congerie degli elementi si è accresciuta; ed ora da Milano, sulle traccie di taluni de' nostri personaggi, ci conviene passare a Roma.
A dieci miglia da questa città , chi non si dilunga dalla Via Appia, vede sorgere sull'alto bordo d'un cratere il Castel Gandolfo, così chiamato dalla famiglia Gandolfi, che forse lo edificò nel secolo XI. Passato da quella casa illustre, sul principio del secolo XIII, ai Savelli, e da questi, nel XIV secolo, ai Capizucchi, fu nel 1436 da Eugenio IV fatto saccheggiare e distruggere, e ritornò poscia in proprietà de' Savelli, che lo tennero fino al 1596, nel quale anno passò alla Camera.
In un bel giorno d'aprile dei 1517, era un affaccendarsi insolito in quel castello. Camerlinghi, famigli, servi eran sollecitali da un burbero maggiordomo dell'illustre casa Savelli, perchè colla maggior magnificenza possibile alcuni addobbassero certe ampie sale, situate nel piano più alto del castello che guardavano il lago d'Albano e tutta la campagna di Roma; altri allestissero una mensa per duecento persone nella più vasta sala, situata a terreno; altri ornassero di festoni, di frondi, di fiori gli atrj, i cortili, i veroni, le finestre. L'illustre casa Savelli aveva solennemente invitato papa Leone ad una caccia ne' dintorni di Albano, e il papa, dilettandosi assai di que' campestri diporti, aveva tenuto l'invito, e con tutta la sua corte, i suoi poeti, i suoi dotti, i suoi musici, i suoi buffoni vi s'era trasferito quel dì stesso.
Era all'alba di un tal giorno che s'udiva incessantemente il lontano squillo del corno, e per le ore ventidue attendevasi che tutti si riducessero in castello, però mancando pochissimo a scattar quell'ora all'orologio del torrazzo, il maggiordomo si affannava perchè ogni cosa fosse compiutamente in ordine pel momento stabilito. Un servo che stava affacciato ad uno de' finestroni del castello diede finalmente l'avviso, che la numerosa cavalcata ritornava. E tosto un correre per le sale, per gli atrj, un discendere e salire, uno sbattere di usciali, di vetriere, un insolito sommovimento.
Quando Leone colla sua Corte saliva per lo scalone principale del castello, per un'altra scala entravano, sotto un atrio del primo piano, due uomini che noi conosciamo, accompagnati da un servo. Erano il Morone e l'Elia Corvino. Pervenuti innanzi ad un magnifico vestibolo, dove il servo si fermò indicando che quello era il luogo che volevano:
—Tu entrerai qui dentro, disse allora il Morone al Corvino; ho già parlato al Bembo e al Savelli, che ciò mi consigliarono. Colui al quale tu hai a parlare è già istrutto del fatto tuo e dei tuoi disegni, e purchè tu sappia mettere in movimento i congegni della tua logica, egli farà il voler nostro, che alla fine è anche il suo. Entra dunque, e se mai dovessi aspettare qualche tempo, sulla vôlta di questa sala v'hanno bellissime figure a fresco che ti faranno forse comportare la noja. Quando sarà il momento, verrà qualche servo a chiamarti…. Io so che farai molto bene il fatto tuo, e non ti dico altro.
Così dicendo, il Morone si licenziò, ripercorse l'atrio, e ridiscese col servo, intanto che l'Elia Corvino aperto l'usciale entrò nella camera indicatagli.
Entrato che fu, un altro servo gli si fece incontro dicendo:
—So chi siete, abbiate la bontà di aspettare, che a suo tempo verrò a domandarvi. Ciò detto, lasciò solo il Corvino.
Questi, anzi che considerare le molte figure a fresco che decoravano la vôlta di quella sala, cominciò invece a pensare a sè stesso, e a quella specie di metamorfosi che in sì poco tempo egli avea subito. Due anni prima, a Milano, le persone di maggior conto, colle quali per lo più ei trovavasi in contatto, erano gli scabini del Collegio dei Dottori, alle quali dava qualche grossa mancia perchè non ne avessero a cacciarlo, siccome intruso; e le classi dov'egli trovava i suoi migliori clienti, eran quelle dei vendarrostri e de' bruciataj. Ora aveva indosso una magnifica cappa di velluto nero, la quale alterava tutto il suo aspetto; quella tinta di mariuoleria plateale, che da molto tempo gli si era svolta in faccia, appariva coperta a più mani da una tinta di acume presidenziale: illudroinsomma era scomparso per dar luogo a Talleyrand. Intanto trovavasi in una delle più sontuose camere d'uno dei più facoltosi romani, e, ciò che può far stupire chicchessia, per parlare all'uomo che col proprio nome doveva distinguere il suo secolo. La sfera delle sue speculazioni s'era cangiata. Non trattavasi più del povero borghese che metteva nelle sue mani la scarsa polizza perchè lo patrocinasse contro al creditore insolvente; era uno Stato, una città , un popolo al quale in quel momento egli doveva pensare, e di cui tra poco avevasi a far discorso. La cosa è così, nè più, nè meno. Del resto, ella è tale, che il Corvino medesimo se ne maravigliava.
E considerando la strana situazione in cui la fortuna lo aveva messo, d'uno in altro pensiero, per quanto il suo grave buon senso lo volesse trattenere dall'abbandonarsi ad eccessivi voli, pure fece delle speranze che, s'altro non fosse, avevano il merito di un'insolita audacia…. In questa s'era fermato innanzi al finestrone ad osservare la vasta scena della campagna e del lago che gli si distendeva dinanzi, men vasta certamente del campo dove le sue speranze correvano a furia, ma tale però da fermare l'attenzione di chicchessia…. Era da qualche tempo ch'egli se ne stava immobile a contemplare quella splendida natura, e gli effetti, per lui nuovissimi e interessantissimi, di un tramonto di sole nell'Agro romano, quando, sembrandogli d'avere udito il rumore di una porta che si fosse aperta, si volse.
Nella camera non v'era nessuno ancora, ma s'udiva il bisbiglio di alcune voci nella vicina, dalla quale un momento dopo, spalancatosi l'uscio da due servitori, un uomo passò in quella ove stava l'Elia Corvino, e i servi si ritirarono.
Il nuovo personaggio non dava indizio di essere nè un camarlingo, nè un maggiordomo, nè un segretario, ma non dava neppure nessun dato per formare una congettura. Aveva in testa un camauro che in vero poteva somigliar, per la forma, a quello di un papa, ma la stoffa e il colore n'erano affatto diversi. Intorno al collo aveva un fazzoletto bianco avvolto senza cura, indossava una breve cappa di sajo, e, ciò che più dava nell'occhio, eran due stivali grossi di bulgaro che gli passavano il ginocchio. Poteva parere nel suo complesso una foggia da cacciatore…. ma qualche cosa vi mancava per osser completa. Nè guardando al viso e alla corporatura del personaggio non vedevasi cosa che menomamente potesse acconciarsi ai costumi di un cacciatore. Esso cominciò a fissare l'Elia Corvino con quello stringere degli angoli delle occhiaie, proprio a tutti coloro che sono affetti da miopia; gli occhi che ogni tanto quasi scomparivano per quel lezio, erano eccessivamente piccoli in proporzione della faccia larga, grassa e paffuta. Tutto il corpo era notabilmente adiposo, e le mani grasse e pienotte anch'esse. Con tutto ciò, guardando a quel volto e a quella persona, c'era qualche cosa che, senza potersi nettamente definire, ingenerava un involontario senso di rispetto, anzi di soggezione, senso contro il quale, quantunque per brevissimi istanti, non potè star forte neppure il Corvino.
Dopo un breve silenzio, e quando appunto il Corvino stava per romperlo, il nuovo personaggio lo prevenne, e uscì in queste parole:
—Il Savelli e il Morone hanno parlato di voi a Sua Santità , ed è già da qualche giorno che il vostro nome sta sul suo libro dei ricordi. Egli sa che avete un progetto d'importanza da manifestargli e, a suo tempo, vi udrà egli stesso. In questo momento però vogliate manifestarlo a me, che sarà per essere la medesima cosa. Parlate dunque con libertà e non omettete parola. So già , intanto, che il vostro disegno ha per fine il miglior vantaggio della nostra cara patria; io starò dunque ad ascoltarvi con molto interesse.
Al Corvino crebbe la voglia di sapere chi fosse il personaggio al quale trovavasi in faccia, e intanto che lo stava esaminando parte a parte, e lo fisava in volto coll'immota attenzione dell'indagine;
—Io credo, rispose, con modi così franchi e dignitosi da parer uomo già da tempo avvezzo a vestir l'abito deldiplomatico, io credo che l'Eccellente Morone avrà detto anche a vostra signoria in che press'a poco consisti il progetto mio?
—Me ne disse qualche cosa infatti; ma adesso desidero mi diciate voi tutto da capo.
—S'egli è così, porrò dunque da canto i preludj inutili.
—È quel che voglio.
—Comincierò quindi con dirvi, ch'io fui per qualche tempo in Perugia, e che vengo ora appunto da quella città .
—Va bene, e vi comprendo. Voi dunque avete veduto il Baglione?
—Non tanto lui, quanto le opere sue.
—E vi parvero?
—S'egli è vero che un tal uomo deve, finchè vive, pesare continuamente sul povero suo popolo, senza che nessuno provveda a purgare i tempi di una così atroce miseria, penso che la giustizia non c'è più nè in cielo nè in terra.