IL CARNEVALE DEL SILURO.(L'AMORE).

IL CARNEVALE DEL SILURO.(L'AMORE).

(Dalle memorie d'uno che non è più).

Porto. Parola che ha oggi acquistato un significato che non ebbe mai. Si entra in porto in grazia d'una causale infima: perchè nello spaventevole immenso tappeto azzurro dove l'invisibile rastrello della morte, senza sosta tira a sè vite, vite e vite, il giuoco è stato favorevole e la puntata della propria vita è riuscita. Una volta si diceva: entrare in porto; e questo significava percorrere uno spazio d'acqua più o meno vasto, delineato da moli, e traversare un punto più ristretto che si chiamava bocca, larga abbastanza perchè diverse navi contemporaneamente vi passassero. Oggi oltre i moli esistono altre chiusure di reti subacquee, rese appena visibili da file di galleggianti metallici e la bocca non c'è più; c'è invece una porta, e bisogna che le navi passino ad una ad una, sotto lo sguardo metallico di cannoni portinai. E perchè nessun pescecane di guerra possa approfittare dell'apertura per seguirle alla chetichella, la porta si richiude subito ad ogni passaggio e la clausura è assoluta. Oggi si entra «dentro» un porto.

Dentro, non più fragore di grue e urla di scaricatori: un silenzio di chiostro: di strano chiostro marittimo: e nello stringersi ai loro posti una all'altra, negli ultimi rantoli di vapore dell'arrivo, le navi giunte sembrano ancora percorse da lunghi brividi di terrore, e ansar forte come prede sfuggite da poco ad un artiglio spietato.

Ed allora la loro mole enorme, fatta per sprezzar onde giganti, presenta un pietoso contrasto con questo loro pavido aspetto; e l'antica logica di pace, basata sull'equilibrio tra dimensioni e forza si smarrisce...

Ma fuori dunque che c'è? — Nulla che all'occhio apparisca. Gli orizzonti, chiusi come sempre da eterni cerchi di mistero dove il pensiero s'annega, non sono incisi che dalle groppe infinite delle onde. Ma se questo povero mondo s'incammina, troppo vecchio, verso la fine, il mare sembra già in agonia aspettando che i continenti alla loro volta muoiano, dissanguati e incendiati. Nella guerra di una volta innumerevoli navi popolavano i mari e si muovevano incontro nella bella luce del cielo, vivide di colore e d'aperta energia. L'uomo le fissava, ne vedeva venir fuori la morte e non tremava: oggi non vede nulla e trema.

È che nel mare, come nella vita, s'è infiltrata la Germania, perpetua gesuita di ferocia, tabernacolo eterno di follia distruttrice, ed ha preso il posto nascosto che alla sua natura conviene: sott'acqua: fuori vista. In terra la spia, la corruzione e la menzogna: in mare l'agguato invisibile...

Raccomandatevi l'anima a Dio, donne e bambini innocenti! La demoniaca croce luterana è sott'acqua e da ogni onda può sprizzare su lo sterminio. Raccomandatevi direttamente a Dio, perchè l'altra croce, quella di Cristo misericordioso, è muta...

Su questa città di guerra marittima, lo scialbo sole di marzo, dardeggia tra le nuvole, dilaniate da un maestrale altissimo, qualche raggio già caldo d'un precocecalore. La ressa delle case addensate sulle colline biancheggia qua e là di quel biancore troppo vivido, primo annunzio dell'Africa vicina e l'ombra delle nuvole vi distende a capriccio larghe chiazze di violetto. Scure e fastose, le chiese settecentesche italiane dominano dall'alto d'ogni collina, ciascuna un proprio greggie di case: e gli alberi e i fumaioli delle navi ormeggiate ai moli, stendono avanti al panorama come un recinto di pali sottili che dopo un incendio, continui a bruciare qua e là.

È Malta, questa: arida isola su cui s'aggrava una troppo popolosa città abitata dai detriti delle razze mediterranee. Fortezza di rocce, caverne, spalti, epigrafi e croci, di antenne e di acuti spigoli di acciaio, prende vita e forza dal mare per un parassitismo che dura da secoli e che oggi è gigante. Attraverso tutte le epoche, le rozze cose fenicie che allungavano il muso sull'acqua, i centopiedi di remi, elleni, cartaginesi, romani, i rigonfi castelli di tela bianca artisti del vento, gli enormi piroscafi d'acciaio dalle vene bollenti... — sotto tutti gli stendardi, gagliardetti, orifiamme d'ogni colore e d'ogni foggia, con emblemi pagani, croci, mezzelune... — navi d'ogni forma e d'ogni dimensione accolte da strani sacerdoti o da guerrieri crociati o da folle di facchini urlanti, sempre vi giunsero piene, con le murate basse sull'acqua e ne ripartirono vuote.

Se nulla v'approdasse più, Malta morrebbe come pianta la cui linfa sparisca e le sue rupi senz'erba si coprirebbero d'ossa. È per questo che oggi tutto il mondo inglese è chiamato a raccolta per riempire di viveri, magazzini innumerevoli: di munizioni, labirinti di roccia. Perchè oggi Malta deve non solo nutrire sè stessa, ma nutrire la guerra — questa gigantesca, guerra — di cui essa è una base.

* * *

E base essa è infatti. Qui dentro, in immense camere chiuse da reti d'acciaio, s'allineano in multiple file navi e navi e navi, l'una addossata all'altra come pecore in ristretto sentiero. In quest'acqua morta si condensa una forza come il mondo mai non vide e più in basso della serenità delle nuvole del cielo, v'è qui un altro strato di nuvole nere partorito da innumerevoli fumaiuoli, che è respiro di strage.

Dov'è il posto della nostra nave? Chi sa? In questa città galleggiante che ha le strade fiancheggiate da palazzi grigi d'acciaio, non vedo per ora nessuna piazzetta vuota. E avanziamo, rasentando cannoni, insinuando con la prora, tra successive visioni di vita straniera, la nostra semplice serenità d'Italia.

Duetugs, grossi rimorchiatori a ruota, ci precedono e ci guidano nel nostro lento cammino, starnazzando per noi come anatre in gioia. Ecco: dobbiamo esser giunti. Tra uno sperone di fortezza che si prolunga in mare alla nostra sinistra e una fila di colossi francesi distesi alla nostra destra, due boe libere disegnano infatti un posto vuoto.

E come se queste boe fossero buone prede scoperte per caso, ciascun rimorchiatore ne addenta una, battendo freneticamente le pale delle ruote all'indietro con un impeto che pare di lotta.

— Qui? — si domanda con un grido.

— Yes, Sir... Yes, Sir... — ci si risponde daitugs.

A bordo, sulla plancia, abbiamo un pilota inglese che la nostra nave imbarcò all'imboccatura del porto. Sorride col tenue sorriso della sua razza che par sorriso di vecchio, e,

— Proprio il posto del «M...»: un incrociatore francese... — dice sottovoce. — Era qui due giorni or sono.

— E deve ritornare qui?

Il suo sorriso s'accentua, divien quasi italiano.

— No — dice brevemente. — Partì e fu silurato ieri... laggiù — e il suo braccio si tende verso il largo, accennando a ponente, di là dall'isola. Meccanicamente seguiamo con l'occhio il suo gesto. A ponente laggiù, lungo i moli, la nostra vista cade su di un piroscafo isolato che par fervere ancora della vita di pace. Sciami d'imbarcazioni lo attorniano, che si riempiono d'una folla silenziosa ed inerte. Strano! Nel colore incerto delle masse umane compariscono qua e là le macchiette chiare di torsi nudi. — Che è?

— Un piroscafo giunto un'ora fa — spiega il pilota con calma che par fatta d'abitudine. — Ha raccolto in mare i naufraghi di due altri piroscafi silurati in questi paraggi...

Prende un binocolo dalla cartiera: guarda...

— Già — osserva. — Curioso! c'è un po' di disordine...

Una volta quando si entrava in porto era sana norma di etichetta navale ordinare subito agli equipaggi lo sgombro, il rassetto, la pulizia della nave. Le tracce del sale dovevano sparire subito; e dalle ruggini, dalle patine, dagli offuscamenti che l'alito caustico del mare produce, dovevano nascere splendori e lucentezze metalliche, superbia e lusso delle navi d'allora. Oggi si lasciano le coperte ingombre di centinaia di salvagenti, di file di zattere: le imbarcazionirimangono intatte nel loro aspetto di imbarcazioni da naufraghi, coi loro sacchi di viveri, con le loro vele, le cassette dei segnali di soccorso, le altre minute cose atte a sostentare la vita di gente rimasta sola, lontana da ogni terra, tra mare, cielo e infamia tedesca, pronte.

Così anche nell'interno della nave non si pensa gran che all'antico, impeccabile ordine. I nostri alloggi poi, ridotti alla più semplice espressione, vuotati di ogni cosa inutile, non son più che scatole da uomini, pronte alla grande immersione e alla curiosità della fauna degli abissi.

È uno schema di vita la nostra, e così conviene sia... Senza pesi è più facile il salto...

Ma il viverci dentro, dà oggi sensazioni nuove.

Io penso che due giorni or sono, un altro essere vivente simile a me, si muoveva in un ambiente identico a questo e forse nello stesso punto dello spazio che occupo io, perchè la sua nave doveva essere lunga press'a poco come la mia e il suo alloggio doveva essere verso il centro, come il mio.

Di questo mio predecessore nella morte io ignoro tutto: nome, volto, statura, tendenze, carattere...: so soltanto che gli uomini di mare hanno l'erosione comune della salsedine, nella pelle e nell'anima. Questo è tutto: eppure mai sentii più fratello un essere sconosciuto: e un'acuta potenza visiva che trae misteriosa origine da chiaroveggenze d'antivita o d'agonia, distese di là della nascita e della morte, me lo fa ora raffigurare con una strana sicurezza quand'era vivo come me, e com'è oggi, inerte al fondo del mare.

Bah! Aria! Facciamo aprire gli hublôts di questo alloggio, tenuti ermeticamente chiusi in navigazione onde impedire all'acqua di penetrare dentro più presto, in caso di sventramento per siluro o torpedini.Ecco: il marinaio ha compiuto la semplice bisogna e una folata di vento entra a disperdere aria viziata e visioni.

Ma che cosa dice? Che laggiù a terra suonano? Che sulle banchine è una folla multicolore che ballonzola e s'agita in gioia?

Non bisogna dar troppo ascolto a ciò che dicono questi uomini dopo una lunga navigazione. La presenza continua della morte tende troppo i loro nervi e bisogna scusarli se nelle prime ore di porto non ritrovano subito la logica.

Ma la mia incredulità silenziosa lo sconcerta: insiste: dice che gli sembra di vedere come dei carri stranamente dipinti ed addobbati; vuole che io guardi alla mia volta...

Ha ragione. Il binocolo precisa. Sono maschere, laggiù: e un'idea da lungo tempo morta, improvvisamente risorge da un involucro di antichi pensieri, come un fantasma sghignazzante da una tomba scoperta. È carnevale: il breve periodo di sincerità in cui l'uomo si proclama ad alta voce buffone...

Già: le sillabe cadono nei meati della memoria e ne fanno sprizzar su faville roventi. Carnevale! E viene voglia di sparir dalla terra.

È notte: la Strada Reale, arteria principale della città di Valetta è affollata; e torrenti di luce l'inondano. I nostri occhi, usi da mesi alla tremenda oscurità delle coste e delle navi, si riempiono di quando in quando di abbarbagliamenti quasi dolorosi che ci alterano e confondono i contorni delle cose e ce ne offuscanola visione. Maschere e soldati inglesi, maschere e marinai francesi, maschere e uomini indefinibili vestiti a nuovo di stoffakaki, dall'aspetto quasi militare preso a prestito e dallo sguardo triste, come per un persistente sottostrato di terrore; ancora maschere... maschere.... E tutta questa marea urlante ci sfiora, ci afferra, ci circonda, qui con vaste chiazze di colori vividi che la luce elettrica esagera, là con fiotti di grigio e dikaki, che nell'atmosfera d'argento assumono aspetti fangosi. Bisogna aprirsi il varco sospingendo un poco con i gomiti: e allora da maschere sgualcite dall'orgia, occhi lucidi si fissano sulle nostre uniformi; volti roridi di perspirazione si girano verso di noi, donne dal viso già scoperto ci sussurrano vicino la loro curiosità... Chi siamo? E una scìa di rispetto ci segue che placa alle nostre spalle l'urlìo della folla... — Italiani... Italiani... Italiani... Isonzo... Gorizia... — La mia lingua divina, su queste labbra maltesi che nel salso del mare e nel vischio del commercio e della dominazione trattennero arabo, levantino e inglese, ritrova una straordinaria purezza d'accento. È un niente: ma io sento che in questo istante il sangue della mia razza spruzzato da un santo aspersorio sulle balze del Carso e dilagato qua e là sulle onde adriatiche, ribolle tutto nelle mie vene come per uno di quei miracoli che incurvano le folle avanti a un'ampolla sacra.

Italia, la maestà del mondo sei tu! e a poco a poco il tuo piedistallo s'eleva tra attonite genti!... Guarda qui, questi schermitori e rinunziatori di ieri! guarda come questa folla che ci opprime con la sua sorpresa e queste donne scomposte che ci indicano l'una con l'altra usando il loro orribile gergo semi-arabo, sembrano creature ancora troppo piccole per la nostra statura italiana...

Ma ecco un signore che s'apre il varco in senso opposto al nostro e si avvicina sorridendo.

— Vogliono farmi l'onore di entrare?... — ci dice in italiano purissimo, mentre c'indica un vasto edificio dal pronao a colonne che fronteggia la strada.

— Sono il proprietario del teatro — continua — e c'è veglione stasera. — Li prego di non dir di no...

E non c'è verso di dirlo questo «no».

La cortesia schietta impone assai più d'un comando; e la cordialità di questo signore è così latina, così cosa nostra, che immediatamente ci avvince. E lo seguiamo su per la gradinata del pronao inghirlandato di lampadine elettriche, su per una terrazza affollata da una moltitudine già ben diversa da quella della strada, già tramoggiata da un alto prezzo d'entrata; attraversiamo con lui un peristilio popolato da coppie mascherate che interrompono i loro dialoghi d'un sottovoce sospetto per fissar noi con l'acuta fissità che la maschera presta, ed eccoci finalmente nella cosiddetta «fornace dell'oblio»: è il signore che la chiama così.

Ma è veramente magnifica, la sua fornace: e il gentile proprietario del teatro — l'Opera — ci guarda lusingato dalla nostra sorpresa. Ah! Non son più tempi da preziosità letterarie, questi. I vecchi fardelli del pensiero sono stati tutti bruciati da un oggi terribile: riesumati, fan pena e forse anche nausea. Pure, non so perchè, la calda vampata che qui dentro ferve, l'odore acre d'umanità che mi s'addensa attorno, i volti accesi, l'eccitazione femminile assai più acuta di quella maschile perchè più compressa, mi richiamano a scene pagane sepolte al fondo dell'immaginazione dalla dura vita del mare che seppellisce tante altre cose; e per quest'odore così complesso, fatto d'alito, di fiori avvizziti,di profumi corrotti e d'un repulsivo prodotto umano, l'acido lattico, il mio pensiero fissa una definizione stravagante: odore dell'incenso d'Eros. E quest'ardente platea non mi rappresenta più che una pagana attrazione di sessi, scatenata in un mondo che non riconosco più.

Indovina la mia guida il barocco pensiero? Non so: non posso più saperlo: la folla l'ha separata da me ed io mi trovo solo, tra un gruppo di maschere bianche. Sono inglesi: signorine inglesi... —Oh! An Italian Officer!...— mormora una che mi scruta con occhi resi ancor più meravigliosamente celesti dal nero della maschera.

Mi fermo a fissarla.

—Alone?— Solo? — chiede la maschera. Apro leggermente le braccia per indicarle che così è: ma non comprende bene.

—Do you talk english?— Solo? — insiste.

Le rispondo con un verso del Childe Harold.

—Is it not better, then, to be alone...(Non è dunque meglio esser solo...)

— Oh! — esclama la maschera con gioiosa sorpresa, mentre si distacca dalle sue compagne che ridono — Viva l'Alleanza!

E subito, ridendo anch'ella d'un riso cristallino, m'infila un braccio sotto un'ascella e mi trascina con lei. Ecco un bianco e nero bizzarro. Ventiquattr'ore fa nell'ansiosa corsa sul mare un'altra figura bianca s'avvinghiava a me nella notte. Ma era un fantasma senza nome e senza maschera e che trascina più lontano assai di queste creature della terra... Ora invece al mio fianco è il rigoglio della vita, una cosa a cui non pensavo più, o a cui non osavo pensar più: v'è questa calda femminilità resa perfetta dal mistero e dal nonlasciar conoscere nulla della sua esistenza giornaliera: il più gran fascino della donna.

E questa dev'essere bella: supremamente bella, come sanno esserlo le inglesi quando lo sono. Lo indovino dai riccioli d'oro che le sfuggono dal cappuccio di seta, dal celeste puro degli occhi ridenti, dalla bocca da ritratto francese del dieciottesimo secolo, dall'ovale perfetto del volto e dall'ambra rosata della pelle: non può avere altro difetto che nel naso: ed è questo l'unico punto interrogativo.

— In quale città è nato, lei? — mi chiede.

— Roma.

La mia risposta dev'essere stata data troppo soprapensiero. Forse merito d'esser scosso: non posso spiegarmi diversamente la strabiliante domanda che immediatamente segue:

—Oh!— esclama —Do you know the Pope?— (Conosce il Papa?)

Bene: affrontiamo con calma le conseguenze di non conoscerlo.

— Non conosco il Papa...

Gli occhi celesti s'irradiano di stupore e la piccola bocca scintillante resta schiusa per qualche istante senza parola.

—How possible?— (Com'è possibile?...) —And, do you know the...?— e mi nomina un augusto personaggio della nostra casa regnante. Le rispondo che questo è un caso migliore, che in varie occasioni infatti... Ma m'interrompe... — And do you know il tale? — And do you know il tale altro? E giù nomi romani, in fila, senza respiro...

Ma deve aver vissuto molto a Roma, questa sconosciuta creatura, per avervi tante relazioni.

— No — mi risponde — non vi son passata cheuna volta nel viaggio per venir qui e non conosco nessuno di coloro che ho nominato. — E siccome rido, ella mi spiega che ha sua madre e qualche amica nella mia città: che le scrivono spesso della vita che fanno e che arde dal desiderio d'andarvi.

— E vi anderà?

— Mamma non sa decidersi, non vuol lasciarmi partire ora.

— Posso domandarle perchè?

—Yes: torpedoes... you know...Pare che ora vi sieno troppi sommergibili qua intorno...

Basta: la festa sparisce: questa mite creatura ha sussultato e s'è stretta a me nel mormorare la terribile parola che s'è infiltrata anche qui:torpedoes: il siluro. E in una visione d'un attimo io vedo alta ergersi nel cielo la colonna mortale d'acqua dal fianco d'una nave che immediatamente s'inclina, mentre centinaia di esseri viventi, tra i quali è questa innocente reginetta di grazia, gettano le ultime disperate grida d'angoscia fissando con uno sguardo folle il baratro spaventevole, già chiazzato di rosso, già cosparso d'irriconoscibili cose...

— Perchè non risponde? Trova che la mamma fa bene?

... Niente: ho torto; infatti dall'orchestra che è sul palcoscenico, piovono su questa ressa già aizzata, le prime note d'un tango, il ballo dell'umanità imbecillita e imputridita, precursore della guerra.

E da un po' di stupida lascivia raccolta preziosamente dai bassifondi argentini, resta anche questa sera dimostrato che nemmeno la strage va presa sul serio, e che forse noi non siamo altro che alcune centinaia di milioni di formiche inutili sulle quali è bene passi ogni tanto, così per trastullo, un piede enorme...

— Sì: la mamma fa bene....

Anche qui son larghe chiazze uniformi di colorkakiframmiste ai colori fiammeggianti del Carnevale. Anche qui noto lo strano aspetto di alcuni individui rivestiti a nuovo ed alla meglio, con vestitikakiquasi militari: e il loro sguardo mi riproduce, come poco fa nelle strade, un'espressione di recente spavento che m'è incomprensibile. La mia compagna m'ha condotto a sedere sulla ringhiera vellutata d'un palco del «parterre» che è molto basso: il suo, forse; e vi son dentro tre domino, domino di età, fissati dalla noia nella loro posizione silenziosa e grave. La ridda musicata ci sfiora con la sua cerchia estrema: ed è così densa che la misura del tempo n'è tutta scomposta, come per un ribollimento interno della massa.

—Hasna krasna!— esclama una graziosa pierrètte maltese, senza maschera, ritraendosi dal ballo al braccio d'un pierrot dal volto di cadavere ben dipinto. E siccome vede me, traduce immediatamente il suo orribile dialetto in puro italiano: Troppa gente! Uno sguardo di riconoscenza, un sorriso, la sparizione nella folla, e il piccolo episodio di gentilezza è finito. No: ve n'è un altro. C'è qualcuno qui vicino che esclama: «Vive l'Italie!...» con tono di discorso però, più che di grido: si direbbe una composta esclamazione offerta da uomo a uomo in un salotto. E intorno a noi si forma un gruppo di quegl'individui dallo sguardo triste, vestiti a nuovo con abiti colorkakidi foggia quasi militare. L'evviva è ripetuto qua e là tra loro, ma sempre con voce semispenta di convalescenti, sempre congrande cortesia. —Vous venez d'arriver ce matin, n'est-ce-pas, monsieur?— mi dice uno di loro inchinandosi.

L'osservo: il ruvido vestito, troppo grande per lui, l'ingoffa, sì, ma non riesce a spegnere in lui l'innata signorilità dell'espressione e dei gesti. Nessun sorriso può nascere dalla sua vista e alla sua domanda non si può far altro che annuire con rispetto.

—Permettez, monsieur, je suis le capitaine A... de V...y du «....» régiment de Cavalerie Française. Il faut se préciser à cause de cet habillement plutôt grotesque— aggiunge con un riflesso di sorriso, subito spento. Poi con un breve gesto mi indica i quattro compagni che son con lui.

— Ed ecco tutto ciò che resta degli ufficiali del mio reggimento... V'è pure un avanzo di qualche centinaio di soldati, qui...

Perchè? per quale catéistrofe? Me lo spiega con una sola parola: La «Provence»... L'episodio tragico (che ha avuto in seguito larga diffusione nella stampa) non risale che a quattro giorni da questa sera... E l'ufficiale continua: Era un magnifico piroscafo, la «Provence», e nei giorni di pace, tra Francia e Stati Uniti d'America, portava attraverso l'Atlantico flotti di vita attiva e grumi d'ozio in un medesimo quadro di ricchezza. Poi ricoperto di grigio, la tinta contagiosa dell'attuale morbo mondiale, si riempì di soldati grigi e ne trasportò migliaia sui campi d'Oriente. Ma la settimana scorsa — prosegue l'ufficiale con quel suo tono di voce che pare il resto di un'altra voce posseduta «prima» — partita dalla Francia, era giunta al Capo Matapan, in Grecia, con un mare d'olio, nel sorriso di un sole benigno: le rupi giallastre della terra greca si distaccavano precise su di un cielo senza macchie, incui stormi di bianchi gabbiani s'inseguivano in festa, quando nel mare un puntino brillò: una pupilla di morte: la cosa che appena vista uccide; un periscopio di sommergibile... E subito dopo, dita maledette e invisibili tracciarono presto presto sull'acqua due linee opache, avide, subdole, irrefrenabili, dirette alla nave. Da principio, a bordo, una folata di silenzio agghiacciante: poi un urlo di nave che vede la sua morte: una cosa indimenticabile per chi l'ha udita e che non ha niente di umano: le bocche sono elementi, ma è la nave che urla: ed il suo lamento è così alto, così compatto e fuso che nessun suono della terra l'uguaglia.

La «Provence» urlò la sua angoscia: tentò col timone la manovra di sottrarre i fianchi all'urto: si divincolò, diede un balzo con le macchine, ma fu raggiunta: e due spaventevoli esplosioni le mozzarono l'alito e le squarciarono il corpo. E si fermò, rantolando vapore, ergendo a poco a poco la poppa con scatti convulsi mentre s'inclinava di fianco per morire. I suoi ponti scodellarono in mare centinaia, migliaia di corpi e il suo urlo si scompose, s'affievolì: ebbe delle riprese e delle soste. Ultimo moto suo prima dell'abisso, quello delle eliche emerse e turbinanti disperatamente in aria in una raggiera di membra stroncate... Poi l'acqua ricoprì tutto: un'acqua rossa e nera...

— Ma lascino libero il posto! — esclama in italiano, un arlecchino, irritato perchè s'è dovuto fermare con la sua brianzola avanti al gruppo degli ufficiali francesi. — Non si può più passare...

E le sue parole continuate in maltese divengono incomprensibili e si perdono...: e il tango continua...

La sconosciuta mia compagna non ha interposta una parola durante il lungo racconto: e ha continuato a tacere anche quando la folla ci ha ripresi nel suo gorgo. Le domando se ha compreso...

—Yes, every single word— Sì, ogni singola parola. — E continua a trascinarmi tra le maschere, assorta in una interna visione che prolunga il suo silenzio, non ostante io cerchi di distrarla parlandole delle tante piccole scene che capitano sott'occhio nell'anfiteatro sempre aperto dell'umanità, e questa sera più aperto che mai.

—Well... I don't care a bit...— Non me ne importa nulla — mi risponde di quando in quando, guardandomi con uno strano sguardo di maschera triste.

Ma ecco una coppia di maschere che rifluita dalla cerchia frenetica del ballo, viene ad urtarsi malamente contro di noi. Un gancio del costume dell'uomo, morde, nell'urto, sull'orlo della cappa di seta della giovane inglese e ne lacera un lembo.

Se da vari segni sicuri non avessi già potuto intuire la fine casta della mia sconosciuta compagna, ne avrei ora un'assoluta conferma. Arretrata di uno o due passi dall'urto scomposto, ella non guarda nemmeno il malaccorto individuo che l'ha urtata: la tranquilla mossa della sua testa incappucciata dice che è bene non accordare la minima attenzione alla volgarità. E distrattamente, con imperturbabile calma, ella finisce di lacerare il lembo di seta che pende dalla sua cappa.

Ma al momento di gettarlo via, trattiene il suo gesto e si ferma indecisa. Il frastuono della musica è assordante e non riesco sulle prime a udire qualche cosa che ella mi mormora quasi con timore.

La prego di ripetere più forte: e lo sforzo che ella fa per elevar la voce, riempie di sorriso la celeste purezza dei suoi occhi.

— Vorrebbe lei accettare come portafortuna questo miserabile cencio contro le terribili cose del mare? È ridicolo quello che faccio, lo so — ma sono una maschera superstiziosa. Lo tenga indosso, in una tasca. Non rida: vedrà che le andrà tutto bene...

— Ma non rido affatto...

— Riderà dopo e dirà: Che sciocche queste inglesi in maschera!...

— Neanche per sogno.

— E allora che ne pensa?

Penso... Ah! è difficile a dirsi. La guerra ha bruciate in me tutte quelle parole che avrei trovate subito all'epoca nella quale il mondo non era ancora travolto dall'attuale follia criminale. Da lungo tempo non ho vissuto che d'odio, distruzione e morte e mi sembra che per una legge fatale imposta all'uomo da volontà eccelse e troppo miscredute, noi e il nostro piccolo pianeta esaurito, dobbiamo sgretolarci e sparire. Dobbiamo lanciar libera la nostra orbita ad altri corpi vergini, popolati da esseri semplici, intatti, per i quali non vi sarà più alcun peccato d'origine e che non sapranno mai nulla degl'infami assassini che turbinarono nello spazio prima di loro. Guerra? che guerra! È una parola nostra, questa. E noi chiamiamo così un cataclisma che ci è imposto e alla quale la nostra volontà di moribondi è estranea.

Che cosa mormora dunque questa fanciulla?Quale impossibile eco vuol suscitare con le sue parole gentili? Non appartiene anche lei a questo mondo condannato?

Il mio spirito arido non può più risponderle col sorriso d'una volta ed ha acquistato una sincerità brutale, nata dal distacco d'ogni cosa lieta.

Che cosa ne penso? Non v'è che una parola che riproduca quel che ne penso: Niente — e gliela dico.

E perchè mai questa fanciulla sussulta sorpresa e mi stringe un braccio con forza? — Niente, niente... — ripeto — Non ne penso niente...

Ma forse nella mia voce è un irrefrenabile accento di doloroso rimpianto che non ho saputo soffocare abbastanza.

—Listen— ascolti — mi dice la giovanissima maschera fermandomisi di fronte. —You are being as cruel to me as to yourself...Lei è altrettanto crudele con me come con lei stesso. ... Qualche anno fa questa sua risposta mi sarebbe sembrata uno sgarbo... Avrei detto: sempre ruvidi questi italiani! e avrei subito voltate le spalle a una persona così scortese. Ma ora ho acquistato di loro un ben diverso concetto e correggerò io stessa le sue parole... Lei voleva dirmi così, dica la verità: oggi non posso più pensarne niente... ed ha ragione. Guardi com'è più graziosa per me e per lei questa lieve variante. Non crede?

E la sua voce sorride con tenerezza attraverso la maschera...

— Allora, prenda questo lembo di stoffa, presto... e tenga da lei lontani siluri e torpedini... Presto, che vengono i galli...

— Che galli?

Mi giro. È giusto. Vengono i galli: una pennuta masnada dalle gambe articolate a rovescio rispetto alvolatile vero. Giganteschi, pettoruti, alzando il piede per imitare il passo dell'aia, i loro chicchirichì esagerati dalla cavità del becco in cartapesta, sormontano la musica e ci assordano.

E manifestano la loro allegria, questi galli, accorrendo qua e là tra la folla a separar le coppie ed incuneandosi in fila nel varco aperto. — Chicchirichì, chicchirichì...: urla, spinte, ondeggiamenti di marea, riflussi verso i palchi, galli di qua, galli di là e mi ritrovo solo, sotto un gruppo di lampade, stretto tra una ciociara e un hidalgo che odora di colla e avendo sul petto le spalle umidiccie d'un arlecchino.

— Anche lei, signore è rimasto senza il suo flirt...? — mi mormora l'arlecchino mandandomi uno sprizzo di riso dalle fessure nere degli occhi.

È meglio non rispondergli nulla.

Il mio flirt?

Flirt? Che sciocca parola! Parola dei romanzi e dellepochadesdell'antiguerra, è stata anch'essa incenerita dalla gran vampa che arde sul mondo. Come mai è sopravvissuta qui? E il suo significato che m'apparisce smorto, rievoca in me come la visione d'una tomba di donna che attirò folle intorno a sè e morì giovane e bellissima: un'immagine complicata e mesta.

Oh, Arlecchino, vera rappresentazione dell'uomo, il mio flirt è quello che oggi deve essere: cenere; niente; il suo segno è quello che le mie dita continuano a palpare con uno di quei movimenti meccanici partoriti dalla tristezza: un cencio.

E se un rimpianto dovesse sorgere da tutto questo..., Chicchirichì... chicchirichì...

Perfettamente, caro Arlecchino: un grido beffardo e idiota... perchè tutta la vita precaria che oggi ci resta, s'agita tra rovine.

— Rallegramenti! — mi mormorano due domino bianchi coi quali m'imbatto, mentre mi avvio all'uscita.

Mi soffermo: li riconosco. Erano con la mia sconosciuta compagna quando questa li lasciò per venir con me.

— Di che?

— Eh! via, lei lo sa... La nostra amica ci ha raccontato che lei porta via con sè nientemeno che una parte del suo vestito. Possiamo assicurarla che non è tanto facile a darne via. Ci spieghi come ha fatto. Vogliamo provare anche noi...

— Subito: un gesto di pietà...

— Solo? Un gesto di pietà in un veglione?

Le due maschere ridono...

—A regular flirt, indeed! you go to dream about her, as she does about you... Adieu!— Andate a sognar di lei, come ella sognerà di voi. A rivederci.

È bene scrollar le spalle. Indubbiamente le amiche sono uguali in tutto il mondo...

Fuori, la notte punteggiata di luci e avvolta di silenzio. Qualche automobile ferma borbotta e freme impaziente. Alcune coppie uscite dal teatro si perdono presto nei vicoli laterali. E come in tanti altri punti del globo, la mia solitudine martella il passo con me, lungo una strada deserta e buia che mena sempre al mare.

Giornata di visite ufficiali, di poliglottismo, di leggieri urti di razze mascherate da sorriso e sommersi da cocktails e da coppe di extra-dry levate a brindisi. Ho salito i monumentali scaloni del palazzo dei Cavalieri sorvegliati da vuoti guerrieri di ferro e dalla silenziosa potenza del tempo, e ho dovuto subito dopo raccogliere il passo su scalette di bordo sospese a mezz'aria: da saloni immensi popolati di ombre fantastiche e di grandi ritratti che parevano aguzzare con ironica curiosità i loro sguardi di vernice sulla mia anacronistica uniforme e domandarsi tra loro, col lieve bisbiglio dei morti: — chi è? chi è? — son passato alle gelide, bianche scatole da uomini delle navi d'oggi, che una vita fittizia non riesce a riempire: dagli ori spenti dai secoli, all'acciaio vivido del cannone: dalle sconnesse vetture maltesi che si direbbero appartenere a uno strano deposito generale di vecchiume stabilito qui per capriccio dell'Europa, all'autoscafo, al cacciatorpediniere, al sommergibile. In poche ore, il mondo e le sue fasi: i colori d'un tempo e il grigio d'oggi.

Invariabilmente accolto da «Bonjour Monsieur» e da «Good morning Sir» son stato dovunque chiamato a bassa voce «Mon cher ami» e «My dear Captain» da uomini mai prima visti, quando i nostri brevi dialoghi s'impigliavano nei rami della guerra e ne sfioravano le spine.

Ma la curva dell'espansione declinava di nuovo all'«Au revoir Monsieur» e al «Good bye» tra i composti inchini del congedo.

La mia ultima visita è per il Chief of the Staff (Capo di Stato Maggiore) che deve darmi gli ordini per la partenza dell'indomani e per una difficile missione che richiederà lunghe spiegazioni forse...

Ma dove s'è annidata l'autorità di questo alto ufficiale Brittannico? Androni medioevali dalla volta a sesto acuto dove il vento sibila liberamente, scalette tagliate nello spessore di mura enormi, giravolte, stanzoni dove certamente s'accatastavano un giorno le piramidi di proiettili sferici del Sovrano Ordine di Malta e che ora risuonano dell'affrettato martellamento delle macchine dattilografiche; su... su... ancora androni, ancora scale...

—The Chief of the Staff, please?

—Yes Sir, upstairs...— Salire ancora — è la risposta delle rosse sentinelle, pendoli umani oscillanti in pochi metri, tra due brusche giravolte, come avanti a due mura immaginarie.

Che sia andato a stabilirsi sulle tegole?

Domandiamone notizie a qualcuno che non oscilli e che seduto a un tavolo abbia il cervello non scosso. Ecco una stanza dalla porta spalancata, piena di ufficiali di Marina, di tutti i gradi, curvi su carte.

Entro: nessuno leva il capo: nessuna domanda mi viene rivolta: sembra che io abbia un mio tavolo abituale lì. — Uno ve n'è, biondo, rasato, come tutti del resto, che nel raccogliere per un istante le idee, si passa la sinistra sulla fronte e mi guarda senza vedermi affatto, servendosi di me come punto di concentrazione del pensiero, capitatogli avanti per caso. Se non v'era la mia persona, v'era sempre una lavagna appesa nella stessa direzione al muro, pronta a servire lo stesso alla sua momentanea fissità.

È bene che la situazione non si prolunghi troppo.

— Può dirmi, signore, dove sia andato a finire il Capo di Stato Maggiore?

Lo sguardo che mi fissa si ravviva e mi «vede». Cade la penna e la fisonomia assorta si stempera in un sorriso.

— Qui: son io.How do you do?

Ecco un altro dei tanti sconosciuti che oggi si sono interessati alla mia salute.

Per dimostrare riconoscenza il cane dimena la coda, l'uomo si piega sulle vertebre: questioni organiche: un giuoco muscolare: fatto.

— Una sigaretta?

Sicuro. È una obbrobriosa «Three Castles», di quelle che noi italiani particolarmente detestiamo per il loro sapore tra caustico e dolciastro. Lagrimiamoci sopra.

— Dunque?

Declino le mie qualità ed espongo i motivi della mia visita.

Devo partire l'indomani, raggiungere (censura)...

················

... ed assisterli fino ad una base marittima italiana. Do mando ordini...

Le virgole al mio breve discorso sono stati tanti «Yes» aspirati e sincopati da uno scatto delle mascelle, che il mio interlocutore, come per asfissia, ha interposti tra i periodi.

— Yes.

— Dunque?

— Yes.

Una pausa.

— La sua nave — dice — è quell'incrociatore a due alberi, con i fumaiuoli alti, con ecc...?

— Sissignore.

— ... che occupa il posto tale, vicino alla nave tale?

— Giusto.

— Aha, aha! — E il suo sguardo s'intensifica mentre con la contrazione delle labbra rasate sottolinea un pensiero critico, che io so perfettamente quale sia. Ma una delicatezza professionale di colleghi di vita marittima, lascia le sue labbra chiuse.

Un «All right!» conclude le interne considerazioni sulla cattiva fama che il posto della mia nave si è acquistata di recente. E io penso che forse un altro «All right» di questo stesso uomo congedò quattro giorni fa il mio collega francese che il siluro attendeva non troppo lontano da qui...

— Ecco gli ordini — prosegue porgendomi una busta gialla già pronta in un cassetto ed indirizzata col nome della mia nave. — Ed ecco qua «a very useful list»: la quale utilissima lista è un foglietto dattilografato nel quale sono elencati i punti del Mediterraneo ove sono stati avvistati sommergibili nemici nelle ultime ventiquattro ore.

La scorriamo insieme, questa «very useful list».

— Uno... Il che significa che ve n'è uno nei pressi della rotta che la mia nave dovrà percorrere e che perciò va distinto.

— Due...

— Tre...

E meno male che ci fermiamo. Tre.

— E se ne verranno annunziati altri, prima della sua partenza, glielo farò sapere...

Grazie. Vi sono dei riguardi che commuovono, dei piccoli favori che rinsaldano le amicizie.

— Attento ai siluri! — sussurra con un sorriso il mio garbato interlocutore.

Oh! quanti strani avvisi ha ricevuti la mia vita! M'era rimasto come culmine d'originalità il ricordo del saluto venezuelano a «Culebras, señor!» — attento ai serpenti! — che l'uomo scambia col proprio simile nei pressi delle foreste vergini, come abituale augurio. Allora, nel silenzio solenne delle volte verdi, dove da ogni ramo può piombare una morte viscida, fredda, soffocante, orribile, lo spirito trema ad ogni fruscìo del mare di foglie; e la vista, confusa dal sinistro scenario che una penombra verde condensata subito dalla distanza in violetto, racchiude, non serve più, non difende più.

E dalle sommesse grida della piccola fauna tropicale acquattata nel verde sorge l'espressione d'un universale spavento: s'intuisce che per miglia, per centinaia di miglia, in largo ed in lungo, tutto, tutto nella foresta vive nella trepidazione cupa di venire o no a contatto con una gelida spira che sarà la fine. E si comprende l'augurio, sottolineandolo con l'affanno del respiro.

— Attento ai siluri! — C'è qualche cosa di diverso e di più. Invece del verde assassino, è l'azzurro che avviluppa e confonde. Scintillante nel giorno, opaco, scurito, inscrutabile nella notte, esso è tutto un campo uniforme di morte, e mendace sempre. Nella bianca cresta dei marosi, nelle minime screziature d'acqua che il vento incide, nei riflessi delle nuvole, negli stormi di gabbiani cullati dalle onde, dappertutto è l'inganno mortale; centinaia di lutti dipendono da un niente. E bisogna morire passivamente senza lotta, pur sapendo che il nemico è lì, invisibile, placido, quasi invulnerabile, freddamente scrutando dal suo occhio di cristallo impercettibile sul mare, ogni fase della catastrofe; uno spettacolo per lui.

Intorno, il chiuso anello dell'orizzonte vuoto. In alto, là dove fissano disperatamente lo sguardo le creature umane nelle loro angoscie supreme, il vuoto, il niente, la spietata indifferenza del Cielo.

—... And good luck!— E buona fortuna! — mi dice l'ufficiale Inglese con un inchino di congedo.

Come al giuoco. E la posta è una nave e varie centinaia di vite, all'immenso tavolo azzurro di domani.

Dunque oggi bisogna partire. E partiremo non appena la sera s'addensi, perchè nella guerra d'oggi, la luce a noi navi è nemica.

Già fin dal mattino son ricominciati a bordo i lugubri preparativi di salvataggio, e uno strano silenzio rotto appena dallo stridìo delle manovre, s'è stabilito tra i ponti. Ancora ignara che oggi è giornata di pericolo, la nave rumina carbone, godendo quello che può essere il suo ultimo sole: e il suo respiro nero infittisce appena. Io la contemplo da quassù, da una delle immense finestre del palazzo dei Cavalieri, dove un invito di Lord «M...», il Governatore, mi ha chiamato. E per qualche istante le parole di alcuni altri pochi ospiti qui riuniti, attutite da una pesante cortina di damasco giallo, mi sono estranee. Ecco la città degradante al mare col greggie dei suoi tetti accavalcato attorno ai suoi antichi pastori: le chiese; quando i popoli ossequienti al destino, si lasciavano ancora male o bene condurre da qualcuno, piuttosto che dalla frequente tirannia di loro stessi. Una luce smorta, filtrata dall'ovatta grigia delle nuvole, non dà rilievo ai vani delle strade e delle piazze, non incide nulla. Solo le ramificazionidel porto rastrellano case nella massa e v'interpongono quel non so che d'indefinibile, composto di sfumature blande, di tonalità di colore stranamente attenuate, di brevi spazi aperti a tutte le trasparenze, fervidi di tutti i riflessi, di tutte le ombre e di cui Venezia e il mare conoscono soli il segreto.

Laggiù, più lontano, fuori della cerchia dei moli è come una bassa nebbia azzurrognola di cui l'occhio cerca invano i limiti e che dopo un immenso cerchio si tramuta a poco a poco in nuvole. — Bello! si sarebbe esclamato un giorno, figgendo lo sguardo in quello squarcio di puro infinito offerto ai voli altissimi del pensiero, senza che un solo ostacolo di miseria umana ne arrestasse lo slancio. Oggi si fissa in silenzio: è proprio quello il mare della distruzione e della morte. Lagrime e sangue vi si frammischiano, e se una brezza lo percorre, essa non è l'alito fresco del vento, ma il rantolo di mille agonie, bisbiglianti in eterno il loro ultimo strazio.

— Ah! Ah! Ah!... — Qui sotto, in una piazzetta a metà nascosta dalla base inclinata di un mastio, v'è una moltitudine che ride clamorosamente. Che cos'è? Una folla impazzita? Quasi.

È un carro che passa e che apparisce trasportato da una fiumana d'uomini, come un grosso macigno da una corrente di lava.

Richiamato dal clamore, un giovane capitano inglese del Corpo della Guardia Reale, viene a protendersi vicino a me. Guarda in giù, sorride.

— È giovedì grasso — mi dice. — E quello è il carro del Kaiser... Ha avuto un gran successo in questo carnevale...

— Del Kaiser?

— Sì. È pieno di maschere, uomini, donne e bambini,raffiguranti feriti e cadaveri... Il carro stesso rappresenta le macerie d'una chiesa...Oh! So funny, you know!(Così buffo, sa!...).

— Trova?

— Sicuro... Sul davanti c'è un busto del Kaiser che spezza una croce coi denti. E intorno al carro — vede quella striscia bianca? — è scritto a grandi lettere tedesche:

Unserem lieben alten Gott(Al nostro buon vecchio Dio)

Yes: very funny!...— E si trattiene in silenzio a ruminarsi un sorriso. — Ve n'è pure un altro — prosegue — che è piaciuto molto, sa? quello del «Lusitania»: donne e bambini aggrappati a qualche tavola... e sotto, la stessa scritta.

Un altro silenzio....

················

Ed ecco che tutte le campane delle chiese cattoliche alzano ad un tratto la loro voce metallica al cielo. Mezzogiorno. Su un sottostrato costante di bassi rintocchi un coro giovanetto di squilli argentini si sovrappone, s'eleva, s'estende. Si effonde nell'aria un fermento di suono, che oggi tra i ricordi inceneriti della mia infanzia, ritrova vigore, vita, un fascino mesto e indescrivibile. Coro anelante di povere creature appiattite sulla terra, invocazione di spiriti attenagliati dalla materia dolorosa, sale, sale, grave come l'incenso dei turiboli verso la volta dei tempio. E sembra sia questa la preghiera di tutti gli uomini, affidata al bronzo benedetto. Nei suoni cupi è l'angoscia dei padri: negli acuti, i singhiozzi delle madri e dei bimbi. Mille braccia sembrano ergersi al cielo e da tutta l'umanità pare erompere una voce di orrore, quasi di rivoltacontro una divinità implacabile, troppo feroce nel castigo, troppo accanita contro esseri da lei creati e quindi irresponsabili della loro natura...... Venga presto il tuo regno, o Signore, nel cielo e nella terra, il regno che affidasti alla purezza e alla semplicità di Pietro, o Signore...!

Invece lassù è una cortina di nuvole che s'addensa sulla città e non lascia passare nessuna invocazione...

Invece quaggiù è semplicemente mezzogiorno: e Lady M... con qualche altra signora e signorina che le fanno corte, apparisce dalle pesanti portiere di damasco — un quadro — sollevate da due domestici e viene a ricordarcelo con un sorriso.

Rapide presentazioni. Alti nomi brittannici: ed immediatamente, quel senso riposante di vecchia conoscenza, che è una delle più fine prerogative dell'educazione inglese, scuola Eton.

Siamo in un salotto dall'alto soffitto sobriamente dorato che ha tutt'intorno come leggiero sostegno una larga fascia in affresco dove ricorrono scene di guerra e fasti dei Cavalieri, con motti e divise della mia lingua.

Il damasco giallo delle pareti, sfondo a magnifici quadri di quei maestri italiani che fissarono sulla tela lembi di interni paradisi, prolunga in basso lo sfarzo maestoso dell'ambiente. Un Tiziano voluttuoso e superbo, fa fronte a un Tiepolo, potente armonizzatore di colore. Ma in basso, dai mobili seicenteschi patinati dal tempo e dal tocco indelebile di tanti morti, sorge l'argento dei minuti oggetti inglesi e lo scintillìo di moderni vasi da fiori, alti e foggiati a calice. L'«home» s'è mantenuto discretamente all'altezza dell'uomo, delle necessità della sua vita: sopra c'è il passato intangibile e inarrivabile.

— Questa è la nostra camera di rifugio — ci dicesorridendo Lady «M....». Qua ci sentiamo noi, poveri mortali del nostro secolo: di là ci sono troppi Re e troppi Cavalieri e l'esistenza è difficile. Di là, sembra svolgersi una cerimonia continua e pare che da ogni porta debba sboccare un corteo.

Sono l'unico italiano qui e certamente il solo che non conosca queste sale.

— Venga, vedrà: questa per esempio è la sala detta dei Re — dice la signora rivolgendosi a me.

Entriamo. È immensa: e v'è quell'atmosfera inesprimibile degli ambienti dove molto vissero gli uomini e che l'immaginazione ripopola subito, richiamando dall'ombra d'una falsa memoria, nomi, volti e costumi. L'oro discreto del soffitto s'attenua via via nella prospettiva fino a creare pallide stelle svanenti in un basso zodiaco. Ma lungo le pareti scintillano gli ori crudi di enormi cornici, che la luce irrompente a lame dai finestroni, accarezza nelle inquadrature e nelle corone che le sormontano. E son raccolti qui in fila principi e re che offrirono la loro immagine al Sovrano Ordine Militare di Malta, da pari a pari, al disopra della folla incolore dell'umanità.

Infatti:

Au Souverain Ordre de MalteSa Majésté Louis XIV

Luigi XIV! Salve, o Sire! — Ordini la Maestà Vostra che l'obliquo riflesso di luce che offusca in questo momento le regali sembianze di Vostra Maestà, sparisca.

Ecco: così. Ahi! quale sdegnoso cipiglio! Vuole la Maestà Vostra esprimere che nessuno da vivo, osò fissarla così? Non l'ignoro, Maestà. — E ricordo bene l'episodio di quel Marchese di Canillac, colonnello delreggimento di Rouérgue, che per essersi trovato inaspettatamente di fronte a V. M., alla quale doveva riferire qualche cosa durante le manovre militari di Compiègne, ne restò talmente stupefatto e intimidito che non ci fu verso riuscisse a parlare, quantunque la M. V. indulgentemente l'incoraggiasse. Sicchè rivolgendosi a M.me de Maintenon che assisteva in portantina alla manovra — preziosa ausiliaria — Vostra Maestà, dopo aver congedato con un breve «Allez Monsieur!, il povero colonnello, pronunziò le parole, celebri naturalmente: — Je ne sais pas ce qu'a Canillac, mais il a perdu la tramontane, et n'a plus su ce qu'il me vouloit dire... — Alle quali «Personne ne répondit» come postilla un Vostro storico illustre che non godè troppo del Vostro regale favore.

E so anche che si trattava «d'un grand homme, bien fait, d'une physionomie assez agréable, qui promettoit beaucoup d'ésprit et qui n'étoit pas trompeuse» ... Eppure...

················

— Impertinenza? No, Sire. È il destino dei potenti di questa terra, diventati marmo, bronzo e tela, di fronte alla carne viva e petulante del postero...

················

— Più di due secoli, Sire e ora parliamo con meno fioriture.

················

— Creda, Vostra Maestà, che non è colpa mia: parrucche, noi uomini, non ne portiamo più: in compenso usiamo lavarci con molta acqua e molto sapone...

················

— Farmi espellere dall'Ordine? Un regale messaggioal gran Maestro, portato da Vendôme Grand Prieur?

················

— Ah; ma Vostra Maestà sorride! Quale improvviso cambiamento delle sdegnose sembianze! Quale inaspettata cortesia! Non so se sia per un riflesso di luce... ma mi sembra che Vostra Maestà scorga qualche cosa che la delizi e che...

—You come off, please(Venga via, la prego) — mi dice una fresca voce dove ferve tutta una promessa di vita. — Se avanti ad ogni quadro si fissa così... Glieli descrivo io e faremo più presto... Quello è re Giorgio Iº d'Inghilterra; di fronte è la regina Anna Stuart...: quell'altro...

È una signorina che ho appena conosciuta e che mi dà la strana impressione di averle già parlato a lungo. Dove? quando? La guardo: s'interrompe; tace; inarca in grazioso dislivello le sopracciglia su uno sguardo d'intensità celeste e birichina...,

— E quando avrà finito di guardarmi così — prosegue — andremo a colazione. Che? Che cosa dice?

— Dico che ha ragione Luigi XIV...

— Quello lì? E a proposito di che?

— D'un certo sorriso fatto quando è venuta lei e che non era per me, gliel'assicuro...

— Guarda, guarda! — commenta la bella personcina con uno stupore femmina e cioè con un fondo di compiacenza. — Ritenevo che non sapesse dir niente...

— Grazie...

— ... o più niente...

Più niente? — Perchè «più»? — Ah! Un sussulto: una visione di gentile maschera: un dubbio: il tentativo di un sorriso di riconoscimento raffreddato sulle mie labbra da una sua pronta espressione di perfetto,inimitabile candore. Ma come scintille di pallido zaffiro, nella purezza azzurra delle iridi, alcuni sprazzi quasi impercettibili d'oro verde, scompigliano un po' la vasta ingenuità della sua espressione e ravvivano in me la speranza.

Dev'esser lei. Statura, oro dei capelli, occhi, voce, atteggiamenti, sono quelli della mia sconosciuta compagna dal talismano bizzarro. Parla per lei questa scherzosa aspettativa che è simile a quella di chi abbia proposta una sciarada che nessuno indovina.

Non dev'esser lei. Infatti con un giro pacato della snella persona ella tronca la muta interrogazione e senza curarsi di spiegarmi le sue parole, s'avvia verso la tavola dove son già tutti i convenuti.

E un domestico dal solenne cipiglio dei domestici puri-sangue, che pare inciso nel loro volto perchè rimanga immutabile regola nel tipo, mi indica l'alta spalliera d'una sedia di cuoio che m'aspetta.

Giù.

Sono tra Lady «M...» e la piccola affascinatrice di Luigi XIV. (You will be good friends, you will see). Alla sinistra di questa, è un giovane Lord al cui nome corrisponde una famosa contea d'Inghilterra: e alla destra di Lady «M....» è un vecchietto che sembra rinchiuso in sè stesso per occupare il minimo posto nella vita, appunto perchè la vita forse gliene diede troppo. Di fronte è Lord «M....», Governatore di Malta, con sua figlia e due segretari militari dal rasato silenzio.

Ho l'impressione che tutti i Re e tutte le Regine convergano su di noi, strani prodotti d'un delirante secolo, le loro pupille dipinte e che muovano tutti le labbra per scambiarsi da cornice a cornice i loro cheti commenti di figure morte.

La luce dell'ambiente pare aggravarsi dei cupi coloridelle pareti e del soffitto: satura di ori e di riflessi setosi, ricerca nelle penombre degli angoli indefinibili puntini che sfavillano: luce da cappella o da reggia abbandonata.

E si parla adagio fra noi perchè troppe cose parlano qui in più alto linguaggio. A bassa voce infatti, il giovane Lord, capitano degli Horse Guards, che viene da Salonicco, ci narra le scene di morte e di sangue di laggiù: un'altra pennellata rossa, sulla carta d'Europa, un guazzo dalla tinta calda. Ma ad ogni episodio fa seguire una frase che dà i brividi: Ai Dardanelli era peggio... Ai Dardanelli era peggio... Ai Dardanelli era peggio... Un ritornello che si ripete come fragore di ondate in un mare di sangue.

— E lei che ne pensa? — mi chiede la mia bella vicina di sinistra.

— Penso che saranno proprio questi i racconti che per anni ed anni riempiranno i palazzi ed i tuguri del mondo. Raccolti dai nostri bimbi, formeranno la base della loro mentalità futura che come uno di quei fiori bacati nell'interno, sboccerà malamente schiudendo i petali cosparsi di strane macchie, ed al tatto, duri.

— Nientemeno!

— Qualunque cosa faranno in seguito questi uomini dalla triste infanzia, essi rimarranno sempre coloro che ebbero per giuocattoli aereoplani e sommergibili, bombardarono città di cartapesta e silurarono ridendo navi di latta... Invece che...

— Ha ragione! — interrompe Lady «M....» rivolgendosi per un istante a me per poi ascoltare di nuovo un lungo racconto che il vecchietto le sta narrando a bassissima voce e che par pieno di «s» sibilanti.

— ... invece che dal sorriso, la loro vita prenderà alimento dal pianto...

— Auff! — sbuffa la mia giovane vicina di sinistra ridendo. E sgranando gli occhi col candore fanciullesco della sua razza.

— Adesso sa dir troppo — aggiunge.

Noi latini abbiamo tutti una nostra speciale maniera di esprimere, rimanendo muti, «che bell'originale!». Con un solo piccolo sguardo laterale la giovanetta afferra subito il significato del mio silenzio. —Yes— conferma, giudicando sè stessa —Quite so— (Son proprio così).

— Ma non sa che è carnevale? — prosegue dopo qualche istante di silenzio. Niente idee tristi. Lei si preoccupa dei posteri e vede il mondo pieno di fiori bacati sfasciarsi a poco a poco per ritornare deserto.Nonsense.La vita è più forte della morte. L'umanità potata, avrà linfa più rara, più ricca e i germogli più fitti. Quello che oggi è sofferenza e angoscia si tramuterà presto in pagine di storia catalogate e noiosissime, che gli scolari malediranno perchè troppo complicate, inesplicabili e madri di zeri. Tristezza? Ma neanche per sogno! Lei dimentica che ci siamo noi, donne, perpetue livellatrici degli alti e bassi del mondo. Quando si è caduti molto in giù, si guarda a noi come cose alte; e viceversa. Voi oscillate e noi rimaniamo in un livello costante di più forte fiducia nella vita, sa perchè? perchè le fattrici e depositarie della vita siamo noi...

— Edith! — ammonisce severamente Lady «M...» distogliendosi per un istante dal lungo racconto del vecchietto, non ancora terminato e sempre cosparso di «s».

Edith! Edith ha chinato il capo, fissandomi con un comico sguardo obliquo. E siccome rido,

— Grazie! Colpa sua! — mormora —. Devo ai suoi fiori bacati, questa bella sgridata.

— E le prometto di fargliene avere delle altre se non mi dice subito che la mascherina che mi diede l'altra sera, all'Opera, il talismano contro i siluri è proprio lei!

—Oh!... Do you ask always permission after instead of before?...(Lei domanda sempre permesso dopo invece che prima?...).

— Mi risponda!

— Subito. Lei ha incontrato l'altra sera all'Opera una mascherina che le diede un talismano contro i siluri? Strana storia: ebbene: che bisogno ha di sapere chi è, e di mettere due occhi, un naso e una bocca a un atto gentile? Resti nel mistero: uno sconosciuto incontra una sconosciuta che s'interessa alla sua sorte e riceve di questo interesse una prova tangibile. Le par poco? Vuol dire che non è vero che tutta l'umanità sia una poltiglia d'egoismo. Desidera proprio avere un romanzo tutto per lei da rimuginare a bordo? Glielo imbastisco io. Supponiamo dunque che io sia proprio la sua protagonista e che abbia arrossito chinando il capo con uno sguardo confuso, lasciando appunto agli occhi tale confessione che chiameremo...

— ... dolce....

— Dolce. Sicuro. I commensali parlano forte, anzi mi fan la grazia di parlar forte, se no non posso continuare... — aggiunge la nominata Edith, sospendendo la voce.

Si ride. La si aiuta intavolando qualche stentato discorso che nasconde appena la piena possibilità di ascoltare.

— Lei naturalmente mi esprime con calore la sua riconoscenza, assicurandomi che la mia immagine resterà eternamente incisa nel suo cuore.

— Naturalmente.

— Non scherzi: l'idea del mio medaglione depositato in eterno nel suo organo vitale mi dà un vago senso di sicurezza, simile a quello di chi parte per la campagna dopo aver depositato in una banca i suoi valori... La banca è lei, signore...

— Il che vorrebbe dire che avrei già in custodia qualche altro valore... Niente: vuoto...

— Supponiamo.... — Allora lei mi giura che non è così: che per incidere me, tutto il resto è spianato in un momento. Una sovrapposizione perfetta. E per confermarmi questa bella frase, lei mette nel suo sguardo una soluzione di pateticismo, l'atropina dell'anima, dilatatrice delle pupille. Così, come fa lei, o press'a poco...

— ....

— Bene! Poi lei allunga pavidamente quella mano lì, ed io mi lascio sfiorare correttamente questa qui che dovrebbe rispondere con un impercettibile brivido della pelle... «Lady M....» fa mostra di non accorgersene affatto, sa?... È il primo passo, che alcuni autori definiscono il più delizioso: la barriera infranta; la promessa...

— Ma Edith! — interrompe di nuovo la signora di casa, con un sorriso fatto di stupore e di rimprovero.

— È Carnevale, che male c'è?... Ed ora — prego di parlar ancora più forte — il di lei sguardo diviene grave come per scrutare nell'abisso di felicità che il contatto delle mani ha scavato in lei. Questa si chiama l'alba radiosa della passione... Poi uscito di qui, la miserabile cosa da lei avuta come talismano acquisterà per lei un singolare splendore e chiederà ad essa proprietà meravigliose contro le forze occulte del destino... Il suo pensiero immobilizzato dalla guerra, diverrà unvortice... Gira; gira, ritroverà resti di sensazioni assopite, detriti di naufragi del passato: le trascinerà con sè, le addenserà, le ricomporrà, le riporterà alla superficie... Lei non sarà più il cupo uomo dall'anima nuda, cenobita di guerra, pronto a sparire nel crollo del mondo, ma l'uomo che raccoglie in sè le vibrazioni della vita e se ne sente strumento, lontano, lontano da ogni idea di morte... In grazia mia, le rovine si son ricoperte di fiori....

E con questa cesellata frase, il primo capitolo del romanzo è finito. Ho parlato bene?

Le diciamo tutti di sì: e mentre le si dissipa sulle gote un lieve rossore creato dall'animazione dello scherzo, ella beve gravemente qualche sorso d'acqua.

— Il secondo capitolo glielo delineo io — l'interrompo pacatamente. — Lei nel primo capitolo s'è condotta così, così...

— Carnevale!...

— Tanto più che quando mi ritroverò sul mare in presenza della realtà, quando la terra sarà sparita e con essa tutte le sue visioni, tutte le sue scherzose lusinghe, la voragine del pericolo mi sembrerà più terribilmente vera in grazia sua...

— Fa la vittima?

— Lei non può immaginare quale cerchio ermetico sia il nostro orizzonte e come si abbia netta la sensazione d'esser dimenticati e sperduti... E se dentro uno di quei cerchi avvenisse qualche cosa di repentino e di ultimo che impedisse per sempre di uscirne, l'assicuro che il suo romanzo non proseguirebbe più. Non resterebbe più che un unico protagonista: quella misteriosa maschera d'irrisione e di pochi rimorsi...

— No!

— ... vera maschera di questo carnevale del siluro...

— No! No!

— ... immagine di coloro che vivono ridendo e di coloro che....

— Eh, diamine! Non dica la parola! — esclama la bella creatura con un'improvvisa veemenza nella voce che nasconde appena un tono di supplica. — E come? Per un insignificante lembo di seta bianca che una qualsiasi maschera le ha dato...

— Perdoni, chi glielo ha detto?

— Che cosa?

— Che si trattava di un lembo di seta bianca?

Come un canarino dalle penne arruffate per la gioia del canto, le spiana ad un tratto per improvviso rumore e se ne resta pavidamente muto, così la mia vicina sussulta, s'interrompe e tace, mordicchiandosi confusa le labbra prima di sorridere vinta. Un po' di rossore verginale, soffuso a ondate sulla finissima pelle, dà un'adorabile aureola a questa sua confusione.

— Oh verità! prostrata, risorgi: o — come la clessidra — rovesciata rivivi — mormora la bella creatura, fissando la coppa di champagne semivuota che ha davanti, come seguendo la corsa delle bollicine che popolano il topazio liquido. — Dunque sta bene: e ora che ha trovato il naso, i due occhi e la bocca che cercava, niente romanzi e niente carnevale del siluro, sa? Si diverta più che può e non pensi a tristezze. Del resto quando parte? —

— Alle quattro, oggi; fra tre ore...

Ella spalanca gli occhi e mi guarda per qualche istante stupefatta. — Tra tre ore! — ripete. — No: lei scherza — e la sua voce chiede perdono.

— Tra tre ore — le confermo con la maggiore naturalezza possibile. — E, come vede, manca il tempo per qualsiasi romanzo.

— Chi sa! credo sia l'intensità che conti, non il tempo — ella mormora come assorta, dopo una lunga pausa. — Penso che a fissare il destino d'ognuno basti qualche minuto. E il purissimo azzurro dei suoi occhi per qualche istante s'annebbia, come per il passaggio d'una nube sull'anima.

Ma ad un tratto ogni discorso cade: persiste ancora qualche «s» del vecchietto che è sordo e non s'è accorto che S.E. il Governatore ci legge due telegrammi presentatigli su un vassoio d'argento da un domestico.

«Ore 10. — Piroscafo inglese «Crawford» affondato per siluramento 25 miglia, est capo Bon. — CacciatorpediniereArbalête».

«Ore 10.30. — Piroscafo francese «Juriènne» cannoneggiato da sommergibile tedesco affondato 17 miglia N. W. di capo Gallo. Imbarcazioni con passeggieri fatte segno fuoco nemico — Raccolgo naufraghi. — CacciatorpediniereDasher.

— Che c'è? — domanda il vecchietto, elevando con sforzo la voce nel silenzio generale.

Gli si spiega di che si tratta, mentre ci leviamo tutti da tavola.

— Ah! — commenta, spazzandosi con diligenza un po' di cenere della sigaretta cadutagli sul petto. Lo guardo con interesse perchè il suo gesto pacato m'apparisce troppo pieno della calma e dell'indifferenza dei vecchi. E siccome chi creò questa poltiglia vivente che si chiama l'uomo, tra le tante cose curiose di cui lo dotò, stabilì un'indubbia legge per la quale chi è fissato, è costretto reciprocamente a fissare, due occhietti grigi, penetranti e incisivi si levano su di me dal fondo del loro covo di rughe.

—Yes— mormora semplicemente —I know— Io so.

Non comprendo bene quello che sappia. E Lady «M....» mi spiega.

— Il Duca of «L....» — e m'indica il vecchietto che continua pacatamente a fissarmi con avvizzita benevolenza — è giunto stamane da Alessandria d'Egitto. Il suo piroscafo fu silurato dopo dieci ore di navigazione...


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