ALKAZAR-EL-KIBIR

Novi, arditi, da far testo di lingua.

Novi, arditi, da far testo di lingua.

Scemato un po’ il caldo, la scorta di Had-el-Garbìa, il Console d’America e il Vicegovernatore di Tangeri, venuto là per dare l’ultima volta il buon viaggio all’Ambasciatore, si congedarono; e noi ci rimettemmo in cammino, seguiti dai trecento cavalieri della provincia di Laracce.

Vaste pianure ondulate, coperte qui di grano, là d’orzo, più oltre di stoppia gialla, altrove d’erba e di fiori; qualche tenda nerastra e qualche tomba di santo; di tratto in tratto una palma; di miglio in miglio tre o quattro cavalieri che si riunivano alla scorta; una solitudine immensa, un sereno purissimo, un sole abbagliante: sono gli appunti che trovo nel mio quaderno intorno alla seconda marcia del cinque maggio.

Dopo tre ore di cammino arrivammo a Tleta de Reissana dov’era l’accampamento.

Le tende erano piantate, come al solito, in circolo, in una conca angusta e profonda, coperta d’erbe e di fiori altissimi che quasi c’impedivanoil passo. Pareva di essere dentro a una grande aiuola di giardino. I letti e i bauli sotto le tende, erano quasi nascosti in mezzo alle margheritine, ai rosolacci, alle primavere, ai ranuncoli, a ombrellifere d’ogni grandezza e d’ogni colore. Accanto alla tenda dei pittori s’alzavano due aloé enormi con tutti i rami fioriti.

Poco dopo il nostro arrivo, giunse da Laracce, per visitare l’Ambasciatore, l’agente consolare d’Italia, il signor Guagnino, vecchio negoziante genovese, che vive da quarant’anni sulla costa dell’Atlantico, conservando gelosamente puro l’accento della lingua di Balilla; e verso sera venne, non so di dove, un arabo della campagna per consultare il medico dell’ambasciata.

Era un povero vecchio curvo e zoppicante; un soldato della Legazione lo condusse dinanzi alla tenda del signor Miguerez.

Il signor Miguerez, che parla l’arabo, lo interrogò, e conosciuto il suo male, si mise a frugare nella farmacia portatile per cercare non so che medicinale. Non trovandolo, mandò a chiamare Mohamed Ducali, gli fece scrivere in arabo, sopra un foglietto di carta, una ricetta colla quale il malato avrebbe potuto, tornando in mezzo ai suoi, farsi fare quello che gli occorreva. Era un medicinale di cui gli arabi fanno grande uso.

Mentre il Ducali scriveva, il vecchio mormorava una preghiera.

Scritta che fu la ricetta, il medico la porse al malato.

Questo, senza dargli tempo di dire una parola, afferrò il foglio e se lo ficcò in bocca con tutt’e due le mani. Il medico gridò:—No! no! Sputa! Sputa!—Fu inutile. Il povero vecchio masticò la carta coll’avidità d’un affamato, la mandò giù, ringraziò il dottore e si mosse per andarsene. Ci volle del buono e del bello a persuaderlo che la virtù della medicina non consisteva nella carta, e a fargli prendere un’altra ricetta.

Questo fatto non può destare meraviglia in chi sappia che cos’è la medicina nel Marocco. La medicina v’è esercitata quasi unicamente dai ciarlatani, dai negromanti e dai santi. Qualche sugo d’erba, il salasso, la salsapariglia per il morbo celtico, la carne secca di serpente o di camaleonte per le febbri intermittenti, il ferro rovente per le ferite, certi versetti del Corano scritti in fondo ai recipienti dei medicinali o sopra un pezzetto di carta che il malato porta appeso al collo, sono i rimedi principali. Lo studio dell’anatomia essendo vietato dalla religione, è facile immaginare a che cosa si riduca la chirurgia. Basterà dire che i chirurghi strappano le tonsille colle ditae tentano l’estrazione della pietra con un rasoio o col primo gancio di ferro che si trovano ad aver fra le mani. L’amputazione è aborrita. I pochi arabi assistiti da medici europei muoiono fra atrocissimi spasimi piuttosto di subire il taglio che salverebbe loro la vita. Ne segue che sebbene siano frequentissimi i casi di perdita d’un membro, specialmente per lo scoppio dei fucili, non si vedono nel Marocco che pochissimi mutilati; e i più di quei pochissimi sono disgraziati ai quali il carnefice tagliò le mani con un coltellaccio, e il catrame bollente, in cui, secondo l’uso, tuffarono i moncherini, arrestò l’emorragia. I loro rimedi violenti, però, e specialmente il ferro rovente, ottengono qualche volta degli effetti ammirabili; e si applicano questi rimedi brutalmente, temerariamente, senz’aiuti. Ma o per poca sensibilità nervosa o per la vigoria dell’animo indurito dalla fede fatalista, resistono con una forza prodigiosa ai più tremendi dolori. Si metton le ventose con vasi di terra e tanto fuoco da arrostirsi la schiena; si piantano il pugnale negli apostemi, alla cieca, a rischio di rompersi le arterie; si fanno scorrere una brace accesa sopra un braccio piagato, con mano ferma, cacciando col soffio il fumo delle carni, senza lasciarsi sfuggire un lamento. Le malattie più frequenti son le febbri,le oftalmie, la tigna, l’elefantiasi, l’idropisia: ma la più comune è la sifilide, trasmessa di generazione in generazione, alterata, che si produce in forme strane ed orrende, di cui tribù intere sono infette e migliaia di sventurati muoiono; e ne morirebbero assai più se non fosse la sobrietà estrema di nutrimento a cui la maggior parte son costretti dalla miseria e dal clima. Medici europei non ce ne sono che nelle città della costa; nella stessa Fez non v’è altro che qualche ciarlatano rinnegato, fuggito d’Algeria o dai presidii spagnoli. Quando l’Imperatore o un ministro o un ricco Moro s’ammala, mandaa chiamareun medico europeo in una città della costa. Ma non mandano che quando son ridotti agli estremi, trascurano per anni ed anni le malattie, e il più delle volte il medico non arriva che per assistere alla morte. Nei medici europei hanno gran fede; la vista dei medicinali, delle preparazioni chimiche, degli strumenti chirurgici dà loro un concetto immenso del potere della scienza; se ne ripromettono prodigi; pigliano le prime medicine e seguono le prime prescrizioni colla docilità e l’allegrezza di gente sicura d’una guarigione immediata. Ma se la guarigione non è immediata, perdono ogni fede, interrompono la cura e ricorrono ai ciarlatani. Una cosa, sopra tutte, domandano vecchi e giovani, ricchi e poveri, ai medicieuropei, ed è ciò che l’imperatore Eliogabalo domandava ai suoi cuochi. E’ quando lo domandano? Quando quotidianamente non possono più varcare le soglie del paradiso di Maometto più di tante volte quanti sono i precetti fondamentali dell’Islam! A questo punto si tengon già decaduti! Onde ognuno può capire quanto sia generalmente precoce la decadenza vera, e a che abbominevoli pervertimenti siano trascinati i più dal furore delle passioni.

La sera passò senz’avvenimenti notevoli, fuorchè la scoperta ch’io feci d’uno scorpionaccio nero sopra il cuscino del mio letto, nel momento che stavo per coricarmi. Fu però un terrore passeggiero, poichè avvicinandomi a poco a poco col lume, lessi sul dorso dell’animale l’iscrizione rassicurante:—Cesare Biseo fece addì 5 maggio 1875.

La mattina all’alba partimmo alla volta della città d’Alkazar.

Il tempo era scuro. I colori pomposi dei trecento soldati della scorta pigliavano un vigore meraviglioso dal grigio del cielo e dal verde cupo della campagna. Lo stesso Hamed Ben Kasen Buhamei, fermo sopra un rialto di terreno vicino all’accampamento, pareva che guardassecon compiacenza quei bei cavalieri che gli passavano dinanzi a grossi drappelli, silenziosi, gravi, cogli occhi fissi all’orizzonte, come avanguardie d’un esercito la mattina d’una giornata di battaglia. Per un buon tratto, camminammo in mezzo ad olivi ecespuglialtissimi; poi entrammo in una vasta pianura tutta coperta di fiori gialli e violetti, dove la scorta si sparpagliò per fare illab el barode. Lo spettacolo in quel luogo aperto, sopra quel tappeto di fiori, sotto quel cielo minaccioso era così stranamente bello, che l’Ambasciatore si fermò più volte, e fece fermare tutto il suo seguito, per contemplarlo. Non posso credere che quella gente abbia un’arte segreta di raggrupparsi e di disordinarsi; ma quella mattina me ne venne il sospetto. Avrei detto che tutti i loro movimenti e tutte le loro combinazioni di colori, erano stati concertati da un coreografo. In mezzo a quel tal gruppo di cavalieri dalle cappe turchine, s’andava sempre a ficcare, come se ce l’avessero mandato, un cavaliere colla cappa bianca. In mezzo a un gruppo di caffettani bianchi, cascava sempre a proposito, come la pennellata d’un artista, un caffettano color di rosa. I colori armonici si cercavano, s’univano, amoreggiavano insieme per la durata d’una carica, e si separavano per formare altre armonie. Eran trecento e parevano un esercito; si vedevanoda tutte le parti; ci svolazzavano intorno come uno sciame di uccelli; ci assordavano, ci abbagliavano, c’innamoravano, facevano disperare i pittori.—Canaglia!—diceva l’Ussi—se v’avessi nelle unghie a Firenze!

A un certo punto l’Ambasciatore fece un cenno al Caid, la scorta si fermò, e noi, accompagnati da alcuni soldati, andammo poco lontano di là a visitare le rovine d’un ponte. Arrivati sulla sponda, ci fermammo: del ponte non rimanevano che pochi ruderi sulla sponda opposta. Si stette qualche minuto guardando alternatamente quei ruderi e la campagna, ciascuno assorto nei suoi pensieri. E il luogo era degno veramente di quella testimonianza muta di rispetto. Duecentonovantasette anni prima, il giorno quattro d’agosto, sopra quei campi fioriti tuonavano cinquanta cannoni e turbinavano quarantamila cavalli sotto il comando d’uno dei più grandi capitani dell’Africa, e d’uno dei più giovani, più avventurosi e più sventurati monarchi d’Europa. Per le sponde di quelfiume fuggivano alla rinfusa, rotolavano nel sangue, domandavano grazia, si precipitavano nelle acque per sfuggire alle scimitarre implacabili degli arabi, dei berberi e dei turchi, il fiore della nobiltà portoghese, cortigiani, vescovi, soldati spagnuoli e soldati di Guglielmo d’Orange, avventurieri italiani, tedeschi e francesi; e la cavalleria musulmana calpestava sei mila cadaveri di cristiani. Eravamo sul terreno di quella memorabile battaglia d’Alkazar, che costernò l’Europa e fece risonare un grido di gioia da Fez a Costantinopoli. Quel fiume era il Mkhacem. Su quel ponte passava, al tempo della battaglia, la strada d’Alkazar. In vicinanza del ponte era l’accampamento di Mulei Moluk, sultano del Marocco. Mulei Moluk veniva da Alkazar, il re di Portogallo veniva da Arzilla. La battaglia fu combattuta sulle rive di quel fiume, nella pianura che ci si stendeva dintorno. Quante immagini ci si affollavano! Ma fuorchè le rovine del ponte, non v’era una pietra, un segno che ricordasse qualcosa. Da che parte aveva fatto le sue prime cariche vittoriose la cavalleria del duca di Riveiro? Dove aveva combattuto Mulei-Amed, il fratello del Sultano, il futuro conquistatore del Sudan, capitano sospetto di codardia la mattina, re vittorioso la sera? In qual punto del fiume s’era annegato Mohamed il nero, fratricida scoronato,provocatore della guerra? In qual angolo del campo il re Sebastiano aveva ricevuto il colpo di fucile e i due fendenti di scimitarra, che uccidevano con lui l’indipendenza del Portogallo e le ultime speranze del Camoens? E dov’era la lettiga del Sultano Moluk, quand’egli spirò in mezzo ai suoi ufficiali mettendosi il dito sulla bocca? Mentre stavamo, su questi pensieri, la scorta ci guardava di lontano, immobile in mezzo a quella pianura famosa, come un manipolo di cavalieri di Mulei-Hamed risuscitati da terra al rumore del nostro passaggio. Eppure non uno forse di quei soldati sapeva che quello era il campo della battaglia dei tre Re, gloria dei loro padri; e quando ci mettemmo in cammino con loro, guardavano ancora qua e là con occhio curioso, come per cercare se in quell’erbe e in quei fiori ci fosse qualcosa di strano che spiegasse la nostra fermata.

Si passò il Mkhacem e l’Uarrur,—due piccoli affluenti del Kus, o Lukkos, ilLixosdegli antichi, che dalle montagne del Rif, dove nasce, si va a gettare nell’Atlantico a Laracce;—e si continuò a camminare verso Alkazar a traverso a una serie di colline aride, non incontrando che di mezz’ora in mezz’ora qualche arabo e qualche cammello.

Finalmente, pensavamo strada facendo, s’arriveràa una città! Eran tre giorni che non vedevamo una casa e sentivamo tutti il desiderio di uscire per un giorno dalla monotonia della solitudine. Oltre a ciò Alkazar era la prima città dell’interno a cui giungevamo. Sapevamo d’essere aspettati. La curiosità era viva. La scorta si ordinava, via via che ci avvicinavamo. Noi stessi, quasi senza accorgercene, ci trovammo schierati in due linee come un drappello di cavalleria, l’Ambasciatore dinanzi, gl’interpreti ai lati.

Il tempo s’era rasserenato, e un’impaziente allegrezza animava tutta la carovana.

Dopo quattr’ore di cammino, all’improvviso, dall’alto d’una collina, vedemmo giù nella pianura in mezzo a una cintura di giardini, la città d’Alkazar coronata di torri, di minareti e di palme, e nello stesso punto ci ferì l’orecchio uno strepito di fucilate e il suono d’una musica infernale.

Era il governatore della città che ci veniva incontro coi suoi ufficiali, un drappello di soldati a piedi, e una banda.

Dopo pochi minuti c’incontrammo.

Ah! chi non ha visto la banda d’Alkazar, quei dieci sonatori di piffero e di corno, vecchi di cent’anni e ragazzi di dieci, tutti a cavallo ad asinelli grossi come cani, cenciosi, mezzi nudi, con quelle teste rase, con quegliatteggiamenti di satiri, con quelle faccie di mummie, non ha visto, credo, lo spettacolo più lagrimevolmente comico che si possa dare sotto la volta del cielo.

Mentre il vecchio Governatore dava il benvenuto, al ministro, i soldati tiravano fucilate in aria, e la banda continuava a sonare.

Ci avanzammo fino a un mezzo miglio dalla città, in un campo arido, dove si dovevano piantare le tende.

La banda ci accompagnò suonando.

Fu rizzata la tenda della mensa, sotto la quale ci riparammo, mentre i cavalieri della scorta facevano le solite cariche.

La banda, schierata davanti alla tenda, continuava a sonare con ferocia crescente.

Un gesto supplichevole dell’Ambasciatore li fece tacere.

Allora assistemmo a una scena assai curiosa.

Quasi nello stesso punto si presentarono concitatamente all’Ambasciatore, uno a destra e l’altro a sinistra, un nero ed un arabo. Il nero vestito signorilmente, col turbante bianco e col caffettano celeste, gli depose ai piedi un vaso di latte, una cesta di aranci e un piatto di cuscussù; l’arabo, d’aspetto povero, vestito della sola cappa, gli mise dinanzi un montone. Compiuto quest’atto, si scambiarono uno sguardo fulmineo.

Erano due nemici mortali.

L’Ambasciatore, che li conosceva e li aspettava, chiamò l’interprete, sedette e cominciò l’interrogatorio.

Erano venuti a chiedere un giudizio.

Il nero era una specie di fattore del vecchio gran sceriffo Bacali, uno dei più potenti personaggi della corte di Fez, proprietario di molte terre nei dintorni d’Alkazar. L’arabo era un uomo della campagna. La loro lite durava da un pezzo. Il nero, forte della protezione del suo padrone, aveva fatto più volte incarcerare e multare l’arabo accusandolo, e sostenendo l’accusa con molte testimonianze, d’avergli rubato cavalli, bestie bovine, derrate. L’arabo, che si diceva innocente, non trovando nessuno che osasse pigliar le sue difese contro il suo persecutore, un bel giorno aveva abbandonato il suo villaggio, era andato a Tangeri, aveva chiesto quale fosse l’Ambasciatore più generoso e più giusto, e inteso nominare l’Ambasciatore d’Italia, era andato a sgozzare un agnello davanti alla porta della Legazione, chiedendo in questa forma sacra a cui non si può opporre un rifiuto, protezione e giustizia. L’Ambasciatore l’aveva esaudito, s’era intromesso per mezzo dell’agente di Laracce, s’era rivolto alle autorità della città d’Alkazar; ma per la lontananza sua, per gl’intrighi del nero, per lafiacchezza delle Autorità, il povero arabo era rimasto nelle stesse peste di prima; fatto anzi vittima di nuove accuse e di nuove persecuzioni. Ora la presenza dell’Ambasciatoredovevasciogliere il nodo.

Tutti e due furono ammessi a dire le proprie ragioni: gl’interpreti traducevano rapidamente.

Nulla si può immaginare di più drammatico del contrasto che presentavano le figure e il linguaggio di quei due personaggi. L’arabo, un uomo sui trent’anni, infermiccio, d’aspetto triste, parlava con una foga irresistibile, tremando, fremendo, invocando Iddio, battendo i pugni in terra, coprendosi il viso colle mani in atto di disperazione, fulminando il suo nemico con sguardi che nessuna parola può esprimere. Diceva che aveva corrotto i testimoni, che aveva intimidite le autorità, che lo aveva fatto imprigionare per estorcergli dei denari, che come lui aveva fatto cacciare in prigione molti altri per poter violare le loro donne, che aveva giurato la sua morte, ch’era il flagello del paese, un maledetto da Dio, un infame, e così dicendo mostrava sulle braccia e sulle gambe nude le traccie dei ferri della prigione, e l’angoscia gli strozzava la voce. Il nero, una figura di cui ogni tratto confermava una di quelle accuse, ascoltava senza guardare, rispondeva senz’alterarsi,sorrideva impercettibilmente colla punta delle labbra, immobile, impassibile, sinistro come una statua della Perfidia.

La discussione durava da un pezzo, e pareva che non dovesse più finire, quando l’Ambasciatore la troncò con una risoluzione che fu accettata di buon grado dalle due parti. Chiamò Selam, che comparve sull’istante coi suoi grandi occhi neri spalancati, e gli ordinò di saltare a cavallo e andare di galoppo al villaggio dell’arabo, distante un’ora e mezzo da Alkazar, a chiedere informazioni agli abitanti intorno alle persone ed ai fatti. Il nero pensava:—Hanno paura di me: o mi sosterranno o non diran nulla.—L’arabo pensava invece, e con più ragione, che interrogati da un soldato d’un’Ambasciata, avrebbero avuto maggior coraggio di dire la verità.

Selam partì come una freccia; i due contendenti s’allontanarono, e non li rividi più. Seppi poi che gli abitanti del villaggio avevan tutti testimoniato in favore dell’arabo e a carico del nero, il quale, per sollecitazione dell’Ambasciatore, fu condannato a restituire alla sua vittima tutto il denaro che le aveva estorto.

In quel frattempo i servi e i soldati avevano piantato tutte le tende, i soliti infelici avevano portato la solitamunae qualche gruppo d’abitantidella città s’erano avvicinati all’accampamento.

Appena scemato un po’ il caldo, ci dirigemmo tutti insieme verso la città, a piedi, preceduti, fiancheggiati e seguiti da gente armata.

Vediamo di lontano, passando, un edifizio singolare, posto fra l’accampamento e la città, tutto archi e cupolette, fra cui è chiuso un cortile che ha l’aspetto d’un cimitero. Ci dicono che è una di quellezauia, ora decadute, che quando fioriva la civiltà dei Mori, contenevano una biblioteca, una scuola di lettere e di scienze, un ospedale per i poveri, un albergo per i viaggiatori, oltre alla moschea e alla cappella sepolcrale; e appartenevano, e appartengono ancora la maggior parte, agli ordini religiosi.—Ci avviciniamo alla porta della città.—La città è circondata di vecchie mura merlate; vicino alla porta per cui entriamo, s’alzano alcune tombe di santo sormontate da cupole verdi. Entrando, sentiamo uno strepito in alto: guardiamo in su. Son grandi cicogne, ritte sui tetti delle case, che battono il becco rumorosamente, come per avvertire gli abitanti del nostro arrivo. Infiliamo una strada: alcune donne si rifugiano in casa, i bambini fuggono. Le case son piccole, senza intonaco, senza finestre, divise da vicoletti oscuri e immondi.Le strade paiono letti di torrenti. In alcuni angoli ci sono carcami interi di asini e di cani. Camminiamo sul letame in mezzo a pietroni e a buche profonde, saltellando e inciampando. Gli abitanti cominciano ad affollarsi sui nostri passi, guardandoci con grande stupore. I soldati ci fanno largo a pugni e a colpi di calcio di fucile con uno zelo che l’Ambasciatore è costretto a frenare. Una turba di gente ci precede e ci segue. Quando uno di noi si volta indietro bruscamente, tutti si fermano, qualcuno scappa, altri si nascondono. Di tratto in tratto una donna ci chiude la porta in faccia e un bimbo getta un grido di spavento. Le donne paiono fagotti di panni sudici; i più dei bimbi sono tutti nudi; i ragazzi di dieci o dodici anni non hanno che la camicia stretta da una corda intorno alla vita. A poco a poco la gente che ci accompagna piglia un po’ più d’ardimento. Ci guardano con particolare curiosità gli stivali e i calzoni. Alcuni ragazzi si arrischiano a toccarci le falde del vestito. Però l’espressione generale dei volti non è benevola. Una donna, fuggendo, slancia alcune parole all’Ambasciatore. L’interprete traduce:—Dio confonda la tua razza!—Un giovanetto grida:—Dio ci accordi una buona giornata di vittoria sopra costoro!—Arriviamo in una piazzetta, montuosa e rocciosa dove appena sipuò camminare. Passiamo dinanzi a una schiera di orribili vecchie quasi completamente nude, sedute in terra, con qualche fuscello e qualche pane dinanzi, che aspettano compratori. C’innoltriamo per altre strade. Ogni cento passi c’è una gran porta arcata che si chiude la notte. Le case sono per tutto nude, screpolate, lugubri. Entriamo in un bazar coperto da un tetto di canne e di rami d’albero che cascano da ogni parte. Le botteghe paiono nicchie; i bottegai, statue di cera; le merci, robuccia da ragazzi messa in mostra per burla. In ogni angolo si vede gente accovacciata, sonnolenta, attonita, triste; bambini tignosi; vecchie che non han più forma umana. Par di girare per i corridoi d’uno spedale. L’aria è pregna d’odori aromatici. Non si sente una voce. La folla ci accompagna silenziosamente come una turba di spettri. Usciamo dal bazar. Incontriamo dei mori a cavallo, dei cammelli carichi, una megera che mostra il pugno all’Ambasciatore, un vecchio santo incoronato d’alloro, che ci ride in faccia. A un certo punto cominciano a spesseggiarci intorno certi uomini vestiti di nero, capelluti, col capo coperto d’un fazzoletto turchino; i quali ci salutano umilmente e ci guardano sorridendo. Uno di essi, un vecchio cerimonioso, si presenta all’Ambasciatore e lo invita a visitare ilMellà, il quartiere degli ebrei,chiamato dagli arabi con quel nome oltraggioso che significa terra salata o maledetta. L’Ambasciatore accetta. Passiamo sotto una porta a volta, c’innoltriamo per un labirinto di vicoletti più miserabili, più luridi, più fetenti di quei della città araba, in mezzo a case che paion tane, a traverso piazzettine che paion stalle, dalle quali si vedono dei cortili che paion fogne; e da ogni parte di questo immondezzaio s’affacciano donne e ragazze bellissime, che ci sorridono e mormorano:—Buenos dias! Buenos dias!In alcuni punti siamo costretti a turarci il naso e a camminare in punta di piedi. L’ambasciatore è indignato.—Come mai,—dice al vecchio ebreo,—potete vivere in questo sudiciume?—È l’usanza del paese,—quegli risponde.—L’usanza del paese!Vergogna!E voi chiedete la protezione delle Legazioni, parlate di civiltà, chiamate i mori selvaggi! Voi che vivete peggio di loro, e avete la sfrontatezza di compiacervene!—L’ebreo abbassa il capo sorridendo come per dire:—Che strane idee!—Usciamo dal Mellà, la folla torna a circondarci. Il viceconsole fa una carezza a un bambino: molti fanno segno di meraviglia; si alza un mormorio favorevole; i soldati sono costretti a disperdere la ragazzaglia che accorre da ogni parte. Prendiamo a passo affrettato una strada deserta, la gente apoco a poco rimane indietro, arriviamo fuori delle mura in una strada fiancheggiata da fichi d’India enormi e da palme altissime, tiriamo un gran respiro, siam soli!

Tale è la città d’Alkazar, chiamata generalmente Alkazar-el-Kebir, che significa «il grande palazzo.» La tradizione dice che fu fondata nel secolo duodecimo da quell’Abù-Yussuf Yacub-el-Mansur, della dinastia degli Almoadi, che vinse la battaglia d’Alarcos contro Alonzo IX di Castiglia, e fece innalzare la famosa torre dellaGiraldain Siviglia. Si racconta che una sera, cacciando, si smarrì; che un pescatore l’ospitò nella sua capanna, e che il califfo, riconoscente, gli fece costrurre nel luogo stesso un gran palazzo e parecchie case; intorno alle quali sorse a poco a poco la città. Fu un tempo una città popolosa e fiorente; ora è abitata da cinque mila al più tra mori ed ebrei, e poverissima, benchè ritragga qualche vantaggio dall’esser posta sulla strada delle carovane che vanno dal nord al sud dell’Impero.

Ripassando vicino alla porta per cui eravamo entrati, vedemmo un ragazzo arabo di circa dodici anni che camminava stentatamente colle gambe aperte e rigide, dondolandosi in una maniera bizzarra. Altri ragazzi lo seguivano. Cifermammo; venne verso di noi. Quando ci fu dinanzi, vedemmo che aveva una grossa spranga di ferro, lunga un par di palmi, fissata alle gambe con due anelli posti sopra la noce del piede.

Era un ragazzo macilento, sudicio e di fisonomia sgradevole. L’ambasciatore lo interrogò per mezzo dell’interprete.

—Chi ti ha messo quel ferro?

—Mio padre,—rispose arditamente il ragazzo.

—Per che motivo?

—Perchè non imparo a leggere.

Stentavamo a credere; ma un arabo della città, là presente, confermò la risposta.

—E l’hai da quanto tempo?

—Da tre anni, rispose sorridendo amaramente.

Pensammo tutti che fosse una bugia. Ma l’arabo confermò la cosa aggiungendo che il ragazzo dormiva pure col ferro e che tutti in Alkazar lo conoscevano.

Allora l’Ambasciatore, mosso a compassione, gli fece un discorsetto, esortandolo a studiare, a togliersi quella vergogna, a non disonorare in quel modo la sua famiglia; e quando l’interprete ebbe finito di tradurre, gli fece domandare se aveva qualcosa da rispondere.

—Ho da rispondere,—rispose il ragazzo,—che porterò il ferro per tutta la vita, ma che non imparerò a leggere mai, e che son risoluto a farmi uccidere, piuttosto che a imparare.

L’Ambasciatore lo guardò fisso; egli sostenne lo sguardo imperterrito.

—Signori,—disse allora l’Ambasciatore rivolgendosi a noi,—la nostra missione è finita.

Noi tornammo all’accampamento e il ragazzo rientrò in città col suo strumento di tortura.

—Fra qualche anno,—disse un soldato della scorta,—sopra una porta d’Alkazar si vedrà spenzolare quella testa.

La mattina seguente, al levar del sole, guadammo il fiume Kus, sulla destra del quale è posta la città d’Alkazar, e ci avanzammo di nuovo per una campagna fiorita, ondulata, solitaria, di cui non si vedevano i confini. La scorta s’era sparpagliata sopra un vasto spazio, in un gran numero di drappelli, che parevano altrettanti piccoli cortei di sultani. I pittori galoppavano di qua e di là coll’album e la matita in mano, a schizzar cavalli e cavalieri. Gli altri dell’ambasciata parlavano dell’invasione dei Goti, di commercio, di scorpioni, di filosofia, ascoltati avidamente dal gruppo dei servi a cavallo che ci venivano dietro. Civo prestava una particolare attenzione ai discorsi di filosofia. Hamed, invece, era tutto attento al signor Pacxot, suo padrone, che raccontava unacaccia al cinghiale nella quale egli aveva rischiato la vita. Questo Hamed era, dopo Selam, il personaggio più notevole di tutta lacategoriadei soldati, servi e palafrenieri. Era un arabo sui trent’anni, altissimo di statura, bruno, muscoloso, forte come un toro; ed aveva per contro un viso sbarbato, due occhi dolcissimi, un sorriso, una vocina, una grazia in tutti i movimenti, che facevano col suo corpo possente un contrasto singolarissimo. Portava un gran turbante bianco, una giacchettina azzurra e i calzoni alla zuava; parlava spagnuolo, sapeva far di tutto, piaceva a tutti, a segno che Selam, persino il glorioso Selam, n’era un tantino geloso. Gli altri pure, chi più chi meno, eran giovani belli, svegli e pieni di ossequiosa sollecitudine; tanto che quando un di noi, strada facendo, si voltava indietro, incontrava sempre tutti i loro occhioni che gli domandavano se gli occorresse qualcosa.—Peccato,—dicevo tra me,—che non ci assalti una banda di ladri, per poter vedere tutti questi lestofanti alla prova!

Dopo due ore di cammino cominciammo a incontrar qualcheduno. Il primo fu un nero a cavallo, il quale teneva in mano quel piccolo bastone segnato d’iscrizioni arabe, chiamato nella lingua del paeseherrez, che i religiosi danno ai viaggiatori per preservarli dai ladri edalle malattie. Poi alcune vecchie cenciose, che portavano sulle spalle grossi fastelli di legna. Oh potenza del fanatismo! Curve com’erano, stanche, sfiatate, ebbero ancora la forza, passandoci accanto, di scagliarci una maledizione. Una mormorò:—Dio maledica quest’infedeli!—L’altra disse:—Dio ci salvi dagli spiriti maligni!—Dopo un’altr’ora di solitudine incontrammo un corriere a piedi; un povero arabo macilento, che portava le lettere in una borsa-di cuoio, appesa a tracolla. Giunto davanti a noi si fermò per dire che veniva da Fez e che andava a Tangeri. L’Ambasciatore gli diede una lettera per Tangeri ed egli riprese il suo cammino a passo frettoloso.

Questo, e non altro, è il servizio postale del Marocco, e nessuna vita è più miserabile di quella che menano quei corrieri. Non mangiano, strada facendo, che un po’ di pane e qualche fico; non si fermano che poche ore della notte per dormire, con una corda legata al piede, alla quale appiccan fuoco prima di addormentarsi, per essere svegliati presto; camminano giorni interi senza trovare nè un albero, nè una goccia d’acqua; attraversano boschi infestati dai cignali, superano monti inaccessibili ai muli, passano i fiumi a nuoto, vanno di passo, di corsa, ruzzoloni giù per le chine,a quattro gambe su per le rupi, sotto il sole d’agosto, sotto le piogge interminabili dell’autunno, contro il vento infocato del deserto, in quattro giorni da Tangeri a Fez, in una settimana da Tangeri a Marocco, da una estremità all’altra dell’Impero, soli, scalzi, seminudi, e quando sono arrivati... ripartono! E fanno questo viaggio per poche lire!

A mezza strada, circa, tra la città d’Alkazar e il luogo dov’eravamo diretti, il terreno cominciava a sollevarsi, e a poco a poco, quasi senza accorgercene, giungemmo sopra un’altura, di là dalla quale si stendeva un’altra pianura immensa coperta per vastissimi spazi di fiori gialli, rossi e bianchi che presentavano l’apparenza di grandi strati di neve rigati di porpora e d’oro.

Per quella pianura ci venivano incontro di galoppo duecento cavalieri coi fucili ritti sulle selle, preceduti da una figura tutta bianca, che Mohammed Ducali riconobbe ed annunziò ad alta voce:—Il governatore Ben-Auda!

Eravamo arrivati al confine della provincia dei Seffiàn, chiamata pure Ben Auda, dal nome di famiglia del suo governatore, che significafiglio della cavalla; il nome che m’aveva fatto tanto fantasticare prima di partire da Tangeri.

Discendemmo nella pianura; i duecento cavalieridei Seffiàn si schierarono sopra una sola linea, accanto ai trecento di Laracce, e il governatore Ben-Auda si presentò all’Ambasciatore.

Se vivessi cent’anni, non dimenticherei quella faccia. Era un vecchio secco, coll’occhio truce, col naso forcuto, con una bocca senza labbra, tagliata in forma d’un semicircolo rivolto in giù. La prepotenza, la superstizione, Venere, ilkif, l’ozio e la sazietà d’ogni cosa, gli erano scritti sul viso. Un grosso turbante gli copriva la fronte e le orecchie. Un pugnale ricurvo gli pendeva al fianco.

L’Ambasciatore congedò il comandante della scorta di Laracce, che s’allontanò subito di galoppo coi suoi cavalieri; e ci rimettemmo in cammino colla scorta nuova, che cominciò immediatamente le cariche e i fuochi.

Erano faccie più nere, vestiti più variopinti, cavalli più belli, grida più strane, cariche più selvaggiamente impetuose di quelle che avevamo visto fino allora. Più andavamo innanzi, e più ogni cosa pigliava colore e contorno schiettamente marocchino.

Fra quella moltitudine ci diedero nell’occhio alla prima dodici cavalieri vestiti con eleganza principesca e montati su cavalli bellissimi, che gli stessi arabi della scorta guardavano con ammirazione. Cinque di questi eran giovanotti di formecolossali che parevan fratelli; tutti e cinque di viso pallido e di grandi occhi neri scintillanti all’ombra di turbanti enormi; che ci passavano e ci ripassavano accanto, a briglia sciolta, col capo rovesciato indietro in un atteggiamento superbo. Come ci sarebbero state bene, su quelle selle color di porpora, fra quelle dieci braccia convulse, cinque odalische rapite al serraglio d’un Sultano! Belli! noi gridavamo; stupendi! splendidi! Ed essi rispondevano al nostro applauso con una spronata ed un urlo, e sparivano in mezzo al fumo, roteando in alto i lunghi fucili damascati d’oro colla gioia febbrile del trionfo.

Quei cinque eran figli, gli altri nipoti del governatore Ben-Auda.

Le cariche e le fucilate durarono per più d’un’ora, fin che giungemmo a un giardino del Governatore, dove si discese per riposare.

Era un boschetto di limoni e di aranci, piantati a file parallele, e fitti in maniera che formavano una volta intricatissima di verzura, sotto la quale si godeva un’ombra, un fresco e un profumo di paradiso.

In pochi momenti quell’oasi deliziosa fu ingombra e circondata di cavalli, di mule, di fuochi per le cucine, di servi affaccendati, di soldati dormenti.

Il governatore scese con noi e ci presentò i suoi figliuoli.

Ah! giuro che in quel momento, se avessi visto le cinque odalische slanciarsi al loro collo, non avrei nemmeno osato d’invidiarli, tanto eran belli, maestosi ed amabili. L’uno dopo l’altro ci strinsero la mano facendo un leggero inchino, e abbassando gli occhi sorridenti con una timidezza infantile.

Subito dopo cercarono il medico.

Il signor Miguerez si presentò domandando che cos’avevano.

In presenza di tutti noi, senza profferir parola, si scopersero tutti e cinque, quasi nello stesso tempo, il braccio sinistro....

Oh povere le mie odalische!

Avevan tutti e cinque il braccio, dalla spalla alla mano, coperto d’un’orribile erpete sifilitica.

—Ereditaria,—disse un di loro.

E il padre, là presente, soggiunse freddamente:—Ereditaria.

—Ed hanno qui vicine le acque sulfuree,—esclamò il medico;—potrebbero facilmente curarsi! Ma no signori! Bisogna che perdano il tempo e la salute coi versetti del Corano e cogli amuleti dei ciarlatani!

Diede loro un medicinale, si ricopersero il braccio e s’allontanarono pensierosi.

Poco dopo ci sedemmo in mezzo al giardinosopra un bellissimo tappeto di Rabat, su cui ci fu servita la colezione. Il governatore Ben-Auda sedette sopra una stuoia a venti passi da noi, e si fece egli pure portar la colezione dai suoi schiavi. Allora seguì uno scambio curiosissimo di cortesie fra lui e l’Ambasciatore. Il Ben-Auda mandò per il primo ad offrire un vaso di latte; l’Ambasciatore gli fece portare in ricambio una bistecca. Al latte tenne dietro il burro, alla bistecca una frittata, al burro un piatto dolce, alla frittata un scatola di sardine; tutto questo accompagnato da mille gesti freddamente cerimoniosi, e posar delle mani sul petto, e sguardi rivolti al cielo con un’espressione comicissima di voluttà gastronomica—Il dolce, tra parentesi, era una specie di torta fatta di miele, d’ova, di burro e di zucchero, della quale gli arabi sono ghiottissimi, e a cui si riferisce una strana superstizione: che se mentre la donna sta cuocendola, entra per caso un uomo nella stanza, la torta va a male, ed anco potendo, non è più prudente il mangiarne.—E il vino?—domandò uno.—Non gli si manda a offrire del vino?—Qui nacque una discussione. Si assicurava che il governatore Ben-Auda fosse, in segreto, devotissimo alla bottiglia; ma come avrebbe potuto ber vino in presenza dei suoi soldati? Fu deciso di non mandargliene. Mi parve peròche volgesse alle bottiglie degli sguardi molto soavi; assai più soavi di quelli che rivolgeva a noi. Per tutto il tempo che stette là sulla stuoia, fuorchè nell’atto che ringraziava dei doni, serbò una serietà, un cipiglio, un’espressione di dispetto e d’orgoglio, che mi fece più volte desiderare d’aver là ai miei ordini, per farglieli sfilare sotto il naso, i nostri quaranta battaglioni di bersaglieri.

Mohammed Ducali miraccontòin quel frattempo un episodio molto notevole della storia dei Ben-Auda, nelle mani dei quali è da tempo antico il governo della terra dei Seffiàn. Gli abitanti di questa terra hanno fama di turbolenti e di valorosi; e si dice che han dato prove splendide di valore nella recente guerra contro la Spagna, nella quale morì, alla Battaglia di Vad-Ras, il 23 marzo del 1861, Sidi Absalam ben-Abd-el-Krim ben Auda, allora governatore di tutta la provincia del Garb. A questo Absalam succedette il figlio maggiore Sidi-Abd-el Krim. Era un uomo violento e dissipatore, che spogliava il suo popolo coi balzelli e lo torturava con capricci feroci. Un giorno, fra le altre, intimò a un tal Gileli Ruqui di dargli una grossa somma di denaro. Questo si scusò dicendo ch’era povero. Egli lo fece caricar di catene e cacciare in prigione. Allora lafamiglia e gli amici del prigioniero, vendettero tutti i loro averi e portarono a Sid-Abd-el Krim la somma richiesta. Gileli uscì di prigione, e appena uscito, radunò tutti i suoi, e fece con loro il giuramento solenne di uccidere il Governatore. La casa del Ben-Auda era posta a due ore di strada circa da quel giardino. I congiurati l’assalirono, in gran numero, nel cuore della notte, inaspettati. Uccisero le sentinelle, irruppero nelle sale, straziarono a pugnalate Sidi-Abd-el-Krim, le sue belle, i bimbi, i servi, le schiave, devastarono e incendiarono la casa, e poi si gettarono a traverso il paese innalzando il grido della rivolta. I parenti e i partigiani dei Ben-Auda raccolsero in furia tutta la loro gente e andarono incontro ai ribelli. I ribelli li dispersero e la rivolta si propagò per tutto il Garb. Allora il Sultano mandò un esercito; la ribellione, dopo una lotta accanita, fu domata; le teste dei principali rivoltosi spenzolarono dalle mura di Fez e di Marocco; la terra dei Beni-Malek venne divisa dalla provincia; la casa del Governatore fu ricostrutta; e Sidi-Mohamed Ben-Auda, fratello dell’ucciso, ospite dell’Ambasciata italiana, assunse il governo della terra dei suoi padri. Una passeggera rivincita della disperazione sulla tirannia, seguìta da una tirannia più dura: in questo fatto si riassume la storia d’ogni provincia edi tutto l’Impero. E forse in quel tempo era già predestinato un Ruqui anche per Sidi-Mohamed Ben-Auda.

Prima del tramonto del sole ci trovavamo tutti all’accampamento, ch’era posto poco lontano da quel giardino, in un piano solitario, ai piedi d’una piccola altura sulla quale si alzava unaCubafiancheggiata da una palma.

Appena arrivato l’Ambasciatore, fu portata lamonae deposta come sempre davanti alla sua tenda, in presenza dell’Intendente, del Caid, dei soldati e dei servi. Mentre eran tutti occupati a far la solita ripartizione, vidi, alzando gli occhi verso la cuba, un uomo di alta statura e d’aspetto strano che scendeva a lunghi passi giù per la china verso l’accampamento. Non c’era da dubitarne: era il romito, il santo, che ci veniva a fare una scena. Non dissi nulla: aspettai. Invece di entrare nell’accampamento, girò infuori, per giungere inaspettato dinanzi alla tenda dell’Ambasciatore. S’avvicinò in punta di piedi. Era una figura sepolcrale, coperta di cenci neri, che metteva schifo e paura. Tutt’a un tratto spiccò la corsa, si cacciò in mezzo a noi, e riconosciuto al vestito l’Ambasciatore, gli si scagliò contro urlando come un ossesso. Ma ebbe appena il tempo d’urlare. Con una rapidità fulminea, il Caid lo afferròalla strozza e lo stramazzò furiosamente in mezzo ai soldati, i quali in un batter d’occhio lo portarono fuori del campo soffocando colle cappe la sua voce tonante. Il signor Morteo si affrettò a tradurci le invettive di quel disgraziato:—Sterminiamoli tutti questi maledetti cani di cristiani, che vanno dal Sultano, e fanno tutto quello che vogliono, mentre noi moriamo di fame!

Poco dopo la presentazione dellamonaobbligatoria, arrivarono all’accampamento più di cinquanta servi arabi e neri, disposti in fila, che portavano in grandi scatole rotonde, chiuse da altissimi coperchi conici di paglia, ova, polli cotti, torte, dolci, arrosti, cuscussu, insalate, confetti; tanta roba da saziare una tribù affamata. Era una secondamona, spontaneamente offerta all’Ambasciatore da Sidi-Mohamed-Ben-Auda, forse per farsi perdonare il cipiglio minaccioso della mattina.

I piatti non erano ancora messi in terra, che comparve il governatore coi suoi cinque figli, tutti a cavallo, seguiti da uno stuolo di servi.

L’Ambasciatore li ricevette nella sua tenda e conversò con loro per mezzo dell’interprete.

Che conversazione! Che gente! L’Ambasciatore domandò a uno dei figliuoli se avevamai inteso nominar l’Italia. Rispose che l’avea intesa nominareparecchie volte. Uno di loro domandò quale dei due paesi, l’Inghilterra e l’Italia, fosse più lontano dal Marocco. Domandarono quanti cannoni abbiamo, come si chiama la nostra città capitale e in che modo è vestito il nostro Re. Parlando, osservarono attentamente tutti e sei il nodo delle nostre cravatte e le catenelle dei nostri orologi. L’Ambasciatore rivolse al governatore alcune domande intorno all’estensione e alla popolazione della sua terra. O che non sapesse nulla, o che, secondo l’uso, non volesse dire quel che sapeva per timore di qualche secondo fine misterioso, non ci fu modo di cavargli di bocca una risposta soddisfacente.—La popolazione,—mi ricordo che disse—non si può sapere esattamente quanta sia.—Ma press’a poco, gli fu osservato.—Ma è anche difficile il saperlo presso a poco,—rispose. Poi fecero a noi altre domande. V’è piaciuta la città d’Alkazar? Che ne dite del paese? L’acqua è buona, non è vero? Stareste volentieri nel Marocco? Perchè non avete condotte con voi le vostre donne? Quanti soldati può avere ai suoi ordini il capitano dell’esercito che è con voi? Quanto è grande il bastimento che comanda il capitano di marina? Facendo questi discorsi, bevettero il tè, e dopo molti inchini e strette dimano ed augurii, rimontarono a cavallo, diedero di sprone e disparvero. E dico sempre pensatamente disparvero, invece di se ne andarono, come dico apparire per giungere, perchè non vedendo mai da nessuna parte nè un villaggio nè una casa, tutti coloro che arrivavano e partivano ci facevano l’effetto di gente che uscisse di sotto terra e si dileguasse nell’aria.

Quella, come tutte le altre giornate, fu chiusa da un tramonto splendido e quieto, e da un desinare rumorosamente allegro. Ma la notte fu una delle più agitate del viaggio. Forse perchè la terra dei Seffiàn richiedeva che l’ambasciata fosse guardata con maggiore cautela che altrove, le sentinelle notturne si tennero reciprocamente sveglie cantando di quarto d’ora in quarto d’ora dei versetti del Corano. Una intonava la preghiera, tutte le altre rispondevano in coro, ad alta voce, accompagnate dai nitriti dei cavalli e dal latrato dei cani. Appena addormentati, ci svegliammo e non ci riuscì più di chiuder occhio. Per giunta, poco dopo la mezzanotte, in uno di quegli intervalli di silenzio, tuonò improvvisamente in mezzo alla campagna una voce squarciata e selvaggia che non tacque più fino all’alba. A momenti s’avvicinava, a momenti si sentiva appena, poi tornava a risonarepiù vicina, in tono di minaccia, di lamento, di disperazione, e prorompeva di tratto in tratto in grida acutissime e in risa sgangherate, che mettevan freddo nelle vene. Era il Santo che errava intorno all’accampamento, chiamando sopra di noi la maledizione di Dio. La mattina, quando uscimmo dalla tenda, era ancora ritto come uno spettro davanti alla sua cuba solitaria, colorata di rosa dai primi raggi del sole, e continuava a maledirci con voce roca, agitando le braccia spossate al disopra del capo.

Io cercai il cuoco per dimandargli che cosa pensasse di quel personaggio. Ma lo trovai tanto affaccendato, che non ebbi cuore di scherzare. Stava facendo il caffè e aveva intorno una folla impaziente che gli toglieva il respiro. Gli sguatteri gli parlavano arabo, il Ranni siciliano, il calafato napoletano, Hamed spagnuolo, il signor Vincent francese.—Ma se i ’v capisso nen, facie da forca!—gridava lui disperato.—Ma questa è una Babilonia! Ma lasciatemi respirare! Volete vedermi morto?Oh che pais, mi povr’om! Tutti a parlo e nssun a l’è bon a fesse capì!(Tutti parlano e nessuno è buono a farsi capire).

Appena riebbe un po’ di fiato gli accennai il Santo che continuava a urlare, e gli domandai:

—Ebbene, che cosa ne dite di quelle impertinenze?

Alzò gli occhi verso la cuba, guardò fisso il Santo per qualche momento, e poi facendo un atto di profondo disprezzo rispose con accento piemontese:

—Guardo e passo!

E rientrò maestosamente nella tenda.

Levato l’accampamento, ci mettemmo in cammino nell’ordine solito, e fra le grida e le fucilate dei duecento cavalieri del Ben-Auda, arrivammo dopo due ore a un piccolo corso d’acqua che segna il confine della terra dei Seffiàn.

Nel momento che il portabandiera si voltava per dire:—Ecco il fiume;—di dietro a un rialto di terreno della riva opposta uscì improvvisamente una gran folla di cavalieri, in mezzo ai quali ci colpì a primo aspetto la figura elegante e gentile del Governatore.

Era Bu-Bekr-ben-el-Abbassi, governatore della provincia che si stende fra la terra dei Seffiàn e il grande fiume Sebù.

La scorta del Ben-Auda ci voltò le spalle edisparve; l’ambasciata guadò il fiume e si trovò circondata dalla scorta nuova.

Bu-Bekr-ben-el Abbassi strinse vivamente la mano all’ambasciatore, fece un saluto amichevole al Ducali, suo antico compagno di scuola, e diede il benvenuto a tutti gli altri con un gesto pieno di maestà e di grazia.

Ci rimettemmo in cammino.

Per un pezzo, nessuno di noi potè staccar gli occhi da quell’uomo. Era il più simpatico governatore che avessimo incontrato fino allora. Di statura mezzana, di forme snelle, bruno, aveva un occhio penetrante e dolce, un bel naso aquilino e una folta barba nera; e sorridendo, mostrava due file di denti bellissimi. Era tutto ravvolto in una cappa fine e bianca come la neve, col cappuccio tirato sul turbante; e montava un cavallo nero corvino, con tutta la bardatura color celeste. Doveva essere un uomo generoso, amato e contento. E fu un inganno della mia fantasia, o anche l’aspetto dei duecento cavalieri di Karia-el-Abbassi rifletteva vagamente la gentilezza del Governatore. Mi parvero visi aperti e pacati di gente che da molti anni godesse la grazia miracolosa d’un governo umano. E quest’apparenza, e le capanne che cominciavano a farsi più frequenti per la campagna, e il tempo sereno raffrescato da un’arietta odorosa, mi diedero per qualche momentol’illusione che quella provincia fosse un oasi di prosperità e di pace in mezzo al miserando impero dei Sceriffi.

S’attraversò un villaggio, formato da due file di tende di pelo dicammello, chiuse con canne e fascine: ogni tenda fiancheggiata da un orticello cinto da una siepe di fichi d’India. Di là dalle tende pascolavano vacche e cavalli; davanti, sulla nostra strada, v’era qualche gruppo di bimbi mezzi nudi, accorsi per vederci; le donne e gli uomini coperti di cenci, ci guardavano di dietro alle siepi. Nessuno ci mostrò i pugni, nessuno ci maledì. Appena fummo fuori del villaggio, tutti uscirono dalle loro capanne, e allora vedemmo una turba di qualche centinaio di pezzenti neri, luridi, attoniti, che ci fecero l’effetto della popolazione risuscitata d’un camposanto. Alcuni, correndo, ci tennero dietro per un pezzo; altri disparvero dopo pochi momenti dietro un rialto del terreno.

La configurazione del paese che percorrevamo, dava luogo a una mirabile varietà d’effetti pittoreschi della scorta e della carovana. Era una successione di valli profonde, parallele, formate da grandi onde di terreno, tutte fiorite come giardini. Passando d’una valle in un’altra, si perdeva di vista la scorta per qualchemomento; poi si vedevano spuntare sulla sommità dell’altura, dietro di noi, prima tutte le punte dei fucili, poi i fez e i turbanti, poi i visi, e man mano le persone intere e i cavalli, come se uscissero dal seno della terra. Arrivati sopra un’altura vedevamo, voltandoci indietro, scorazzare quei duecento cavalli giù nella valle piena di fumo e rimbombante di fucilate; e via via su tutte le alture che ci eravam lasciate alle spalle, cavalli, muli, servi, soldati, che apparivano un momento sulle sommità e sparivano subito come se precipitassero in un burrone. Vista a traverso tutte quelle valli, la carovana pareva interminabile e presentava l’aspetto grandioso d’un esercito di spedizione o d’un popolo emigrante.

Arrivammo finalmente a un villaggio, Karia-el-Abbassi, formato dalla casa del Governatore, e da un gruppo di capanne e di casupole ombreggiate da qualche fico e da qualche olivo selvatico.

Il Governatore ci offerse di riposare in casa sua: la carovana tirò innanzi fino al luogo designato per l’accampamento.

S’attraversarono due o tre cortiletti chiusi fra quattro muri nudi, e s’entrò in un giardino, sul quale s’apriva la porta principale della casa di Ben-el-Abbassi: una casetta bianca, senzafinestre, silenziosa come un convento. Il governatore era scomparso. Alcuni schiavi mulatti ci fecero entrare in una piccola stanza a terreno, pure bianca, senz’altra apertura che la porta principale, e una porticina in un angolo. V’erano due alcove, tre materasse bianche stese sul pavimento a musaico e qualche cuscino ricamato. Era la prima volta che riposavamo fra quattro pareti dopo la nostra partenza da Tangeri! Ci sdraiammo voluttuosamente nelle alcove e stemmo aspettando con viva curiosità la continuazione dello spettacolo.

Il Governatore ricomparve, ravvolto in un caic bianchissimo, che gli scendeva dal turbante fino ai piedi. Lasciò le babbuccie gialle in un canto e sedette, coi piedi nudi, sopra una materassa, in mezzo al Ducali e all’Ambasciatore. Gli schiavi portarono vasi di latte e piatti di dolci, ed egli stesso, Ben-el-Abbassi, fece il tè e lo versò in bellissime tazzine di porcellana chinese, che il suo servo favorito, un giovane mulatto dal viso rabescato, portò in giro ad una ad una. Non si può dire la grazia e la dignità che aveva nell’aspetto e nei modi quel governatore, probabilmente ignorantissimo, di poche migliaia d’arabi attendati, che forse in tutta la sua vita non aveva avuto che fare con cinquanta persone civili! Messo nel più aristocratico salotto d’Europa, nessuno avrebbe avuto una sillaba aridire sopra il menomo dei suoi movimenti. Era pulito, lindo, odoroso come un’odalisca uscita dal bagno. Ad ogni movimento che facesse, il caic rimosso lasciava trasparire qui un po’ di color di rosa, là un po’ d’azzurro, qua un po’ di ranciato, tutti i colorini pomposi del vestimento nascosto, che mettevano una gran voglia di strappargli il velo per vedere che meraviglie ci avesse sotto, come fanno i bambini ai fantocci. Parlava con dolcezza, sorridendo e guardandoci senza apparenza di curiosità, come se ci avesse visti il giorno prima. Non era mai uscito dal Marocco, diceva che avrebbe visto volentieri le nostre strade ferrate e i nostri grandi palazzi, e sapeva che in Italia c’eran tre città che si chiamavano Genova, Roma e Venezia. Mentre egli parlava, si aperse la porticina ch’era dietro a lui, e fece capolino una bella ragazzetta mulatta di dieci o dodici anni, che volse intorno rapidamente due grand’occhi spaventati e curiosi, e disparve. Era una figliuola del governatore e d’una nera. Il governatore se n’accorse e sorrise. Seguì un lungo intervallo di silenzio. In mezzo alla stanza fumava l’aloè nei profumieri; davanti alla porta v’era un drappello di schiavi attoniti; dietro agli schiavi s’alzava un gruppo di palme; dietro le palme rideva il sereno purissimo del cielo d’Africa. Tutt’a un tratto, non so come,rimasi profondamente stupito di trovarmi in quel luogo e pensai a me stesso, seduto nella mia cameretta a Torino, come a un’altra persona. Il Governatore, alzandosi, mi richiamò al sentimento della realtà. Strinse la mano a tutti, infilò i piedi nelle babbuccie, s’inchinò con bel garbo e disparve per la porticina.—Va a portar notizie alla sua favorita—disse uno. Se potessi sentire quello che gli domanda!—pensai—Come sono? Cosa sono? Come parlano? Che vestiti hanno? Oh lasciameli vedere, amor mio, un momento solo, a traverso le fessure della porta ed io ti colmerò di carezze!—E probabilmente l’amante cortese cedette, e la bella misteriosa, spiandoci all’uscita, esclamò:—Allà mi protegga! Che spaventose figure!

Andando all’accampamento, ch’era a un mezzo miglio dalla casa del Governatore, sopra un altopiano coperto d’erba secca, ci sentimmo per la prima volta scottar dal sole in maniera che ognuno di noi cominciò, come dice della plebe milanese, ai tempi della peste, il Tadino, «a chiudere li denti et inarcare le ciglia.» E non erano che gli otto di maggio! E non eravamo ancora a cento miglia dalla costa del Mediterraneo! E ci rimaneva da attraversare la grande pianura del Sebù!

Nonostante il caldo, l’accampamento di Karia-el-Abbassi fu rallegrato, verso sera, da un insolito concorso di gente. Da una parte una lunga fila d’arabi, seduti in terra, assistevano alle cariche dei cavalieri della scorta; dalla parte opposta altri arabi giuocavano alla palla; un po’ più lontano, un gruppo di donne imbacuccate nel loro rozzo caic ci osservavano con stupore gesticolando fra loro; e frotte di bambini scorazzavano tutt’intorno. Il popolo di Ben-el-Abbassi pareva veramente meno selvaggio deisuoivicini del Garb.

Il Biseo ed io ci avvicinammo ai giuocatori. Appena ci videro, smisero di giuocare, si consultarono gli uni cogli altri e poi ricominciarono. Erano quindici o venti, la maggior parte pezzi di giovani larghi, lunghi e nerboruti, che non avevano altro addosso che una camicia stretta intorno alla vita, e una specie di mantello di tela grossolana e sudicia, rigirato intorno al corpo come un caic. Giocavano diversamente da quelli che avevo visti a Tangeri. Uno con un colpo del piede buttava la palla a una grande altezza; tutti gli altri facevano ad afferrarla in aria quanto più in su fosse possibile, spiccando in direzione verticale dei salti altissimi, come se si levassero a volo; e chi riusciva ad afferrarla, la buttavain aria alla sua volta. Spesso, in quel serra serra, uno dei più robusti, cadendo, travolgeva nella caduta alcuni altri, i quali si trascinavan dietro i rimanenti, e allora rotolavano per un lungo tratto tutti insieme intrecciati e confusi sgambettando e ridendo, senza darsi pensiero al mondo di ciò che esponevano al sole. Più d’uno, in quel rotolamento, lasciò intravvedere un pugnale ricurvo legato alla cintura; altri una borsicina appesa al collo, che conteneva probabilmente qualche versetto del Corano preservatore dalla tigna. Una volta la palla cadde ai miei piedi. Mi venne un’idea. La raccolsi, la misi sopra una palma aperta, vi feci su coll’altra mano due o tre gesti di negromante e la ributtai. Per qualche momento nessuno dei giuocatori osò riprenderla. Vi si avvicinarono, la guardarono, la toccarono col piede in atto di diffidenza; e solo dopo avermi visto ridere e accennare che era stato uno scherzo, il più ardito la raccolse e la rilanciò ridendo ai suoi compagni.

Intanto quasi tutti i ragazzi che scorazzavano qua e là ci s’erano affollati intorno. Saranno stati una cinquantina, e di tutta la roba che avevano addosso fra tutti non si sarebbe trovato un rigattiere che offrisse cinquanta centesimi. Alcuni erano bellissimi, molti tignosi, la maggior parte color caffè, alcuni così tra il verdastroe il giallognolo, che parevano impastati di sostanze vegetali. Parecchi avevano il codino alla chinese. Da principio ci stavano discosti una decina di passi, guardandoci con sospetto, e scambiandosi, a bassa voce, le proprie osservazioni. Poi, vedendo che non facevamo nessun atto ostile, ci si avvicinarono a poco a poco fin quasi a toccarci e cominciarono ad alzarsi in punta dei piedi, a chinarsi, a piegarsi di qua e di là, per vederci bene da tutte le parti, come avrebbero fatto intorno a due statue. E noi due immobili. Uno ci toccò una scarpa colla punta del dito e ritirò subito la mano come se si fosse scottato; un altro mi fiutò la manica. Eravamo circondati, sentivamo ogni sorta d’odori esotici, ci pareva già che ci brulicasse addosso qualchecosa.—Andiamo,—dissi al Biseo,—è tempo di liberarsi—Io ho un mezzo infallibile,—rispose. Così dicendo tirò fuori bruscamente l’album e la matita e fece l’atto di mettersi a copiare una di quelle faccie. In un batter d’occhio si dispersero tutti come uno sciame d’uccelli.

Poco dopo ci si avvicinarono alcune donne.—Oh miracolo!—si disse noi altri.—Purchè non vengano a darci una pugnalata in nome di Maometto!—E ci tenemmo sull’avviso. Erano invece povere malate, smunte, che avevanoappena la forza di reggersi in piedi e di tener su il braccio per coprirsi il viso col caic; fra le quali una giovane, che gemeva da metter compassione, non lasciando vedere che un occhio azzurro velato dalle lagrime. Capii che cercavano il medico e accennai dove dovevano andare. Una di esse, spiegando la parola col gesto, mi domandò se si pagava. Risposi di no. Allora s’avviarono vacillando verso la tenda del medico. Volli assistere al consulto.—Che cosa vi sentite?—domandò il signor Miguerez, in arabo, alla prima che si presentò.—Un gran dolore qui,—rispose, indicando una spalla.—Che cosa ci avete?—(Non ricordo che cosa abbia risposto).—Bisogna ch’io ci veda,—disse il medico; scopritevi un momento.—La donna non si mosse. Ecco il gran punto! Ho una cosa qui, più sotto, più sopra, di qua, di là; ma nessuna, nemmeno una vecchia nonagenaria, vuol lasciarsi vedere, e tutte pretendono che il medico indovini.—Insomma, volete o non volete scoprirvi? ridomandò il Miguerez.—La donna non si mosse.—Quand’è così, vediamo le altre.—E interrogò le altre, mentre quella si allontanava tutta malinconica. Le altre non avevano bisogno di scoprirsi; il medico distribuì loro delle pillole e delle polveri, e le mandò con Dio. Povere creature! Nessunadi loro toccava forse ancora i trent’anni, e la gioventù era già passata per tutte, e col passare della gioventù, eran cominciate le fatiche smodate, i trattamenti brutali e il disprezzo che rendono orribile la vecchiaia della donna araba: strumento di piacere fino a vent’anni, bestia da soma fino alla morte.

Il pranzo fu rallegrato da una visita di Ben-el-Abbassi, e la notte funestata da una spaventosa invasione d’insetti.

Già nelle ore calde della giornata, avevo pronosticato male dal brulichìo straordinario che si vedeva fra l’erbe. Le formiche formavano delle lunghissime strisce nere, gli scarabei c’erano a mucchi, le cavallette fitte come le mosche; e con questi un gran numero d’altri insetti, non visti mai negli altri accampamenti, che m’ispiravano pochissima fiducia. Il capitano Di Boccard, intendente di Entomologia, me ne faceva la nomenclatura. C’era, tra gli altri, lacicindela campestris, trabocchetto vivente, che chiude colla grossa testa l’apertura della sua tana, e fa sprofondare, abbassandosi, gl’insetti incauti che vi passano sopra; ilPheropsophus africanus, che slancia dall’ano, contro il nemico che l’insegue, un buffo di vapori corrosivi; laMeloe majalische strascina a stento, come un’idropica, l’enorme addome gonfio d’erba e d’ova; ilCarabusrugosus, laPimelia scabrosa, laCetonia opaca, ilCossyphus Hoffmanseggi, foglia animata, di cui Vittor Hugo farebbe una descrizione fantastica da metter freddo nelle ossa. Più un gran numero di lucertoloni, di ragnacci, di centopiedi lunghi un palmo, di grilli cantaioli grossi come un pollice, di cimici verdi larghe come un soldo, che andavano e venivano come se s’apparecchiassero d’accordo comune a una qualche impresa guerresca. Come se questo non bastasse, appena seduto a tavola, nel punto che stendevo la mano per versarmi da bere, avevo visto far capolino dal mio bicchiere una spropositata locusta, la quale, invece di volar via a un mio gesto minaccioso, s’era messa a guardarmi con un’aria d’impertinenza inaudita. E infine, per colmo di spavento, mentre ci alzavamo da tavola, era comparso il servo Hamed, col viso di chi ha corso un grande pericolo, e ci aveva messo sotto gli occhi, infilata in uno stecco, nientemeno che una tarantola, unalycosa tarentula, il ragno terribile, checuando pica á un hombre, quando punge un uomo, diceva lui, Allà ce ne guardi! il disgraziato comincia a ridere, a piangere, a cantare e a ballare, e non c’è che una buona musica, ma buona! la musica della banda del Sultano, che lo possa guarire. Ora immagini il lettore, con che animo io sia andato a dormire. Nondimeno, i miei tre compagnied io eravamo già a letto da parecchi minuti, avevamo già spento il lume e cessato di parlare, e nessuno sentiva nulla. Ma fu una gioia passeggera. Tutt’a un tratto il Comandante balzò a sedere sul letto e gridò:—Io mi sento popolato!—Allora anche noi cominciammo a sentir qualche cosa. Per qualche tempo non furono che contatti furtivi, punture timide, stuzzicamenti, piccole provocazioni di esploratori e di sentinelle avanzate, alle quali si poteva non badare. Ma entrarono in campo ben presto le grosse pattuglie e allora diventò necessaria una vigorosa resistenza offensiva. La lotta fu feroce. Più ci dibattevamo, e più gli assalitori raffittivano. Venivan dal capezzale, salivan dai piedi, scendevano dall’alto della tenda. Pareva che eseguissero degli assalti coordinati ad un vasto concetto strategico di qualche insettaccio d’ingegno. Era evidentemente una guerra di religione. In breve non fummo più capaci di resistere.—La luce!—gridò il viceconsole. Saltammo tutti e quattro in terra, s’accese il lume, si cominciò la strage. La soldataglia l’ammazzavamo senz’altro; i capi, i pezzi grossi, classificati prima dal capitano e giudicati dal comandante, erano messi sul rogo dal vice-console, ed io ne facevo l’elogio funebre in prosa e in versi sciolti che saran pubblicati dopo la mia morte. In poco tempo il terrenofu seminato d’ale, di zampe, di gambe, di teste, i superstiti si dispersero, e noi, stanchi dell’eccidio, dopo esserci nominati reciprocamente cavalieri di varii ordini, rimettemmo la testa sul guanciale. Ma che chiasso! Che matta allegria, benchè non fossimo più nessuno di primo pelo! Che risate che venivano proprio d’in fondo e facevano bene all’anima e al corpo!

La mattina seguente, al levar del sole, il governatore Ben-el-Abbassi si presentò all’ambasciatore per accompagnarlo fino ai confini della sua provincia.

Appena discesi dall’altopiano dell’accampamento, ci si spiegò dinanzi agli occhi l’orizzonte immenso della pianura del Sebù.

Questo fiume, uno dei più grandi del Magreb, scende dal fianco occidentale della catena di montagne che si allunga dall’alto Atlante verso lo stretto di Gibilterra, e con un corso di circa duecento quaranta chilometri, ingrossato da molti affluenti, si va a versare, descrivendo un grande arco, nell’Oceano atlantico, presso Mehedia, dove l’ammontamento delle sabbie, comune alle foci di quasi tutti i fiumi marocchini di quel versante, impedisce l’entrata ai bastimenti e produce grandi innondazioni al tempo delle cresciute. La vallata di questo fiume, che abbraccia, alla sua apertura,tutto lo spazio compreso fra le due città di Laracce e di Salé, e tocca alla sua estremità superiore l’alto bacino della Muluia (il grande fiume che segna il confine orientale del Marocco), apre agli Europei, per il litorale e per Teza, la via della città di Fez; comprende, oltre a Fez, la grande città di Mechinez, terza capitale; raccoglie in sè tutta, si può dire, la vita politica dell’Impero, ed è la sede principale della ricchezza e della forza dei Sceriffi. Il Sebù, particolarità da notarsi, segna, dalla parte del settentrione, il confine che i Sultani non oltrepassano mai fuor che in caso di guerra, poichè rimangono a mezzogiorno del fiume le tre città, Fez, Marocco e Mechinez, nelle quali essi soggiornano alternativamente, e la doppia città di Salé-Rabatt, dove passano per recarsi da Fez a Marocco. E fanno questo giro per non valicare la catena dei monti che chiude a mezzogiorno la vallata del Sebù, il versante della quale è abitato dalla tribù dei Zairi, di razza berbera mista, che hanno fama d’essere, coi Beni-Mitir, i più turbolenti e i più indomiti abitatori di quei monti.

Dopo un’ora di cammino arrivammo al Sebù.

Mi parve di vedere il Tevere nella Campagna romana.

In quel punto era largo un centinaio di metri, color di mota, grosso, rapido, incassato fradue rive altissime, quasi verticali, aride, ai piedi delle quali si stendevano due zone di terreno fangoso.

Due barconi antidiluviani, spinti a remi da una decina d’arabi, s’avvicinavano alla nostra riva.

Basterebbero quei barconi, quando non ci fosse altro, a far capire che cos’è il Marocco. Da centinaia d’anni, sultani, pascià, carovane, ambasciate passano il fiume su due carcasse di quella fatta, coi piedi nell’acqua e nella mota, qualche volta con pericolo d’affondare; e quando le carcasse, come segue spessissimo, sono bucate, carovane e ambasciate e pascià e sultani aspettano che i barcaiuoli abbian turati i buchi col fango, o in altro modo, qualche volta per due o tre ore, al sole o sotto la pioggia; e da centinaia d’anni, cavalli, muli e cammelli, per la mancanza d’un pezzo di tavola lungo due metri, rischiano di rompersi le gambe, e se le rompono, saltando dalla sponda nei barconi; e nessuno ha mai pensato a costrurre un ponte di barche, e nessuno ha mai portato sulle sponde un pezzo di tavola lungo due metri, e chi rimprovera a quella gente la mancanza dell’una e dell’altra cosa, è guardato con un’aria di profondo stupore, come se li rimproverasse di non aver fatto un prodigio. In molti luoghi si attraversano i fiumi soprabarche di canne, e gli eserciti li passano per lo più sopra ponti galleggianti, formati con otri rigonfi d’aria e coperti di rami e di terra.

Si smontò tutti da cavallo, e si discese per un sentiero ripido fino alle barche.

La prima barca facendo due o tre larghi giri per scansare le correnti e i ringorghi, portò all’altra sponda tutti gli italiani.


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