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Più studio questi mori e più tendo a credere che non siano molto lontani dal vero, come mi parvero da principio, i giudizii dei viaggiatori, i quali sono concordi nel chiamarli una razza di vipere e di volpi, falsi, pusillanimi, umili coi forti, insolenti coi deboli, rosi dall’avarizia, divorati dall’egoismo, accesi delle più abbiette passioni che possano capire nel cuore umano. Come potrebbe essere altrimenti? La natura del governo e lo stato della società non permettono loro alcuna virile ambizione; trafficano e brigano, ma non conoscono il lavoro che affatica e rasserena; sono digiuni affatto d’ogni piacere che derivi dell’esercizio dell’intelligenza; non si curano dell’educazione dei propri figliuoli; non hanno nessun nobile scopo alla vita; si danno dunque con tutta l’anima e per tutte le vie ad ammassar danaro e dividono il tempo che loro riman libero da questa cura fra un ozio sonnolento che li sfibra e una venere cieca, smodata e grossolana, che gli abbrutisce. In questa vita effeminata diventano naturalmente pettegoli, vanitosi, piccoli, maligni; si lacerano la reputazione, gli uni cogli altri, con una rabbiaspietata; mentono per abitudine, con un’impudenza incredibile; affettano animo caritatevole e religioso, e sacrificano l’amico per uno scudo; disprezzano il sapere e accolgono le più puerili superstizioni del volgo; fanno il bagno tutti i giorni e tengono il sudiciume a mucchi nei recessi della casa; e aggiungono a tutto questo un orgoglio satanico, dissimulato, quando occorre, da maniere umili e insieme dignitose, che paiono indizio d’animo gentile. E così m’ingannarono nei primi giorni; ma ora son persuaso che l’ultimo di costoro crede, in fondo al cuore, di valer infinitamente più di tutti noi messi in un mazzo. Gli arabi nomadi conservano almeno la semplicità austera dei costumi antichi, ed i Berberi selvaggi hanno lo spirito guerriero, il coraggio, l’amore dell’indipendenza. Costoro soli congiungono in sè barbarie, depravazione e superbia, e son la parte più potente della popolazione dell’Impero: quella che dà i negozianti, gli ulema, i tholba, i Caid, i pascià; che possiede i ricchi palazzi, i grandi arem, le belle donne, i tesori nascosti; riconoscibile alla pinguedine, alla carnagione chiara, all’occhio astuto, ai grossi turbanti, all’andatura maestosa, alla fiaccona, ai profumi, alla boria.
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Il moro Scellal ci condusse a prendere il tè in casa sua. Entrammo per uno stretto corridoio in un cortiletto oscuro, ma bellissimo; bellissimo, ma sucido quanto le più sucide case del ghetto d’Alkasar. Fuor che i musaici del pavimento e dei pilastri, tutto era nero, crostoso, viscoso, schifoso. Vi sono due stanzine buie a terreno; al primo piano, gira una galleria, e sulla sommità dei muri il parapetto della terrazza. Il grosso moro ci fece sedere davanti alla porta della sua stanza da letto, ci diede il tè e dei dolci, ci bruciò dell’aloè, ci spruzzò d’acqua di rosa e ci presentò due suoi bambini graziosissimi, che s’avvicinarono a noi bianchi dalla paura e tremarono come foglie sotto le nostre carezze. Dal lato opposto del cortile v’era una ragazza nera d’una quindicina d’anni, non vestita d’altro che d’una camicia tagliata da una parte in modo che lasciava vedere la gamba nuda dal fianco fino al piede, e stretta alla cintura, che segnava tutte le forme del corpo: il più snello, il più elegante, il più seducente corpo di donna, lo attesto sul capo del signor Ussi, ch’io abbia visto nel Marocco fino al momento in cui scrivo. Era una schiava. Stava appoggiata a un pilastro colle braccia incrociate sul senoe ci guardava con aria di suprema indifferenza. Poco dopo uscì da una porticina un’altra nera, una donna sui trent’anni, d’alta statura, di viso austero, di forme robuste, diritta come il fusto d’un aloè, la quale, per quello che ci parve, doveva essere una favorita del padrone, poichè gli si avvicinò famigliarmente, gli susurrò alcune parole nell’orecchio e gli tolse una festuca dai baffi, premendogli la mano sulle labbra, con un certo atto tra sbadato e carezzevole, di cui il moro sorrise. Alzando gli occhi, vedemmo tutta la galleria del primo piano e tutto il parapetto della terrazza coronati di teste di donne, che si nascosero immediatamente. Era impossibile che fossero tutte donne della casa. Quelle della casa avevano senza dubbio annunziato la visita dei cristiani alle amiche delle case vicine, e queste dalle loro terrazze s’erano arrampicate o buttate giù sulla terrazza dello Scellal. In un momento che guardavamo in su, ce ne passarono accanto tre come tre larve, col capo tutto coperto, e sparirono in una porticina. Erano tre amiche che non avendo potuto entrare in casa per la terrazza, avevano dovuto rassegnarsi a entrar per la porta; e un momento dopo comparirono le loro teste sopra il parapetto della galleria. La casa, insomma, s’era convertita in teatro, e noi eravamo lo spettacolo. Le spettatrici, tutte velate,cinguettavano, ridevano sommessamente, facevano capolino e si ritiravano con una rapidità che pareva che scattassero; ad ogni nostro movimento, corrispondeva un leggero mormorìo; ogni volta che alzavamo la testa, seguiva un gran tumulto nei palchi di prim’ordine; si capiva che si divertivano, che raccoglievano materia per un mese di conversazione, che non stavano in sè dal piacere di trovarsi, così inaspettatamente, dinanzi a uno spettacolo tanto bizzarro e tanto raro! E noi, compiacenti, concedemmo loro questo spettacolo per quasi un’ora; silenziosi, però, e tediati; effetto che produce, dopo qualche tempo, ogni casa moresca, per quanto sia cortese l’ospitalità che vi si riceve. Poichè, dopo aver ammirato i bei musaici, le belle schiave e i bei bimbi, si cerca quasi istintivamente la persona che incarna la vita domestica, che rappresenta la gentilezza e l’onore della casa, che suggella l’ospitalità, che colora la conversazione, che vi alita nell’anima l’aura dei Lari;—si cerca, insomma, la perla di questa conchiglia;—e non vedendo che donne a cui il padrone dà gli amplessi e non il cuore, e figliuoli di madri sconosciute, e tutta la casa personificata in un solo, l’ospitalità riesce una fredda cerimonia, e nell’ospite spariscono i tratti simpatici d’un amico che v’onora, sotto l’aspetto d’un sensuale e odioso egoista.
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Non c’è dubbio che questa gente, se proprio non ci odia, almeno non ci può patire, e non gliene mancano, tra buone e cattive, le ragioni. Nei discendenti dei mori di Spagna, molti dei quali conservano ancora chiavi di città andaluse e titoli di possessione di terre e di case di Siviglia e di Granata, è viva particolarmente l’avversione alla Spagna, da cui i loro padri furono spogliati, sterminati, banditi. Tutti gli altri odiano generalmente tutti i cristiani, non solo perchè quest’odio è istillato loro nelle scuole e nelle moschee fin dall’infanzia, collo scopo di renderli avversi ad ogni commercio colle genti civili;—commercio che, scemando la superstizione e l’ignoranza, scalzerebbe le fondamenta dell’edifizio politico e religioso dell’Impero;—ma perchè hanno tutti in fondo all’anima il vago sentimento d’una forza espansiva, crescente, minacciosa degli Stati europei, dalla quale tosto o tardi saranno schiacciati. Sentono rumoreggiare la Francia alle loro frontiere di levante; vedono gli Spagnuoli fortificati sulla loro costa del Mediterraneo; Tangeri, occupata da un’avanguardia di cristiani; le città occidentali, guardate da negozianti europei distesisu tutta la costa dell’Atlantico come una catena di sentinelle avanzate; ambasciate che percorrono il paese in tutte le direzioni, per recare dei doni al Sultano, in apparenza, ma in realtà, pensan loro, per vedere, scrutare, fiutare, corrompere, preparare il terreno; sentono, insomma, la minaccia perpetua d’un’invasione e immaginano quest’invasione accompagnata da tutti gli orrori dell’odio e della vendetta, persuasi, come sono, che i Cristiani nutrano contro i Mussulmani gli stessi sentimenti che nutrono loro contro di noi. Come possono poi cangiare quest’avversione in simpatia vedendo noi, stretti nei nostri abiti impudichi, che segnano le forme; vestiti di colori sinistri; noi, carichi di taccuini, di cannocchiali, di strumenti misteriosi, che ci ficchiamo per tutto, notiamo tutto, misuriamo tutto, vogliamo saper tutto; noi che ridiamo sempre e non preghiamo mai; noi irrequieti, chiaccheroni, beoni, fumatori, pieni di pretese, e pitocchi, che abbiamo una donna sola, e non un servo dei nostri paesi! E si formano dell’Europa un’idea oscura, come d’un’immensa congerie di popoli turbolenti, dove regni una vita febbrile, tutta ambizioni ardenti, vizi sfrenati, tumulti, viaggi, imprese temerarie, un affanno, un rimescolìo vertiginoso, una confusione di Babelle, che dispiace a Dio.
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Oggi gran rumore nel palazzo, a cagione del primo ed unico tentativo di conquista amorosa, fatto da un cristiano del basso personale dell’ambasciata. Questo buon giovane, al quale cominciava a pesare, a quel che sembra, la vita diplomaticamente austera che si mena da quaranta giorni; avendo visto, non so di dove, una bella mora che passeggiava in un giardino, pensò (tutti hanno le loro debolezze) ch’essa non avrebbe potuto resistere alle attrattive della sua bella persona, e senza badare al pericolo s’insinuò per un buco del muro nel recinto vietato. Se, giunto in cospetto della ninfa, abbia fatto una dichiarazione d’amore od abbia tentato di sopprimere il preambolo, se la ninfa gli abbia prestato orecchio pietoso o sia fuggita strillando, non si sa, poichè tutto, in questo paese, è mistero. Si sa però che tutt’a un tratto sbucarono di dietro a un cespuglio quattro mori armati di pugnale, due dei quali gli si slanciarono contro da una parte e due dall’altra; e che il malcapitato seduttore o non sarebbe più uscito del giardino, o ne sarebbe uscito con qualche occhiello nelle reni, se non fosse comparso improvvisamente il caid Hamed-Ben KasenBuhammei, il quale arrestò con un gesto imperioso i quattro cerberi, e diede modo al fuggitivo di riportare la pelle intatta al palazzo. La notizia dell’avvenimento si sparse, ci fu un sottosopra, il colpevole ricevette una solenne ammonizione in presenza di tutti e il Comandante, sempre spiritoso, gli fece per giunta un sermoncino che gli produsse un’impressione profonda.—Che le donne degli altri, e particolarmente le donne dei mussulmani, bisogna lasciarle stare; che quando si è con un’ambasciata europea nel Marocco, bisogna far conto di non esser più un uomo; che nei paesi maomettani queste quistioni di donne finiscono facilmente in quistioni politiche; e che sarebbe una bella responsabilità quella d’un giovane onesto il quale, per non aver saputo resistere a un impulso inconsiderato... del cuore, trascinasse il suo paese in una guerra... di cui non si potrebbero prevedere le conseguenze.—A questo discorso, il povero giovane, che già vedeva la flotta italiana con centomila soldati salpare verso il Marocco per cagion sua, si mostrò atterrito del suo fallo a tal segno, che non parve più necessario d’infliggergli altro castigo.
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Vorrei saper bene che concetto hanno costoro della propria potenza militare e del proprio valore guerresco rispetto alla potenza e al valore dei popoli europei. Ma non oso interrogarli direttamente su questo soggetto perchè sono ombrosissimi e temo che le mie domande possano parere un’ironia o una spacconata. Son riuscito nondimeno, tastandoli con mano leggera, e senza farmi scorgere, a raccapezzare qualche cosa. Sulla superiorità della nostra potenza militare non ci hanno dubbio; poichè se qualche dubbio rimaneva loro trent’anni sono, quando non avevano ancora ricevuto dagli europei alcuna veramente grave batosta, le guerre della Francia e della Spagna, e principalmente le due battaglie famose d’Isly e di Tetuan, dissiparono quei dubbi per sempre. Ma riguardo al valore, mi pare che si credano ancora superiori di molto agli europei; le vittorie dei quali attribuiscono all’artiglieria, all’ordine, alla furberia (chè per loro sono furberie la strategia e la tattica) e non al valore. E le vittorie conseguite con quei mezzi, pare che non le considerino nobilmente conseguite. Il volgo, poi, aggiunge a quei mezzi l’alleanzacoi cattivi spiriti, senza la quale nè i cannoni nè le furberie sarebbero bastati asgominaregli eserciti mussulmani. Certo è che agli Arabi puri e ai Berberi, che sono la maggioranza guerriera del Marocco, non si può negare il valore, e nemmeno restringersi a riconoscere in loro quel valore comune e indeterminato che in Europa si considera, con cavalleresca reciprocanza, proprietà di tutti gli eserciti. Poichè tenuto pur conto della natura del terreno e degli aiuti segreti dell’Inghilterra, l’esercito marocchino, scompigliato, mal condotto, male armato, male approvvigionato, non avrebbe potuto tener fronte, come fece, per quasi un anno, con una tenacia inaspettata in Europa, all’esercito spagnuolo, disciplinato, ordinato e fornito di tutti i nuovi mezzi d’offesa, senza supplire con un grande valore alla potenza militare che gli mancava. Si potrà negare il nome proprio di valore al fanatismo che slancia un uomo contro dieci a cercare una morte che gli aprirà le porte del paradiso; al furore selvaggio che induce un soldato a spaccarsi il cranio contro una rupe piuttosto che cader nelle mani dei nemici; alla rabbia forsennata d’un ferito, che si strappa le bende e si squarcia le piaghe per liberarsi colla vita dalla prigionia; al disprezzo del dolore, alla cieca audacia, all’ostinazione brutale di chi si fa uccidere senza scopo; ma bisognerà ammetterealmeno che questi sono elementi di valore, ed è incontestabile che questa gente ne diede molti e tremendi saggi alla Spagna. Dopo due mesi di guerra, l’esercito spagnuolo non aveva presi che due prigionieri, un arabo della provincia d’Oran e un pazzo che s’era presentato agli avamposti; e nella sanguinosa battaglia di Castillejos cinque marocchini soli, e tutti e cinque feriti, caddero nelle mani dei vincitori. La loro tattica tradizionale è di avanzarsi in massa contro il nemico, distendersi rapidamente, correre fino a mezzo tiro, sparare e ritirarsi precipitosamente per ricaricare le armi. Nelle grandi battaglie si dispongono a mezza luna, l’artiglieria e la fanteria al centro, e alle ali la cavalleria, che cerca d’avvolgere il nemico e cacciarlo fra due fuochi. Il capo supremo dà un ordine generale, ma ogni capo inferiore ritorna all’assalto o si ritira quando gli sembra opportuno, e l’esercito sfugge facilmente al comando principale. Cavalieri infaticabili, destri tiratori, tenaci dietro un riparo, facili a sgominarsi in pianura aperta, strisciano come serpenti, s’arrampicano come scoiattoli, corrono come caprioli, passano rapidamente dall’assalto temerario alla fuga precipitosa, e da un esaltazione di valore che pare pazzia furiosa a uno sgomento che non ha nome. Ci sono ancora nel Marocco dei mori impazziti diterrore alla battaglia d’Isly; e si sa che alle prime cannonate del maresciallo Bugeaud, il Sultano Abd-er-Rahman, gridò:—Il mio cavallo! Il mio cavallo!—e inforcata la sella, si diede a una fuga disperata, lasciando sul campo i suoi musici, i suoi negromanti, i suoi cani da caccia, lo stendardo sacro, il parasole ed il tè, che i soldati francesi trovarono ancora bollente.
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Incontro tanti neri per le strade di Fez, che alle volte mi par di trovarmi in una città del Sudan e sento vagamente fra me e l’Europa l’immensità del deserto di Sahara. Dal Sudan, infatti, vengono la maggior parte, poco meno di tremila all’anno, molti dei quali si dice che muoiono in breve tempo di nostalgia. Sono portati per lo più all’età d’otto o dieci anni. I mercanti, prima di esporli in vendita, li ingrassano a pallottole di cuscussù, cercano di guarirli dalla nostalgia colla musica e insegnano loro qualche parola araba; il che ne aumenta il prezzo, che è ordinariamente trenta lire per un ragazzo, sessanta per una bimba, circa a quattrocento per una giovane di diciassette o diciott’anni, bella, che sappia parlare e che non abbia ancora partorito; e cinquanta o sessanta per un vecchio. L’Imperatore ritiene il cinque per cento della materia importata, e ha il diritto della prima scelta. Gli altri sono venduti nei mercati di Fez, di Mogador e di Marocco, e partitamente, all’incanto, in tutte le altre città, dove i compratori, per tradizione, usano loro il pudico riguardo di non visitarne pubblicamente le parti coperte. Abbracciano tutti, senza difficoltà,la religione maomettana, conservando però molte delle loro stranissime superstizioni, e le feste bizzarre del proprio paese, consistenti in balli grotteschi che durano fino a tre giorni e tre notti consecutive, accompagnati da una musica diabolica, e non interrotti che per inghiottire con avidità bestiale ogni sorta di porcherie. Servono per lo più nelle case, son trattati con dolcezza, vengono in gran parte affrancati in ricompensa dei loro servigi, hanno la via aperta anche alle più alte cariche dello stato, e si palesano qui come per tutto: ora febbrilmente operosi, ora torpidamente pigri, lussuriosi come scimmie, astuti come volpi, feroci come tigri; ma contenti del loro stato, e per lo più fedeli e grati ai padroni: il che pare che non segua dove la schiavitù è più dura, come a Cuba, e dove la libertà di cui godono è eccessiva, come in Europa. Le arabe e le more rifuggono da loro, ed è rarissimo che un nero sposi altra donna che del suo colore; ma gli uomini, e in specie i mori, non solo le cercano avidamente come concubine, ma le sposano colla stessa facilità che le bianche; onde il grandissimo numero di mulatti di tutte le sfumature che son nel Marocco. Strane vicende! Il povero nero di dieci anni, venduto sui confini del Sahara per un sacco di zucchero o un pezzo di stoffa, può, e si diede il casodiscutere trent’anni dopo,—ministro del Marocco,—un trattato di commerciocoll’ambasciatored’Inghilterra; e molto più probabilmente, la bambina nera nata in una tana immonda e scambiata all’ombra d’un’oasi con un otre d’acquavite, trovarsi, appena adulta, coperta di gemme e fragrante di profumi, tra le braccia del Sultano.
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Da qualche giorno, passeggiando per Fez, mi si affaccia alla mente con una persistenza ostinata l’immagine d’una grande città americana, alla quale accorre gente da ogni parte del mondo, una di quelle città che rappresentano quasi il tipo a cui tutte le città nuove si vanno lentamente informando, e la cui vita è forse un esempio di quello che sarà fra un secolo la vita di tutte; una città la cui immagine non si può presentare a nessun europeo, accanto a quella di Fez, senza farlo sorridere di pietà, tanto è grande la distanza che le separa sopra la via del progresso umano. Eppure, più mi fisso col pensiero in quella città, più mi sento preso da un dubbio che mi rattrista. Vedo quelle grandi strade, diritte e interminabili, in cui s’innalzano a perdita d’occhi i pali giganteschi del telegrafo. «È l’ora della chiusura degli opifici e delle botteghe. Torrenti d’operai, uomini, donne e ragazzi, passano a piedi, in omnibus, intramway, seguendo quasi tutti la stessa direzione, verso i quartieri lontani; e tutti hanno l’aspetto triste e ansioso e sembrano estenuati dalla fatica.... Nuvole dense di fumo di carbone escono dalle innumerevoli torricine degli opifici,scendono nelle strade, gettano le loro ombre nere sulle splendide vetrine delle botteghe, sulle lettere dorate degli annunzi che coprono le facciate fino ai tetti, sulla folla che, colla testa bassa, a passo cadenzato, dondolando le braccia, fugge in silenzio i luoghi che, durante il giorno, videro colare il suo sudore. Di tratto in tratto, il sole squarcia il velo lugubre che l’industria ha disteso sulla capitale del lavoro; ma questi bagliori improvvisi, fuggitivi, invece di rallegrare la scena, non fanno che illuminarne la tristezza... Tutte le fisonomie hanno la medesima espressione. Ognuno ha fretta di arrivare a casa per «economizzare» le sue poche ore di riposo dopo aver tratto il maggior vantaggio possibile dalle lunghe ore di lavoro. Par che ognuno sospetti nel suo vicino un concorrente. Tutti portano l’impronta dell’isolamento. L’aria morale in cui vive questa gente non è la carità, è la rivalità... Un gran numero di famiglie vivono negli alberghi, vita che condanna la donna alla solitudine e all’ozio. Lungo il giorno, il marito fa i suoi affari fuor di casa, e non rientra che all’ora del desinare, che trangugia colla rapidità d’un uomo affamato. Poi ritorna alla sua galera. I ragazzi, all’età di cinque o sei anni, frequentano le scuole, ci vanno e ritornano soli e passano il rimanente del loro tempo a loro capriccio, godendo della più ampialibertà. L’autorità paterna è pressochè nulla. I figliuoli non ricevono altra educazione che quella delle scuole.... maturano rapidamente e si preparano fin dall’infanzia alle fatiche e alle lotte della vita sovreccitata, aspra e avventurosa che li aspetta. La vita dell’uomo non è che una sola e lungacampagna, un seguito non interrotto di combattimenti, di marcie e di contro-marcie. La dolcezza, l’intimità del focolare domestico non hanno che un’assai piccola parte nella sua esistenza militante e febbrile. È egli felice? A giudicarne dal suo aspetto faticato, triste, inquieto, spesso delicato e malsano, c’è da dubitarne. L’eccesso del lavoro non interrotto gli spezza le forze, gl’interdice i piaceri dello spirito e gl’impedisce il raccoglimento dell’anima. E la donna soffre di questa vita anche più del marito. Essa non lo vede che una volta al giorno, mezz’ora tutt’al più, e la sera, quando, rotto dalla fatica, rientra in casa per cercare il sonno; e non può alleggerire il fardello ch’egli porta, nè partecipare alle sue pene, alle sue cure e ai suoi lavori perchè non li conosce, non esistendo quasi affatto fra loro, per mancanza di tempo, il commercio delle anime....»
La città è Chicago, e chi la descrive il barone Hübner, grande ammiratore dall’America. Ora il dubbio è questo: non so quale delledue città, Fez e Chicago, mi faccia più compassione. Sento però che se fossi nei panni d’un moro di Fez, ed un cristiano, conducendomi in una di quelle grandi città civili, mi domandasse se l’invidio, gli farei una risata sul volto.
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Stamattina Selam mi raccontò, a modo suo, la storia famosa del brigante Arusi; una delle infinite istorie che girano di bocca in bocca dal mare al deserto; fondata però sopra un fatto vero e recentissimo, di cui molti testimoni vivono ancora.
Poco dopo la guerra colla Francia, il Sultano Abd-er Rahman mandò un esercito a castigare gli abitanti del Rif che avevano incendiato un bastimento francese. Fra i varii sceicchi, a cui il comandante dell’esercito intimò di denunziare i colpevoli, ce ne fu uno, chiamato Sid-Mohammed-Abd-el-Djebar, già innoltrato negli anni, il quale, essendo geloso d’un tale Arusi, giovane valoroso e bellissimo, lo rimise, benchè innocente, nelle mani del generale, affinchè lo conducesse nelle carceri di Fez. Fu infatti condotto a Fez, ma non stette in prigione che un anno. Rilasciato in libertà, andò a Tangeri. Stette qualche tempo a Tangeri e poi tutt’a un tratto scomparve, e per un pezzo nessuno seppe più notizie di lui. Ma poco dopo la sua disparizione, si cominciò a parlare in tutta la provincia del Garb d’una banda di ladri e d’assassini che infestava la campagna fra Rabat eLaracce. Le carovane erano assalite, i negozianti spogliati, i caid malmenati, i soldati del Sultano pugnalati; nessuno osava più attraversare quelle terre; e i pochi che, presi dagli assassini, ne uscivan salvi, tornavano nelle città istupiditi dal terrore.
Le cose durarono in questo stato per molto tempo, e nessuno era mai riuscito a scoprire chi fosse il capo della banda, quando un negoziante rifano, assalito una notte al lume della luna, riconobbe fra coloro che lo spogliavano il giovane Arusi, e ne portò a Tangeri la notizia che si sparse rapidamente per tutto il Garb. Il capo della banda era Arusi. Molti altri lo riconobbero. Egli appariva nei duar e nei villaggi, di giorno e di notte, vestito da soldato, da caid, da ebreo, da cristiano, da donna, da ulema, uccideva, rubava, spariva, inseguito da ogni parte, non raggiunto da nessuno, sempre inaspettato, sempre in un nuovo aspetto, capriccioso, feroce, infaticabile; e non s’allontanava mai dai dintorni della cittadella El-Mamora; cosa di cui nessuno capiva la ragione. La ragione era questa: il caid della cittadella El-Mamora era in quel tempo l’antico sceicco Sid-Mohammed Abd-el-Dijebar che aveva messo Arusi nelle mani del generale del Sultano.
In quei giorni appunto Sid-Mohammed Abd-el-Dijebaraveva data in isposa una sua figliuola di meravigliosa bellezza, chiamata Rahmana, al figliuolo del pascià di Salè, che si chiamava Sid-Alì. Le feste nuziali erano state celebrate con gran pompa, in presenza dei più ricchi giovani della provincia, accorsi a cavallo, armati, vestiti dei loro più begli abiti, alla cittadella d’El-Mamora; e Sid-Alì doveva condurre la sua sposa a Salè, in casa di suo padre. Il corteo uscì dalla cittadella di notte. Doveva passare per una gola strettissima formata da una catena di collinette boscose e da una catena di dune. Andava innanzi una scorta di trenta cavalieri; dietro a questi, Rahmana sulla groppa d’una mula, in mezzo allo sposo e al fratello; dietro Rahmana, il caid suo padre e una folla di parenti e d’amici. Entrarono nella gola. La notte era serena, lo sposo teneva per mano Rahmana, il vecchio caid si lisciava la barba: tutti erano allegri.
All’improvviso una voce formidabile urlò nel silenzio della notte:
—Arusi ti saluta, o sceicco Sid Mohammed Abd-el Dijebar!
Nello stesso punto, sull’alto d’una collina scintillarono trenta fucili e tuonarono trenta colpi. Cavalli, soldati, parenti, amici, chi stramazza morto, chi vacilla ferito, chi fugge; eprima che il caid e Sid-Alì, rimasti illesi, rinvengano dallo sbalordimento, un uomo, una furia, un demonio, Arusi insomma precipita dalla collina, afferra Rahmana, se la mette in sella e fugge a briglia sciolta verso la foresta di Mamora.
Il caid e Sid-Alì, uomini risoluti, invece di abbandonarsi ad una vana disperazione, fecero giuramento solenne di non radersi più la testa prima d’essersi spaventosamente vendicati. Domandarono e ottennero soldati dal Sultano, e cominciarono a dar la caccia ad Arusi, che s’era rifugiato colla sua banda nella grande foresta di Mamora. Fu una guerra faticosissima, tutta colpi di mano, imboscate, assalti notturni, astuzie, combattimenti feroci, che durò più d’un anno, e ridusse a poco a poco la banda nel centro della foresta. La banda era accerchiata e il cerchio si stringeva si stringeva. Molti dei seguaci di Arusi eran già morti di fame, molti fuggiti, molti stati uccisi in combattimento. Il caid e Alì, vicini a raggiungere la meta, s’inferocivano sempre più, non chiudevan più occhio nè notte nè giorno, non respiravano più che la vendetta. Ma d’Arusi e di Rahmana non si sapeva più nulla. Chi diceva che fossero morti di stento, chi riteneva che fossero fuggiti, chi credeva che il bandito avesse ucciso la sposa e sè stesso. E Sid-Alì e il caid cominciavanoa disperare, perchè più s’innoltravano, e più gli alberi si facevan fitti, più alti e più intricati i cespugli, le liane, i rovi, i ginepri; tanto che i cavalli e i cani non potevano più aprirsi la via. Un giorno, finalmente, mentre tutti e due passeggiavano scoraggiati e silenziosi per la foresta, un arabo accorse da lontano verso di loro e disse d’aver visto Arusi nascosto in mezzo ai giunchi, sulla riva d’un fiume, all’estremità della foresta. Il caid raccoglie in furia i suoi cavalieri, li divide in due drappelli e li sguinzaglia, un drappello a destra, l’altro a sinistra, verso il fiume. Dopo una lunga corsa, il caid per il primo vede da lontano, in mezzo ai giunchi, rizzarsi un fantasma, un uomo d’alta statura e d’aspetto terribile: Arusi. Si slanciano tutti verso quel punto, arrivano, girano, frugano, fiutano: Arusi non v’è più. Erano sulla riva delfiume.—Ha passato il fiume! grida il caid. Tutti si gettano nel fiume e raggiungono la riva opposta. La riva era segnata di alcune orme; tutti si mettono su quell’orme; ma dopo pochi passi, mancano.—s’è rigettato nel fiume,—grida il caid,—e andò a riuscir più lontano.—Subito i cavalieri si slanciano di galoppo lungo la riva. Nello stesso punto l’attenzione del caid è attirata da suoi tre cani, che si sono arrestati, fiutando, vicino a una pianta di giunchi.Sid-Alì accorre pel primo, e vede vicino ai giunchi un largo fosso, in fondo al quale c’erano alcuni piccoli fori. Salta nel fosso, introduce il fucile in uno dei fori, lo sente respinto, spara, chiama il caid, accorrono i soldati, guardano di qua e di là, e scoprono una piccola apertura rotonda a fior d’acqua nella riva tagliata a picco. Arusi doveva essere entrato nel suo sotterraneo per quell’apertura.—Scaviamo!—grida il caid. I soldati corrono a pigliar vanghe e piccozze nei duar vicini, tornano, scavano, rompono una specie di volta di terra e scoprono una tana...
In fondo alla tana c’era Arusi ritto, immobile, pallido come un morto, colle braccia spenzoloni.
Lo afferrarono: non fece resistenza. Lo tiraron fuori: aveva l’occhio sinistro crepato. Lo legarono, lo portarono in una tenda, lo distesero in terra, e per prima vendetta, Sid-Alì gli recise col pugnale tutti i diti dei piedi, gettandoglieli ad uno ad uno sul viso. Ciò fatto, mise sei soldati a custodirlo e si ritirò sotto un’altra tenda insieme col caid, per concertare che torture gli dovessero infliggere prima di troncargli la testa. La discussione durò lungo tempo: andavano a gara a chi proponesse dei tormenti più dolorosi; nessuno strazio pareva abbastanza orrendo; la sera era venuta, e nonavevano ancora nulla deciso. Rimandarono la decisione alla mattina e si separarono.
Un’ora dopo, il caid ed Alì riposavano ciascuno sotto la sua tenda; la notte era oscurissima, non spirava un alito di vento, non stormiva una foglia, non si sentiva che il mormorio del fiume e il respiro dei dormenti.
All’improvviso una voce formidabile urlò nel silenzio della notte:
—Arusi ti saluta, o sceicco Sid Mohammed Abd-el Dijebar!
Il vecchio caid balza in piedi atterrito e sente la pesta precipitosa d’un cavallo che s’allontana. Chiama i soldati, che accorrono in furia, e grida:—Il mio cavallo! Il mio cavallo!—Cercano il suo cavallo, il più superbo animale del Garb: è sparito. Corrono alla tenda di Sid-Alì: è steso in terra morto, con un pugnale confitto nell’occhio sinistro. Il caid scoppia in pianto: i soldati si slanciano dietro al fuggitivo. Lo intravvedono, come un ombra, per qualche momento; lo perdon di vista; lo rivedono; ma egli va come la folgore, e sparisce ben presto per non più ricomparire. Continuano a inseguirlo, nondimeno, per tutta la notte, sin che arrivano a un bosco fittissimo, dove si arrestano per aspettare che aggiorni. Appena aggiorna, vedono lontano il cavallo del caid, che viene verso di loro spossato e insanguinato,riempiendo l’aria di nitriti lamentevoli. Pensando che Arusi sia nel bosco, sguinzagliano i cani e s’avanzano colle armi nel pugno. Dopo un breve cammino, scoprono una casuccia diroccata, mezzo nascosta fra gli alberi. I cani v’accorrono e s’arrestano. I soldati li seguono in punta di piedi, arrivano alla porta, spianano i fucili... e li lascian cadere in terra gettando un grido di stupore. In mezzo a quelle quattro mura, stava disteso in terra il cadavere d’Arusi, e accanto a lui una bellissima donna, vestita splendidamente, coi capelli sciolti, la quale gli fasciava i piedi sanguinosi, singhiozzando, ridendo, mormorando con voce infantile parole di disperazione e d’amore. Era Rahmana. La condussero in casa di suo padre, vi stette tre giorni senza profferire parola e disparve. La trovarono qualche tempo dopo fra le rovine della casa del bosco, che raspava la terra colle mani, chiamando Arusi. E di là non si mosse più.—Dio,—come dissero gli arabi—aveva richiamato a sè la sua ragione ed essa era santa.
Se sia ancora viva, non si sa. Certo è che viveva ancora venti anni sono, e che la vide nel suo romitaggio il signor Narciso Cotte, impiegato al consolato di Francia a Tangeri, che ne ha raccontata la storia.
***
Oramai non v’è più un angolo di Fez che ci sia sconosciuto; e nondimeno ci par sempre d’essere arrivati il giorno innanzi, tanta è la varietà d’aspetti che ci presenta questa scena grandiosa di mura, di porte, di torri, di rovine; tanto ogni cosa ci ravviva ad ogni momento il sentimento della nostra solitudine; tanto stentiamo ad abituarci ad essere l’oggetto della curiosità universale. E questa curiosità non è punto scemata, benchè ormai tutti gli abitanti di Fez ci abbiano visti e rivisti. È scemata, invece, la diffidenza, e pare anche un poco l’antipatia: i bambini ci si avvicinano e ci toccano i vestiti per sentire di che sostanza sono; le donne ci guardan con occhio torvo, ma non tornan più indietro vedendoci apparir di lontano; le maledizioni son diventate più rare, i soldati non picchian più bastonate, e il pugno toccato dall’Ussi fu, è da sperarsi, il primo ed unico pugno di cui io possa portare la notizia in Italia. E benchè, passeggiando per la città, ci preceda e ci segua sempre una folla fittissima, io credo che potremmo uscir soli senza ombra di pericolo d’essere ammazzati. Già la popolazione, da quanto ci dicono i soldati dell’ambasciata,ci ha messo a tutti, giusta la consuetudine moresca, un sopranome. Il medico èl’uomo degli occhiali, il vice-console èl’uomo del naso forcuto, il capitano èl’uomo degli stivali neri, l’Ussi èl’uomo del fazzoletto bianco, il Comandantel’uomo delle gambe corte, il Biseol’uomo dei capelli rossi, il Morteol’uomo di velluto, perchè è tutto vestito di velluto, ed io sonol’uomo della scarpa rotta, perchè un dolore al piede m’ha costretto a dare un lungo taglio a uno stivaletto. Parlano molto dei fatti nostri, si capisce, e par che dicano che siamo tutti brutte faccie, nessuno escluso, neppure il cuoco, il quale accolse questa notizia con una risata di disprezzo, battendo la mano sopra una tasca del panciotto, dove tiene una lettera della sua amante. E mi pare anche che ci trovino o fingano di trovarci ridicoli, perchè, per istrada, si mettono a ridere con una certa ostentazione ogni volta che uno di noi scivola, o dà del capo nel ramo d’un albero, o perde il cappello. Malgrado ciò, e la varietà delle vedute, questa popolazione tutta d’un colore e senza distinzione apparente di ceto, questo non sentir mai altro rumore che un eterno fruscìo di pantofole e di cappe, queste donne velate, queste case cieche e mute, questa vita piena di mistero finisce per tediar mortalmente. Gli abitanti son vivi, la città è morta. Al tramonto del sole bisognarientrare in casa e non si può più uscire. Col calar della notte, cessa ogni commercio, ogni movimento, ogni segno di vita; Fez non è più che una vasta necropoli, dove se si sente per caso una voce umana, è l’urlo d’un pazzo o il grido d’un assassinato; e chi volesse andare a zonzo a ogni costo, dovrebbe farsi scortare da una pattuglia coi fucili carichi e da un drappello di falegnami, i quali ogni trecento passi buttassero giù una porta che sbarra la strada. Di giorno poi la città non somministra altra novità che qualche donna trovata morta in mezzo alla via con una pugnalata nel cuore, la partenza d’una piccola carovana, l’arrivo d’un governatore o sotto-governatore di provincia che venne gettato in fondo a un carcere, la bastonatura di qualche pezzo grosso, una festa in onore d’un Santo di cui sentiamo le fucilate dal palazzo, e altre cose simili, annunziate per lo più da Mohammed Ducali o dal Scellal, che sono i nostri due giornali quotidiani ambulanti. E queste notizie, e quello che vedo ogni giorno, e la vita singolarissima che vivo qui, mi danno poi nella notte dei sogni così stranamente intricati di teste recise, di deserti, d’arem, di prigioni, di Fez, di Tumbuctù, di Torino, che la mattina mi sveglio con un caos inesprimibile nella testa, e per qualche momento non raccapezzo più in che mondo mi sia.
***
Di quante figure belle, grottesche, orribili, buffe, stranissime, mi rimarrà la memoria per tutta la vita! Ne ho la testa affollata, e quando son solo me le faccio passare dinanzi ad una ad una, come le figure d’una lanterna magica, con un piacere che non so esprimere. Passa Sid Buker, il personaggio misterioso che viene tre volte al giorno, ravvolto in una gran cappa biancastra, colla testa bassa, cogli occhi socchiusi, pallido come un morto, furtivo come uno spettro, a conferire segretamente coll’Ambasciatore; e svanisce a modo di una figura fantasmagorica, senza che nessuno se n’accorga. Passa il servo favorito di Sid-Mussa, un giovane mulatto bellissimo, grazioso come una fanciulla, elegante come un principe, fresco e sorridente, che sale e scende le scale saltellando e ci saluta con una certa civetteria inchinandosi profondamente e stendendo una mano in atto di mandare un bacio. Passa un soldato di guardia, un berbero, nato sulle montagne dell’Atlante, una faccia sanguinaria che non posso guardare senza fremere, e mi figge negli occhi, ogni volta che mi vede, uno sguardo immobile, freddo, perfido, come se meditassed’uccidermi; e più lo sfuggo e più l’incontro, e par che indovini il ribrezzo che m’ispira e ci provi un satanico piacere. Passa una vecchia decrepita, che ho vista sulla porta d’una moschea, nuda da capo a piedi, fuor che un cencio intorno ai fianchi, colla testa rasa come la palma della mano e il corpo disfatto a segno che mi strappò un’esclamazione d’orrore e rimasi per lungo tempo col sangue sossopra. Passa una mora briccona, che rientrando in casa, mentre noi passavamo dinanzi alla sua porta, buttò giù in fretta e in furia, nell’atto di chiudere, il caic che la copriva, ci lasciò intravvedere il suo bel corpo diritto e tornito, e saettandoci un’occhiata sfavillante di mille vezzi, chiuse. Passa un bottegaio vecchissimo, una faccia tra spaventosa e ridicola, curvo tanto che, stando seduto in fondo alla sua nicchia oscura, si tocca quasi i piedi col mento; e tiene aperto un occhio solo, appena visibile; e ogni volta che passando dinanzi alla sua bottega, lo guardo, quell’occhio gli si apre smisuratamente e brilla d’un sorriso beffardo indefinibile, che mi mette non so che inquietudine nel cuore. Passa una bellissima morina di dieci anni, coi capelli sciolti giù per le spalle, vestita d’una camicia bianca stretta alla vita da una ciarpa verde, la quale spenzolandosi dal parapetto d’una terrazza per saltare sulla terrazzadi sotto, la camicia le si attaccò alla punta d’un mattone e restò su, lasciando molti segretini all’aria aperta; ed essa, che sapeva d’esser guardata dal palazzo dell’Ambasciata, e non poteva più nè risalire nè scendere, si mise a strillare come una disperata, e tutte le donne della casa accorsero smascellandosi dalle risa. Passa un mulatto gigantesco, pazzo, che tormentato dall’idea fissa che i soldati del Sultano lo cerchino per tagliargli una mano, fugge per le strade come una fiera inseguita, agitando convulsivamente il braccio destro, come se glie l’avessero già mutilato, e mette ululati spaventosi che risuonano da un quartiere all’altro della città. Passano molti e molti altri; ma quello che s’arresta più lungamente, è un nero di cinquant’anni, servo del palazzo, alto poco più e largo poco meno d’un metro, un cor contento, che sorride sempre cacciando tutta la bocca verso l’orecchio destro; la più grottesca, la più spropositata, la più imperiosamente ridicola figura che sia mai comparsa sotto la cappa del cielo; ed ho un bel mordermi le dita, e dirmi che è ignobile il ridere delle deformità umane, e farmi vergogna in mille maniere;—è inutile,—è un riso che vince le mie forze,—ci dev’esser dentro qualche intenzione misteriosa della Provvidenza,—bisogna che scoppi! E Dio mi perdoni: mi venne più volte l’idea di comprarlo per farmene una pipa.
***
Essendo vicino il giorno della partenza, i negozianti accorrono in folla al palazzo e si compra a furia. Le stanze, il cortile e la galleria hanno preso l’aspetto d’un grande bazar. Per tutto lunghe file di vasi, di babbuccie ricamate, di vassoi, di cuscini, di tappeti, di caic. Quanto v’è in Fez di più dorato, di più arabescato, di più caro assaettato, ci è passato sotto gli occhi in questi giorni. E bisogna vedere come vendono costoro, senza proferire parola, senza lasciarsi sfuggire un sorriso, non accennando che sì o no colla testa, e andando via, abbiano o non abbian venduto, colla stessa faccia d’automi con cui sono venuti. Fra tutte, è bella a vedersi la stanza dei pittori, convertita in una gran bottega di rigattiere, piena di selle, di staffe, di fucili, di caffettani, di ciarpe lacere, di terraglia, di orecchini barbareschi, di vecchie cinture da donna, venute Dio sa di dove, che hanno forse sentito molte volte la stretta amorosa delle braccia imperiali, e forse l’anno venturo luccicheranno in un quadro magistrale alla mostra di Napoli o di Filadelfia. Un solo genere manca, e sono gli oggetti d’antichità, ricordi dei varii popoli che conquistaronoo colonizzarono il Marocco; e benchè si sappia che sovente se ne trovano sotto terra o fra le rovine, non c’è mezzo d’averne, poichè ogni oggetto scoperto dovendo essere portato alle Autorità, chi scopre, tien nascosto, e le Autorità, non conoscendone il valore, distruggono o vendono come materia inutile il poco che ricevono. Così, anni sono, un cavallo ed alcune statuette di bronzo trovate in un pozzo vicino ai resti d’un acquedotto, furon rotte e vendute come vecchio rame a un rigattiere israelita.
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Oggi ho fatto con un negoziante di Fez una viva discussione, coll’intento di scoprire quello che pensano i mori della civiltà europea; e per questo non mi affannai a ribattere i suoi argomenti se non quanto era necessario per dargli spago. È un bel moro sui quarant’anni, di fisonomia onesta e severa, che visitò, per affari di commercio, le principali città dell’Europa occidentale, e stette lungo tempo a Tangeri dove imparò un po’ di spagnuolo. Già nei giorni scorsi avevo scambiato con lui qualche parola a proposito d’un piccolo pezzo di stoffa intessuto di seta e d’oro di cui pretendeva la bellezza di dieci marenghi. Ma oggi toccandolo sull’argomento dei suoi viaggi, gli attaccaiuna parlantinadi cui i suoi compagni stessi, che ascoltavano senza capire, rimasero stupiti. Gli domandai dunque che impressione gli avessero fatta le grandi città europee non aspettandomi peraltro di sentire grandi espressioni di meraviglia, perchè sapevo, come tutti sanno, che dei quattro o cinquecento negozianti marocchini che vanno ogni anno in Europa, la maggior parte ritornano nel loro paese più stupidamente fanatici di prima, quandonon ritornano più viziosi e più birbanti; e che se tutti rimangono stupiti dello splendore delle nostre città e delle meraviglie delle nostre industrie, nessuno però ne rimane scosso nell’anima, acceso nella mente, spronato a fare, a tentare, a imitare; nessuno intimamente persuaso della inferiorità complessiva del paese proprio; e nessunissimo, poi, se anche avesse questi sentimenti s’arrischierebbe ad esprimerli, e tanto meno a cercar di diffonderli, per paura di tirarsi addosso l’accusa di mussulmano rinnegato e di nemico del suo paese.
—Che cosa avete da dire—gli domandai—delle nostre grandi città?
Mi guardò fisso e rispose freddamente:
—Strade grandi, belle botteghe, bei palazzi, belle officine.... e tutto pulito.
Con ciò parve che avesse detto tutto quello che aveva da dir d’onorevole per noi.
—Non ci avete trovato altro di bello e di buono?—domandai.
Mi guardò come per domandarmi alla sua volta che cosa pretendevo ch’egli ci avesse trovato.
—Ma possibile—(mi stizzii)—che un uomo ragionevole come voi siete, che ha visto dei paesi così meravigliosamente diversi e superiori al suo, non ne parli almeno con stupore, almeno colla vivacità con cui il ragazzo d’unduarparlerebbe del palazzo d’un pascià? Ma di che cosa vi meravigliate dunque al mondo? Che gente siete? Chi vi capisce?
—Perdóne Usted,—rispose freddamente;—io vi rispondo che non capisco voi. Quando v’ho detto tutte le cose nelle quali credo che siate superiori a noi, che volete che vi dica di più? Volete che vi dica quello che non penso? Vi dico che le vostre strade sono più grandi delle nostre, che le vostre botteghe sono più belle, che avete delle officine che noi non abbiamo, che avete dei ricchi palazzi. Mi par d’aver detto tutto. Dirò ancora una cosa: che sapete più di noi perchè avete dei libri e leggete.
Feci un atto d’impazienza.
—Non v’impazientate,caballero;—ragioniamo tranquillamente. Voi convenite che il primo dovere d’un uomo, la prima cosa che lo rende stimabile, e quella in cui importa massimamente che un paese sia superiore agli altri paesi, è l’onestà; non è vero? Ebbene, in fatto d’onestà io non credo in nessuna maniera che voi altri siate superiori a noi. E una.
—Adagio. Spiegatemi prima che cosa intendete di dire con questa parola onestà.
—Onestà nel commercio,caballero. I mori, per esempio, nel commercio, ingannano qualche volta gli europei; ma voi altri europei ingannate molto più spesso i mori.
—Saranno casi rari—risposi, per dir qualche cosa.
—Casos raros?—esclamò accendendosi. Casi di tutti i giorni!—(E qui vorrei poter riferire tale e quale il suo linguaggio rotto, concitato e infantile). Prove! Prove! Io a Marsiglia. Sono a Marsiglia. Compro cotone. Scelgo il filo, grosso così. Dico:—questo numero, questo bollo, tanta quantità, mandate.—Pago, parto, arrivo al Marocco, ricevo cotone, apro, guardo, stesso numero, stesso bollo.... filo tre volte più piccolo! non serve a niente! migliaia di lire perdute! Corro al Consolato.... niente.Otro.Un altro. Mercante di Fez ordina Europa panno turchino, tanti pezzi, tanto larghi, tanto lunghi, convenuto, pagato. Riceve il panno, apre, misura: primi pezzi, giusti; sotto, più corti; gli ultimi, mezzo metro meno! Non servono più alle cappe, mercante rovinato.Otro, otro.Mercante di Marocco ordina, Europa, mille metri gallone d’oro per ufficiali e manda denaro. Gallone viene, tagliato, cucito, portato.... rame!Y otros, y otros, y otros!—Ciò detto alzò il viso al cielo, e poi, rivolgendosi vivamente verso di me:—Più onesti voi?
Ripetei che non potevano essere che casi eccezionali: non rispose.
—Più religiosi voi?—domandò poi bruscamente.—No!
E dopo qualche momento:—No! Basta essere entrati una volta nelle vostremoschee.
—Ora dite,—soggiunse poi, incoraggiato dal mio silenzio;—nei vostri paesi, succedono menomatamientos? (uccisioni).
Qui sarei stato imbarazzato a rispondergli. Che cosa avrebbe detto se io gli avessi confessato che soltanto in Italia si commettono tremila omicidi all’anno, e che ci sono novantamila prigionieri tra condannati e da giudicarsi?
—Non credo,—disse, leggendomi negli occhi la risposta.
Non sentendomi sicuro su questo terreno, lo attaccai coi soliti argomenti sulla quistione della poligamia.
Saltò su come se l’avessi scottato;
—Sempre questo!—gridò facendosi rosso fino alle orecchie.—Sempre questo! Come se voi aveste una donna sola! E ce lo volete far credere! Una sola è vostra, ma ci son poi quellede los otros, e quelle che sonode todos y de nadie, di tutti e di nessuno. Parigi! Londra! Caffè pieni, strade piene, teatri pieni.Verguenza!E rimproverate i Mori?
Dicendo questo, stropicciava con mano tremante il suo rosario, e si voltava di tratto in tratto per farmi capire, con un leggero sorriso, che non mi avessi a male del suo sdegno, perchèegli non l’aveva con me; ma coll’Europa.
Vedendo che in questa quistione se la pigliava troppo a cuore, sviai il discorso, e gli domandai se non riconosceva le maggiori comodità della nostra maniera di vivere. Qui fu comicissimo. Aveva degli argomenti preparati.
—È vero,—rispose con un accento ironico;—è vero... Sole? Ombrello. Pioggia? Paracqua. Polvere? Guanti. Camminare? Bastone. Guardare? Occhialino. Passeggiare? Carrozza. Sedere? Elastico. Mangiare? Strumenti. Una scalfittura? Medico. Morto? Statua. Eh! di quante cose avete bisogno! Che uomini,por Dios! Che bambini!
Insomma, non me ne voleva passar una. Trovò persino a ridere sull’architettura.
—Che! Che!—rispose quando gli parlai dei comodi delle nostre case.—State trecento in una casa sola, gli uni sugli altri, e poi salire, salire, salire—e manca aria e manca luce e manca giardino.
Allora gli parlai di leggi, di governo, di libertà, e cose simili; e siccome era un uomo perspicace, mi parve d’esser riuscito, se non a fargli capire tutta la differenza che, sotto questi aspetti, corre fra il suo paese e il nostro; almeno a fargliene brillare alla mente un barlume. Visto che non poteva tenermi fronte suquel soggetto cangiò improvvisamente il discorso, e guardandomi da capo a piedi, disse sorridendo:
—Mal vestidos.(Mal vestiti).
Gli risposi che il vestito importava poco, e gli domandai se non riconosceva la nostra superiorità anche in questo, che, invece di star tante ore oziosi colle gambe incrociate sopra una materassa, noi impieghiamo il tempo in mille maniere utili e divertenti.
Mi diede una risposta più sottile che non m’aspettassi. Disse che non gli pareva buon segno questo aver bisogno di far tante cose per passare il tempo. La vita per sè sola è dunque un supplizio per noi, che non possiamo stare un’ora senza far nulla, senza distrarci, senza affannarci a cercare divertimenti? Abbiamo paura di noi stessi? Abbiamo qualche cosa dentro che ci tormenta?
—Ma vedete,—dissi—che spettacolo triste presentano le vostre città, che solitudine, che silenzio, che miseria. Siete stato a Parigi? Paragonate un po’ le strade di Parigi colle strade di Fez.
Qui fu sublime. Saltò in piedi ridendo, e più coi gesti che colle parole fece una descrizione canzonatoria dello spettacolo che presentano le strade delle nostre città. Va, vieni, corri; carri di qui, carrette di là; un rumoreche stordisce, gli ubbriachi che barcollano, i signori che si abbottonano il soprabito per paura dei borsaiuoli; a ogni passo una guardia che guarda intorno come se a ogni passo ci fosse un ladro; i bambini e i vecchi che ogni momento corron rischio d’essere schiacciati dalle carrozze dei ricchi; le donne sfrontate, e persino bambine, orrore! che lanciano occhiate provocanti, urtano i giovani col gomito e fanno mille smancerie; tutti col sigaro in bocca; da ogni parte gente che entra nelle botteghe a mangiucchiare, a ber liquori, a farsi lisciare i capelli, a specchiarsi, a inguantarsi; e i zerbinotti piantati davanti ai caffè che dicono delle parole nell’orecchio alle donne degli altri che passano; e che maniera ridicola di salutare e di camminare in punta di piedi, dondolandosi, saltellando; e poi, Dio buono, che curiosità di femminuccie!—E toccando questo tasto pigliò la stizza e disse che un giorno, in una piccola città d’Italia, essendo uscito vestito da moro, si radunò in un momento una gran folla, e tutti gli correvano dietro e davanti gridando e ridendo, e quasi non lo lasciavano camminare, tanto ch’egli dovette ritornare alla locanda e cangiar vestito.—Ed è così che si fa nei vostri paesi? mi domandò.—Che si faccia qui, si capisce, perchè non si vedon mai dei cristiani; ma nei vostri paesi dove si sa comesiamo vestiti, perchè ci sono i quadri, e mandate qui i pittori colle macchine e coi colori a farci i ritratti; fra voi che sapete tutto non vi pare che non dovrebbero accadere queste cose?
Fatto questo sfogo, mi sorrise cortesemente come per dire:—Ciò non toglie che noi due siamo amici.
Cadde poi il discorso sulle industrie europee, sulle strade ferrate, sul telegrafo, sulle grandi opere d’utilità pubblica; e di questo mi lasciò parlare senza interrompermi, assentendo anzi, di tratto in tratto, con un cenno del capo. Quand’ebbi finito, però, mise un sospiro e disse:—Infine poi... a che servono tante cose se dobbiamo tutti morire?
—Insomma,—conclusi,—voi non cangereste il vostro stato col nostro!
Stette un po’ pensando e rispose:
—No, perchè voi non vivete più di noi, nè siete più sani, nè più buoni, nè più religiosi, nè più contenti. Lasciateci dunque in pace. Non vogliate che tutti vivano a modo vostro e sian felici come volete voi. Rimaniamo tutti nel cerchio che Allà ci ha segnato. Con qualche fine Allà ha disteso il mare fra l’Africa e l’Europa. Rispettiamo i suoi decreti.
—E credete,—domandai,—che rimarrete sempre quello che siete? che a poco a poco non vi faremo cangiare?
—Non lo so,—rispose.—Voi avete la forza, voi farete ciò che vorrete. Tutto quello che deve accadere, è già scritto. Ma qualunque cosa accada, Allà non abbandonerà i suoi fedeli.
Ciò detto, mi prese la destra, se la strinse sul cuore e se n’andò a passi maestosi.
***
Stamattina, al levar del sole, sono stato a vedere la rassegna del presidio di Fez, che il Sultano fa tre volte la settimana, nella piazza dove ricevette solennemente l’Ambasciata.
Uscendo dalla porta della Nicchia del burro, ebbi un primo saggio delle manovre dell’artiglieria. Uno stuolo di soldati, vecchi, di mezza età e ragazzi, tutti vestiti di rosso, correvano dietro a un cannoncino tirato da una mula. Era uno dei dodici cannoni di campagna che il governo spagnuolo regalò al Sultano Sid-Mohammed dopo la guerra del 1860. Di tratto in tratto la mula scivolava o deviava o s’arrestava, e tutta quella ragazzaglia si metteva a urlare e a picchiare, ballando e sghignazzando, come se conducesse un carro da carnevale. In un tragitto di cento passi, si saranno fermati dieci volte. Ogni momento seguiva un’avaria: ora cadeva il secchiolino, ora lo scovolo, ora non so che altro; poichè tutto era appeso all’affusto. La mula andava innanzi a zig zag, a suo capriccio, o piuttosto dove la spingeva il cannone scendendo impetuosamente dai rialti del terreno; tutti davano ordini, nessuno obbediva; i grandi scappellottavano i piccoli, i piccoli scappellottavanoi piccolissimi, e questi si scappellottavano fra loro; e il cannone rimaneva presso a poco allo stesso posto. Era una scena che avrebbe messo la febbre terzana al generale Lamarmora.
Sulla riva sinistra del Fiume delle perle, v’erano circa due mila soldati di fanteria, parte sdraiati per terra, parte ritti in crocchi. Nella piazza, chiusa tra il fiume e le mura, tirava al bersaglio l’artiglieria; quattro cannoni, dietro ai quali stava un gruppo di soldati, e ritta in mezzo a loro una figura alta e bianca,—il Sultano,—di cui però, dal luogo dov’ero, discernevo appena i contorni. Mi parve che di tratto in tratto parlasse agli artiglieri in atto di dar consigli. Dalla parte opposta della piazza, vicino al ponte, v’era un gruppo di mori, d’arabi, di neri, uomini e donne, gente di città e gente di campagna, signori e pezzenti, tutti stretti in un gruppo, che aspettavano, mi fu detto, d’esser chiamati ad uno ad uno dinanzi al Sultano, a cui dovevano chieder favori o giustizia;poichèil Sultano dà udienza tre volte la settimana a chiunque faccia domanda di parlargli. Parte di quella povera gente era forse venuta da città o da terre lontane a lagnarsi delle angherie dei governatori o a domandar grazia per i loro parenti sepolti in un carcere. V’erano donne cenciose e vecchi cadenti; tutti visi stanchi e tristi, su cui si leggeva il desiderio impazientee insieme la paura di dover comparire dinanzi al Principe dei Credenti, al giudice supremo, che avrebbe in pochi momenti, con poche parole, deciso forse della sorte di tutta la loro vita. Non mi parve che avessero nulla nelle mani o ai loro piedi, e per questo credo che il Sultano regnante abbia tolto l’uso, che c’era altre volte, di accompagnare ogni domanda con un regalo; il quale non veniva sdegnato, qualunque fosse, ed era qualche volta un paio di polli o una dozzina d’ova.
Girai in mezzo ai soldati. I ragazzi erano divisi in gruppi di trenta o quaranta e si divertivano a inseguirsi o a saltarsi gli uni gli altri, appoggiandosi le mani sulle spalle. In alcuni gruppi però il divertimento consisteva in una specie di pantomima, che, appena ne capii il significato, mi fece rabbrividire. Rappresentavano l’amputazione delle mani, il taglio della testa col coltello ed altri supplizi ai quali probabilmente avevano assistito parecchie volte. Un ragazzo faceva da caid, uno da boia, uno da vittima; questo, quando gli era tagliata la mano, fingeva di tuffar il moncherino nel catrame; un altro raccoglieva la mano recisa e la buttava in pasto ai cani; e tutti gli spettatori ridevano. Le faccie patibolari che avevan la maggior parte di quei soldatuccoli, non si possono descrivere. Ve n’era di tutte le sfumature dalnero d’ebano fino al giallo d’arancio, e non uno, neppure fra i più piccoli, che conservasse l’espressione della ingenuità infantile: avevan tutti qualchecosa di duro, di sfrontato, di beffardo, di cinico, che metteva pietà, piuttosto che sdegno. E non c’è bisogno di grande perspicacia per capire che non potrebb’essere altrimenti. Degli uomini, la maggior parte sonnecchiavano distesi in terra; altri ballavano alla negra in mezzo a un circolo di spettatori, facendo ogni sorta di smorfie e di lazzi; altri tiravano di scherma colle sciabole, nello stesso modo che i tiratori di Tangeri, saltellando con atteggiamenti da danzatori di corda. Gli ufficiali, tra cui molti rinnegati, che si riconoscevano al viso, alla pipa, e a un non so che di ricercato nel vestimento, passeggiavano in disparte, e quando gl’incontravo, sfuggivano i miei sguardi. Di là dal ponte, in un luogo appartato, c’era una ventina d’uomini ravvolti in cappe bianche, distesi in terra gli uni accanto agli altri, immobili come statue. Mi avvicinai: vidi che avevano le gambe e le braccia strette da grossissime catene. Erano condannati per delitti comuni che l’esercito si trascina sempre con sè, per esporli alla berlina. Al mio avvicinarsi, tutti si voltarono e mi fissarono in viso uno sguardo che mi fece tornare indietro.
Uscii di mezzo ai soldati e m’andai a riparareall’ombra d’una palma, sopra un rialto di terreno, di dove si dominava tutto lo spianato.
Ero là da pochi minuti, quando vidi un ufficiale staccarsi da un crocchio, e venir verso di me lentamente, guardando qua e là e canterellando, come per non farsi scorgere.
Era un omo piccolo, tarchiato, vestito presso a poco alla zuava, col fez, senz’armi. Poteva avere una quarantina d’anni.
Quando lo vidi da vicino, provai un senso di ribrezzo. Non ho mai visto nella gabbia di nessuna corte d’Assisie una faccia più perfida di quella. Avrei giurato che aveva sulla coscienza almeno dieci omicidii, accompagnati da insulti al cadavere.
Si fermò a due passi da me, mi fissò con due occhi vitrei e disse freddamente:
—Bonjour, monsieur.
Gli domandai s’era francese.
—Sì,—rispose.—Son venuto da Algeri. Son qui da sette anni. Son capitano nell’esercito del Marocco.
Non potendo fargli i miei complimenti, non risposi.
—C’est comme ça,—continuò con un fare spigliato.—Sono andato via da Algeri perchè non mi ci potevo più vedere.J’etais obligé de vivre dans un cercle trop étroit(voleva forse dire il capestro). La vita all’europea non si confacevaalla mia indole. Sentivo bisogno di cangiar paese.
—Ed ora siete contento? domandai.
—Contentissimo, rispose con affettazione.—Il paese è bello, Mulei el Hassen è il migliore dei Sultani, il popolo è buono, son capitano, ho una botteguccia, esercito una piccola industria, vado alla caccia, vado alla pesca, faccio escursioni sulle montagne, godo della più grande libertà. Non ritornerei in Europa, vedete, per tutto l’oro del mondo.
—Non desiderate nemmeno di rivedere il vostro paese? Avete dimenticato affatto anche la Francia?
—M’importa assai della Francia!—rispose.—Per me non esiste più Francia. La mia patria è il Marocco.
E diede una scrollata di spalle.
Quel cinismo mi rivoltò; non ci potevo quasi credere; mi venne la curiosità di scrutarlo più addentro.
—Da quando avete lasciato l’Algeria,—gli domandai,—non avete più avuto notizia degli avvenimenti d’Europa?
—Pas un mot,—rispose.—Qui non si sa nulla di nulla, ed io sono contentissimo di non saper nulla.
—Non sapete dunque che c’è stata una gran guerra tra la Francia e la Prussia.
Si scosse.
—Qui a vaincu?—domandò con una certa vivacità, fissandomi negli occhi.
—La Prussia,—risposi.
Fece un atto di sorpresa.
Gli raccontai in poche parole i grandi disastri della Francia, l’invasione, la presa di Parigi, la perdita delle due provincie.
Stette a sentire colla testa bassa e le soppracciglia aggrottate; poi si riscosse e disse con un certo sforzo:—C’est égal... je n’ai plus de patrie... ça ne me regarde pas...
E riabbassò la testa.
Io lo osservavo, se n’accorse.
—Adieu, monsieur,—disse improvvisamente, con voce alterata, e se n’andò a passi lesti.
—Tutto non è dunque morto ancora!—pensai, e me ne sentii rallegrato.
Intanto gli artiglieri avevan cessato di tirare al bersaglio, il Sultano s’era seduto sotto un padiglione bianco ai piedi d’una torre, e i soldati cominciavano a sfilargli davanti, un per uno, senz’armi, alla distanza di circa venti passi l’un dall’altro. Non essendoci nè accanto al Sultano, nè dirimpetto al padiglione alcun ufficiale che leggesse i nomi, come si fa da noi, per accertare l’esistenza di tutti i soldati segnati nei ruoli (e si dice che nell’esercito marocchino non esiston ruoli), non capii che scopo potesse averequella rassegna, fuor che di ricreare l’Imperatore; e fui tentato di riderne. Ma un secondo pensiero, il pensiero di ciò che v’era di primitivo e di poetico in quel monarca affricano, sommo sacerdote e principe assoluto, giovane, semplice, gentile, che stando tre ore solo all’ombra d’una tenda, si faceva tre volte la settimana passare dinanzi ad uno ad uno i suoi soldati, e ascoltava le preghiere e i lamenti dei suoi sudditi sventurati, m’ispirò invece un sentimento di profondo rispetto. E poichè era quella l’ultima volta che lo vedevo:—Addio, gli dissi andandomene, con un vivo slancio di simpatia;—addio, bello e nobile principe!—e quando la sua graziosa figura bianca scomparve per sempre ai miei occhi, sentii un moto dentro, come se in quel momento stesso mi si stampasse per sempre nel cuore.
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Nove giugno: ultimo del soggiorno dell’Ambasciata italiana in Fez. Tutte le domande dell’Ambasciatore sono state esaudite, accomodati gli affari del Ducali e dello Scellal, fatte le visite di congedo, subíto l’ultimo pranzo di Sid-Mussa, ricevuti i regali d’uso del Sultano: un bel cavallo nero, con una enorme sella di velluto verde, gallonata d’oro, all’Ambasciatore; sciabole dorate e damascate ai membri ufficiali dell’Ambasciata; una mula al secondo dracomanno. Le tende e le casse son partite stamattina, le stanze son vuote, le mule son pronte, la scorta ci attende alla porta della Nicchia del burro, i miei compagni passeggiano nel cortile aspettando l’ora della partenza, ed io seduto per l’ultima volta sul mio letto imperiale, noto, col quaderno sulle ginocchia, le mie ultime impressioni di Fez. Quali sono? Che cosa ha finito per lasciarmi, in fondo all’anima, lo spettacolo di questa città, di questa gente, di questo stato di cose? Se appena penetro col pensiero sotto l’impressione gradevole della meraviglia e della curiosità soddisfatta, trovo una mescolanza di sentimenti diversi, che mi lasciano l’animo incerto. È unsentimento di pietà che mi desta la decadenza, l’avvilimento, l’agonia di questo popolo guerriero e cavalleresco, che lasciò una così luminosa traccia nella storia delle scienze e delle arti, ed ora non serba nemmen più la coscienza della sua gloria passata. È un sentimento d’ammirazione per quello che rimane in lui di forte e di bello, per la maestà virile e graziosa del suo aspetto, del suo vestire, dei suoi modi, delle sue cerimonie; per tutto ciò che presenta ancora d’anticamente semplice la sua vita triste e silenziosa. È un sentimento di sconforto al vedere tanta barbarie a così poca distanza dalla civiltà, e come in questa civiltà sia così sproporzionata la forza di innalzarsi a quella di espandersi, se in tanti secoli, pure crescendo sempre nella sua sede, non riuscì a fare da questa parte duecento miglia di cammino. È un sentimento di sdegno pensando che al grande interesse dell’incivilimento di questa parte dell’Affrica, prepongono gli Stati civili i loro privati e piccoli interessi mercantili, e scemando così nel concetto di questo popolo, collo spettacolo delle loro meschine gelosie, l’autorità propria, e quella della civiltà che gli voglion portare, rendono sempre più lenta e più difficile l’impresa comune. Infine è un sentimento di piacere vivissimo pensando che in questo paese mi son formatonella testa un altro mondicino, popolato, animato, pieno di nuovi personaggi che mi vivranno nella mente per tutta la vita, che evocherò a mio piacere, e m’intratterrò con essi, e mi parrà di rivivere in Affrica. Senonchè da questo lieto sentimento ne nasce uno triste, il sentimento inevitabile che getta un’ombra su tutte le ore serene e una goccia d’amaro in tutti i piaceri... quello che mi espresse il negoziante moro per dimostrarmi la vanità di questo grande affaccendarsi dei popoli civili a studiare, a cercare, a scoprire; e allora questo bel viaggio non mi par più che il passaggio rapidissimo d’una bella scena in uno spettacolo d’un’ora, che è la vita; e la matita mi cade di mano e mi piglia un nero sconforto... Ah! la voce di Selam che mi chiama! Si parte dunque! Si ritorna alla tenda, alle cariche guerriere, alle grandi pianure, alla gran luce, all’allegra e sana vita dell’accampamento. Addio, Fez! Addio, sconforto! Il mio mondicino affricano torna a illuminarsi di color di rosa.