MECHINEZ

Dopo ventiquattro giorni di vita cittadina, la carovana mi fece l’impressione viva d’uno spettacolo nuovo. Eppure nulla era mutato, eccetto che, in mezzo a noi, accanto a Mohammed Ducali, cavalcava il moro Scellal, il quale, benchè i suoi affari fossero stati accomodati amichevolmente, credeva più prudente ritornare a Tangeri sotto le ali dell’Ambasciatore, che rimanere a Fez sotto quelle del suo Governo. Oltre a ciò, un osservatore acuto avrebbe notato sui nostri visi, se pessimista, un certo dispetto, se ottimista, una certa serenità, che derivava dalla coscienza, profonda in tutti, di non aver lasciato nella illustre capitale dell’Impero nessuna bella malinconica, nessun marito offeso, nessuna famiglia sconvolta, nemmeno un lembo d’un caic femminino profanato. A tutti poi brillavasul viso il pensiero del ritorno, per quel po’ che se ne poteva vedere sotto gli ombrelli, i veli, i fazzoletti, di cui la maggior parte s’erano coperti la testa per ripararsi dal sole ardentissimo e dal polverio soffocante. Ahimè! Questo era il gran cangiamento! Il sole di maggio s’era cangiato in sole di giugno, il termometro segnava quarantadue gradi al momento della partenza, e dinanzi a noi si stendevano duecento miglia di terra affricana. Questo pensiero ci amareggiava non poco la soddisfazione di partire da Fez senza rimorsi.

Per tornare a Tangeri, dovevamo andare a Mechinez; di qui a Laracce; da Laracce, lungo la costa dell’oceano, ad Arzilla, e da Arzilla a Ain-Dalia, dove c’eravamo accampati la prima volta.

Impiegammo tre giorni per andare a Mechinez che è distante da Fez circa cinquanta chilometri.

Il paese non ci presentò, per quel tratto, varietà notevoli da quello che avevamo visto andando a Fez: sempre quei campi d’orzo e di grano, in molti dei quali si cominciava a mietere; quei duar neri, quei vasti spazi coperti di lentischi e di palme nane, quelle grandi ondulazioni di terreno, colline rocciose, piccoli torrentiasciutti, palme solitarie,cubebianche, una splendida pace e una tristezza infinita. Ma a cagione della vicinanza delle due grandi città, incontrammo più gente che non ne avessimo mai incontrata sulla via da Tangeri a Fez: carovane di cammelli, grandi armenti, negozianti che conducevano al mercato di Fez stormi di cavalli bellissimi; santi che predicavano al deserto, corrieri a piedi e a cavallo, gruppi di arabe armate di falce che andavano alla mietitura, e parecchie ricche famiglie moresche che si recavano a Fez con tutte le loro masserizie e tutti i loro servi. Una di queste, la famiglia d’un ricco negoziante di Mechinez, che il Ducali riconobbe, formava una lunga carovana. Venivano innanzi due servi armati di fucile; e dietro a loro il capo della famiglia, un bell’uomo d’aspetto severo, con barba nera e turbante bianco, a cavallo a una mula elegantemente bardata; il quale con una mano teneva le redini e tratteneva un bimbo di due o tre anni seduto sul dinanzi della sella; coll’altra stringeva le mani d’una donna completamente velata,—forse la sua sposa favorita,—che gli stava alle spalle, a cavalcioni alla mula, tutta raggomitolata, abbracciandolo sotto le ascelle (forse per paura di noi) come se lo volesse soffocare. Altre donne, tutte col viso coperto, a cavallo ad altre mule, venivan dietroal padrone; parenti armati, ragazzi, serve nere con bimbi in braccio, servi arabi a piedi, con fucili sulle spalle; mule ed asini carichi di materasse, di guanciali, di coperte, di piatti, d’involti; e infine altri servi a piedi che portavano gabbie con dentro canarini e pappagalli. Le donne, passandoci accanto, si ravvolsero meglio la testa nel caic, il negoziante non ci guardò, i parenti ci diedero un’occhiata diffidente, e due bambini si misero a piangere. Da questi spettacoli, però, ci distrasse il terzo giorno un avvenimento assai triste. Il povero dottore Miguerez, assalito alla seconda tappa da dolori di sciatica atrocissimi, dovette essere trasportato a Mechinez sopra una lettiga fabbricata alla meglio con una branda e due travi di tenda, e appesa alla groppa di due mule; e questo mise in tutti una profonda tristezza. La carovana si divise in due. Non si può dire quanto stringesse il cuore il vedere, come vedevamo spesso, apparire dietro di noi sulla sommità d’un’altura e scendere lentamente quella lettiga, circondata di soldati a cavallo, di mulattieri, di servi, d’amici, tutti gravi e silenziosi come un corteo funebre; e di tratto in tratto fermarsi e chinarsi tutti sull’infermo; e poi rimettersi in cammino, accennando a noi lontani che il nostro povero amico peggiorava! Era uno spettacolo doloroso, ma ad un tempo bello e gentile,che dava a tutta la carovana l’aspetto della scorta afflitta d’un Sultano ferito.

Il primo giorno ci accampammo ancora nella pianura di Fez; il secondo sulla riva destra del fiume Mduma, a cinque ore circa da Mechinez. Qui seguì un caso piacevolissimo. Verso sera andammo tutti sulla riva del fiume, a un mezzo miglio dall’accampamento, vicino a un granduar, di cui ci venne incontro tutta la popolazione. Là c’era un ponte di muratura, di un sol arco, di stile arabo, vecchio, ma, salvo pochi guasti, ancora intero e saldo; e accanto a questo gli avanzi d’un altro ponte, parte incastrati nelle rive alte e rocciose, parte ammucchiati in fondo al letto del fiume. Sulla riva sinistra, a un cinquanta passi dal ponte, c’era una gran muraglia diroccata, alcune traccie di fondamenta, qualche macigno, qualche grossa pietra tagliata che pareva avesse appartenuto ad un edifizio ragguardevole. Tutt’intorno la campagna era deserta. Erano i resti, si diceva, d’una città araba chiamata Mduma, fabbricata sulle rovine d’un’altra città, anteriore all’invasione mussulmana. Perciò ci mettemmo a cercare tra i ruderi se mai rimanesse qualche indizio di costruzione romana; ma non trovammo o non riconoscemmo nulla, con manifesta soddisfazione degli arabi, i quali credevano senza dubbio che cercassimo, sulla fede dei nostrilibracci diabolici, qualche tesoro nascosto là daiRumli(romani), di cui, secondo loro, tutti i cristiani sono discendenti diretti. Il capitano di Boccard, però, ripassando sul ponte per tornare all’accampamento, vide giù nel fiume, sulla punta d’un enorme macigno di forma quasi piramidale, alcune piccole pietre quadrate, su cui pareva che fossero incisi dei caratteri; e il fatto che si trovassero là, come se ci fossero state poste perchè si vedessero dal ponte, avvalorava quella supposizione. Il capitano manifestò l’intenzione d’andar a vedere. Tutti lo sconsigliarono. Le rive del fiume erano ripidissime, il fondo tutto ingombro di pietroni acuti e molto discosti l’uno dall’altro, la corrente rapida, il macigno su cui eran le pietre, altissimo e di accesso o impossibile o pericoloso. Ma il capitano di Boccard è una di quelle testine che quando han fissato il chiodo in un’impresa rischiosa, è finita: o s’ammazzano o ne vengono a capo. Non avevamo ancora finito di dir no, ch’egli scendeva già, così come si trovava, cogli stivali alla scudiera e gli sproni, giù per la riva del fiume. Un centinaio d’arabi stavano a vedere, parte schierati sull’alto delle due rive, parte appoggiati alle spallette del ponte. Appena capirono dove il capitano voleva andare, parve a tutti così disperata l’impresa che si misero a ridere. Quando poi lovidero soffermarsi sulla sponda, e guardare qua e là in cerca d’un passaggio, credendo che gli mancasse l’animo, diedero in un’altra risata più insolentemente sonora.—Nessuno di noi,—disse un di loro ad alta voce,—è mai riuscito a salire là sopra: staremo a vedere se ci riesce un nazareno.—E certo nessun altro di noi italiani ci sarebbe salito; ma quello che ci si provava, era per l’appunto il più svelto personaggio dell’Ambasciata. Le risa degli arabi gli diedero l’ultima spinta. Spiccò un salto, disparve in mezzo agli arbusti, ricomparve ritto sopra un sasso, si rinascose, e così, di pietrone in pietrone, saltando come un gatto, strisciando, arrampicandosi, rischiando dieci volte di cader nel fiume o di spezzarsi la testa, riuscì ai piedi del macigno, e senza prender fiato, aggrappandosi a tutti gli sterpi e a tutti gli incavi, salì sulla sommità e vi si drizzò come una statua. Noi tirammo un gran respiro, gli arabi rimasero attoniti, l’onore italiano era salvo. Il capitano, da nobile vincitore, non degnò nemmeno d’uno sguardo i suoi avversarii scornati, e appena riconosciuto che le supposte pietre istoriate non erano che frantumi di calcestruzzo delle spallette del ponte, scese giù da un’altra parte, e in pochi salti riafferrò la riva dove fu ricevuto cogli onori del trionfo.

Il tragitto dalla Mduma a Mechinez fu un seguito d’inganni e di disinganni ottici così singolari, che se non fosse stato il caldo soffocante, ce ne saremmo immensamente divertiti. A due ore infatti, o poco più, dall’accampamento, vedemmo lontano in mezzo a una vastissima pianura nuda, biancheggiare vagamente i minareti di Mechinez, e ci rallegrammo pensando che ci saremmo presto arrivati. Ma quella che ci pareva pianura, non era invece che una successione interminabile di vallette parallele, separate da larghe onde di terreno tutte eguali d’altezza, che presentavano l’aspetto d’una superficie continua; per cui, andando innanzi, la città si nascondeva e ricompariva continuamente, come se facesse capolino; e oltre a ciò, le valli essendo dirupate, rocciose e non attraversabili che per sentieri serpeggianti e difficili, il cammino da farsi era almeno doppio di quello che, a primo aspetto, avevamo giudicato; e sembrava che la città s’allontanasse via via che ci avanzavamo; e in ogni valle si apriva il cuore alla speranza, e sopra ogni altura si tornava a disperare, e sonavan voci alte e fioche e sospiri lamentevoli e irosi propositi di rinunzia a qualunque futuro viaggio nell’Affrica, fatto con qualunque scopo e in qualunque condizione; quando, come Dio volle, uscendo da un bosco d’olivi selvatici, ci vedemmo dinanzi all’improvvisola città sospirata, e tutti i lamenti morirono in una esclamazione di meraviglia.

Mechinez, distesa sopra una lunga collina, circondata di giardini, stretta da tre ordini di grosse mura merlate, coronata di minareti e di palme, allegra e maestosa come un sobborgo di Costantinopoli, si presentava intera al nostro sguardo, disegnando le sue mille terrazze bianche sull’azzurro del cielo. Non un nuvolo di fumo usciva da quella moltitudine di case, non si vedeva un’anima viva nè sulle terrazze nè davanti alle mura, non si sentiva il più leggero rumore: pareva una città disabitata, o una immensa scena di teatro.

Fu rizzata subito la tenda della mensa in mezzo a un campo nudo, a ducento passi da una delle quindici porte della città, e pochi minuti dopo ci sedemmo per saziare, come dicono i prosatori eleganti, «il naturale talento di cibo e di bevanda.»

Appena eravamo seduti, uscì dalla porta della città e s’avanzò verso l’accampamento un drappello di cavalieri pomposamente vestiti, preceduti da una schiera di soldati a piedi.

Era il Governatore di Mechinez coi suoi parenti e i suoi ufficiali.

A venti passi dalla tenda, scesero dai lorocavalli bardati di tutti i colori dell’iride, e si slanciarono verso di noi gridando tutti insieme:—Benvenuti! Benvenuti! Benvenuti!—Il governatore era un giovane di fisonomia dolce, d’occhi neri, di barba nerissima; tutti gli altri, uomini tra i quaranta e i cinquanta, d’alta statura, barbuti, vestiti di bianco, lindi, profumati, che parevano usciti da uno scatolino. Strinsero le mani a tutti, girando intorno alla tavola a passo di contraddanza e sorridendo graziosamente, e poi si radunarono daccapo dietro al Governatore. Uno d’essi, vedendo per terra un briciolo di pane, lo raccolse e lo rimise sulla tavola dicendo alcune parole che significavano probabilmente:—Scusate: il Corano condanna il disperdimento del pane: io faccio il mio dovere di buon Mussulmano.—Il Governatore offerse a tutti l’ospitalità in casa sua, che venne acettata. Non rimanemmo nell’accampamento che i pittori ed io, ad aspettare che scemasse il caldo per andare in città.

Selam ci tenne compagnia, raccontandoci le meraviglie di Mechinez.

—A Mechinez ci sono le più belle donne del Marocco, i giardini più belli dell’Affrica e il palazzo imperiale più bello del mondo.—Così cominciò. E Mechinez gode infatti questa fama nell’Impero. Mechinesina è sinonimodi bella e mechinesino di geloso. Il palazzo imperiale, fondato da Mulei-Ismaele, che nel 1703 ci teneva quattromila donne e ottocento sessantasette figliuoli, aveva due miglia di circuito ed era ornato di colonne di marmo fatte venire in parte dalle rovine della città di Faraone, vicina a Mechinez, in parte da Livorno e da Marsiglia. V’era un grande alcazar dove si vendevano i più preziosi tessuti d’Europa, un vasto mercato riunito alla città da una strada ornata di cento fontane, un parco d’olivi immenso, sette grandi moschee, un formidabile presidio d’artiglieria che teneva in freno i berberi delle vicine montagne, un tesoro imperiale di cinquecento milioni di lire, e una popolazione di cinquantamila abitanti che erano considerati come i più colti e i più ospitali dell’Impero.

Selam ci descrisse con voce bassa e con gesti misteriosi il luogo dov’è rinchiuso il tesoro, che nessuno sa quanto sia; ma che certo dev’essere di molto scemato dopo le ultime guerre, se pure è ancora tale da meritare il nome di tesoro.—Dentro il palazzo del Sultano,—disse,—c’è un altro palazzo, tutto di pietra, che riceve la luce dall’alto ed è circondato da tre giri di muraglie. Si entra per una porta di ferro, si trova un’altra porta di ferro e poi c’è ancora una porta di ferro. Dopo queste treporte, c’è un corridoio basso e oscuro, dove bisogna passare coi lumi, e il pavimento è di marmo nero, le pareti nere, la vôlta nera, e l’aria ha odore di sepolcro. In fondo al corridoio, v’è una gran sala, e nel mezzo della sala, un’apertura, che mette in un sotterraneo profondo, dove trecento neri gettano quattro volte all’anno, a palate, le monete d’oro e d’argento che manda il Sultano. Il Sultano sta a vedere. I neri che lavorano nella sala sono chiusi nel palazzo per tutta la vita. Quelli che lavorano nel sotterraneo non ne escono che morti. E intorno alla sala vi sono dieci vasi di terra, che contengono le teste di dieci schiavi che una volta tentarono di rubare. E Mulei-Soliman faceva tagliare la testa a tutti, appena i denari erano al posto. E nessun uomo è mai uscito vivo da quel palazzo fuor che il Sultano nostro signore.—

E raccontava questi orrori, senza dar il menomo segno d’indignazione, anzi quasi con un accento ammirativo, come se fossero cose sovrumane e fatali, di cui un uomo non dovesse giudicare nè provare altro sentimento che un misterioso rispetto.

—C’era una volta un re di Mechinez,—ripigliò poi colla sua inalterabile gravità, stando sempre ritto dinanzi alla nostra tenda, con una mano sull’impugnatura della sciabola;—il qualevoleva fare una strada da Mechinez fino a Marocco, fiancheggiata da due alti muri, affinchè anche i ciechi potessero andare da una città all’altra senza bisogno di guida. E questo re perverso e crudele aveva un anello col quale poteva chiamare a suo servizio tutti i demoni. E li chiamò e li fece lavorare alla strada. Ce n’erano migliaia e migliaia, e ognuno d’essi portava delle pietre che cento uomini non sarebbero bastati a muovere d’un dito, e quelli che non avevan voglia di lavorare, il re li faceva calcinar vivi nei muri, e se ne vedono ancora le ossa. (Si vedono ancora, infatti, ma sono ossa di schiavi cristiani, che si ritrovano pure nelle mura di Salè e di Rabatt). E già i due muri della strada erano stati fabbricati per la lunghezza d’una giornata di cammino, e tutti si rallegravano pensando che la strada sarebbe presto finita. Ma quel re spiaceva ad Allà, ed Allà non volle che la strada si finisse. Un giorno ch’egli passeggiava a cavallo, una povera donna della campagna lo arrestò e gli disse:—Dove vuoi riuscire con questa strada, re temerario?—All’inferno!—rispose il re indispettito.—Sprofondavi dunque!—gridò la donna. A quelle parole il re cadde morto da cavallo, i muri crollarono, i demoni sparpagliarono le pietre per la campagna, e la strada rimase incompiuta per sempre.

—E tu credi che tutto questo sia vero, Selam?—gli domandai.

—Naturalmente,—rispose meravigliandosi del mio dubbio.

—Credi ai demoni?

—Ma certo che ci credo! Stiamo a vedere che non si deve credere ai demoni!

—Ma ne hai mai veduti?

—Mai! E per questo credo che non ce ne siano più sulla terra, e quando sento dire: Guardatevi dal passare di notte in quel tal luogo perchè ci sono i demoni,—ci vado subito, ci passo io per il primo, perchè so che i demoni sono uomini, e io con un buon cavallo tra le ginocchia e un buon fucile nel pugno, non ho paura di nessuno.

—E per che motivo, secondo te, ora non ci son più demoni e una volta ce n’era?

—Oh bella!—rispose allontanandosi;—perchè una volta il mondo non era il mondo d’adesso. E perchè, potrei domandare a lei, una volta gli uomini erano più alti, le giornate erano più lunghe e le bestie parlavano?

E se n’andò scrollando la testa in atto di compatimento.

Quel giorno, pranzando l’Ambasciatore in città, Selam e gli altri soldati non fecero che galoppare fra la città e le tende, con gran divertimentodei pittori e mio, perchè mai più di quel giorno ci colpì il ridicolo contrasto della maestà del loro aspetto coll’umiltà dei loro uffici. Ecco, per esempio, il servo Hamed, piantato sopra uno stupendo cavallo nero, che esce di galoppo dalla porta merlata di Mechinez e si slancia a briglia sciolta a traverso la campagna. Il suo alto turbante, illuminato dal sole, splende della bianchezza della neve; la sua grande cappa celeste ondeggia al vento come un manto reale; il suo pugnale scintilla; tutta la sua figura maschia e graziosa, spira la maestà d’un principe e la baldanza d’un guerriero. Quante vaghe immagini fa brillare alla mente quel bel cavaliere mussulmano che vola come un fantasma sotto le mura d’una città medioevale! Dove va? a rapire la più bella figliuola del pascià di Faraone? a sfidare il valoroso caid d’Uazzan, fidanzato alla sua amante? a versare i suoi affanni nel seno del santo secolare che prega da ottant’anni sulla cima del monte Zerhun, nella sacrazauiadi Mulei-Edris?

No; viene all’accampamento a pigliare un fritto di patate per il desinare dell’Ambasciatore.

Verso il tramonto, i pittori ed io andammo in città, a cavallo alle nostre mule, accompagnati da quattro soldati a piedi del governatoredi Mechinez, i quali avevano lasciato i fucili e s’erano armati di bastoncini e di funi a nodi. Prima di metterci in cammino, però, convenimmo con loro, interprete Hamed, che quando avessimo battuto tutti e tre palma a palma, in qualunque punto della città ci trovassimo, essi avrebbero preso la via più corta per ricondurci all’accampamento.

Passate due porte esterne, divise da una salita ripidissima, ci trovammo nel centro della città. La prima impressione fu una gradevole sorpresa. Mechinez che c’immaginavamo più malinconica di Fez, è invece una città allegra, piena di verde, attraversata da molte strade tortuose, ma larghe e fiancheggiate da case basse o da muri di giardini di poca altezza, che lasciano vedere le cime delle bellissime colline circostanti. Da ogni parte, si vede sorgere sopra le case un minareto, una palma, un muro merlato; a ogni passo una fontana o una porta ornata di arabeschi; quercie e fichi frondosi in mezzo alle strade e alle piazze; e per tutto aria aperta, luce, odor di campagna e una certa pace gentile di città principesca, decaduta, ma non morta. Dopo molti giri riuscimmo in una vasta piazza, sulla quale dà la facciata monumentale del palazzo del Governatore, risplendente di graziosissimi musaici di smalto di cento colori; e in quel momento battendovi gli ultimiraggi del sole, scintillava tutta come i palazzi tempestati di perle delle leggende orientali. Dieci soldati facevano ilgioco della polvere, una cinquantina di servi e di guardie stavano seduti in terra dinanzi alla porta, la piazza era deserta. Che bel momento! Quella facciata luminosa, quei cavalieri, quelle torri, la solitudine, il tramonto, formavano tutt’insieme uno spettacolo così schiettamente moresco, spiravano un’aura così viva d’altri tempi, presentavano in un sol quadro tanta storia, tanta poesia, tanti sogni, che rimanemmo un pezzo tutti e tre immobili in mezzo alla piazza come trasecolati. Di là, i soldati ci condussero a vedere una grande porta esterna, di forma nobilissima, rivestita pure, dal piede dei muri fino alla sommità, di musaici delicati e multicolori, che brillavano al sole come una miriade di rubini, di zaffiri e di smeraldi, incastonati in un arco trionfale d’avorio; e i pittori la schizzarono sull’album colla testa in visibilio; e rientrammo in città. Fin qui la gente che avevamo incontrata per strada, non s’era mostrata che curiosa, e c’era parso anzi che ci guardasse con occhio meno malevolo che la popolazione di Fez. Ma tutt’a un tratto, senza un’ombra di ragione, cangiò d’umore. Cominciarono alcune vecchie a mostrarci il bianco dell’occhio, poi alcuni ragazzi a tirar sassolini fra le gambealle nostre mule, poi uno sciame di monelli a correrci dinanzi e un altro sciame alle spalle, facendo una gazzarra d’inferno. I soldati, ben inteso, non stettero a far complimenti. Due rimasero davanti, due ci si misero dietro, e attaccarono un vero combattimento colla ragazzaglia, legnando i più vicini, tirando sassate ai più lontani, inseguendo per lunghi tratti i più insolenti. Ma fu fatica sprecata. Non osando risponder coi sassi, i monelli si misero a buttar aranci fradici, buccie di limone, sterco secco, e la pioggia diventò in pochi momenti così fitta, che ci parve prudente di consigliare i soldati a desistere dalle offese, per non provocare di peggio. Ma i soldati inaspriti o non ci sentirono o non ci vollero dar retta e continuarono a combattere con furore crescente. Non potendo sfogarsi sui monelli, se la pigliavano cogli uomini. A ogni pancia che spuntasse da una porta, una funata, a modo di avvertimento; a ogni povero diavolo che, passandoci accanto, non si stringesse al muro, un urtone che lo cacciava dieci passi indietro; a ogni vecchia che ci guardasse torvo, i pugni sul viso e un urlo sgangherato nell’orecchio. Indignati di quella brutalità, li avvertimmo con gesti risoluti che smettessero. Quei disgraziati credettero che li rimproverassimo di fiacchezza e si diedero a picchiare più forte. Per giunta, sbucarononon so di dove due ragazzi di dieci o dodici anni, forse parenti dei soldati, armati anch’essi di bastoni; s’aggregarono, bastonatori volontarii, alla scorta, e cominciarono a menar botte così disperate, a uomini, a donne, ad asini, a muli, a vicini, a lontani, che i soldati stessi si videro costretti a raccomandar loro la moderazione. E ad ogni legnata, si voltavano tutti e due a guardare noi tre, come per consigliarci di prenderne atto per ricordarcene nel dare la mancia; e siccome noi ridevamo come matti, pigliavano il nostro riso come un incoraggiamento, e tiravan via a picchiare come anime perdute. Ora che seguirà?—dicevamo noi.—Uno scandalo! una rivoluzione!—Già i legnati brontolavano, qualcuno aveva alzato la mano sui due ragazzi, bisognava uscir di città immediatamente. Il Biseo, nondimeno, esitava ancora, quando, nel passare per una piazzetta piena di gente, un sasso colpì nella testa la mia mula e una carota rasentò la nuca dell’Ussi. Allora ci decidemmo a battere tutti e tre palma a palma, il segnale convenuto per la ritirata. Ma anche questo innocente segnale provocò un baccano. I soldati, per mostrarci che avevan capito, ci risposero battendo le mani; tutta la gente ch’era nella piazza, intendendo forse di canzonarci, si mise a battere; e intanto continuavano a pioverebuccie di limone e maledizioni e legnate; e piovevano ancora ch’eravamo vicini alla porta; e quando già scendevamo verso l’accampamento, ci gridavano ancora alle spalle dall’alto delle mura:—Maledetto il padre tuo!—Sia sterminata la vostra razza!—Dio faccia arrostire i vostri bisnonni!—

Così ci ricevette la città di Mechinez, e fortunati noi ch’era la città più ospitale dell’Impero!

La mattina seguente fu portata all’accampamento una lettiga per il medico, fatta in ventiquattr’ore dai più abili falegnami di Mechinez, i quali ci avrebbero senza dubbio impiegato più di ventiquattro giorni, se non li avesse sollecitati il Governatore con una certa intimazione, a cui sarebbe stato un po’ rischioso di fare il sordo. Era una macchina pesante e mal adatta, che somigliava più a una gabbia per trasportar bestie feroci, che a una lettiga per un malato; assai meglio fatta, nondimeno, di quello che tutti noi prevedessimo; e gli operai che vi diedero sotto i nostri occhi le ultime martellate, n’erano così alteri e si sentivano tanto sicuri della nostra ammirazione, che lavorando, tremavano dall’emozione, e ad ogni nostra parola, mandavan lampi dagli occhi. Quando il Morteo mise nelle loro mani i denari,ringraziarono gravemente, e se n’andarono con un sorriso di trionfo che voleva dire:—Orgogliosi ignoranti, v’abbiamo fatto vedere chi siamo.

Verso il tramonto partimmo da Mechinez e camminammo per due ore a traverso la più bella campagna che abbia mai visto in sogno un paesista innamorato. Vedo, sento ancora la divina grazia di quelle colline verdi sparse di roseti, di mirti, di leandri, d’aloè fioriti; lo splendore di quella città di Mechinez indorata dal sole, che si nascondeva al nostro sguardo minareto per minareto, palma per palma, terrazza per terrazza, e più si impiccioliva, più pareva che s’alzasse, come se le crescesse sotto la collina; e l’aria impregnata di profumi che facevano fremere, e le acque che riflettevano i mille colori della scorta, e l’infinita mestizia di quel cielo rosato; vedo, sento ancora tutto questo, e non lo so descrivere! Ah! mi morderei le dita!

Era il mezzodì del quinto giorno della nostra partenza da Fez, quando, dopo una cavalcata di cinque ore a traverso una successione di valli deserte, ripassavamo per la gola Beb-el-Tinca e vedevamo un’altra volta dinanzi a noi la vastissima pianura di Sebù inondata d’una luce bianca, ardente, implacabile, di cui il solo ricordo mi fa salire le vampe al viso. Tutti, fuorchè l’Ambasciatore e il capitano, che partecipano della virtù favolosa della salamandra, di star nel fuoco senz’ardere, ci coprimmo il capo come fratelli della Misericordia, ci ravvoltammo con gran cura nelle cappe e nelle coperte, e senza profferire una parola, col mento sul petto, cogli occhi socchiusi, scendemmo nella terribile pianura, confidando nella clemenza di Dio. A un certo punto si sentì la voce del Comandante ilquale ci annunziava che eragiàmorto un cavallo. Era morto infatti uno dei cavalli che portavano i bagagli. Nessuno rispose.—Si sa—soggiunse il Comandante spietato;—i cavallimuoiono per i primi.—Anche queste parole furono seguite da un silenzio mortale. Dopo mezz’ora, si sentì la voce fioca d’un altro che domandava all’Ussi a chi avrebbelasciatoil suo quadro di Bianca Cappello. Per tutto il tragitto non si sentirono altre parole. Anche i soldati della scorta tacevano. Il caldo opprimeva tutti. Persino il caid Hamed Ben Kasen, malgrado il grande turbante che gli ombreggiava il viso, gocciolava di sudore. Povero generale! Quella mattina mi dimostrò una pietà di cui mi ricorderò per tutta la vita. Vedendo che rimanevo indietro, venne al mio fianco e si mise a bastonare la mia mula con uno zelo così sviscerato, che in pochi momenti passai dinanzi a tutti, portato via di galoppo, saltellando sulla sella come un automa di gomma elastica, e arrivai all’accampamento cinque minuti prima degli altri, colle budella sottosopra e il cuore pieno di gratitudine.

Quel giorno nessuno uscì dalla tenda fino all’ora del desinare, e il desinare stesso fu silenzioso, come se tutti si sentissero già oppressi dal caldo del giorno seguente. Un solo avvenimento,a sera innoltrata, destò un po’ di chiasso nell’accampamento. Eravamo alle frutta, quando udimmo un gridìo lamentevole dalla parte del piccolo accampamento della scorta, e nello stesso tempo un rumore cadenzato di colpi che parevano frustate. Credendo che fossero i soldati o i servi che scherzassero, non ci badammo. Ma a un tratto le grida diventarono strazianti, e sentimmo profferire distintamente, con un accento d’invocazione supplichevole, il nome del fondatore di Fez:—Mulei-Edriss! Mulei-Edriss! Mulei-Edriss!—Ci alzammo tutti da tavola, e correndo verso quella parte, arrivammo in tempo a vedere una tristissima scena. Due soldati della scorta tenevano sospeso, uno per le spalle, l’altro per i piedi, un servo arabo; un terzo lo flagellava disperatamente con una frusta, un quarto teneva in mano una lanterna, gli altri facevano corona, il caid assisteva colle braccia incrociate sul petto. L’Ambasciatore fece rilasciare immediatamente la vittima, che s’allontanò singhiozzando, e domandò al caid che cosa era accaduto.—Nulla, nulla,—rispose,—una piccola correzione.—E soggiunse che aveva fatto punire quell’uomo perchè si divertiva a buttare ai suoi compagni delle pallottole di cuscussù, grave colpa, sacrilegio anzi per un Mussulmano, che deve rispettare ogni alimento prodotto dalla terra come un dono di Dio.Dicendo questo, il povero caid, bonissim’omo in fondo, non riusciva a nascondere, benchè volesse parere impassibile, il dolore d’aver dovuto infliggere quel castigo e la pietà che ne aveva provato; e questo bastò a rimetterlo al suo posto dentro al mio cuore.

La notte fummo svegliati da un caldissimo vento di levante, che ci fece balzar fuori della tenda colla bocca spalancata, in cerca d’un filo d’aria respirabile; e all’alba ci mettemmo in cammino con un tempo fosco che preannunziava una giornata anche più calda della precedente. Il cielo era tutto coperto di nuvole, da una parte infocate dal sole nascente e rotte in varii punti da raggi vivissimi; dalla parte opposta, nere e rigate da striscie oblique di pioggia. Da questo cielo inquieto scendeva una luce strana, che pareva passata a traverso una volta di vetro giallastro, e dava alla vastissima pianura tutta coperta di stoppie un arrabbiato colore sulfureo, che quasi offendeva la vista. Lontano, il vento sollevava e rigirava con una rapidità furiosa immensi nuvoli di polvere. La campagna era solitaria, l’aria pesante, l’orizzonte nascosto da un velo di vapori color di piombo. Senz’aver visto il Sahara, m’immaginai che dovesse presentare qualche volta quel medesimo aspetto, e già stavoper esprimere il mio pensiero, quando l’Ussi, che fu in Egitto, arrestandosi improvvisamente, esclamò con un accento di meraviglia:—Ecco il deserto!

Dopo quattr’ore di cammino, arrivammo sulla riva del Sebù, dove venti cavalieri dei Beni-Hassen, comandati da un bel ragazzo di dodici anni, figlio del Governatore Sid-Abd-Allà, ci vennero incontro di carriera, salutandoci colle solite fucilate e le solite grida.

L’accampamento fu piantato in fretta e in furia vicino al fiume, in un terreno nudo, rotto da profonde screpolature, e fatta colazione alla lesta, ci ritirammo tutti sotto le tende.

Fu quella la giornata più calda del viaggio.

M’ingegnerò di dare una lontana idea dei nostri tormenti.

I lettori gentili preparino il cuore a un sentimento di profonda pietà.

M’asciugo il sudore e scrivo.

Alle dieci della mattina, quando i miei tre compagni ed io ci ritirammo sotto la tenda, il termometro segnava quarantadue centigradi all’ombra. Per un’ora circa, la conversazione si mantenne animata. In capo a un ora, cominciando a provare una certa difficoltà a terminare i periodi, ci riducemmo a discorrere a proposizioni semplici. Poi, costandoci faticaanche il mettere insieme soggetto, verbo e attributo, smettemmo di parlare e tentammo di dormire. Fu un tentativo inutile. I letti caldi, le mosche, la sete, l’affanno non ci lasciavano chiuder occhio. Dopo aver molto sbuffato ed esserci molto dimenati, ci rassegnammo a star svegli, cercando d’ingannare il tempo in qualche modo. Ma non v’era modo. Sigari, pipe, libri, carte geografiche, tutto ci cadeva di mano. Provai a scrivere: alla terza riga la pagina era fradicia dal sudore che mi cadeva dalla fronte come acqua da una spugna spremuta. Mi sentivo tutto il corpo percorso da innumerevoli rigagnoli che s’intersecavano, s’inseguivano, formavano dei confluenti e dei ringorghi, e venivan giù per le braccia e per le mani fino ad annacquarmi l’inchiostro sulla punta della penna. In pochi minuti, fazzoletti, asciugamani, veli, tutto ciò che poteva servire ad asciugarci, era inzuppato che pareva stato immerso in un secchio. Avevamo un barile pieno d’acqua: provammo a bere: era bollente. La buttammo via: aveva appena toccato terra, che non se ne vedeva più traccia. A mezzogiorno il termometro segnava quarantaquattro gradi e mezzo. La tenda era un forno. Tutto quello che toccavamo, scottava. Mi posi una mano sulla testa: mi parve di metterla sopra una stufa. Il letto ci scaldava le reni a segnoche non era più possibile star coricati. Provai a metter la mano in terra fuori della tenda: la terra era rovente. Nessuno parlava più. Solo di tratto in tratto si sentiva qualche languida esclamazione:—È una morte.—Non si può più resistere.—Si diventa matti.—S’affacciò un momento l’Ussi, cogli occhi fuori della testa, alla porta della tenda, mormorò con voce soffocata:—Si muore—e disparve. Diana, la povera bestiuola, accovacciata accanto al letto del Comandante, ansava in maniera da far temere che morisse di momento in momento. Fuori della tenda non si sentiva una voce umana, non si vedeva nessuno, tutto era immobile come in un accampamento abbandonato. I cavalli nitrivano in suono lamentevole. La lettiga del medico, vicina alla nostra tenda, crepitava come se si volesse spezzare. A un tratto si sentì la voce di Selam che gridò passando di corsa:—Se ha muerto un perro!(È morto un cane).—E uno!—rispose con voce fioca il Comandante, faceto fino alla morte. Al tocco il termometro segnava quarantasei gradi e mezzo. Allora cessarono anche i lamenti. Il Comandante, il viceconsole ed io stavamo distesi in terra immobili come corpi morti. In tutto l’accampamento, il capitano e l’Ambasciatore erano forse i due soli cristiani che dessero ancorasegno di vita. Non ricordo quanto tempo io sia rimasto in quello stato. Ero immerso in una specie di stupore, sognavo ad occhi aperti, mi ribollivano nel capo mille immagini confuse di luoghi freschi e di cose gelate: mi precipitavo dall’alto d’una rupe in un lago, mettevo la nuca contro la bocca d’una pompa, mi fabbricavo una casa di ghiaccio, divoravo in dieci minuti tutti i pezzi duri di Napoli, e più sguazzavo nell’acqua e bevevo freddo, più mi sentivo morire di caldo, di sete, di rabbia, di sfinimento. Finalmente il capitano esclamò con voce funerea:—Quarantasette!—Fu l’ultima voce che mi ricordo d’aver sentita....

Verso sera venne a visitar l’Ambasciatore, in nome di suo padre malato, il figliuoletto del Governatore dei Beni-Hassen che avevamo veduto la mattina. Entrò nell’accampamento a cavallo, accompagnato da un ufficiale e da due soldati che lo presero in braccio quando scese di sella, e s’avanzò a passo grave verso la tenda dell’Ambasciatore, strascicando come un paludamento la sua gran cappa turchina, con la mano sinistra appoggiata sulla sciabola più lunga di lui, e la destra distesa in atto di saluto.

La mattina, visto a cavallo, c’era parso unbel ragazzo; ed aveva infatti due begli occhioni pieni di pensiero e un visino pallido d’un ovale gentile; ma vedendolo a piedi, ci accorgemmo ch’era rachitico e gibboso. Da ciò nasceva forse la sua tristezza. In tutto il tempo che rimase con noi, non spuntò un sorriso sulla sua bocca, non si rasserenò un momento il suo volto. Ci fissò l’un dopo l’altro con uno sguardo profondo e non rispose alle domande dell’Ambasciatore che con parole tronche e sommesse. Una sola volta gli passò un barlume di allegrezza negli occhi; e fu quando l’Ambasciatore gli fece dire che aveva ammirato, nelle cariche della mattina, il suo modo ardito e grazioso di cavalcare; ma non fu che un barlume.

Benchè gli tenessimo tutti gli occhi addosso, e fosse quella probabilmente la prima volta ch’egli compariva, in carattere ufficiale, davanti a un Ambasciata europea, non mostrò ombra d’imbarazzo. Sorbì lentamente il suo tè, mangiò dei confetti, parlò nell’orecchio al suo ufficiale, s’aggiustò due o tre volte sul capo il suo turbantino, osservò attentamente tutti i nostri stivali, lasciò indovinare che si seccava; poi si strinse sul petto, accommiatandosi, la mano dell’Ambasciatore, e tornò verso il suo cavallo colla stessa gravità di Sultano con cui s’era avvicinato alla tenda.

Messo in sella dal suo ufficiale, disse ancora una volta:—La pace sia con voi!—e partì di galoppo, seguito dal suo piccolo stato maggiore incappucciato.

Quella stessa sera vennero parecchi malati a cercare il dottore, il quale col dracomanno Salomone e un drappello di soldati era partito poco prima, per la via d’Alkazar, alla volta di Tangeri. Venne, fra gli altri, un povero ragazzo mezzo nudo, macilento, cogli occhi rovinati, che appena ci vedeva e pareva affranto dalla fatica.—Che cosa vuoi?—gli domandò il Morteo—Cerco il medico cristiano,—rispose con voce tremante. Quando intese ch’era partito rimase un momento come istupidito, e poi gridò con accento disperato:—Ma io non ci vedo più!... Io ho fatto otto miglia per venir qui a farmi guarire dal medico cristiano!... Io ho bisogno di vedere il medico cristiano!—E diede in uno scoppio di pianto da straziare il cuore. Il Morteo gli mise in mano una moneta, che accettò con indifferenza, e indicandogli la via che aveva preso il dottore, gli disse che, andando di buon passo, avrebbe forse potuto ancora raggiungerlo. Il ragazzo stette un po’ incerto, guardando verso quella parte cogli occhi pieni di lagrime, e poi si mise lentamente in cammino.

Il sole tramontò quella sera sotto un padiglione immenso di nuvole color d’oro e di bragia, e lanciando rasente la pianura i suoi ultimi raggi sanguigni, calò dietro la linea diritta dell’orizzonte come un enorme disco rovente che si sprofondasse nelle viscere della terra.

E la notte fece freddo!

La mattina, al levar del sole, eravamo già sulla riva sinistra del Sebù, nel medesimo punto dove l’avevamo passato venendo da Tangeri; e appena giunti, vedevamo comparire sulla riva opposta, accompagnato dai suoi ufficiali e dai suoi soldati, il simpatico governatore Sid-Bekr-el-Abbassi, colla stessa cappa bianca e collo stesso cavallo nero bardato di color celeste, con cui ci s’era presentato la prima volta.

Ma il passaggio del fiume presentò questa volta una difficoltà impreveduta.

Dei due barconi sui quali dovevamo traghettare, uno era in pezzi; l’altro rotto in più parti e mezzo affondato nella mota della sponda. Il piccoloduarabitato dalle famiglie dei barcaioli, era deserto; il fiume nonguadabileche con grave pericolo; nessun altro barcone che alla distanza d’una giornata almeno di cammino da quel punto. Come passare? Chefare? Un soldato attraversò il fiume a nuoto e andò a portar la notizia al Governatore, il quale mandò un altro soldato, a nuoto, a dare una spiegazione della cosa. I barcaiuoli erano stati avvertiti il giorno prima di tenersi pronti per traghettare l’Ambasciata che sarebbe arrivata la mattina; ma trovandosi i barconi, per loro incuria, ridotti in stato da non poter servire, e non essendo capaci essi, o non volendo durar la fatica di accomodarli, erano fuggiti durante la notte, Dio sa dove, colle loro famiglie e coi loro animali, per sottrarsi al castigo del Governatore. Non rimaneva dunque altro da fare che tentar di riparare alla meglio il barcone meno fracassato, e così si fece. I soldati corsero a raccoglier uomini neiduarvicini e subito furono cominciati i lavori sotto l’alta direzione di Luigi il calafato, che in quell’occasione per lui memorabile, sostenne gloriosamente l’onore della marina italiana. Era bello vedere come lavoravano gli arabi e i mori. Dieci insieme, urlando e agitandosi, non facevano in mezz’ora il lavoro che facevano Luigi e il Ranni, militarmente silenziosi, in cinque minuti. Tutti comandavano, tutti criticavano, tutti andavano in collera, tutti tagliavan l’aria con gesti imperiosi, che parevan tanti ammiragli, e nessuno levava un ragno dal buco. Intanto il Governatore e il caid conversavano ad altavoce da una sponda all’altra; i cavalieri delle due scorte galoppavano lungo le rive cercando all’orizzonte i fuggitivi; le bestie da soma guadavano il fiume in lunghe file coll’acqua a mezzo il collo; i lavoratori cantavano le lodi del profeta; e sulla sponda opposta sorgeva una gran tenda azzurrina sotto la quale i servi di Sid-Bekr-el-Abbassi si affaccendavano a prepararci una squisita colezione di fichi, di confetti e di tè, che noi pregustavamo col cannocchiale, canterellando il coro d’un’opera semi-seria composta durante gli ozi di Fez col titolo:—Gl’Italiani nel Marocco.

Coll’aiuto del Profeta, il barcone fu accomodato in due ore, il Ranni ci pigliò sulle spalle e ci scaricò l’un dopo l’altro sulla prua, e giungemmo all’altra riva, coi piedi immersi fino alla noce nell’acqua che filtrava dentro da tutte le parti, ma senza esser costretti a gettarci a nuoto; inestimabile fortuna, di cui non eravamo sicuri partendo.

Il Governatore Sid Bekr-el-Abbassi che aveva risaputo le lodi fatte di lui al Sultano dal nostro Ambasciatore, fu con noi anche più amabile e più seducente della prima volta... Preso un po’ di riposo, ci rimettemmo in cammino verso Karia-el-Abbassi, dove arrivammo sul mezzogiorno, e fummo ricevuti e passammo le ore bruciatenella stessa stanzina bianca, in cui trentacinque giorni innanzi avevamo visto la bella figliuoletta del nostro ospite far capolino dietro il turbante paterno.

Qui Sid Bekr-el-Abbassi presentò all’Ambasciatore, fra gli altri personaggi, un moro sui cinquant’anni, di aspetto signorile e di modi simpatici, che nessuno di noi, credo, ha mai più dimenticato, non per sè, ma per le strane cose che ci raccontarono della sua famiglia. Era fratello d’un Sid-Bomedi, antico governatore della provincia di Ducalla, il quale languiva da otto anni nelle prigioni di Fez. Tiranno e scialacquatore sfrenato, dopo aver dissanguato il suo popolo, contratto imprestiti rovinosi coi negozianti europei, ammontato debiti su debiti, fatto ira di Dio in casa sua e fuori, era stato arrestato e condotto a Fez per ordine del Sultano, il quale credendolo possessore di tesori nascosti, aveva fatto spianare la sua casa, frugare fra i ruderi, scavare fra le fondamenta, e bandito dalla provincia, sotto pena di morte, tutta la sua famiglia, per timore che, conoscendo il nascondiglio, non s’impadronisse dei denari. Ma non essendosi trovato, forse perchè non c’era, il tesoro che si cercava, e persistendo il Sultano a credere che ci fosse, e che il prigioniero non lo volesse rivelare, questo non aveva più rivistola luce del sole ed era forse condannato a morire in prigione. E il caso di Sid-Bomedi non è raro fra i governatori del Marocco, i quali, chi più chi meno, arricchendosi a spese del loro popolo, forniscono sempre al Governo che vuole impadronirsi dei loro averi, il vantaggio di poterlo fare sotto colore di punire un colpevole. Il Governatore o il Pascià a cui il Sultano ha posto gli occhi addosso, è chiamato, in forma amichevole, a Fez o a Marocco, oppure arrestato improvvisamente, di notte, da un drappello di soldati imperiali che lo conducono a marcie forzate alla capitale, legato supino sulla groppa d’una mula, colla testa spenzoloni e il viso rivolto al sole. Appena giunto, vien caricato di catene e gettato in una segreta. Se rivela dove ha nascosto il tesoro, è rimandato con tutti gli onori alla sua provincia, dove in poco tempo, facendo peggio di prima, può rifarsi di quello che gli è stato carpito. Se non rivela, è lasciato marcire nel suo sepolcro, e bastonato a sangue una volta al giorno, finchè, ridotto agli estremi, si decide a parlare per non morire fra le catene. Se non rivela che in parte, è bastonato ugualmente, fin che abbia fatto la rivelazione completa. Qualche governatore più accorto, subodorando per tempo la catastrofe, la scongiura, recandosi in persona alla Corte con una lunga carovana di cammellie di mule cariche di doni preziosi; ma per far questi doni, dovendo spendere gran parte delle proprie ricchezze, ne segue che la sua salvezza non riesce meno funesta alla provincia governata da lui, di quello che riuscirebbe il suo ritorno dalla prigionia, quando fosse stato spogliato a forza dei suoi tesori. Qualcuno, anche, muore in carcere o sotto il bastone, ma non rivela, per lasciare il tesoro alla famiglia; che sa dov’è e lo scoverà a tempo opportuno; ed altri muoiono perchè non hanno nulla da rivelare. Ma son rari, perchè è uso comune nel Marocco di nascondere le ricchezze, e si sa che i mori sono meravigliosi maestri in quest’arte. Si parla di tesori murati sotto la soglia della porta di casa, nei pilastri dei cortili, negli scalini, nelle finestre; di case demolite dalle fondamenta, pietra per pietra, senza che vi si trovasse un tesoro che pure c’era; di schiavi uccisi e sepolti segretamente, dopo aver aiutato il padrone a nascondere; e il volgo mescola a queste verità dolorose ed orribili, le sue amene leggende di spiriti e di prodigi.

Il Governatore el-Abbassi ci accompagnò, verso sera, fino all’accampamento, ch’era a due ore di cammino dalla sua casa, in un prato pieno di fiori e di tartarughe, tra il fiume Dà, che si divide là presso in un gran numero dicanali, e una bella collina coronata d’una tomba di santo dalla cupola verde. A un tiro di fucile dalle nostre tende v’era un gran duar circondato d’aloé e di fichi d’India. Al nostro passaggio, tutti gli abitanti saltaron fuori. Allora vedemmo quanto il governatore el-Abbassi era amato dal suo popolo. Vecchi cadenti, frotte di bimbi, uomini maturi, giovanetti, tutti correvano da lui a farsi mettere la mano sul capo, e se ne tornavano contenti, voltandosi indietro a guardarlo con un’espressione d’affetto e di gratitudine. La presenza però dell’amato Governatore non bastò a salvar noi dai soliti sguardi biechi e dai soliti improperi. Le donne, mezzo nascoste dietro alle siepi, spingevano con una mano uno dei loro figliuoletti a farsi benedire dal Governatore, coll’altra mano un altro figliuolo a dirci ch’eravamo dei cani. Vedemmo dei bimbi alti due palmi, tutti nudi, che appena si reggevano in piedi, venir verso di noi barcolloni, e mostrandoci il pugno grosso come una noce, gridare:—Maledetto il padre tuo!—E siccome avevano paura ad avanzarsi soli, si radunavano in sette o otto, e così stretti in un gruppo, che si sarebbe potuto portar tutto ritto sopra un vassoio, s’avanzavano con aria minacciosa fino a dieci passi dalle nostre mule a balbettare la loro insolenzina. Quanto ci divertimmo! Un gruppo, fra gli altri,s’avanzò contro il Biseo per augurargli che fosse arrostito non so quale suo parente. Il Biseo alzò la matita: i due primi, dando indietro atterriti, urtarono gli altri; e mezzo l’esercito andò in terra a gambe levate. Persino il Governatore diede in uno scoppio di risa.

Dopo lo spettacolo delle grandi città decadute, di un popolo moribondo e d’un paese bello ma triste; dopo tanto sonno tanta vecchiezza e tante rovine, ecco il lavoro eterno e la gioventù immortale; ecco l’aria che ravviva il sangue, la bellezza che rallegra il cuore, l’immensità in cui s’espande l’anima! Ecco l’Oceano! Con che fremito di piacere lo salutammo! L’apparizione inaspettata d’un amico o d’un fratello, non ci sarebbe riuscita più cara della vista di quella lontana curva luminosa che recideva netto dinanzi a noi, come una immensa falce, l’islamismo, la schiavitù, la barbarie, e pareva che portasse più diritto e più libero il nostro pensiero all’Italia.—Bahr-el-Kibir!—(Il gran mare) esclamarono alcuni soldati. Altri dissero:—Bahr-ed-Dholma!—(Il maredelle tenebre). Tutti, involontariamente, affrettarono il passo; le conversazioni, che cominciavano a languire, si rianimarono; i servi intonarono i canti sacri; l’intera carovana, in pochi minuti, prese un’aria d’allegrezza e di festa.

La sera del 19 Giugno ci accampammo a tre ore da Laracce, e la mattina seguente entrammo in città, ricevuti alle porte dal figlio del Governatore, da venti soldati senza fucili e senza calzoni schierati lungo la strada, da un centinaio di ragazzi cenciosi, e da una banda composta d’un tamburino e d’un trombettiere, che vennero poco dopo a chiedere la mancia con uno straziante concerto nel cortile dell’agente consolare d’Italia.

Su quella costa sparsa di città morte,—come Salè, Azamor, Safi, Santa-Cruz,—Laracce conserva ancora un po’ di vita commerciale che le basta per essere considerata uno dei principali porti del Marocco. Fondata da una tribù berbera nel secolo XV, fortificata sulla fine dello stesso secolo da Mulei-ben-Nassar, abbandonata alla Spagna nel 1610, ripresa da Mulei Ismael nel 1689, ancora fiorente sul principio di questo secolo, popolata ora da quattromila circa tra mori ed ebrei, sorge sopra la china d’un collea sinistra della foce del Kus, il Lixus degli antichi, il quale le forma un porto ampio e sicuro, chiuso però da un banco di sabbia, che impedisce l’entrata ai grandi bastimenti. Nel porto marciscono le carcasse di due piccole cannoniere, ultimo miserando avanzo della flotta che altre volte portò gli eserciti conquistatori in Ispagna e sgomentò il commercio europeo. Sulla riva destra del fiume, rimane qualche rovina di Lixus, città romana. Dietro la collina si stende un ampio bosco d’alberi giganteschi. La città non ha dentro altro di notevole che una piazza di mercato circondata da piccoli portici sorretti da colonnine di pietra; ma vista dal porto, tutta bianca sul verde cupo della collina, stretta in una cerchia di alte mura merlate d’un fosco color calcare, riflessa dalle acque azzurre del fiume, sotto quel cielo limpido, presenta un aspetto grazioso, e malgrado la vivezza dei colori, quasi malinconico, come se facesse pietà il veder quella gentile città così sola e silenziosa su quella costa barbaresca, dinanzi a quel porto deserto, in faccia a quel mare immenso.

L’accampamento fu posto la sera sulla riva destra del Kus e levato per tempo la mattina seguente. Si doveva andare ad Arzilla, distante quattr’ore da Laracce. Il convoglio dei bagaglipartì la mattina; l’Ambasciata verso sera. Io, per veder la carovana sotto un nuovo aspetto, partii col convoglio dei bagagli.

E me ne trovai contento, perchè fu un tragitto pieno d’avventure.

Le mule cariche, accompagnate dai mulattieri e dai servi, andavano a gruppi, a gran distanza gli uni dagli altri. Partii solo e camminai per quasi un’ora sulle colline dove non vidi che una mula, condotta da un servo arabo, la quale portava due bisaccie di paglia, di cui una conteneva la testa e l’altra i piedi d’un palafreniere dell’Ambasciatore preso da una fortissima febbre, che gemeva da far pietà ai sassi. Il poveretto stava così coricato a traverso la mula, colla testa spenzoloni, col corpo inarcato, col sole negli occhi, e in quella maniera era venuto da Karia-el-Abbassi e doveva andare a Tangeri! E in quella maniera sono trasportati nel Marocco tutti i malati che non han denaro da noleggiare una lettiga e due mule, e fortunati coloro che possono almeno ficcar la testa in una bisaccia!

Dalle colline discesi sulla riva del mare.

Qui raggiunsi il cuoco, il Ranni e Luigi il calafato, che s’unirono a me e non mi lasciarono più fino ad Arzilla.

Per un’ora trottammo sulla sabbia, deviando di tratto in tratto dal cammino diritto, per scansare la marea.

In quel tempo il cuoco, che per la prima volta in tutto il viaggio poteva parlarmi liberamente, m’aprì il suo cuore.

Pover’uomo! Tutte le avventure del viaggio, tutte le grandi cose vedute, non lo avevano liberato da un pensiero doloroso che gli toglieva la pace fin dalla prima settimana del suo soggiorno in Tangeri. E questo dolore era una gelatina mal riuscita, fatta da lui un giorno che aveva pranzato in casa il Ministro di Francia; gelatina che aveva dato il primo crollo alla sua riputazione nel concetto dell’Ambasciatore, e che pure era riuscita male non per colpa sua, ma perchè il Marsala era cattivo. Fez, la corte, Mechinez, il Sebù, l’Oceano, egli li aveva visti, egli vedeva tutto a traverso quel disco di brodo condensato. O piuttosto non aveva visto e non vedeva niente perchè il suo corpo era bensì nel Marocco, ma l’anima viveva in piazza Castello. Gli domandai le sue impressioni di viaggio: erano poca cosa. Egli non sapevacapire chi potesse essere quella bestia che aveva stampato quel paese. Mi raccontò delle sue fatiche, delle sue liti cogli sguatteri arabi, delle difficoltà di far da mangiare in mezzo aideserti, del suo desiderio immenso di riveder Torino; ma ricadeva poi sempre su quella desolante gelatina del Ministro di Francia.—Io non so far cucina? Mi faccia il piacere, vadaLei, quando sia a Torino,—mi diceva toccandomi il braccio per distrarmi dalla contemplazione dell’Oceano;—vada a domandarlo al conte tale, alla contessa tale, ecc., che ho serviti per anni ed anni! Vada dal generale Ricotti, ministro della guerra, che son cinque anni che è ministro e fa tutto quello che vuole, vada da lui a domandargli se so far la gelatina! Ma vada, mi dia questa soddisfazione, ci passi un momento quando saremo ritornati al paese!—E insistette tanto che per poter contemplare in pace l’Oceano, dovetti promettergli che ci sarei passato.

Intanto raggiungevamo di cento in cento passi due o tre mule cariche, soldati a cavallo, servi a piedi; piccoli frammenti della carovana che si stendeva per più d’un ora di cammino. Fra i soldati ve n’erano alcuni di Laracce, stracciati, con un fazzoletto annodato intorno al capo e un fucile rugginoso fra le mani; e fra i servi, dei ragazzi di dodici o quindici anni, non mai visti prima d’allora, i quali erano scappati, mi fu detto, da Mechinez e da Karia-el-Abbassi, e s’erano aggregati alla carovana, senz’altro addosso che una camicia, per andare a Tangeri, la città civile, a cercar fortuna, campando intanto delle limosine dei soldati. In alcuni di questi gruppi c’era uno che raccontava una storia; altri cantavano; tutti parevano allegri.

A metà strada ci fermammo all’ombra d’uno scoglio per far colezione.

Qui vidi una scena che mi rivelò l’indole di quella gente meglio d’un volume di considerazioni psicologiche.

Vicino a noi c’era un soldato seduto sulla sabbia, più in là un altro, più lontano un servo, e a una cinquantina di passi da questo, sulla china d’un piccolo colle, un altro servo, seduto vicino a una sorgente, con una brocca fra le ginocchia. Desiderando di bere, gridai al primo soldato:—Elma!(acqua)—e gli accennai la sorgente. Il soldato rispose di sì con un gesto cortese e ordinò imperiosamente all’altro soldato d’andare a prendere dell’acqua. Costui accennò che avrebbe obbedito subito, e con un accento minaccioso rimproverò il servo che era là presso, di non essere ancora corso a fare il suo dovere. Il servo rimproverato balzò in piedi e facendo due o tre passi impetuosi verso l’altro servo seduto accanto alla sorgente, gli gridò che facesse presto. Costui, vedendo che io non gli badavo, non si mosse. Passarono cinque minuti, l’acqua non venne. Mi rivolsi daccapo al primo soldato e seguì la stessa scena di prima. Infine, se volli aver l’acqua, dovetti, spolmonandomi, dar l’ordine direttamente al servo della brocca il quale, dopo qualche momento di riflessione, si decise ad attingerla e me la portò a passo di tartaruga.

Ci rimettemmo in cammino. Tirava un ventolino fresco e una nuvola nascondeva il sole, era una passeggiata deliziosa; ma continuando a crescere la marea, e restringendosi man mano quel po’ di strada sabbiosa su cui camminavamo ad uno ad uno, ci trovammo ben presto imprigionati fra il mare e le colline rocciose che pendevano quasi a picco sul nostro capo, e costretti a camminare fra gli scogli, contro cui si venivano a frangere le onde. Parecchie volte, la mula arrestandosi spaventata, mi trovai circondato dall’acqua, ravvolto in un nuvolo di spruzzi, assordato, acciecato, e mi girò il capo, e intravvidi l’intestazione degli articoletti necrologici che avrebbero scritto i miei amici. Ma la nostra ora, come diceva il cuoco, non era ancora sonata; e dopo un miglio di cammino, arrivammo a una collina accessibile, sulla quale ci arrampicammo in fretta e in furia, volgendoci indietroa rimirar lo passo.

Veniva con noi, a cavallo, un vecchio soldato di Laracce, un po’ tocco nel cervello, che rideva continuamente; ma che, grazie al cielo, conosceva la strada. Costui ci fece girare intorno alla collina e ci menò a traverso una macchia fittissima di quercie nane, di cisti, di betulle, di sugheri, di ginestri, d’arbusti d’ogni sorta, per mille avvolgimenti di sentieri scoscesi,fra i macigni, fra le spine, nel fango, nell’acqua, al buio, in recessi dove pareva che non fosse mai penetrata una creatura umana, e sempre ridendo, ci ricondusse, dopo un lungo e lentissimo giro, scorticati e stracciati, sulla riva del mare, dove rimaneva ancora un po’ di spazio libero dalle acque.

Qui la carovana non essendo ancora arrivata, la spiaggia era deserta, e camminammo per un pezzo non vedendo altro che cielo e mare, e il piede delle colline ripidissime che, formando tanti piccoli seni successivi, ci nascondevano l’orizzonte dinanzi e alle spalle. Camminavamo in silenzio, l’un dietro l’altro, sopra la sabbia intatta e morbida come un tappeto, tutti colla testa, io credo, mille miglia lontana dal Marocco, quando improvvisamente saltò fuori di dietro a uno scoglio uno spettro, un vecchio orribile, mezzo nudo, con una gran corona di fiori gialli intorno alla fronte,—un Santo—; il quale prese a inveire contro di noi urlando come un pazzo furioso e facendo con tutt’e due le mani l’atto di graffiarci il viso e di strapparci la barba. Ci fermammo a contemplarlo. Diventò più feroce. Il Ranni, senza tanti complimenti, s’avanzò per applicargli una bastonata. Io lo trattenni e gettai al santo una moneta. Questo briccone tacque immediatamente, raccolse la moneta, la guardòdi sopra e di sotto, se la mise in seno, e poi ricominciò ad urlare peggio di prima.—Ah! questa volta,—disse il Ranni;—una legnata ci sta!—E alzò il bastone. Ma il soldato, fattosi serio ad un tratto, lo trattenne e dicendo al Santo qualche parola a bassa voce con un accento di profondo rispetto, lo indusse a tacere. L’orribile vecchio ci slanciò un’ultima occhiata fulminea e si rinascose in mezzo agli scogli, dove ci fu detto che vive, nutrendosi d’erbe, da più di due anni, coll’unico scopo di maledire i bastimenti dei Nazareni che passano all’orizzonte.

Di là risalimmo sui monti e camminammo lungo tempo per sentieri serpeggianti fra i lentischi, le ginestre e le roccie. In alcuni punti il sentiero correndo sull’orlo del monte tagliato a picco, vedevamo sotto, a una grande profondità, il mare che flagellava gli scogli, e un lunghissimo tratto di spiaggia, in cui si stendeva a perdita d’occhi la carovana, e l’immenso orizzonte dell’Oceano azzurro picchiettato di macchiettine bianche da qualche lontano bastimento a vela. I monti per cui ci avanzavamo formavano colle loro cime schiacciate un vasto piano ondulato, tutto coperto d’alti arbusti, dove non si vedeva alcuna traccia di coltivazione, nè una cuba, nè una capanna, nè una creatura umana, e non si sentiva altrorumore che il mormorio fioco del mare.—Che paese!—esclamava il cuoco girando lo sguardo inquieto su quella solitudine;—purchè non si faccia qualche cattivo incontro.—E mi domandò più volte se non c’era pericolo d’incontrare dei leoni. Salendo e scendendo, perdendoci di vista e ritrovandoci più volte in mezzo agli arbusti, camminavamo da quasi due ore per quei monti deserti, e cominciavamo a temere d’aver sbagliata la strada, quando dalla sommità d’un’altura vedemmo a un tratto le torri d’Arzilla e tutta la costa fino alla montagna del capo Spartel, che disegnava nettamente il suo contorno azzurro nella chiarezza limpidissima del cielo.

Fu un vivo piacere per tutta la mia piccola carovana; ma di breve durata.

Scendendo verso il mare scoprimmo lontano fra gli alberi un gruppo di cavalli e d’uomini accovacciati, i quali, appena ci videro, si rizzarono in piedi, saltarono in sella e si diressero verso di noi, distendendosi sopra una sola linea in forma di mezzaluna, come se volessero impedirci di fuggire per una scorciatoia verso la città.

—Ci siamo,—pensai;—questa volta non c’è scampo; è una banda.

E feci cenno agli altri di fermarsi.

—Ca manda avanti ’l moro!gridò il cuoco.

Il soldato moro accorse.

—Giù una trombonata!—gli gridò il cuoco fremente.

—Un momento;—io dissi;—prima d’ammazzar loro, vediamo se vogliono veramente ammazzar noi.

Li guardai attentamente; s’avanzavano di trotto; eran dieci, parte vestiti di color oscuro, parte di bianco; mi parve che nessuno avesse il fucile; il capo era un vecchio colla barba bianca; mi rassicurai.

—Formiamo il quadrato!—gridò il cuoco.

—Non c’è bisogno—risposi. Il vecchio della barba bianca s’era scoperto il capo e si dirigeva verso di me colla berretta in mano.

Era un Israelita.

A dieci passi, si fermò col suo seguito, ch’era composto di altri quattro Israeliti e di cinque servi arabi, e fece cenno di volermi parlare.

—Hable Usted, risposi.

—Sono il tale dei tali,—disse in spagnuolo, con una voce dolce inchinandosi in atteggiamento di profondo rispetto;—agente consolare d’Italia e di tutti gli altri stati d’Europa nella città d’Arzilla. Ho l’onore di essere al cospetto di sua eccellenza l’Ambasciatore d’Italia, reduce da Fez, partito questa mattina da Laracce e diretto a Tangeri?

Caddi dalle nuvole.

Poi presi un atteggiamento grave e girai un lento sguardo sul mio corteo, che sfolgorava di maestà e di gioia.

Dopo aver così assaporato per un minuto secondo gli onori del ricevimento ufficiale, disingannai, sospirando, il vecchio israelita, e dissi chi ero.

Ne parve un po’ spiacente, ma non cangiò modo per questo. Mi offerse la sua casa per riposarmi, e io non accettando, volle ad ogni costo accompagnarmi nel luogo destinato all’accampamento.

Ci dirigemmo dunque tutti insieme, girando intorno alla città, verso la riva del mare. Ah! se m’avessero visto, in quel breve tragitto, l’Ussi e il Biseo! Quanto dovevo esser pittoresco io, rappresentante d’Italia in groppa a una mula, con una ciarpa bianca attorcigliata intorno al capo, seguito dal mio stato maggiore composto d’un cuoco in maniche di camicia, di due marinai armati di bastone e d’un moro stracciato! O arte italiana, quanto hai perduto!

Arzilla, Zilia dei Cartaginesi,Julia Traductadei Romani, passata dalle mani di questi in potere dei Goti, saccheggiata dagl’Inglesi verso la metà del decimo secolo, rimasta per trent’anni un mucchio di sassi, poi rifabbricata daAbd-er-Rhaman ben Alì califfo di Cordova, posseduta dai Portoghesi e ripresa dai Marocchini, non è più che una cittaduzza di poco più di mille abitanti tra mori ed ebrei; circondata, dalla parte di terra e dalla parte di mare, da alte mura merlate, che cadono in rovina; bianca e quieta come un chiostro, e improntata, come tutte le altre piccole città maomettane, di quella ridente malinconia, che fa pensare al sorriso d’un moribondo, il quale goda di sentirsi mancare la vita.

La sera, sul tramonto, arrivò l’Ambasciatore, che venne all’accampamento attraversando la città; e ho ancor vivo dinanzi agli occhi lo spettacolo di quella bella cavalcata piena di colori e di vita, che uscendo da una gran porta merlata, s’avanzava in un pittoresco disordine, lungo la riva dell’Oceano, gettando sulla sabbia rosata dal crepuscolo, le sue lunghissime ombre nere; e risento la tristezza che provai in quel momento dicendo tra me:—Peccato! Peccato che questo bel quadro si debba dissolvere, questo bel quadro che contiene tant’Affrica e tanta Italia, tanti lieti pronostici e tante care memorie!—E là infatti si può dire che terminasse il nostro viaggio, poichè la mattina seguente ci accampavamo a Ain-Dalia, e due giorni dopo rientravamo in Tangeri, dove lacarovana si scioglieva in quella medesima piazzetta del piccolo mercato, da cui due mesi prima era partita.

Il comandante, il capitano, i pittori ed io partimmo insieme per Gibilterra. L’Ambasciatore, il viceconsole, tutta la gente della legazione ci accompagnò fin sulla riva del mare. Gli addii furono molto affettuosi. Tutti erano commossi, anche il buon generale Hamed ben Kasen, il quale stringendo la mia mano contro il suo largo torace, mi disse tre volte l’unica parola europea che sapesse:—A Dios!—con una voce che veniva dal cuore. Appena mettemmo il piede sul bastimento, oh! quanto ci parve lontana e di spazio e di tempo tutta quella fantasmagoria di pascià, di neri, di tende, di moschee, di torri merlate! Non era soltanto un paese, era un mondo che in quel momento spariva ai nostri occhi, e un mondo che eravamo quasi certi di non rivedere mai più. Un po’ d’Affrica, però, ci accompagnò fino a bordo, e furono i due Selam, Alì, Hamed, Abed-er-Rhaman, Civo, i servi del Morteo ed altri bravi giovanotti, a cui la superstizione mussulmanna non aveva impedito di voler bene ai Nazareni e di servirli con devozione. E anch’essi si accommiatarono da noi con vivaci dimostrazioni d’affetto e di rammarico, e Civo più degli altri, che facendo sventolareper l’ultima volta ai miei occhi il suo camicione bianco, mi s’attaccò al collo come un amico d’infanzia, e mi stampò due baci in un orecchio. E quando il piroscafo partì, ci salutarono ancora, tutti ritti in una barca, sventolando i loro fez rossi, e gridando fin che li potemmo sentire:—Allà sia sulla vostra strada! Tornate al Marocco! Addio ai Nazareni! Addio agli Italiani! Addio! Addio!

FINE.


Back to IndexNext