Alle dieci della mattina, sotto un sole ardente, la lunga carovana cominciò a discendere lentamente nella pianura.
Il console di Spagna e i suoi due compagnici avevano lasciati all’alba; non rimanevano più con noi altre persone estranee all’ambasciata che il console d’America e i suoi figliuoli.
Dal luogo dove avevamo passato la notte, chiamato in arabo Ain-Dalia, che significa fontana di vino, per le vigne che v’erano nei tempi andati, dovevamo andare quel giorno a Had-el-Garbia, di là dalle montagne che chiudevano la pianura.
Per più d’un’ora si camminò sopra un terreno leggermente ondulato, in mezzo a campi d’orzo e di miglio, per sentieri tortuosi, che formavano coi loro incrociamenti un gran numero d’isolette coperte d’erbe rigogliose e di fiori altissimi. Non si vedea nessuno per la campagna, nessuno per la strada. Solamente dopo una mezz’ora di cammino, incontrammo una lunga fila di cammelli condotta da due beduini, i quali passandoci accanto mormorarono il solito saluto:—La pace sia sulla vostra strada.
Era una pietà per me il vedere quei poveri servi arabi che venivano accanto a noi, a piedi, carichi d’ombrelli, di pastrani, di cannocchiali, d’album, di mille gingilli, di cui ignoravano il nome e l’uso; costretti a seguitare correndo il passo rapido delle nostre mule, soffocati dalla polvere, arsi dal sole, mal nutriti, mezzi nudi, soggetti a tutti, non possessori d’altro almondo che d’un cencio di camicia e d’un paio di ciabatte; venuti a piedi da Fez a Tangeri, per tornare a piedi da Tangeri a Fez; e poi, chi sa! seguitare qualche altra carovana da Fez a Marocco, e tirare innanzi così tutta la vita, senz’altro compenso che di non morire di fame e di poter riposare le ossa sotto una tenda! Pensavo, guardandoli, alla «piramide della esistenza» del Goethe. V’era, fra gli altri, un ragazzo mulatto di tredici o quattordici anni, bello e sveltissimo, il quale fissava sempre in viso ora a me ora ad altri dell’ambasciata due grandi occhi neri pieni di curiosità e di simpatia, che diceano e domandavano confusamente mille cose. Era un trovatello, frutto chi sa di che strani amori, che cominciava coll’ambasciata italiana la corsa faticosa, nella quale forse non doveva arrestarsi che per cadere nella fossa. Un altro, un vecchio tutt’ossa e pelle, correva col capo basso, cogli occhi chiusi, coi pugni stretti, colla rassegnazione disperata d’un dannato. Altri parlavano e ridevano ansando. A un tratto, uno spiccò la corsa, passò dinnanzi a tutti e disparve. Dieci minuti dopo lo trovammo seduto all’ombra d’un fico. Aveva fatto un mezzo miglio per guadagnare sulla carovana cinque minuti di cammino e goderseli all’ombra.
Intanto eravamo arrivati ai piedi d’una piccolamontagna, chiamata in arabo la Montagna Rossa dal colore della sua terra; ripida, rocciosa e ancora irta degli avanzi d’un bosco abbattuto. Quella salita c’era stata annunziata fin da Tangeri come il passo più pericoloso del viaggio. Mula mia,—dissi tra me—ti raccomando il mio contratto coll’editore;—e la spinsi su coll’animo preparato a un capitombolo. I sentieri salivano serpeggiando in mezzo a grandi sassi che mi parevano stati acuminati e affilati apposta da un mio nemico personale per incidermi le parti posteriori; a ogni movimento incerto della mula, mi sentivo scappare dalla testa un capitolo del mio libro futuro; due volte la povera bestia, piegandosi sui ginocchi, slanciò la mia anima sui confini d’un mondo migliore; ma infine riuscii a toccare sano e salvo la sommità, dove m’accorsi con grande meraviglia d’essermi lasciato indietro i compagni, i due pittori eccettuati, i quali m’avevano preceduto per osservare dall’alto l’ambasciata che s’avanzava.
Lo spettacolo valeva veramente la fatica d’una salita forzata.
La carovana da mezzo il fianco della montagna s’allungava per più d’un miglio nella pianura. Il primo era il gruppo dell’ambasciata, fra cui spiccava il cappello piumato dell’Ambasciatore e il turbante bianco di MohammedDucali; e ai lati e dietro uno sciame di servi a piedi e a cavallo sparpagliati pittorescamente fra i massi e i cespugli della salita. Dietro a questi, venivano su a coppie, a gruppi, a piccole file, ravvolti nelle loro cappe bianche e turchine, curvi sulle loro selle scarlatte, i cavalieri della scorta che presentavano l’immagine d’una gran cavalcata di maschere; e dietro la scorta, la fila interminabile dei muli e dei cavalli, che portavan le tende, le casse, il mobilio, la cucina, i viveri, fiancheggiati da servi e da soldati, gli ultimi dei quali apparivano appena come una punteggiatura bianca e rossa nel verde della campagna. Non si può immaginare come questa processione variopinta, armata, luccicante, animava quella vallata solitaria, che spettacolo bizzarro e festoso presentava! Se in quel momento avessi avuto la virtù di pietrificarla in sull’atto, per poterla contemplare a mio comodo, non so se avrei resistito alla tentazione. Voltandomi per rimettermi in cammino, ebbi un’altra sorpresa—l’Oceano Atlantico—che si stendeva azzurro e queto come un lago a poche miglia dalla montagna. V’era un sol bastimento in vista, vicinissimo alla costa, che navigava verso lo stretto. Il Comandante guardò col cannocchiale: era un bastimento italiano. Quanto avremmo dato per esser visti e riconosciuti!
Dalla Montagna Rossa si discese in un’altra bellissima valle, tutta coperta di fiori, che formavano come tanti tappeti di color lilla, roseo e bianco. Nessuna casa, nessuna tenda, nessuna creatura umana.
L’ambasciatore decise di fare una fermata: scendemmo da cavallo e sedemmo all’ombra d’un gruppo d’alberi; il convoglio dei bagagli seguitò la sua strada.
Intorno a noi, a pochi passi di distanza, stavano seduti i servi, ciascuno tenendo in mano le briglie d’un cavallo o d’una mula. I pittori tirarono fuori i loro album per fare qualche schizzo. Tempo perso! Appena uno di quegli scamiciati si vedeva guardato, o voltava le spalle o si nascondeva dietro un albero o si tirava il cappuccio sugli occhi. Tre, l’uno dopo l’altro, s’alzarono e se n’andarono brontolando a sedere cinquanta passi più lontano, tirando con sè i loro quadrupedi. Non volevano nemmeno che fossero copiati gli animali. Chi non ha visto il signor Biseo in quei momenti, non ha mai visto in faccia la Stizza. Cercò di farli star fermi pregandoli, canzonandoli, offrendo danaro. Fiato sprecato. Rispondevano facendo cenno di no colla mano, indicando il cielo e sorridendo furbescamentecome per dire:—Non siamo così gonzi!—Nemmeno il ragazzo mulatto, nemmeno i soldati della Legazione, cresciuti, si può dire, in mezzo agli Europei, e già quasi famigliari coi due artisti, non vollero permettere che la loro immagine fosse profanata dalla matita cristiana. Il Corano, come tutti sanno, proibisce la rappresentazione della figura umana e degli animali, come un principio o una tentazione all’idolatria. Il signor Biseo fece domandare dall’interprete a uno dei soldati per quale ragione non si voleva lasciar copiare.—Perchè,—rispose,—in quella figura che vuol fare, il pittore non è capace d’infondere l’anima. A che scopo dunque la vorrebbe fare? Dio soltanto può creare degli esseri viventi, ed è un sacrilegio pretendere d’imitarlo.—Fu interrogato il ragazzo mulatto.—Fatemi il ritratto,—egli disse ridendo,—mentre dormo; non me ne importa; non ci avrò colpa io; ma mentre io vedo, mai al mondo.—Allora il Biseo si mise a fare lo schizzo d’uno che dormiva. Tutti gli altri, raggruppati in disparte, stavano attenti, guardando ora il pittore ora il dormiente coi loro grandi occhi stupiti. A un tratto il servo si svegliò, girò gli occhi intorno, capì, fece un atto di dispetto e s’allontanò, mormorando, fra le risa dei compagni che avevan l’aria di dirgli:—Te l’hanno fatta, via; ora sei conciato per le feste.
Ci rimettemmo in cammino e in capo a un’ora circa vedemmo biancheggiare all’orizzonte le tende dell’accampamento.
Un drappello di cavalieri, sbucati non so di dove, ci vennero incontro, di grande carriera, gridando e sparando i loro fucili; a dieci passi da noi, si fermarono; il capo strinse la mano all’ambasciatore; poi si unirono alla scorta. Erano cavalieri del luogo dove sorgeva il nostro accampamento, soldati d’una specie dilandwehr, che forma la parte più numerosa dell’esercito marocchino (se il complesso delle forze militari del Marocco si può chiamare esercito), ed è composta di tutti gli uomini atti alle armi dai sedici ai sessantanni. Alcuni avevano il turbante, altri un fazzoletto rosso annodato intorno al capo; tutti il caffettano bianco.
Quando arrivammo alla tappa, si alzavano le ultime tende.
L’accampamento era posto sopra un terreno arido e ondulato; da una parte, lontano, si vedeva una catena di monti azzurri; dall’altra, una catena di colline verdognole. A mezzo miglio dalle tende c’erano due gruppi di capanne di stoppia, mezzo nascoste dai fichi d’India.
Ci radunammo tutti sotto una tenda.
Appena eravamo seduti, arrivò correndo unsoldato della Legazione, si piantò davanti all’Ambasciatore e disse con voce allegra:—Lamona!
—Venga,—rispose l’ambasciatore alzandosi.
Tutti ci alzammo.
Una lunga fila di arabi, accompagnati dal Comandante della scorta, dai soldati della Legazione e dai servi, attraversò l’accampamento, si venne a schierare davanti alla nostra tenda e depose ai piedi dell’Ambasciatore una gran quantità di carbone, d’ova, di zuccaro, di burro, di candele, di pani, tre dozzine di galline e otto montoni.
Questo tributo era lamuna. Oltre i gravi balzelli che pagano in denaro, gli abitanti della campagna sono obbligati a fornire a tutti i personaggi ufficiali, ai soldati del Sultano e alle ambasciate che passano, una certa quantità di viveri e d’altre provvigioni. Il Governo fissa la quantità; ma le autorità locali tassando gli abitanti a loro arbitrio, ne segue che la quantità di roba ricevuta, benchè sempre superiore ai bisogni, non è mai che una piccola parte di quella che è stata estorta un mese prima, o che sarà estorta forse anche un mese dopo il giorno della presentazione.
Un vecchio, che doveva essere un capo di tribù, rivolse, per mezzo dell’interprete, qualcheparola ossequiosa all’Ambasciatore. Gli altri, tutti poveri campagnoli vestiti di cenci, guardavano a vicenda noi, le tende e la loro roba,—i frutti del loro sudore sparsi per terra,—con un’aria tra mesta ed attonita, che rivelava una profonda rassegnazione.
Fatta rapidamente la ripartizione della roba fra la mensa dell’ambasciata, la scorta, i mulattieri e i soldati della Legazione, il signor Morteo, ch’era stato nominato quella stessa mattina Intendente generale del campo, diede una mancia al vecchio arabo, questo fece un cenno ai suoi compagni, e tutti ripresero silenziosamente la via delle loro capanne.
Allora cominciò, come doveva poi accadere tutti i giorni, un gran battibecco fra servi, mulattieri e soldati per la ripartizione dellamona. Era una scena amenissima. Due o tre di loro andavano e venivano per il campo a passi concitati, con un montone fra le braccia, invocando Allà e l’ambasciatore; altri gridavano la loro ragione battendo i pugni in terra; Civo faceva sventolare di qua e di là il suo camicione bianco colla profonda persuasione di esser terribile; i montoni belavano, le galline scappavano, i cani latravano. A un tratto s’alzò l’Ambasciatore e tutto tacque.
Il solo che brontolò ancora qualche momento fu Selam.
Selam era un gran personaggio. Veramente due dei soldati della Legazione portavano questo nome, tutti e due addetti al servizio particolare dell’Ambasciatore; ma come dicendo Napoleone, se non s’aggiunge altro, s’intende Napoleone primo, così fra noi, in viaggio, dicendo Selam intendevamo dir quello solo. Come l’ho sempre vivo dinanzi agli occhi! Lui, Mohammed lo sposo, e l’Imperatore, sono veramente per me le tre figure più simpatiche ch’io abbia viste nel Marocco. Era un giovane bello, forte, svelto e pieno d’ingegno. Capiva tutto a volo, faceva tutto in furia, camminava a salti, parlava a sguardi, era in moto dalla mattina alla sera. Per i bagagli, per le tende, per la cucina, per i cavalli, tutti si rivolgevano a lui; egli sapeva tutto e rispondeva a tutti. Parlava mediocremente lo spagnuolo e sapeva qualche parola d’italiano; ma si sarebbe fatto capir anche coll’arabo, tanto la sua mimica era pittoresca e parlante. Per indicare una collina faceva il gesto d’un colonnello focoso che accenni al suo reggimento una batteria da assalire. Per fare un rimprovero a un servo, gli si precipitava addosso come se l’avesse voluto annientare. Mi rammentava ogni momento Tommaso Salvini nelle parti d’Orosmane e d’Otello. In qualunque atteggiamento si mostrasse, da quandoversava l’acqua fredda sulla schiena all’ambasciatore a quando ci passava accanto di galoppo, inchiodato sul suo cavallo castagno, presentava sempre una figura bella, elegante ed ardita. I pittori non si stancavan mai di guardarlo. Portava un caffettano scarlatto e i calzoncini azzurri: si riconosceva alla prima da un’estremità all’altra della carovana. Nell’accampamento non si sentiva gridare che il suo nome. Correva di tenda in tenda, scherzava con noi, urlava coi servi, dava e riceveva ordini, si bisticciava, montava in collera, prorompeva in risa; quand’era in collera pareva un selvaggio, quando rideva pareva un bambino. In ogni dieci parole che dicesse, c’entravael señor ministro. Il signor ministro, per lui, veniva subito dopo Allà e il suo profeta. Dieci fucili appuntati contro il suo petto non l’avrebbero fatto impallidire; un rimprovero non meritato dell’Ambasciatore lo faceva piangere. Aveva venticinque anni.
Finito ch’ebbe di brontolare, venne vicino a me ad aprire una cassa. Mentre si chinava gli cadde il fez e gli vidi sulla testa rasa una larga macchia di sangue. Gli domandai che cos’era. Mi rispose che s’era ferito con uno dei grossi pani di zucchero dellamona.—L’ho gettato in aria,—mi disse colla più gran serietà,—e l’ho ricevuto sulla testa,—Noncapivo: si spiegò.—Faccio così,—mi disse,—per fortificarmi la testa. Le prime volte cascavo in terra tramortito, adesso non verso più che qualche goccia di sangue. Verrà il tempo che non mi scalfirò nemmeno la pelle. Tutti gli arabi fanno lo stesso. Mio padre si rompeva sul cranio dei mattoni spessi due dita, com’io ci romperei un pezzo di pane. Un vero arabo (conchiuse con aria altera, battendosi il pugno sul cocuzzolo) deve avere la testa di ferro.
L’accampamento, quella sera, presentava un aspetto assai diverso da quello del giorno innanzi. Ognuno aveva già preso le sue abitudini. I pittori avevano rizzato i loro cavalletti davanti alla tenda e dipingevano. Il capitano era andato a osservare il terreno, il vice-console a raccogliere insetti, l’ex-ministro di Spagna alla caccia delle pernici; l’ambasciatore e il comandante giocavano a scacchi sotto la tenda della mensa; i servi si saltavano l’un l’altro appoggiandosi le mani sulle spalle; i soldati della scorta discorrevano seduti in cerchio; degli altri chi passeggiava, chi leggeva, chi scriveva; sembrava che fossimo attendati là da un mese. Se ci fosse stata una piccola stamperia, mi sarebbe saltato il grillo di fondare un giornale.
Il tempo era bellissimo. Si desinò colla tenda aperta, e per tutto il tempo del desinare, i cavalieri di Had-el-Garbia festeggiarono l’ambasciata con cariche clamorose, rischiarate da uno splendido tramonto di sole.
A tavola sedeva dinanzi a me Mohammed Ducali. Ebbi modo per la prima volta di osservarlo attentamente. Era il vero tipo del ricco moro, molle, elegante e ossequioso; e dico ricco, perchè si diceva che possedesse più di trenta case a Tangeri, quantunque in quel tempo i suoi affari fossero un po’ imbrogliati. Poteva avere una quarantina d’anni. Era alto di statura, di lineamenti regolari, bianco, barbuto; portava un piccolo turbante ravvolto in un caïc del più fino tessuto di Fez, che gli scendeva sopra un caffettano di panno amaranto ricamato; sorrideva per far vedere i denti, parlava spagnuolo con una voce femminea, guardava, s’atteggiava e gestiva con una languidezza da innamorato. In altri tempi aveva fatto il negoziante: era stato in Italia, in Spagna, a Londra, a Parigi, ed era tornato al Marocco con idee ed abitudini europee. Beveva vino, fumava sigaretti, portava calze, leggeva romanzi, raccontava le sue avventure amorose. La ragione principale che lo conduceva a Fez era un credito ch’egli aveva col Governo, esperava, coi buoni uffici dell’ambasciatore, di farsi pagare. Aveva portato con sè la sua tenda, i servi, le mule. I suoi occhi lasciavan capire che, se avesse potuto, avrebbe portato anche le sue donne; ma su quest’argomento serbava il più rigoroso silenzio. Le donne di cui parlava, raccontando le sue avventure, erano europee. L’arèm era anche per lui una cosa sacra. Arrischiai, con parole vaghe, una domanda: mi guardò, sorrise pudicamente e non rispose.
Dopo desinare, soddisfeci un desiderio vivissimo che avevo già fin prima della partenza da Tangeri; feci un’escursione notturna per l’accampamento.
Fu uno dei più bei divertimenti ch’io abbia avuti nel viaggio.
Aspettai che tutti fossero entrati nelle tende; mi ravvolsi in una cappa bianca del comandante ed uscii in cerca d’avventure.
Il cielo era tutto stellato; le lanterne, fuor che quella appesa in cima all’asta della bandiera, erano spente; in tutto l’accampamento regnava un silenzio profondo.
Adagio adagio, cercando di non inciampare nelle cordicelle delle tende, voltai a sinistra.
Fatti dieci passi, un suono inaspettato mi ferì l’orecchio. Mi arrestai. Mi parve un suonodi chitarra. Veniva da una tenda chiusa, che non avevo mai vista, posta fra la nostra e quella dell’ambasciatore, una trentina di passi fuori del cerchio dell’accampamento. Mi avvicinai e tesi l’orecchio. La chitarra accompagnava un filo di voce dolcissima che cantava una canzone araba piena di malinconia. Di chi era quella tenda misteriosa? Che ci fosse dentro una donna? Feci un giro intorno. La tenda era chiusa da ogni parte. Mi stesi in terra per guardare per disotto; chinandomi, tossii; il canto cessò. Quasi nello stesso punto una voce soave, vicinissima a me, domandò:—Quien es?(Chi è?)—Allà mi protegga!—pensai—qui c’è una donna.—Un curioso!—risposi coll’inflessione più patetica della mia voce.... Una risata mi fece eco, e una voce maschile disse in spagnuolo:—Bravo! venga a prendere una tazza di tè!—Era la voce di Mohammed Ducali. Oh delusione! Ma fui subito compensato. S’aperse una porticina e mi trovai sotto una bellissima tenda, rivestita d’una ricca stoffa a fiorami, ornata di finestrine ad arco, rischiarata da una lanterna moresca, profumata di belgiuino, degna per ogni verso di ospitare la più bella odalisca del Sultano. Accanto al Ducali, sdraiato voluttuosamente sopra un tappeto di Rabat, col capo appoggiato sopra un ricco cuscino, stava seduto un suoservo, un giovane arabo d’aspetto gentile e pensieroso, che teneva fra le mani una chitarra. Era lui che cantava. Nel mezzo c’era un vassoio con un bel servizio da tè, da una parte fumava un profumiere. Spiegai al Ducali in che maniera fossi capitato vicino alla sua tenda, rise, mi offerse una tazza, mi fece sonare un’arietta, mi augurò buon viaggio, ed uscii. La tenda si richiuse e mi ritrovai nell’oscurità silenziosa dell’accampamento. Girai intorno a un’altra tenda, dove dormivano gli altri servi del Ducali, e mi rivolsi verso quella dell’ambasciatore.
Davanti alla porta dormiva Selam, disteso sulla sua cappa turchina, colla sciabola vicino al capo.—Se lo sveglio, e non mi riconosce subito,—pensai—m’accoppa! Usiamo prudenza.—M’avvicinai in punta di piedi e misi il capo dentro la tenda. La tenda era divisa in due parti da una ricca cortina: di qua serviva di sala da ricevimento, e v’era un tavolino con tappeto, carta, calamaio, e alcune poltrone dorate; di là dormivano l’ambasciatore e il suo amico ex-ministro di Spagna. Pensai di lasciare il biglietto di visita sul tavolino. M’avvicinai. Un maledetto grugnito mi arrestò. Era Diana, la cagna dell’ambasciatore. Quasi nello stesso punto la voce del padrone domandò:—Chi è?
—Un sicario! mormorai.
Riconobbe subito la mia voce.
—Ferisca—, rispose.
Gli spiegai il motivo della mia visita;—ne rise di cuore, e stringendomi la mano al buio, mi augurò buona fortuna.
Uscendo inciampai in qualcosa che m’insospettì: accesi un fiammifero: era una tartaruga. Guardai intorno e vidi a due passi da me un rospo enorme, che pareva che mi guardasse. Ebbi per un momento la tentazione di rinunziare all’impresa; ma la curiosità vinse il ribrezzo e tirai innanzi.
Arrivai davanti alla tenda dell’Intendente. Mentre mi chinavo per origliare, una figura alta e bianca si alzò fra me e la porta, e disse con accento sepolcrale:—Dorme.—Detti indietro come all’apparizione d’un fantasma. Ma subito mi rincorai. Era un arabo, servo del Morteo da molti anni, che parlava un po’ italiano, e che, malgrado la mia cappa bianca, m’aveva riconosciuto a primo aspetto. Come Selam, egli riposava davanti alla tenda del suo padrone, colla sciabola al fianco. Gli diedi la buona notte e continuai la mia strada.
Nella tenda vicina, c’erano il medico e il dracomanno Salomone. Un acuto odore di medicinali l’annunziava a dieci passi all’intorno. V’era il lume acceso. Il dracomanno dormiva; il medico,seduto al tavolino, leggeva. Questo medico, giovane, colto, d’aspetto e di maniere signorili, aveva una particolarità assai curiosa. Nato in Algeri di famiglia francese, vissuto molti anni in Italia, e marito d’una spagnuola, non solo parlava con uguale facilità le lingue dei tre paesi; ma ritraeva egualmente del carattere dei tre popoli, sentiva tre equivalenti amori di patria, era insomma un latino uno e trino, che si sarebbe trovato a casa sua così a Roma, come a Madrid, come a Parigi. Oltre a questo era dotato d’un senso comico finissimo; tanto che senza parlare, senza lasciarsi scorgere, con uno sguardo furtivo, con un leggerissimo movimento delle labbra, rilevava il lato ridicolo d’una persona o d’una cosa in modo da far scoppiare delle risa. Appena mi vide, indovinò la ragione dalla mia presenza, mi offerse un sorso di liquore, e alzando il bicchierino disse sottovoce:—Al felice successo della spedizione!—Coll’aiuto d’Allà!—risposi, e lo lasciai alla sua lettura.
Passai davanti alla gran tenda della mensa: era deserta. Voltai a sinistra, uscii dal cerchio dell’accampamento, passai in mezzo a due lunghe file di cavalli addormentati, e mi trovai in mezzo alle tende della scorta. Tesi l’orecchio: sentii il respiro dei soldati che dormivano. Davanti alle tende erano sparpagliatifucili, sciabole, selle, ciarpe, pugnali, caic e la bandiera di Maometto, come sopra il campo d’una mischia. Guardai la campagna: non si vedeva nessuno. Appena apparivano come due macchie nere ed informi i due gruppi di capanne.
Tornai indietro, passai in mezzo alla tenda del Console d’America e a quella dei suoi servi, tutt’e due chiuse e silenziose; attraversai il piccolo spazio di terreno dov’era piantata la cucina, e superata una barricata di botti, di tegami, di pentole, di brocche, arrivai alla piccola tenda del cuoco.
Con lui dormivano là sotto i due arabi, che gli facevan da sguatteri.
Misi la testa dentro:—era buio. Chiamai il cuoco per nome:—Gioanin!
Il poveretto, afflitto dalla mala riuscita d’una frittura, e forse anche inquieto per la vicinanza dei due «selvaggi», non dormiva.
—A l’è chiel?(È lei?) domandò.
—Son io.
Tardò qualche momento a rispondere e poi, voltandosi sul letto, esclamò sospirando:—Ah! che pais!
—Coraggio,—dissi—, pensate che fra dieci giorni sarete dinanzi alle mura della grande città di Fez.
Rispose qualche cosa in confuso di cuinon afferrai altro che la parolaMoncalieri; dopo di che rispettai il suo dolore, e tirai innanzi.
Nella tenda accanto v’erano i due marinai: il Ranni, ordinanza del comandante, e Luigi, calafato a bordo delDora, napoletano, ungiovanettogentile, sveglio, operoso, che in due giorni s’era cattivata la simpatia di tutti. Avevano il lume acceso e mangiavano. Tendendo l’orecchio, colsi qualche parola del loro dialogo. Era assai curioso. Luigi domandava a chi fossero destinati gli schizzi a matita che facevano i due pittori sui loro album.—Oh bella!—rispose il Ranni—al Re, si capisce.—Così senza colori?—domandò l’altro.—Eh no: tornati che saranno in Italia, prima ci metteranno i colori e poi li manderanno.—Chi sa quanto glieli pagano!—Eh molto, si sa. Magari uno scudo il foglio. Un re non bada ai denari.—Temendo d’essere scoperto e sospettato di spionaggio, rinunziai, mio malgrado, a sentire il seguito, e mi allontanai in punta di piedi.
Uscii un’altra volta dall’accampamento e girai per qualche minuto in mezzo a lunghe file di cavalli e di mule, fra le quali riconobbi, con una dolce emozione, la mia bianca compagna di viaggio, che pareva assorta in profondi pensieri. Uscito di là, mi trovai davanti alla tendadel signor Vincent, francese, domiciliato a Tangeri, uno di quei personaggi misteriosi che han girato tutto il mondo, parlano tutte le lingue e fanno di tutti i mestieri: cuoco, negoziante, cacciatore, interprete, scopritore d’iscrizioni antiche; aggregatosi con tenda e cavallo all’ambasciata italiana in qualità di alto direttore delle cucine, per andare a vendere al governo di Fez delle uniformi francesi comprate in Algeri. Guardai dentro per uno spiraglio. Era seduto sopra un baule in atto meditabondo, con una grossa pipa in bocca, al chiarore d’un moccoletto confitto in una bottiglia. Che strana figura! Mi richiamò alla mente quei vecchi alchimisti dei pittori olandesi, che meditano in fondo alla loro officina, col viso illuminato dal foco dei lambicchi. Curvo, secco, ossoso, pareva che ogni peripezia della sua vita fosse rappresentata da una ruga del suo viso e da un angolo del suo corpo. Chi sa a che pensava! Chi sa che diavolìo di memorie, di viaggi avventurosi, di bizzarri incontri, di pazze imprese, di strani personaggi, gli turbinava nel capo!—Forse anche, invece che a tutto questo, pensava al prezzo d’un paio di calzoni daturcoso alla sua scarsa provvigione di tabacco.—Nel punto che stavo per dirigergli la parola, spense il lume con un soffio e disparve nell’oscurità come un mago.
A pochi passi di là, c’era la tenda del comandante della scorta; un po’ più oltre quella del suo primo ufficiale; e più lontano quella del capo dei cavalieri d’Had-el-Garbia.
Queste due erano chiuse; la prima era aperta e vuota.
Nell’atto che ci guardavo dentro, sentii alle mie spalle un passo furtivo, e quasi nello stesso punto una mano di ferro mi afferrò per un braccio. Mi voltai: mi vidi in faccia il generale mulatto.
Appena mi vide, ritirò la mano, dando in una risata, e disse in tuono di scusa:—Salamu alikum, salamu alikum!—(La pace sia con voi! la pace sia con voi!)
M’aveva preso per un ladro.
Gli strinsi la mano in segno di riconoscenza e mi rimisi in cammino.
Fatti pochi passi, mi parve di vedere a una certa distanza dalle tende un uomo incappato, seduto in terra, col fucile in mano. Mi venne in mente che fosse una sentinella. Guardai intorno, e vidi infatti che a una cinquantina di passi da quella, ve n’era un’altra, e poi una terza: una catena di sentinelle tutt’intorno all’accampamento. Seppi poi che quella vigilanza non era fatta per timore dell’assalto d’una banda d’assassini; ma per guardare le tende dai ladri della campagna, abilissimi in quelgenere di furti, esercitati come sono a depredare le tribù arabe attendate.
Fortunatamente la mia franca andatura non insospettì alcuna sentinella, e potei finire la mia escursione.
Passai accanto a Malek e a Saladino, i due cavalli focosi dell’Ambasciatore, inciampai in qualche altra tartaruga e mi fermai davanti alle tende dei servi a piedi. Erano coricati sopra un po’ di paglia, senza coperte, l’uno a traverso l’altro; ma dormivan tutti d’un sonno così profondo, che non si sentiva un alito, e parevano morti ammucchiati. Il ragazzo dai grandi occhi neri, per la buona ragione ch’era il più piccolo, avea mezzo il corpo fuori della tenda, e poco mancò che non gli mettessi i piedi sul capo. Mi fece compassione; volli che la mattina seguente, svegliandosi, avesse un conforto; e misi una moneta nella mano che riposava sull’erba, colla palma aperta, come per chiedere l’elemosina ai genii della notte.
Un mormorìo di voci allegre, che veniva da una tenda vicina, mi distrasse di là. M’avvicinai. Era la tenda dei soldati e dei servi dell’Ambasciata. Pareva che mangiassero e bevessero. Sentii l’odore del fumo del kif. Riconobbi la voce del secondo Selam, di Abd-el-Rhaman, di Alì, di Hamet, di Mammù, di Civo. Era un’orgietta araba in piena regola.E avevan ben diritto di darsi un po’ di spasso, poveri giovani, dopo aver faticato tutto il giorno a piedi, a cavallo, alle tende, alle mense, chiamati da cento parti, in cento lingue, per cento servizi! Per questo non volli turbare la loro allegrezza e m’allontanai cautamente.
Fino a quel momento la mia escursione era riuscita a meraviglia; ma era destino che non finisse senza un triste accidente.
Non m’ero allontanato di venti passi dalla tenda dei soldati, quando sentii due mani vigorose serrarsi intorno al mio collo e una voce soffocata dall’ira urlarmi una minaccia nell’orecchio. Mi divincolai, mi voltai indietro...
Chi era?
Era l’autore dellaCacciata del duca d’Atene, il mio buon amico Ussi, ravvolto come un fantasma nella sua lungaabbaiabianca, portata dall’Egitto, il quale era uscito pochi momenti prima dalla sua tenda per fare, in direzione contraria, lo stesso mio giro, e m’aveva colto alle spalle.
Allora appunto ero arrivato davanti alla tenda dei pittori che chiudeva il cerchio dell’accampamento; il mio viaggio notturno era compiuto, e mi rimbucai nella mia casetta di tela.
NOTE:[1]In mezzo ai selvaggi.
[1]In mezzo ai selvaggi.
[1]In mezzo ai selvaggi.
La mattina seguente si partì prima del levar del sole con una nebbia umida e fitta che metteva freddo nelle ossa e ci nascondeva gli uni agli altri. I cavalieri della scorta avevano il cappuccio sul capo e i fucili fasciati; tutti noi eravamo ravvolti nei pastrani e nei mantelli; ci pareva d’essere in autunno, in mezzo a una pianura dei Paesi Bassi. Dietro a me non vedevo distintamente che il turbante bianco e la cappa turchina del Caid; tutti gli altri erano ombre confuse che si perdevano nell’aria grigia. Il sonno e il tempo uggioso mantenevano il silenzio. Andavamo per un terreno ineguale, coperto di palme nane, di lentischi, di ginestre, di pruni, di finocchio selvatico, raggruppandoci e sparpagliandoci di continuo secondo gli incrociamenti e le biforcature infinite dei sentieri.Il sole, apparendo sull’orizzonte, indorò per qualche minuto le nostre guancie sinistre; e poi si rinascose. La nebbia però diradò in maniera da lasciarci vedere la campagna. Era una successione di vallette verdi, nelle quali si scendeva e si risaliva quasi senz’accorgersene, tanto erano dolci i pendii. Le alture eran coperte di aloé e d’olivi selvatici. L’olivo, che in quel paese cresce prodigiosamente, è lasciato allo stato selvatico quasi da per tutto, e gli abitanti fanno lume e si alimentano col frutto dell’argan. Di mano in mano che ci affacciavamo a una valle, cercavamo cogli occhi un villaggio, un gruppo di capanne, qualche tenda. Non si vedeva nulla. Ci pareva di viaggiare alla ventura per una terra vergine. Di valle in valle, di solitudine in solitudine, dopo tre ore circa di cammino, arrivammo finalmente in un punto dove gli alberi più fitti, i sentieri più larghi e qualche armento sparpagliato per la campagna, annunciavano la vicinanza d’un luogo abitato. Uno dopo l’altro alcuni cavalieri della scorta spronarono il cavallo, ci passarono innanzi di galoppo e scomparvero dietro un’altura; altri si slanciarono di carriera a traverso la campagna in direzioni diverse; i rimanenti si disposero in ordine. In capo a pochi minuti ci trovammo davanti all’imboccatura d’una gola formata da alcune piccole colline,sulle quali s’alzava qualche capannuccia di stoppia. Alcuni arabi cenciosi, uomini e donne, ci guardavano curiosamente di dietro alle siepi. Entrammo nella gola; in quel momento apparve il sole. A un certo punto la gola faceva un gomito quasi ad angolo retto. Svoltammo..., e ci trovammo davanti a uno spettacolo stupendo.
Trecento cavalieri, vestiti di mille colori, sparpagliati in un grandioso disordine, ci venivan incontro a briglia sciolta coi fucili nel pugno, come se si slanciassero all’assalto d’un reggimento.
Era la scorta della provincia di Laracce, preceduta dal governatore e dai suoi ufficiali, che veniva a dare il cambio alla scorta di Had-el-Garbia, la quale doveva lasciarci sul confine della provincia di Tangeri, dove appunto eravamo arrivati.
Il Governatore di Laracce, un vecchio prestante con gran barba bianca, arrestò con un cenno i suoi cavalieri, strinse la mano all’ambasciatore e poi, voltatosi un’altra volta verso quella turba fremente d’impazienza, fece un gesto vigoroso come per dire:—Scatenatevi!—
Allora cominciò uno dei più splendidilab el barode(giuochi colla polvere) che noi potessimo desiderare.
Si slanciavano alla carica a due, a dieci insieme, a uno a uno, in fondo alla valle, sulle colline, davanti e ai fianchi della carovana, nella direzione del nostro cammino e in direzione contraria, sparando e urlando senza posa. In pochi minuti la valle fu piena di fumo e d’odor di polvere come un campo di battaglia. Da ogni parte turbinavano cavalli, lampeggiavano fucili, sventolavano caic, svolazzavano cappe, ondeggiavano caffettani rossi, gialli, verdi, azzurri, ranciati; scintillavano sciabole e pugnali. Ci passavano accanto ad uno ad uno, come fantasmi alati, vecchi, giovanetti, uomini di forme colossali, figure strane e terribili, ritti sulle staffe, colla testa alta, coi capelli al vento, col fucile disteso; e ognuno, sparando, lanciava un grido selvaggio che gl’interpreti ci traducevano.—Guai a te!—Madre mia!—In nome di Dio!—T’uccido!—Sei morto!—Son vendicato!—Altri dedicavano il loro colpo a qualcuno.—Al mio padrone!—Al mio cavallo!—Ai miei morti!—Alla mia amante!—Sparavano in alto, in terra, indietro, chinandosi e rovesciandosi come se fossero legati alle selle. Ad alcuni cadeva in terra il caic o il turbante; tornavano indietro di carriera, e lo raccoglievano, passando, colla punta del fucile. Parecchi roteavano l’arma al di sopra del capo, la buttavano in aria e la riafferravanocon una mano. Eran gesti convulsi, atteggiamenti temerari, urli e sguardi di gente inebbriata che rischiasse la vita con una gioia furiosa. Molti slanciavano il cavallo come se si volessero uccidere; volavano, sparivano e non tornavano che lungo tempo dopo colla faccia stravolta e pallida di chi ha visto in faccia la morte. I più dei cavalli grondavano sangue dal ventre; i cavalieri avevano i piedi, le staffe, l’estremità delle cappe macchiate di sangue. Alcune figure, in quella moltitudine, mi rimasero impresse fin dal primo momento. Fra gli altri un giovane con una testa ciclopica, un par di spalle smisurate ed un ventre enorme, che portava un caffettano color di rosa, e gettava delle grida che parevan ruggiti d’un leone ferito;—un ragazzo d’una quindicina d’anni, bello, scapigliato, tutto bianco, che mi passò tre volte dinanzi, gridando:—Dio mio! Dio mio!—; un vecchio lungo ed ossuto, un viso di malaugurio, che volava cogli occhi socchiusi e un sorriso satanico sulle labbra, come se portasse in groppa la peste;—un nero, tutt’occhi e tutto denti, con una mostruosa cicatrice a traverso la fronte, che passava dibattendosi furiosamente sopra la sella, come per liberarsi dalla stretta d’una mano invisibile. Facendo questo, accompagnavano tutti la marcia della carovana, salivano e scendevanodalle alture, si raggruppavano, si disperdevano, formavano e disfacevano rapidamente ogni sorta di combinazioni di colori, che abbagliavan gli occhi come lo sventolìo di una miriade di bandiere. Tutta questa gente, questo movimento vertiginoso, questo strepito, scoppiato inaspettatamente, all’apparire del sole, in quella gola angusta dove lo spettacolo si presentava tutto insieme allo sguardo come dentro a un anfiteatro, ci colpì d’un tale stupore che per un pezzo nessuno aprì bocca, e le prime parole furono poi un’esclamazione unanime e calorosa:—È bello! È bello! È bello!
A poca distanza dall’uscita della gola l’Ambasciatore si fermò, e tutti scendemmo a terra per riposarci all’ombra d’un gruppo d’olivi.
La scorta della provincia di Laracce continuò le sue cariche e i suoi fuochi davanti a noi.
Il convoglio dei bagagli seguitò la sua strada verso il luogo fissato per l’accampamento.
Eravamo arrivati allaCubadi Sidi-Liamani.
Nel Marocco si chiamaCuba, che significa cupola, una piccola cappella quadrata, coperta d’una cupola semisferica, nella quale è seppellito un santo. QuesteCube, frequentissime particolarmente nel mezzogiorno dell’Impero, poste la maggior parte in luoghi eminenti pressouna sorgente e una palma, e visibili, per la loro nivea bianchezza, a grande distanza, servono di guida ai viaggiatori, vengon visitate dai fedeli e sono per lo più custodite da un discendente del Santo, erede della santità, il quale abita una casuccia vicina alla tomba e vive dell’elemosina dei pellegrini. LaCubadi Sidi-Lamani era posta sopra una piccola altura, a pochi passi da noi. Alcuni arabi della campagna stavan seduti dinanzi alla porta. Dietro a loro spuntava la testa del vecchio decrepito—il Santo—che ci guardava con una stupida meraviglia.
In pochi minuti divamparono i fuochi della cucina, e di lì a poco si fece colezione.
Una scatola di sardine, vuota, buttata via dal cuoco, fu raccolta dagli arabi, portata dinanzi alla porta dellaCubae fatta oggetto d’un lungo esame e di conversazioni animate.
Finito illab el barode, quasi tutti i cavalieri della scorta, scesi a terra, si sparpagliarono per la piccola valle, parte per far pascolare i cavalli, parte per riposare. Alcuni, rimasti in sella, stettero di vedetta sulle alture.
In quel frattempo, passeggiando col capitano, osservai per la prima volta, colla scorta delle sue indicazioni, i cavalli marocchini. Sono tutti di piccola statura, tanto che tornato in Europa,coll’occhio abituato alle loro forme, i cavalli europei, anche di statura mezzana, mi parvero, sulle prime, enormi. Hanno l’occhio vivo, la fronte un po’ schiacciata, le narici molto aperte, le ossa zigomatiche molto sporgenti, la testa quasi tutti bellissima; lo stinco e la tibia un po’ curvi, ciò che dà loro una particolare elasticità di movimenti; la groppa manchevole, fuggente, per così dire, di sotto alla sella, il che li rende più abili al galoppo che al trotto; e non mi ricordo infatti d’aver mai visto andar di trotto un cavaliere marocchino. Visti quando riposano e quando vanno di passo, anco i più belli, non danno nell’occhio; slanciati alla corsa, si trasfigurano e riescon superbi animali. Benchè si nutriscano assai meno dei nostri e siano bardati assai più pesantemente, reggono alla fatica più dei nostri. Anche il modo di cavalcare è diverso. Le staffe sono tenute molto alte; il cavaliere sta sulla sella colle gambe piegate quasi ad angolo retto, tiene le redini lunghe e dirige il cavallo con movimenti larghissimi. La sella ha quei due rilievi, chiamati da noi con termine tecnico il pomo e la paletta, altissimi, che toccano il petto e la schiena del cavaliere, e lo ritengono in maniera da rendergli molto difficile la caduta. La maggior parte dei cavalieri, calzati di piccoli stivali di cuoio giallo senza talloni,non portano sproni e pungono il cavallo colla staffa; gli altri hanno per sproni due piccoli ferri acuminati, della forma d’un pugnale, fissati al calcagno con un cerchietto metallico e una catenella. Si dicono cose ammirabili del grande amore che nutre l’arabo per il cavallo, l’animale prediletto del profeta; si dice che lo considera come un essere sacro; che ogni mattina, al levar del sole, gli mette la mano destra sulla testa, mormorando:bismillah!(nel nome di Dio!) e si bacia poi la mano, che crede santificata da quel contatto; che gli prodiga ogni sorta di cure e di carezze. E saran cose vere. Ma questo suo grande amore, per quello ch’io vidi, non gl’impedisce di lacerargli i fianchi senza bisogno, di lasciarlo esposto al sole quando potrebbe ripararlo all’ombra, di condurlo a bere, a un’ora di cammino, colle zampe legate, di esporlo dieci volte al giorno, per puro spasso, a spezzarsi le gambe, e infine di trascurare la bardatura in maniera che il più diligente di loro, messo in un reggimento di cavalleria europea, passerebbe sei mesi dell’anno in prigione.
Il caldo essendo forte, si stette parecchie ore all’ombra; ma a nessuno riuscì di dormire, per cagione degli insetti. Erano le prime avvisaglie d’una guerra tremenda che doveva durare,inferocendo di giorno in giorno, fino alla fine del viaggio. Appena sdraiati in terra, eravamo assaliti, punti, solleticati da cento parti, come se ci fossimo buttati sopra un letto di ortiche. Non erano che bruchi, ragni, formiconi, tafani, cavallette; ma grossi, petulanti e ostinati in una maniera inaudita. Il Comandante, che per rallegrare la brigata aveva preso il partito di esagerare favolosamente i pericoli, e lo faceva con un garbo ammirabile, ci assicurava che quelli erano animalini microscopici appetto agli insettacci che avremmo trovati avvicinandoci a Fez e innoltrandoci nell’estate; e che di noi non sarebbe tornato in Italia che qualche resto riconoscibile a stento dai parenti più stretti e dagli amici più intimi. Il cuoco udendo quelle parole, fece un sorriso forzato e diventò pensieroso. Vicino a noi c’era una tela di ragno smisurata, distesa sopra alcuni cespugli, come un lenzuolo messo ad asciugare. Mi pare ancor di sentire il comandante esclamare:—Ma in questo paese tutto è gigantesco, formidabile, miracoloso!—Ed osservava con ragione che il ragno che aveva fatto quella tela doveva essere almeno grosso quanto un cavallo. Ma non riuscimmo a scoprirlo. I soli che dormissero erano gli arabi, coricati la maggior parte al sole, con una processione di bestiaccie addosso. I due pittori disegnavano, tormentati daun nuvolo di mosche feroci, che strappavano all’Ussi, a due a tre per volta, tutta la ricchissima litania dei sacrati fiorentini