LA CONTESSA GUICCIOLI

LA CONTESSA GUICCIOLI

Le onde dei lunghi aurei capelli le scendevano fino ai piedi, come un torrente delle alpi che il sole colora coi suoi raggi mattutini.... Essa creava intorno a sè un’atmosfera di vita; l’aria stessa illuminata dai suoi sguardi pareva farsi più leggiera; tanto essi eran soavi e pieni di tutto quel che possiamo immaginare di più celeste.... Vi si insinuavan nell’anima, come l’alba di una bella giornata di maggio.»

Statura piuttosto piccola; gracile, ma perfetta di forme: bianchissima di carnagione:sorriso etereo, Correggiesco: occhi veramente italiani, pieni di languori e di tempeste, di sorrisi e di lacrime.

Aveva diciassett’anni: era di nobile famiglia, i Gamba di Ravenna, ed usciva allora di convento. Il conte Guiccioli era vecchio, era vedovo, ma era anche ricchissimo.... e gliela dettero in moglie.

Lord Byron la vide per la prima volta in casa della contessa Albrizzi, nell’autunno del 1818. Ne fu colpito come da una visione celeste; ma evitò di rincontrarla,

Car le baril de poudre a peur de l’étincelle.

Car le baril de poudre a peur de l’étincelle.

Car le baril de poudre a peur de l’étincelle.

Egli era all’apogeo della sua gloria, ma in lotta col suo cuore, e in guerra aperta colla famiglia, colla patria e col mondo: i capolavori del suo genio poetico si succedevano; ma quelle pagine di alta poesia eloquente e patetica, tragica e satirica, uscivano da unharemveneziano dove egli consumava le forze e la vita, fra le bracciadianimali donne, com’egli stesso le chiamava, bevendo fino a tarda notte vino del Reno e cognac, fremendo, e ruggendo irrequieto come un leone in una gabbia, tanto che i suoi bei capelli si facevano grigi, e le digestioni difficili, e i sonni brevi e convulsi.

Aveva allora trentun anno, ed era sempre bellissimo, nonostante quel regime micidiale di vita: il più bell’uomo del suo tempo, a giudizio della Albrizzi, della Blessington, dello Shelley, del Trelawny, del Moore, dello Scott. La sua testa d’Antinoo era come un bel vaso di alabastro illuminato da interna luce. I suoi occhi grigio azzurri, cangianti come il colore del mare, esprimevano con rapida successione le passioni più opposte, dall’entusiasmo raggiante alla collera concentrata, dall’ardente simpatia del poeta al glaciale disprezzo e all’orgoglio del lord inglese. Il volto di un perfetto profilo era pallido abitualmente, ma di unpallore marmoreo; e su la nobile fronte e sul bellissimo collo spiccavano bruni e folti e naturalmente inanellati i capelli.

Era destino che si ritrovassero, che si amassero. «Nell’aprile del 1819 — scrive nei suoiRicordila giovinetta contessa — io feci la conoscenza di lord Byron. Mi fu presentato a Venezia dalla contessa Benzoni nella di lei società. Questa presentazione,che ebbe tante conseguente per tutti e due, fu fatta contro la volontà d’entrambi, e solo per condiscendenza l’abbiamo permessa. Io stanca più che mai quella sera, per le ore tarde che si costuma fare in Venezia, andai con molta ripugnanza, e solo per obbedire al conte Guiccioli, in quella società. Lord Byron che scansava di fare nuove conoscenze, dicendo sempre che aveva interamente rinunziato alle passionie che non voleva esporsi più alle loro conseguenze, quando la contessa Benzoni lo pregò di volersi far presentare a me, si ricusò dapprima, e solo per compiacenza glielo permise. La nobile e bellissima sua fisonomia, il suono della sua voce, le sue maniere, i mille incanti che lo circondavano, lo rendevano un essere così differente, così superiore a tutti quelli che io avevo sino allora veduti, che non potei a meno di provarne la più profonda impressione.... Da quella sera in poi, in tutti i giorni che mi fermai in Venezia, ci siamo sempre veduti.»

Veduti ed amati! E la donna in questo amore aveva molto più da perder che l’uomo, socialmente parlando. È vero; ma io non farò su lei nè morali rimpianti nè ipocrite elegie. Essa fu amata sinceramentee passionatamente dal più grande poeta del secolo, giovine e bello, nobile e generoso. Essa fu il solovero amoredi Byron, dopo le prime vaghe sue affezioni d’adolescente. Nel cuore di Aroldo essa non ebbe succeditrici o rivali; vi regnò unica, e non lo cedè che alla Grecia. Qual trionfo per una donna!

Ma, in compenso, essa fece a lui un bene anche più grande, infinitamente più grande. Essa brillò come un’iride su l’uragano di quell’anima, e vi portò la calma, la serenità, la giovanile freschezza. Essa ricompose e acquietò quel cuore esulcerato e agitato, quel cervello minacciato dalla pazzia. Essa rese a Byron il rispetto di sè medesimo, e per lungo tempo la pace e l’armonia della vita. Essa, essa sola, seppe farlopianger d’amore.

Attratta come da una corrente magnetica irresistibile, si gettò nelle braccia di lui coll’entusiasmo dei suoi diciotto anni,colla sincerità del suo cuore verginale. Non si arrese dopo le calcolate strategie delle adultere da romanzo, ma si abbandonò a lui, tremante d’amore vero, come Francesca. Egli si vide innanzi viva e reale la donna de’ suoi sogni, pura, ingenua, passionata. Il cuore di Zuleika e di Medora palpitò ardente negli amplessi del poeta. Essa lo amò non per la gloria del nome, non per lo ambito trionfo di vedere ai suoi piedi il più famoso poeta del tempo, non per la vanità di far parlar di sè tutta Europa, e sapersi invidiata dalle donne più belle; — ma lo amò per lui proprio, lui Giorgio Byron, giovine, bello e infelice. Essa era lontana mille miglia da quel sentimento misto di vanità che fece scriver lettere e intraprender viaggi e minacciare suicidi alle sedicenti innamorate di Goethe e di Rousseau, di Châteaubriand e di Lamartine. Essa fu veramente donna e italiana, cioè sincera e passionata. Ambedue erano infelici, benchèdi differente sventura. La vittima innocente consolò l’infelice colpevole; e, agli occhi del mondo, si perde per salvarlo.

Egli sentì, con fremiti di voluttà e di arcano terrore, che il suo cuore non era morto come credeva, ma che anzi non aveva mai amato così; e si abbandonò a tutto l’incanto di questa passione che presentiva esser l’ultima. Non potè più vivere lontano da lei. Ed essa aveva dovuto lasciare Venezia. «È vano lottare, lasciatemi amare e morire!» E confidava al Po, in versi immortali, il suo amore e i suoi desiderii, chè gli portasse alla sua donna, passando sotto le native sue mura. Andò a Bologna, e là inquieto e solitario, passava lunghe ore fra le tombe della Certosa, ammirando la bellezza delle rose sparse sui marmi, e il semplice affetto di alcune iscrizioni.... Ma laseppe malata a Ravenna, e non potè più resistere, e a costo di comprometterla, vi andò subito. Lapineta e la tomba di Danteerano scuse sufficienti al gran pellegrino. Come e quanto egli l’amasse si può ben intendere da queste parole deiRicordi manoscrittidella contessa medesima, citati da Moore, e che dicon tanto nella loro ingenua sincerità romagnola. «Egli giunse a Ravenna nel giorno della solennità del Corpus Domini, mentre io attaccata da una malattia di consunzione, che ebbe principio dalla mia partenza da Venezia, ero vicina a morire. L’arrivo in Ravenna di un forestiere distinto, in un paese così lontano dalle strade che ordinariamente tengono i viaggiatori, era un avvenimento del quale molto si parlava, indagandosene i motivi, che involontariamente poi egli stesso fece conoscere. Perchè avendo egli domandato di me per venire a vedermi, ed essendogli stato rispostoche non potrebbe vedermi più,perchè ero vicina a morire, egli rispose che in quel caso voleva morire egli pure; la qual cosa essendosi divulgata, si conobbe così l’oggetto del suo viaggio. Il conte Guiccioli visitò lord Byron, avendolo conosciuto in Venezia, e nella speranza che la di lui compagnia potesse distrarmi ed essermi di qualche giovamento nello stato in cui mi trovavo, lo invitò a venire a visitarmi. Il giorno appresso egli venne. Non si potrebbero descrivere le cure, i pensieri delicati, quanto egli fece per me. Per molto tempo egli non ebbe per le mani che dei libri di medicina, poco fidandosi nei miei medici. Ma la tranquillità, anzi la felicità inesprimibile che mi cagionava la sola presenza di lord Byron, migliorarono così rapidamente la mia salute, che entro lo spazio di due mesi ero in convalescenza.»

Fu in quel tempo che Byron le propose di fuggire con lui. Essa non volle: sperava invece ottener presto il divorzio.

«Quando passai allo stato di convalescenza, egli era sempre al mio fianco; e in società, e al teatro, e cavalcando, e passeggiando, egli non si allontanava mai da me. In quell’epoca, essendo egli privo dei suoi libri e dei suoi cavalli, e di tuttociò che lo occupava in Venezia, io lo pregai di volersi occupare per me, scrivendo qualche cosa su Dante; ed egli colla usata sua rapidità scrisse laProfezia di Dante.»

Poco dopo, essa dovè accompagnare in una gita di varii giorni il marito, e Byron tornò triste e solo a Bologna. Qui, col cuore ammollito ed esaltato dal nuovo sentimento che tutto lo possedeva, l’antica malinconia della sua prima gioventù lo riprese. Quella sorgente di naturale tenerezza che nè gli sforzi, le ingiurie e il veleno del mondo, nèi suoi propri eccessi avevan potuto disseccare affatto, corse di nuovo più vivace che mai per le sue vene. Sentì che cosa vuol dire amar davvero ed essere amati; troppo tardi per la sua felicità, troppo intensamente per la sua pace — ma che importa? lo sentì e ne fu beato. Egli andava tutti i giorni a visitare il quartiere che essa soleva abitare in Bologna e dov’era stata pochi dì prima, e lì, in quella stanza solitaria, dove tutto gli parlava di lei, provava una ineffabile voluttà a scrivere nelle sue carte, a leggere e postillare i suoi libri.

Un giorno, nel giardino di quella casa, assiso presso una fontana, pensando a lei, in quella mesta ora del vespro che nessuno dopo Dante ha cantata meglio di lui, sentì così vivo ed acuto lo spasimo della lontananza, fu preso da così ardenti desiderii, da così strani terrori d’amante, che dette in un pianto dirotto. Egli pianse d’amore, come Dante e l’Alfieri, come il Burns edil Foscolo, che non hanno temuto di passare davigliacchi sentimentalinel confessarcelo, e che pur non eranromantici....

In questo stesso giardino, in un volume dellaCorinnaappartenente alla contessa, egli scrisse in inglese col lapis queste parole: «Teresa mia. Ho letto questo libro nel tuo giardino. Tu eri lontana, amor mio.... altrimenti non sarei stato a leggere. Questo è un libro prediletto da te e scritto da una mia amica. Mi è doppiamente caro. Tu non capirai queste parole inglesi (ma anchealtrinon le capirà, e perciò non le scrivo in italiano) ma tu riconoscerai lo scritto di chi passionatamente ti ama, e indovinerai che sopra untuolibro egli non poteva pensar che all’amore. In questa parola, bella in tutte le lingue, ma più nella tua, oamor mio, è compresa tutta la mia esistenza presente e futura....»

Bisogna convenire che se Byron sapeva far dei bei versi, conosceva però l’arted’amare, per lo meno quanto l’arte poetica. E si capisce che la contessa doveva adorarlo.

Ma la situazione era equivoca e dolorosa per tutti e due, e non poteva a lungo durare. La contessa dovè tornare a Ravenna, e Byron aveva giurato di seguirla. Amici zelanti vollero dissuaderlo; anzi arrivarono a deciderlo di partire per l’Inghilterra «per il bene suo e per la pace della signora.» Ma lasignoranon la intendeva così. Gli scriveva lettere passionate, ed egli vi rispondeva con altre ardenti, in un italiano un po’ barocco, ma chiaro ed eloquentissimo.

A Venezia, un giorno ch’egli aveva più ascoltato la voce tanto autorevole e tanto poco obbedita del giudizio e della ragione, si fece un coraggio da leone, e decise lì per lì di partire per Londra. Era già inabito da viaggio, aveva preso i guanti e il cappello e la mazza. I suoi bauli erano in gondola. I servi pronti a piè di scala. Non gli mancava che scendere.... quando riceve una lettera che gli annunzia che la contessa è malata e che desidera di vederlo. Disordina tutto, e rimane, e le scrive subito: «Cara! credevo che il miglior partito per la pace tua e la pace della tua famiglia fosse il mio partire, e andarben lontano; poichè esserti vicino enonavvicinarti sarebbe per me impossibile. Ma tu hai deciso che io debba ritornare a Ravenna; tornerò e farò, e sarò, cara, ciò che tu vuoi!... Non posso dirti di più.»

E tornò davvero a Ravenna.

E l’influenza salutare di Teresa Guiccioli sul suo cuore e sul suo ingegno si fè più palese. La parte patetica del Don Giovanni, la divina chiusa del canto terzo sul tramonto e la pineta, sono ispirate dall’amore per lei. Una tenerezza femminile, ineffabile,compenetra e modifica la selvaggia armonia del verso di Byron. Egli la obbedisce in tutto. Egli sposa la causa deiCarbonariitaliani, prima per amore della libertà, ne convengo, ma anche per la viva amicizia che lo lega al fratello di lei conte Pietro Gamba, patriotta generoso, uomo culto ed amabilissimo, più tardi degno compagno di Byron in Grecia.

Egli che scrisse lettere fulminanti all’editore Murray e a Tommaso Moore perchè gli proposero di modificare due versi delDon Giovanni, ora dietro preghiera di lei sospende il poema, e non lo ripiglia finchè essa non ritira il suovetoe gli dà licenza di seguitarlo....

E quando l’innato sensoeroicodi Byron lo spinse ad andare a combattere e morire per la libertà della Grecia, essa che vedeva così a un trattofinir tuttoper lei, seppe eroicamente sacrificarsi. Non fece nè elegie nèscene: ma si immolò in silenzio, e fugrande; come solo le donne veramente amanti sanno esserlo. Felice in questo, che la immatura morte di Byron le lasciò intatta e pura la poesia della passione, nè fu costretta, come tante infelici, a edificare sulle ceneri dell’amore iltempio dell’amicizia!....

Noi viviamo tutti per invecchiare e morire: e i disinganni invadon via via il campo delle nostre gioie.... Molti cuori che più non credono non sanno rassegnarsi a non amar più. Altri furono di buon’ora e immedicabilmente feriti. Altri non possono amare, ed è loro negata la sola vera gioia della vita. Felici quei pochi che provarono le estasi e le torture, le trepide esultanze e le tacite voluttà della vera passione! Essi soli posson dire come la Tecla di Schiller:«Ogni terrena gioia gustai. Vissi ed amai!»

La morte stessa non può affatto distruggere quell’incanto. Al superstite restano le sue memorie e le sue lacrime; e bastano a consacrare una vita!

Teresa Guiccioli restò fedele e in patria e nel volontario esilio a tanta memoria, a tanto amore. Le sue lettere, i suoi ricordi lo attestano. Bella malinconica, giunta all’età in cui molte donne cercano invano di prolungare una inutile gioventù, essa cedè con grazia alle leggi del tempo, e restò sorridente e serena, quando i suoi bei capelli, tanto cantati e tanto baciati da Byron, diventarono bianchi. Io me la figuro, a momenti, passeggiar solitaria nei luoghi pieni di tante memorie, e assidersi rassegnata e pensosa, e tòrsi di tasca il volume diCorinna, e rileggervi quellasualettera.... e poi levarsi commossa e più pallida del consueto.... Oppure, nell’ora chei raggi del sol cadente filtrano nella fosca pineta, mi par di vederla, e di sentirle modulare malinconicamente a sè stessa i memori versi:

Ave Maria! ’tis the hour of prayer,Ave Maria! ’tis the hour of love!

Ave Maria! ’tis the hour of prayer,Ave Maria! ’tis the hour of love!

Ave Maria! ’tis the hour of prayer,

Ave Maria! ’tis the hour of love!


Back to IndexNext