Chapter 12

Figli parean di 'l foco veramente,Tanto era ciascun presto e furïoso,Con vista accesa e con la faccia ardente.Ora ben stette il conte dubbïoso;Non sa quel che far debba nella mente:Perder non vôle, e 'l vincere è dannoso,Però, ben che li faccia a terra andare,Rinasceranno, e più vi avrà che fare.

Ma de vincere al fin pur se conforta,Se ne nascesser ben mille migliara,Ed animoso se driccia alla porta.Quei duo giganti avean presa la sbara;Ciascuno aveva una gran spada torta,Perché eran nati con la simitara.Ma il conte a suo mal grado dentro passa,Prende la sbarra e tutta la fraccassa.

Unde ciascun di lor più fulminandoPercote adosso del barone ardito;Ma poca stima ne faceva Orlando,Ché non puotea da loro esser ferito.Lui riposto teneva al fianco il brando,Perché avea preso in mente altro partito;Adosso ad un di lor ratto se caccia,E sotto l'anche ben stretto l'abbraccia.

Aveano entrambi smisurata lena,Ma pur l'aveva il conte assai maggiore.Leval il conte ad alto e intorno il mena,Né vi valse sua forza, o suo vigore,Ché lo pose riverso in su l'arena.L'altro gigante con molto furoreDi tempestare Orlando mai non restaDa ciascun lato e basso e nella testa.

Lui lascia il primo, com'era disteso,E contra a questo tutto se disserra;Sì come l'altro a ponto l'ebbe preso,E con fraccasso lo messe alla terra.L'altro è levato de grande ira acceso:Orlando lascia questo e quello afferra;E mentre che con esso fa battaglia,Levasi il primo e intorno lo travaglia.

Andò gran tempo a quel modo la cosa,Né se potea sperare il fin giamai;Non può prendere il conte indugia o posa,Ché sempre or l'uno or l'altro gli dà guai.Durata è già la zuffa dolorosaPiù che quattro ore, con tormento assaiPer l'uno e l'altro; a benché 'l conte OrlandoA duo combatte e non adopra il brando.

Per non multiplicarli, il cavallieroBatteli a terra e non gli fa morire,Ma per questo non esce del verziero,Ch'e duo giganti il vetano a partire.Lui prese combattendo altro pensieroSubitamente, e mostra di fuggire;Per la campagna va correndo il conte,Ma quei due grandi ritornarno al ponte.

Ciascun sopra del ponte ritornava,Come de Orlando non avesse cura;E lui, che spesso in dietro si voltava,Credette che restasser per paura;Ma quella fatason che li creavaQuivi li tenea fermi per natura.Sol per diffesa stan di quella porta,E fanno al fiume ed al suo ponte scorta.

Il conte questo non aveva inteso,Ma via da lor correndo se alontana;Alla valletta se ne va disteso,Che ha 'l bel boschetto a lato alla fontana,Dove la Fauna avea quel laccio tesoPer pascerse de sangue e carne umana.Tavole quivi son da tutte bande;Il laccio è teso intorno alle vivande.

Era quel laccio tutto di catenaCome di sopra ancora io v'ho contato.Orlando lo distacca e dietro il mena,Strasinando alle spalle, per il prato:Tanto era grosso, che lo tira appena.Con esso al ponte ne fu ritornato,E pose un de' giganti a forza a terra,E braccie e gambe a quel laccio gl'inferra.

Benché a ciò fare vi stesse buon spaccio,Perché l'altro gigante lo anoiava;Ma a suo mal grado uscì di quello impaccio,Ed ancora esso per forza atterrava;Come l'altro il legò proprio a quel laccio.Ora la porta più non se serrava,E puote Orlando a suo diletto uscire;Quel che poi fece, tornati ad odire.

Perché se dice che ogni bel cantareSempre rincresce quando troppo dura,Ed io diletto a tutti vi vo' dareTanto che basta, e non fuor di misura;Ma se verreti ancora ad ascoltare,Racontarovi di questa venturaChe aveti odita, tutto quanto il fine,Ed altre istorie belle e pellegrine.

Canto quinto

Vita zoiosa, e non finisca mai,A voi che con diletto me ascoltati.Segnori, io contarò dove io lasciai,Poi che ad odire sete ritornati,Sì come Orlando con fatica assaiQuei duo giganti al ponte avea legati.Vinto ha ogni cosa il franco paladino,Ed a sua posta uscir può del giardino.

Ma lui tra sé pensava nel suo coreChe se a quel modo fuora se n'andava,Non era ben compito de l'onore,Né satisfatto a quella che 'l mandava;Ed era ancora al mondo un grande errore,Se quel giardino in tal forma durava,Ché dame e cavallier d'ogni contrateVi erano occisi con gran crudeltate.

Però si pose il barone a pensareSe in alcun modo, o per qualche manieraQuesQo verzier potesse disertare;Così la lode e la vittoria intieraBen drittamente acquistata gli pare,Poi che l'usanza dispietata e fieraChe struggea tante gente pellegrine,Per sua virtute sia condutta a fine.

Legge il libretto, e vede che una piantaHa quel giardino in mezzo al tenimento,A cui se un ramo de cima se schianta,Sparisce quel verziero in un momento;Ma di salirvi alcun mai non si vanta,Che non guadagni morte o rio tormento.Orlando, che non sa che sia paura,Destina de compir questa ventura.

Ritorna adietro per una vallata,Che proprio ariva sopra al bel palaggioOve la dama prima avea trovata,Che mirandosi al brando stava ad aggio;E lui lì presso la lasciò legata,Come sentesti, a quel tronco di faggiogCosì la ritrovò legata ancora:Ivi la lascia e non vi fa dimora.

De gionger alla pianta avea gran fretta;Ed ecco in mezo di quella pianuraEbbe veduta quella rama eletta,Bella da riguardare oltra misura.D'arco de Turco non esce saettaChe potesse salire a quella altura;Salendo e rami ad alto e' fa gran spaccio,Né volta il tronco alla radice un braccio.

Non è più grosso, ed ha li rami intornoLunghi e sotili, ed ha verde le fronde;Quelle getta e rinova in ciascun giorno,E dentro spine acute vi nasconde.Di vaghe pome d'oro è tutto adorno;Queste son grave e lucide e rotonde,E son sospese a un ramo piccolino:Grande è il periglio ad esser lì vicino.

Grosse son quanto uno omo abbia la testa,E come alcuno al tronco s'avicina,Pur sol battendo i piedi alla foresta,Trema la pianta lunga e tenerina;E cadendo le pome a gran tempesta,Qualunche è gionto da quella roinaMorto alla terra se ne va disteso,Perché non è riparo a tanto peso.

Alti li rami son quasi un'arcata;Il tronco da lì in gioso è sì polito,Che non vi salirebbe anima nata,E se alcun fosse di salire ardito,Non serìa sostenuto alcuna fiata,Perché alla cima non è grosso un dito.Ogni cosa sapeva Orlando a ponto:Letto nel libro aveva ciò che io conto.

E lui prende nel cor tanto più sticciaQuanto le cose son più faticose,E per trar questo al fin la mente adriccia.Taglia de un faggio le rame frondoseSubitamente, e fece una gradiccia;Crosta di prato e terra su vi pose,Poi sopra alle sue spalle e alla testaStretta la lega, e va che non s'arresta.

Aveva il conte una forza tamanta,Che già portava, come Turpin dice,Una colonna integra tutta quantaD'Anglante a Brava per le sue pendice.Or, come gionto fu sotto la pianta,Tutta tremò per sino alla radice.Le sue gran pome, ciascuna più greve,Vennero a terra e spesse come neve.

Il conte va correndo tutta fiata,E de gionger al tronco ben s'appresta,Ché già tutta la terra è dissipata,Né manca di cader l'aspra tempesta.Ora era carca tanto quella grata,Che sol di quel gran peso lo molesta,E se ben presto al tronco non ariva,Quella roina della vita il priva.

Come fu gionto a quella pianta gaglia,Non vi crediati che voglia montare;Tutta a traverso de un colpo la taglia:La cima per quel modo ebbe a schiantare.Come fu in terra, tutta la pratagliaD'intorno intorno cominciò a tremare;Il sol tutto se asconde e il celo oscura,Coperse un fumo il monte e la pianura.

Ove sia il conte non vede nïente,Trema la terra con molto romore.Eravi per quel fumo un fuoco ardente,Grande quanto una torre, ancor maggiore;Questo è un spirto d'abisso veramente,Che strugge quel giardino a gran furore,E, come al tutto fu venuto meno,Ritornò il giorno e fiesse il cel sereno.

La pietra che 'l verzier suolea voltare,Tutta è sparita e più non se vedia;Ora per tutto si può caminare.Largo è il paese, aperto a prateria,Né fonte né palagio non appare;De ciò che vi era, sol la dama ria,Io dico Falerina, ivi è restata,Sì come prima a quel tronco legata.

La qual piangendo forte lamentava,Poi che disfatto vidde il suo giardino.Né come prima tacita si stavaNegando dar risposta al paladino;Ma con voce pietosa lo pregavaChe aggia mercè del suo caso tapino,Dicendogli: - Baron, fior de ogni forte,Ben ti confesso ch'io merto la morte.

Ma se al presente me farai morire,Sì come io ne son degna in veritade,E dame e cavallier farai perire,Che son pregioni, e fia gran crudeltade.Acciò che intendi quel che ti vo' dire,Sappi che io feci con gran falsitadeQuesto verziero e ciò che gli era intorno,In sette mesi; ora è sfatto in un giorno.

Per vendicarme sol de un cavalleroE de una dama sua, falsa, putana,Io feci il bel giardin, che, a dirti il vero,Ha consumata molta gente umana;Né ancora mi bastò questo verzero:Io feci un ponte sopra a una fiumana,Dove son prese e dame e cavallieri,Quanti ne arivan per tutti e sentieri.

Quel cavalliero è nomato Arïante,Origilla è la falsa che io contai.Or de costoro io non dico più avante,A benché vi serìa da dire assai.Per mia sventura tra gente cotanteAlcun de questi duo non gionse mai,E già più gente è morta a tal dannaggioChe non ha rami o fronde questo faggio.

Perché al giardin, che fu meraviglioso,Tutti eran morti quanti ne arivava;Ma il numero più grande e copïoso,Il ponte ch'io t'ho detto mi mandava,Perché avea in guardia un vecchio doloroso,Che molta gente sopra vi guidava.Il ponte non bisogna che io descriva,Ma per se stesso chiude chi ve ariva.

Né è molto tempo che una incantatrice,Quale è figliola del re Galafrone,Che ora col patre, sì come se dice,Assedïata è dentro ad un girone,Passando alor di qua, quell'infelice,Al ponte fo condutta dal vecchione,E poi, con modo che io non sazo dire,Partisse, e tutti gli altri fie' fuggire.

Ma molti vi ne sono ora al presente,Perché ne prende sempre il vecchio assai,E come io serò occisa, incontinenteIl ponte e lor non si vedran più mai,E meco perirà cotanta gente:E tu cagion di tutto il mal serai.Ma se mi campi, io ti prometto e giuroChe lasciarò ciascun franco e sicuro.

E se non dài al mio parlar credenza,Menami teco, come io son, legata,(Presa o disciolta, io non fo differenza,Ché ad ogni modo io son vituperata),E disfarò la torre in tua presenza,E tutta salvarò quella brigata.Piglia il partito, adunque, che ti pare,O fa l'altri morire, o mi campare. -

Presto questo partito prese il conte,Ché morta non l'avrebbe ad ogni guisa;Ni per grave dispetto ni per onteAvrebbe Orlando una donzella occisa.D'acordo adunque se ne vanno al ponte,Ma più di lor la istoria non divisa,E torna ove lasciò, poco davante,Marfisa alla battaglia e Sacripante.

La zuffa per quel modo era durata,Che io vi contai ne l'assalto primiero;Marfisa di tal arme era adobbata,Che di ferirla non facea mistieroPonta di lancia ni taglio di spata;E Sacripante aveva il suo destrieroChe è sì veloce che si vede apena,Onde la dama indarno e colpi mena.

Ma mentre che tra lor sopra quel pianoÈ la battaglia de più colpi spessa,A benché ciascadun al tutto è vano,Ché essa non nôce a lui né lui ad essa,Brunello il ladro, il quale era Africano,E fo servente del gran re de Fiessa,Avea passate molte regïone,E de improviso è già gionto al girone.

Agramante mandò questo Brunello,Perché davanti a lui se era avantatoVenire ad Albracà dentro al castello,Ove è la dama dal viso rosato,E tuore a lei di dito quello annello,Quale era per tale arte fabricato,Che ciascaduno incanto a sua presenzaPerdea la possa con la appariscenza.

Fatto era questo per trovar Rugiero,Che era nascoso al monte di Carena,E però questo ladro tanto fieroVien con tal fretta e tal tempesta mena.Sopra a quel sasso n'andava legiero,Che non vi avria salito un ragno a pena,Però che quel castello in ogni latoA piombo, come muro, era tagliato.

E sol da un canto vi era la salita,Tutta tagliata a botta di piccone,E sol da questa è la intrata e la uscita,Dove alla guarda stan molte persone;Ma verso il fiume è la pietra polita,Né di guardarvi fasse menzïone,Però che con ingegno né con scale,Né se vi può salir, se non con l'ale.

Brunello è d'araparsi sì maestro,Che su ne andava come per un laccio;Tutta quella alta ripa destro destroMontava, e gionse al muro in poco spaccio.A quello ancor se attacca il mal cavestro,Menando ambi dui piedi e ciascun braccioCome egli andasse per una acqua a nôto,Né fu bisogno al suo periglio un voto;

Perché montava cotanto sicuro,Come egli andasse per un prato erboso.Poi che passato fu sopra del muro,A guisa de una volpe andava ascoso;E non credati che ciò fosse al scuro,Anci era il giorno chiaro e luminoso;Ma lui di qua e di là tanto si cella,Che gionto fu dove era la donzella.

Sopra la porta quella dama gagliaSi stava ascesa riguardando il piano,E remirava attenta la battagliaChe avea Marfisa con quel re soprano.Gran gente intorno a lei facea serraglia:Chi parla, e chi fa cenno con la mano,Dicendo: - Ecco Marfisa il brando mena,Re Sacripante la camparà apena. -

Altri diceva: - E' farà gran diffeseContra quella crudele il buon guerrero,Pur che non venga con seco alle prese,E guardi che non pèra il suo destriero. -A questo dire il ladro era palese,Che alla notte aspettar non fa pensiero;Tra quella gente se ne va BrunelloTutto improviso, e prese quello annello.

E non l'arebbe la dama sentito,Se non che sbigotì della sua faccia.Lui con l'anel che gli ha tolto de dito,Di fuggir prestamente si procaccia,Correndo al sasso dove era salito.Dietro tutta la gente è posta in caccia;Ché Angelica piangendo se scapigliaCridando: - Ahimè tapina! piglia! piglia!

Piglia! piglia! - cridava - ahimè tapina!Ché consumata son, s'el non è preso. -Ciascun per agradire alla reginaA suo poter avrebbe il ladro offeso.Lui passa il muro e salta la roina,Per quella pietra se ne va sospeso,E per la ripa va mutando il passoCome per gradi, e gionge al fiume basso.

Né vi crediati che fusse confuso,Benché quella acqua sia grossa e corrente:Come un pesce a natare egli era aduso;Entra nel fiume, e di lui par nïente.Fuor de l'acqua teniva aponto il muso,E pareva una rana veramente;Quei del castel, guardando in ogni latoE nol veggendo, il credeno affocato.

Angelica per questo se dispera,E ben se batte il viso la meschina.Brunello uscì dapoi della rivera,Per la campagna via forte camina;Gionse dove era la battaglia fieraTra il re circasso e la forte regina.Ivi firmosse alquanto per mirare,Ma l'uno e l'altro alor se vôl posare;

Perché il secondo assalto era bastato,E ciascadun di lor vôl prender posa.Dicea Brunello: "Io non serò firmato,Che io non guadagni vosco alcuna cosa.Se non vi spoglio, aveti bon mercato;Ma poi che seti gente valorosa,Io voglio usarvi alquanta cortesia:Ciò che io vi lascio, è della robba mia."

Così dicea Brunello in la sua mente,E vede a Sacripante quel destriero,Il qual da parte si stava dolenteAvendo del suo regno gran pensiero,Che gli parea vedere in foco ardente,Come contato avea quel messaggiero;E tal doglia di questo ha Sacripante,Che non se avede quel che abbi davante.

Diceva lo Africano: "Or che omo è questoChe dorme in piede, ed ha sì bon ronzone?Per altra volta io lo farò più desto."E prese in questo dire un gran troncone,E la cingia disciolse presto presto,E pose il legno sotto dello arcione;Né prima Sacripante se ne avede,Che quel se parte, e lui rimane a piede.

A questa cosa mirava Marfisa,Ed avea preso tanta meraviglia,Che, come fosse dal spirto divisa,Stringea la bocca ed alciava le ciglia.Il ladro la trovò tutta improvisaIn tal pensiero, e la spata li piglia;Quella attamente li trasse di mano,E via spronando fugge per il piano.

Marfisa il segue e cridando il minaccia,- Giotton, - dicendo - e' ti costarà cara! -Ma lui si volta e fagli un fico in faccia;E fuggendo dicea: - Così se impara! -Il campo è tutto in arme e costui caccia,Cridando: - Piglia! piglia! para! para! -Ma lui, che si trovava un tal destriero,De lo esser preso avea poco pensiero.

Or Sacripante rimase storditoPer meraviglia, e non avria saputoDire a qual modo sia quel fatto gito,Se non che esso il destriero avea perduto."Dove è colui, - dicea - che m'ha schernito?Or come fece, ch'io non l'ho veduto?Esser non puote che uno inganno tantoNon sia da spirti fatto per incanto.

E se gli è ciò, mia dama con l'annelloAncor farami avere il bon destriero.Ben mi è vergogna: ma quale omo è quelloChe possa riparare a tal mestiero?"Così dicendo tornasi al castelloPensoso, anzi turbato nel pensiero;Ma, come gionto fu dentro alla porta,Angelica trovò che è quasi morta:

Quasi morta di doglia la donzella,Pensando che riceve un tal dannaggio.Re Sacripante per nome l'appella,Dicendo: - Anima mia, chi te fa oltraggio? -Lei sospirando, piangendo favella,Dicendo: - Ormai diffesa più non aggio.Presto nelle sue man me avrà Marfisa,E serò in pena e con tormento occisa.

Aggio perduta tutta la diffesaChe aver suoleva a l'ultima speranza,E so che prestamente serò presa,E poco tempo de viver me avanza.E tanto questo danno più mi pesa,Quanto io l'ho recevuto come a cianza,E più non sazo, trista, dolorosa,Chi m'abbia tolta così cara cosa. -

Non sapea il re di quel fatto nïente,Ché era nel campo, come aveti odito;Ma detto gli fu poi da quella genteCome il ladro l'annel tolse de ditoE fuggitte alla ripa prestamente,E fu impossibil de averlo seguito,Perché se era gettato giù del sasso,Sì che egli era affocato al fiume basso.

Il re diceva: - Se Macon mi vaglia,Che costui non deve esser affocato(Così foss'egli!), perché alla battagliaIl mio destrier di sotto m'ha robbato,E fuggito ne è via per la prataglia.Benché Marfisa l'abbia seguitato,Non serà preso, e ben lo so di certo,Ché del destrier ch'egli ha ne sono esperto. -

Mentre che tra costor se ragionava,E 'l dir de l'una cosa l'altra spiana,Colui che in guarda a l'alta rocca stava,- A l'arme! - crida, e suona la campana;E dà risposta a chi lo dimandava,Che una gran gente ariva in su la piana,Con tante insegne grande e piccoline,Che ne stupisce e non ne vede il fine.

Or questa gente che là giù venìa,Perché sappiati il fatto ben certano,Venuta è tutta quanta de Turchia(Qua la conduce il forte Caramano):Ducento millia e più quella zinia,Che con gran cridi se accampa nel piano.Torindo questa gente fa venire,Ché vôl vedere Angelica perire.

Sono accampati sopra alla pianura,E ciascadun giurando se destinaMai non partirse, che di quella alturaVerà la rocca al basso con roina.Angelica tremava di pauraVeggendosi diserta la meschina,Ché il campo de' nemici è sì cresciuto;Lei de alcuno altro non aspetta aiuto.

Or si va di quel tempo racordandoChe la soccorse il franco paladinoCon tanti bon guerreri, io dico Orlando,Che avea mandato a quel falso giardino;La fortuna e se stessa biastemando,E l'amor de Ranaldo e il rio destino,Qual l'ha tanto infiammata e tanto accesa,Che gli ha tolto ogni aiuto e ogni diffesa.

Sol seco è Sacripante, il bon guerriero,Ma questo alla battaglia non uscia,Poi che perduto aveva quel destrieroChe contra di Marfisa il mantenia,E stava del suo regno in gran pensiero,Che avea perduto, e in gran malenconia;Ma più pena sentiva e più doloreVeggendo quella dama in tanto errore.

Del destriero e del regno che è perdutoNon avrebbe quel re doglia né cura,Pur che potesse dare alcuno aiutoA quella dama che è in tanta paura.Il castel per tre mesi è provedutoDi vittualia dentro a l'alte mura;Prima adunque che 'l tempo sia finito,Bisogno è di pigliare altro partito.

Venne in consiglio lo re GalafroneCol re circasso e sua figlia soprana.Disse quel vecchio: - Oditi una ragione,Ché ogni altra di soccorso mi par vana.Un mio parente tiene la regioneDi là da l'India, detta Sericana,E lui Gradasso si fa nominare,Qual di prodezza al mondo non ha pare.

Settanta dui reami in sua possanzaHa conquistato con la sua persona,E vinto ha tutto il mare e Spagna e Franza;Per lo universo il suo nome risuona.Ora di novo per molta arroganzaHa tolto dal suo capo la corona,Ed ha giurato mai non la portareSe non compisce quel ch'egli ha da fare.

Perché al tempo passato, alora quandoVinse la Franza e prese Carlo Mano,Quel gli promise de mandare un brandoChe al mondo non è un altro più soprano,Qual era de un baron che ha nome Orlando.Ora ha aspettato molto tempo in vano,Onde destina tornare in Ponente,E prender Carlo e tutta la sua gente.

E dentro alla città di Druantuna,Che è la sua sedia antiqua e stabilita,Per far passaggio gran gente raduna;E, secondo che intendo per odita,Tanta non ne fui mai sotto la lunaUn'altra fiata ad arme insieme unita;Benché reputo quella gente a cianza,Dico a rispetto de la sua possanza.

Sì che a camparci de man di Marfisa,Questo serebbe lo ottimo rimedio;Ma non ritrovo il modo né la guisaA far sapere a lui di questo assedio;Ch'io so che lui verrebbe alla recisa,Né mai mi lasciarebbe in tanto attedio:Ma non so trovar modo né vedereChe questa cosa gli faccia asapere. -

Seguiva Galafron con questo direA Sacripante voltando le ciglia:- Tu sei, figliolo, uno omo di alto ardire,E tanto amor mi porti ed a mia figlia,Che tu sei posto più volte a morire,Né Mandricardo, che 'l tuo regno piglia,Né il tuo caro Olibandro, che hai perduto,Mai ti puote distor dal nostro aiuto.

Dio faccia che una volta meritarePossiamo te con degno guidardone,Ben ch'io non credo mai poterlo fare;Ma ciò che abbiamo e le proprie personeSeran disposte nel tuo comandare.Ciò te giuro a la fede di Macone,Che la mia figlia e tutto il regno mioSeran disposti sempre al tuo desio.

Ma questo proferirti fia perduto,Ché serà il regno e noi seco diserti,Se non trovamo a qualche modo aiuto;Ed io che tutti quanti li aggio espertiE lungamente ho il fatto provedutoE i soccorsi palesi e li coperti,Dico che siamo a l'ultimo perire,Se 'l re Gradasso non se fa venire.

Sì che, figlio mio caro, io te scongiuroPer nostro amore e tua virtù soprana,Che non ti para questo fatto duroDi ritrovar Gradasso in Sericana;E questa sera, come il cel sia scuro,Potrai callar nell'oste in su la piana,Ché quella gente ne stima sì poco,Che non fa guarda al campo in verun loco. -

Sacripante non fie' molte parole,Come colui che ha voglia de servire,E de altro nella mente non si dole,Se non che presto non si può partire;Ma come a ponto fu nascoso il sole,E cominciosse il celo ad oscurire,Iscognosciuto, come peregrino,Per mezo l'oste prese il suo camino.

Né mai sopra di lui fu riguardato;Va di gran passo e porta il suo bordone,Ma sotto la schiavina è bene armatoDi bona piastra, ed ha il brando al gallone.Rimase Galafrone assedïatoCon la sua figlia nel forte girone;E Sacripante, che de andare ha cura,Trovò nel suo vïaggio alta ventura.

Questa odirete, come l'altre coseChe insieme tutte quante sono agionte.E seran ben delle meravigliose,Perché fu in India al Sasso della Fonte;Ma primamente, gente dilettose,Io ve vorò contar di Rodamonte:Di Rodamonte vo' contarvi in prima,Che una vil foglia il suo Macon non stima,

E meno ancor s'accosta ad altra fede:Tien per suo Dio l'ardire e la possanza,E non vôle adorar quel che non vede.Questo superbo, che ha tanta arroganza,Pigliar soletto tutto il mondo crede,Ed al presente vôl passar in Franza,E prenderla in tre giorni si dà vanto,Come odirete dir ne l'altro canto.

Canto sesto

Convienmi alciare al mio canto la voce,E versi più superbi ritrovare;Convien ch'io meni l'arco più veloceSopra alla lira, perch'io vo' contareDe un giovane tanto aspro e sì feroce,Che quasi prese il mondo a disertare:Rodamonte fu questo, lo arrogante,Di cui parlato ve ho più volte avante.

Alla cità d'Algeri io lo lasciai,Che di passare in Franza se destina,E seco del suo regno ha gente assai:Tutta è alloggiata a canto alla marina.A lui non par quella ora veder maiChe pona il mondo a foco ed a roina,E biastema chi fece il mare e il vento,Poi che passar non puote al suo talento.

Più de un mese di tempo avea già persoDe quindi in Sarza, che è terra lontana,E poi che è gionto, egli ha vento diverso,Sempre Greco o Maestro o Tramontana;Ma lui destina o ver di esser sumerso,O ver passare in terra cristïana,Dicendo a' marinari ed al patroneChe vôl passare, o voglia il vento, o none.

- Soffia, vento, - dicea - se sai soffiare,Ché questa notte pure ne vo' gire;Io non son tuo vassallo e non del mare,Che me possiati a forza retenire;Solo Agramante mi può comandare,Ed io contento son de l'obidire:Sol de obedire a lui sempre mi piace,Perché è guerrero, e mai non amò pace. -

Così dicendo chiamò un suo paroneChe è di Moroco ed è tutto canuto;Scombrano chiamato era quel vecchione,Esperto di quella arte e proveduto.Rodamonte dicea: - Per qual cagioneM'hai tu qua tanto tempo ritenuto?Già son sei giorni, a te forse par poco,Ma sei Provenze avria già posto in foco.

Sì che provedi alla sera presenteChe queste nave sian poste a passaggio,Né volere esser più di me prudente,Ché, s'io me anego, mio serà il dannaggio;E se perisce tutta l'altra gente,Questo è il minor pensier che nel core aggio,Perché, quando io serò del mare in fondo,Voria tirarmi adosso tutto il mondo. -

Rispose a lui Scombrano: - Alto segnore,Alla partita abbiam contrario vento;Il mare è grosso e vien sempre maggiore.Ma io prendo de altri segni più spavento,Ché il sol callando perse il suo vigore,E dentro a i novaloni ha il lume spento;Or si fa rossa or pallida la luna,Che senza dubbio è segno di fortuna.

La fulicetta, che nel mar non resta,Ma sopra al sciutto gioca ne l'arena,E le gavine che ho sopra alla testa,E quello alto aeron che io vedo apena,Mi dànno annunzio certo di tempesta;Ma più il delfin, che tanto se dimena,Di qua di là saltando in ogni lato,Dice che il mare al fondo è conturbato.

E noi se partiremo al celo oscuro,Poi che ti piace; ed io ben vedo apertoChe siamo morti, e de ciò te assicuro;E tanto di questa arte io sono esperto,Che alla mia fede te prometto e giuro,Quando proprio Macon mi fésse certoCh'io non restassi in cotal modo morto,"Va tu, - direbbi - ch'io mi resto in porto."-

Diceva Rodamonte: - O morto o vivo,Ad ogni modo io voglio oltra passare,E se con questo spirto in Franza arivo,Tutta in tre giorni la voglio pigliare;E se io vi giongo ancor di vita privo,Io credo per tal modo spaventare,Morto come io serò, tutta la gente,Che fuggiranno, ed io serò vincente. -

Così de Algeri uscì del porto fuoreIl gran naviglio con le vele a l'orza;Maestro alor del mare era segnore,Ma Greco a poco a poco se rinforza;In ciascaduna nave è gran romore,Ché in un momento convien che si torza:Ma Tramontana e Libezzo ad un trattoUrtarno il mare insieme a rio baratto.

Allor se cominciarno e cridi a odire,E l'orribil stridor delle ritorte;Il mar cominciò negro ad apparire,E lui e il celo avean color di morte;Grandine e pioggia comincia a venire,Or questo vento or quel si fa più forte;Qua par che l'unda al cel vada di sopra,Là che la terra al fondo se discopra.

Eran quei legni di gran gente pieni,De vittuaglia, de arme e de destrieri,Sì che al tranquillo e ne' tempi sereniDi bon governo avean molto mestieri;Or non vi è luce fuor che di baleni,Né se ode altro che troni e venti fieri,E la nave è percossa in ogni banda:Nullo è obedito, e ciascadun comanda.

Sol Rodamonte non è sbigotito,Ma sempre de aiutarse si procaccia;Ad ogni estremo caso egli è più ardito,Ora tira le corde, or le dislaccia;A gran voce comanda ed è obedito,Perché getta nel mare e non minaccia;Il cel profonda in acqua a gran tempesta,Lui sta di sopra e cosa non ha in testa.

Le chiome intorno se gli odìan suonare,Che erano apprese de l'acqua gelata;Lui non mostrava de ciò più curare,Come fusse alla ciambra ben serrata.Il suo naviglio è sparso per il mare,Che insieme era venuto di brigata,Ma non puote durare a quella prova:Dov'è una nave, l'altra non si trova.

Lasciamo Rodamonte in questo mare,Che dentro vi è condutto a tal partito:Ben presto il tutto vi vorò contare;Ma perché abbiati il fatto ben compito,Di Carlo Mano mi convien narrare,Che avea questo passaggio presentito,E benché poco ne tema o nïente,Avea chiamata in corte la sua gente.

E disse a lor: - Segnori, io aggio novaChe guerra ci vuol fare il re Agramante.Né lo spaventa la dolente prova,Ove fur morte de sue gente tante;Né par che dalla impresa lo rimovaL'esempio de suo patre e de Agolante,Che morti fur da noi con vigoria:Or ne viene esso a fargli compagnia.

Ma pure in ogni forma ce bisognaGuarnir per tutto il regno a bona scorta,Perché, oltra al vituperio e alla vergogna,La trista guarda spesso danno porta.Costor verranno o per terra in Guascogna,O per mare in Provenza, o ad Acquamorta,E però voglio che con gente armataOgni frontiera sia chiusa e guardata. -

Poi che ebbe detto, chiama il duca Amone,Ed a lui disse: - Poi che se ne è andatoQuel tuo figliol, che fu sempre un giottone,Farai che Montealban sia ben guardato.Manda tua gente fore a ogni cantone,E fa che incontinente io sia avisatoCiò che se faccia in terra ed in marinaPer tutta Spagna, dove te confina.

Là son toi figli; ogniuno è bon guerrero,Sì che non te bisogna una gran gente;Se pure aiuto te farà mestiero,Io commetto ad Ivone, il tuo parente,E qui presente impono ad AngeleroChe ciascadun te sia tanto obedienteCome proprio serìano a mia persona,Sotto a l'oltraggio di questa corona.

Così Guielmo, il sir de Rosiglione,Ed Ariccardo, quel di Perpignano,Con tutte le sue gente e sue personeVengano ad aloggiare a Montealbano. -Di questo non si fece più sermone;Lo imperator, rivolto a l'altra mano,Disse: - Segnori, or con più providenzaConvien guardarsi il mar verso Provenza.

Però voglio che il duca de BaveraDi quella regïone abbia la impresa:In mare, in terra tutta la riveraContra questi Africani abbia diffesa.Benché sia cosa facile e leggieraVetare a' Saracin la prima scesa,La gran fatica fia de indovinareIl loco a ponto ove abbino a smontare.

Per questo voglio che con seco menaTutti quattro i suoi figli a quel riparo,Ed oltra a questi il conte de Lorena,Dico Ansuardo, il mio paladin caro,E Bradiamante, la dama serena,Ché di Ranaldo vi è poco divaroDi ardire e forza a questa sua germana;Così Dio sempre me la guardi sana!

Ed Amerigo, duca di Savoglia,E Guido il Borgognon vada in persona,E la sua gesta seco si raccogliaRoberto de Asti e Bovo de Dozona.Chi non obedirà, sia chi si voglia,Serà posto ribello alla corona.Ora, Naimo mio caro, intendi bene:Tenire aperti gli occhi ti conviene.

In molte parte te convien guardarePer non essere accolto allo improviso,Ché, stu li lasci a terra dismontare,Non andarà la cosa più da riso.Tien la vedetta per terra e per mare,E fa che de ogni cosa io n'abbia aviso,Ch'io starò sempre in campo provedutoA dare, ove bisogni, presto aiuto. -

Fu in cotal forma il consiglio fermato,Sì come avea disposto Carlo Mano,E ciascadun da lui tolse combiato,Ed andò il duca Amone a Montealbano,Da molti bon guerreri accompagnato;E il duca Naimo per monte e per piano,Con pedoni e cavalli in quantitade,Gionse in Marsiglia dentro alla citade.

Trenta migliara avea de cavallieri,Ed ha vinti migliara de pedoni;E tra lor cominciarno a far pensieriQual terra ciascadun de quei baroniTenesse al suo governo volentieri;Né già vi fôr tra lor contenzïoni,Ma ciascun, come a Naimo fu in talento,Prese la guarda e rimase contento.

Torniamo a Rodamonte, che nel mareHa gran travaglia contra alla fortuna;La notte è scura e lume non appareDe alcuna stella, e manco della luna.Altro non se ode che legni spezzareL'un contra a l'altro per quella onda bruna,Con gran spaventi e con alto romore:Grandine e pioggia cade con furore.

Il mar se rompe insieme a gran ruina,E 'l vento più terribile e diversoCresce d'ognor e mai non se raffina,Come volesse il mondo aver somerso.Non sa che farsi la gente tapina,Ogni parone e marinaro è perso;Ciascuno è morto e non sa che si faccia:Sol Rodamonte è quel che al cel minaccia.

Gli altri fan voti con molte preghiere,Ma lui minaccia al mondo e la natura,E dice contra Dio parole altiereDa spaventare ogni anima sicura.Tre giorni con le notte tutte intiereSterno abattuti in tal disaventura,Che non videro al cielo aria serena,Ma instabil vento e pioggia con gran pena.

Al quarto giorno fu maggior periglio,Ché stato tal fortuna ancor non era,Perché una parte di quel gran naviglioCondotta è sotto Monaco in rivera.Quivi non vale aiuto né consiglio;Il vento e la tempesta ognior più fieraNe l'aspra rocca e nel cavato sassoBatte a traverso e legni a gran fracasso.

Oltra di questo tutti e paesani,Che cognobber l'armata saracina,Cridando: - Adosso! adosso a questi cani! -Callarno tutti quanti alla marina,E ne' navigli non molto lontaniFoco e gran pietre gettan con roina,Dardi e sagette con pegola accesa;Ma Rodamonte fa molta diffesa.

Nella sua nave alla prora davanteSta quel superbo, e indosso ha l'armatura,E sopra a lui piovean saette tanteE dardi e pietre grosse oltra a misura,Che sol dal peso avrian morto un gigante;Ma quel feroce, che è senza paura,Vôl che 'l naviglio vada, o male o bene,A dare in terra con le vele piene.

Aveano e suoi di lui tanto spavento,Che ciascaduno a gran furia se mosse,Ed ogni nave al suo comandamentoSopra alla spiagia alla prora percosse.Traeva Mezodì terribil ventoCon spessa pioggia e con grandine grosse;Altro non se ode che nave strusireEd alti cridi e pianti da morire.

Di qua di là per l'acqua quei paganiCon l'arme indosso son per anegare,E gettan frezze e dardi in colpi vani;Mai non li lascia quella unda fermare.In terra stanno armati e paesani,Né li concedon ponto a vicinare,E di Monico uscì, che più non tarda,Conte Arcimbaldo e la gente lombarda.

Questo Arcimbaldo è conte di Cremona,E del re Desiderio egli era figlio;Gagliardo a meraviglia di persona,Scaltrito, e della guerra ha bon consiglio.Costui la rocca a Monico abandonaSopra un destrier coperto di vermiglio,E con gran gente calla alla riviera,Ove apizzata è la battaglia fiera.

A Monico il suo patre l'ha mandato,Ch'è sopra alle confine di Provenza,Perché intenda le cose in ogni lato,E dàlli avviso in ciascuna occorrenza.Il re dentro a Savona era fermato,Dov'ha condutta tutta sua potenzaCon bella gente per terra e per mare,Ché ad Agramante il passo vôl vetare.

Ora Arcimbaldo con molti guerrieri,Come io vi dico, sopra al mar discese,E fie' tre schiere de' suoi cavallieri,E sopra al litto aperto le distese.Esso con soi pedoni e ballestrieriAndò in soccorso a questi del paese,Dove è battaglia orribile e diversa,Benché l'armata sia rotta e somersa.

Ché Rodamonte, orrenda creatura,Fa più lui sol che tutta l'altra gente;Egli è ne l'acqua fino alla centura,Adosso ha dardi e sassi e foco ardente.Ciascaduno ha di lui tanta paura,Che non se gli avicina per nïente,Ma da largo cridando con gran voceCon lancie e frizze quanto può li nôce.

Esso rassembra in mezo al mar un scoglio,E con gran passo alla terra ne viene,E per molta superbia e per orgoglioDove è più dirupato il camin tiene.Or, bei Segnori, io già non vi distoglioCh'e Cristïan non se adoprassen bene;Ma non vi fo remedio a quella guerra:Al lor dispetto lui discese in terra.

Dietro vi viene di sua gente molta,Che da le nave e da i legni spezzatiMezo somersa insieme era ricolta,A benché molti ne erano affondati,Ché non ne campò il terzo a questa volta;E questi che alla terra eno arivati,Son sbalorditi sì dalla fortuna,Che non san s'egli è giorno o notte bruna.

Ma tanto è forte il figlio de Ulïeno,Che tutta la sua gente tien diffesa,Come fu gionto asciutto nel terreno,E comincia dapresso la contesa;Tra' Cristïan facea né più né menoChe faccia il foco nella paglia accesa,Con colpi sì terribili e diversiChe in poco d'ora quei pedon dispersi.

In quel tempo Arcimbaldo era tornato,Per condur sopra al litto e cavallieri,E giù callava in ordine avisato,Come colui che sa questi mestieri.Ogni penone al vento è dispiegato,Di qua di là se alciarno e cridi fieri;Il conte di Cremona avanti passa,Ver Rodamonte la sua lancia abassa.

Fermo in due piedi aspetta lo Africante;Arcimbaldo lo giunse a mezo il scudo,E non lo mosse ove tenìa le piante,Benché fu il colpo smisurato e crudo;Ma il Saracin, che ha forza de gigante,E teneva a due mane il brando nudo,Ferisce lui d'un colpo sì diverso,Che tagliò tutto il scudo per traverso.

Né ancor per questo il brando se arrestava,Benché abbia quel gran scudo dissipato,Ma piastra e maglia alla terra menava,E fecegli gran piaga nel costato.Certo Arcimbaldo alla terra n'andava,Se non che da sua gente fu aiutato,E fu portato a Monico alla rocca,Come se dice con la morte in bocca.

Tutti quei paesani e ogni pedoneFôr da' barbari occisi in su l'arena,Che eran sei miglia e seicento persone:Non ne campâr quarantacinque apena.Li cavallier fuggîr tutti al girone:Non dimandar s'ogniom le gambe mena;Ma se quei saracini avean destrieri,Perian con gli altri insieme e cavallieri.

Sino al castel fu a lor data la caccia,Poi giù callarno quei pagani al mare,Il quale era tornato ora a bonaccia:Qua Rodamonte li fece aloggiare.Ciascun de aver la robba se procacciaChe somersa da l'onde al litto appare;Tavole e casse ed ogni guarnimentoSopra a quella acqua va gettando il vento.

Fôr le sue nave intra grosse e minuteChe se partîr de Algier cento novanta;Meglio guarnite mai non fôr veduteDi bella gente e vittuaglia tanta;Ma più che le due parte eran perdute,Né se atrovarno a Monico sessanta;E queste più non son da pace o guerra,Ché 'l più de loro avean percosso in terra.

Morti eran tutti quanti e lor destrieri,E perduta ogni robba e vittuaglia;Rodamonte al tornar non fa pensieri,Né stima tutto il danno una vil paglia.Va confortando intorno e suoi guerreriDicendo: - Compagnoni, or non vi incagliaDi quel che tolto ce ha fortuna o mare,Ché per un perso, mille io vi vuo' dare.

E quivi non farem lungo dimoro,Ché povra gente son questi villani.Io vo' condurvi dove è il gran tesoro,Giù nella ricca Francia a i grassi piani.Tutti portano al collo un cerchio d'oro,Come vedreti, questi fraudi cani,Sì che del perso non vi dati lagno,Ché noi siam gionti al loco del guadagno. -

Così la gente sua va confortandoRe Rodamonte con parlare ardito;Questo e quello altro per nome chiamando,Gli invita a riposar sopra a quel lito.Or de Arcimbaldo vi verrò contando,Che nel castel di Monico è fuggito,Rotto e sconfitto ed a morte piagato,Come di sopra a ponto io ve ho contato.

Come alla rocca fu dentro alle mura,Al patre un messaggiero ebbe mandato,Che gli contasse di questa sciaguraEl fatto tutto, come era passato.De avvisar Naimo ancora ha preso cura,Qual già dentro a Marsilia era arivato,E mandò ad esso un altro messaggiero,Che gli raconta il fatto tutto intero.

Re Desiderio fu molto dolente,Quando egli intese la novella fiera;Uscitte de Savona incontinente,Spiegando al vento sua real bandiera;A Monico ne vien con la sua gente.Da l'altra parte il duca di BaveraSi mosse di Marsilia con gran fretta,Per far de' Saracini aspra vendetta.

Ciascuna schiera a gran furia camina,Dico Francesi e gente italïana,E l'una vidde l'altra una matinaDa due vallette non molto lontana.In mezo è Rodamonte alla marina,Dove accampata ha sua gente africana.Quel forte saracin dal crudo guardoVidde nel monte gionto il re lombardo,

Con tante lancie e con tante bandiereChe una selva de abeti se mostrava;Tutta coperta di piastre e lamiereLa bella gente il poggio alluminava.Cridando Rodamonte in voce altiereChiama sua gente e l'armi dimandava,E in un momento fu tutto guarnitoDi piastra e maglia il giovanetto ardito.

Fuor salta a piedi, e non avea destriero,Ché per fortuna l'ha perso nel mare.Or se leva a sue spalle il crido fieroPer l'altra gente che nel poggio appare,Io dico Naimo, Ottone e Belengiero,Che d'altra parte vengono arivare,Roberto de Asti e 'l conte di LorenaCon Bradamante, che la schiera mena.

Avanti a gli altri vien quella donzella,E bene al suo german tutta assomiglia;Proprio assembra Ranaldo in su la sella,E di bellezza è piena a meraviglia.Costei mena la schiera a gran flagella;Ma Rodamonte, levando le ciglia,Gionta la gente vede in ogni lato,Che quasi intorno l'ha chiuso e serrato.

A' suoi rivolto con la faccia oscura,Disse: - Prendeti qual schiera vi piace,O questa o quella, ch'io non ne do cura;L'altra soletto, per lo Dio verace,Voglio mandare in pezzi alla pianura. -Così parlava quel giovane audace,Ma la sua gente, che ha per lui gran core,Verso e Lombardi è mossa con furore.

Trombe e tamburi a un tratto e cridi altieriOditi fôrno intorno ad ogni lato;Re Desiderio e' soi bon cavallieriMena a roina il popol rinegato;A benché e Saracin eran sì fieriPer la prodezza del suo re appregiato,Che, ancor che fusser de' Lombardi meno,Perdiano a palmo a palmo il suo terreno.

Ma in questo loco è la battaglia zanza,Dico a rispetto de l'altra vicina,Dove contra ai baron che eran di FranzaCombatte Rodamonte a gran roina.Costui ben certo di prodezza avanzaQuanta fôr mai di gente saracina;In guerra non fu mai tanto fraccasso,Però contar lo voglio a passo a passo.

Il duca Naimo, che è saggio e prudente,Come vede e nemici alla pianura,Fermò sopra del monte la sua gente,E divisela in terzo per misura.La schiera che venìa primeramente,Fu Bradiamante, ch'è senza paura;La figliola de Amon, quella rubesta,Venìa spronando con la lancia a resta.

E seco al paro il conte de Lorena,Ciò fu Ansuardo, de battaglia esperto,Che giù callando gran tempesta mena,E 'l conte de Asti, quel franco Roberto.Questa è la prima schiera, che è ben piena:Sedeci millia e più son per il certo.Poi mosse la seconda con gran crido,Sotto il duca Americo e il duca Guido.

L'un di Savoia e l'altro è di Bergogna,Ciascadun d'essi ha più franca persona.Contarvi e capitani mi bisogna:Con loro è gionto Bovo di Dozona;Per fare a' Saracini onta e vergogna,Questa schiera seconda s'abandona;La terza guida Naimo il bon vecchione,E Avorio e Avino e Belengiero e Ottone.

Il padre e' quatro figli a questa schieraSon posti di quel campo al retroguardo,Con tutta la sua gente di Baviera.Ora tornamo al saracin gagliardo,Che non avea stendardo né bandiera,Ma tutto solo a mover non fu tardoContra alla gente che il monte discende;Solo ed a piede la battaglia prende.

Piacciavi, bei segnor, di ritornareAd ascoltar la zuffa che io vo' dire,Ché se mai prove odesti racontareE colpi orrendi e diverso ferire,E gente rotte a terra trabuccare,Tutto è nïente a quel ch'io vo' seguire.Nel fin del canto tornerò ad Orlando:Adio, segnori; a voi mi racomando.

Canto settimo

Non fu, signor, contato più giamaiBattaglia sì diversa e tanto orribile,Perché, come di sopra io vi contai,Rodamonte di Sarza, quel terribile,Contra de Naimo, che avea gente assai,Solo è afrontato, che è cosa incredibile;Ma Turpin, che dal ver non se diparte,Per fatto certo il scrisse alle sue carte.

Né so se 'l fu piacer del celo eternoDonar tanta prodezza ad un Pagano,O se 'l demonio, uscito dell'inferno,Combattesse per lui quel giorno al piano;E' pose nostra gente in tal squaderno,Che non fu data, al ricordare umano,Cotal sconfitta a nostra gente santa,Quale in quel giorno che il mio dir vi canta.

Tutte le schiere, come io ve ho contato,Giù della costa son callate al basso;Da l'altra parte Rodamonte armatoHa fesa la battaglia a gran fraccasso.La nostra gente come erba di pratoTaglia a traverso e manda morta al basso;Pedoni e cavallier, debili e fortiL'un sopra a l'altro van spezzati e morti.

Sempre ferendo va quello africanteDritti e roversi, e cridando minaccia;Egli ha i nemici di dietro e davante,Ma lui col brando se fa ben far piaccia.Ecco gionta alla zuffa Bradamante,Quella donzella ch'è di bona raccia;Come fùlgor del cielo, o ver saetta,Ver Rodamonte la sua lancia assetta.

Dal lato manco il gionse nel traversoE passò il scudo questa dama ardita,E quasi a terra lo mandò riverso,Benché non fece a quel colpo ferita;Ché 'l saracin, che fu tanto diverso,Ed avea forza incredibile e infinita,Portava sempre alla battaglia indossoUn cor di serpe, mezo palmo grosso.

Ma non di manco pur fo per cadere,Come io ve dissi, per quella incontrata,Quando la dama che ha tanto potereLo ferì al fianco con lancia arrestata;Tutta la gente che l'ebbe a vedere,Levò gran crido e voce smisurata;Né già per questo al pagan se avicina,Ma sol cridando aiuta la fantina.

Lei già rivolto ha il suo destrier coperto,E torna adosso a quel saracin crudo.Or fuor de schiera uscì il conte RobertoE ferì Rodamonte sopra il scudo,Ed Ansuardo de battaglia esperto,Egli sprona anco adosso a brando nudo;Onde la gente, che ha ripreso core,Tutta se mosse insieme a gran furore,

- Adosso! adosso! - ciascadun cridando,Con sassi e lancie e dardi oltra misura.Rideva il saracin questo mirando,Come colui che fu senza paura;Mena a traverso il furïoso brando,E gionse proprio a loco di cinturaQuello Ansuardo, conte di Lorena,E morto a terra il pose con gran pena.

Mezo alla terra e mezo nell'arcioneRimase il busto di quel paladino:Non fu mai vista tal destruzïone.A Brandimante mena il saracino;Lei non accolse, ma gionse il ronzone,Che era coperto de usbergo acciarino;Non giova usbergo né piastra né maglia,Ché col e spalle a quel colpo li taglia.

Onde rimase a terra la donzella,Ché 'l suo destriero è in duo pezi partito.Adosso a gli altri il saracin martella;Roberto, il conte de Asti, ebbe cernito:De un colpo il fende insino in su la sella.Alor fu ciascaduno sbigotito,Mirando il colpo di tanta tempesta:Chi può fuggire, in quel campo non resta.

Rimase, com'io dico, BrandimanteCol destrier morto adosso in su l'arenaTra quelle genti occise, che eran tante,Che più morta che viva era con pena.E Rodamonte, busto de gigante,Col brando tutto il resto a morte mena;Sempre alla folta in mezzo è il gran pagano,E manda pezzi da ogni banda al piano.

Pezzi de omini armati e de destrieriDa ciascun canto in su la terra manda:Contarvi e colpi non vi fa mestieri,Né quanto sangue per terra si spanda.Vanno a fraccasso e nostri cavallieri,Ciascun fuggendo a Dio si racomanda;Ed a dir presto e ben la cosa intera,Tutta a roina è già la prima schiera.

E gionto è quel pagano alla seconda,E rinovata è qui l'aspra battaglia,Ché gente sopra a gente più ve abonda,E fatto ha intorno al saracin serraglia;Ma lui col brando tutti li profonda,E men gli stima che un covon de paglia.Il duca Naimo, che ogni cosa vede,Per la gran doglia di morir se crede.

- Segnor del cel, - dicea - se alcun peccatoContra de noi la tua iustizia inchina,Non dar l'onore a questo rinegato,Che così strazia tua gente meschina! -Questo dicendo, un messo ebbe mandato,Che racontasse a Carlo la roinaChe era incontrata, e dimandasse aiuto,Benché se tenga ormai morto e perduto,

Poi che 'l pagano ha sì franca persona,Che non trova riparo a sua possanza.Ecco scontrato ha Bovo de Dozona,E tutto feso l'ha fin nella panza.Sua gente morto in terra lo abandona,E ciascadun che avea prima baldanza,Veggendo il colpo orrendo oltra al dovere,Volta le spalle e fugge a più potere.

Ma sempre a loro è in mezo il pagan fiero:Tutti li occide senza alcun riguardo.Chi fugge a piede, e chi fugge a destriero,Ma nanti al saracin ciascuno è tardo,Ché Rodamonte è sì presto e legiero,Che al corso avea più volte gionto un pardo.Non vi giova fuggire e non diffesa:Tutti li manda morti alla distesa.

Come al decembre il vento che s'invoglia,Quando comincia prima la freddura:L'arbor se sfronda e non vi riman foglia;Così van spessi e morti a la pianura.Ecco Americo, il duca di Savoglia,Ch'è rivoltato in sua mala ventura,E gionse a mezo il petto lo Africano,Roppe sua lancia, e fu quel colpo vano;

Ché a lui ferì il pagan sopra la testa,E tutto il parte insin sotto al gallone.Or fugge ciascaduno e non se arresta;Mai non se vidde tal confusïone.Il duca Naimo una grossa asta arresta,E move la sua schiera il bon vecchione,E seco ha quattro figli, ogniom più fiero,Avino, Avorio, Ottone e Belengiero.

Cresce la zuffa e il crido se rinova,E levasi il rumore e 'l gran polvino.Primeramente Avorio il pagan trova,E ben rompe sua lancia il paladino;Ma Rodamonte sta fermo alla prova,E non se piega il forte saracino;E similmente nel colpir de OttoneStette in duo piedi saldo al parangone.

L'un dopo l'altro Avino e BelengeroA lui feriano adosso arditamente,E scontrò Naimo ancora, il buon guerriero;Ma, come gli altri, pur fece nïente.Al quinto colpo quel saracin fieroAlciò la faccia a guisa de serpente;Crollando il capo disse: - Via, canaglia!Ché tutti non valeti un fil di paglia. -

Né più parole; ma del brando mena,E gionse nella testa al franco Ottone.Come a Dio piacque e sua Matre serena,Voltosse il brando e colse de piattone,E fo quel colpo di cotanta pena,Che tramortito lo trasse d'arzone;Né sopra a questo il saracin se arresta,Ma dà tra gli altri e mena gran tempesta.

E misse a terra duo de quei gagliardi,Avorio e Belengier, feriti a morte;E gli altri tutti, e nobili e codardi,Seriano occisi da quel pagan forte,Se Desiderio e' suoi franchi LombardiNon avesser turbata quella sorte,Perché a quel tempo con sua gente scortaLa ria canaglia avea sconfitta e morta;

E gionto era alle spalle al saracino,Che roïnando gli altri avanti cacciaE già per terra avea disteso Avino,Ferito crudelmente nella faccia.Come un gran vento nel litto marinoLeva l'arena e il campo avanti spaccia,Così quel crudo con la spada in manoTutta la gente manda morta al piano.

Per l'aria van balzando maglie e scudi,Ed elmi pien di teste, e braccie armate,Ma benché taglia come corpi nudiSbergi e lameri e le piastre ferrate,Pur rivoltava spesso gli occhi crudiAlle sue gente rotte e dissipate,E tutta via mirando alla sua schiera,Facea battaglia avanti orrenda e fiera.

Quale il forte leone alla foresta,Che sente alle sue spalle il cacciatore,Squassando e crini e torzendo la testaMostra le zanne e rugge con terrore;Tal Rodamonte, odendo la tempestaChe faceano e Lombardi, e 'l gran furoreDella sua gente rotta e posta in caccia,Rivolta a dietro la superba faccia.

Sua gente fugge, e chi più può sperona:Beato se tenìa chi era il primiero.Re Desiderio mai non li abandona,Anci li caccia per stretto sentiero.A lui davanti è il conte di Cremona,Qual fu suo figlio e fu bon cavalliero,Dico Arcimbaldo, e seco a mano a manoVien Rigonzone, il forte parmesano.

Era costui feroce oltra a misura,Ma legier di cervel come una paglia;O ver guarnito, o senza l'armatura,Battendo gli occhi intrava alla battaglia;Né della vita né de onor si cura,Ché sua ballestra non avea serraglia,Dico, perché scoccava al primo tratto:A dire in summa, el fu gagliardo e matto.

Or questi duo la gente saracina,Dico Arcimbaldo insieme e Rigonzone,Cacciano in rotta con molta roina.Del re di Sarza in terra è 'l confalone,Ch'era vermiglio, e dentro una regina,Quale avea posto il freno ad un leone:Questa era Doralice de Granata,Da Rodamonte più che il core amata.

Però ritratta nella sua bandieraLa portava quel re cotanto atroce,Sì naturale e proprio come ella era,Che altro non li manca che la voce.E lei mirando, alla battaglia fieraPiù ritornava ardito e più feroce,Ché per tal guardo sua virtù fioriva,Come l'avesse avante a gli occhi viva.

Quando la vidde alla terra caduta,Mai fu nella sua vita più dolente;La fiera faccia di color si muta,Or bianca ne vien tutta, or foco ardente.Se Dio per sua pietate non ce aiuta,Perduto è Desiderio e la sua gente,Perché il pagano ha furia sì diversa,Che nostra gente fia sconfitta e persa.

Questa battaglia tanto sterminataTutta per ponto vi verrò contando,Ma più non ne vo' dire in questa fiata,Perché tornar conviene al conte Orlando,Quale era gionto al fiume della fata,Sì come io vi lasciai alora quandoCon Falerina se pose a camino,Poi che disfatto fu quel bel giardino:

Quel bel giardino ove era guardïanoIl drago, il toro e l'asinello armato,E quel gigante, che era ucciso in vanoCome di sopra vi fu racontato.Tutto il disfece il senator romano,Benché per arte fosse fabricato,Ed alla dama poi dette perdono,Per trar dal ponte quei che presi sono:

Quei cavallier, che presi erano al ponteDal vecchio ingannator, come io contai.Quivi n'andava drittamente il conte,Per trar cotanta gente di tal guai,Via caminando per piani e per monte;Con seco è Falerina sempre mai,A piede, come lui, né più né meno,Ché non avean destrier né palafreno.

Perduto aveva il conte Brigliadoro,Come sapiti, e insieme Durindana;Or, così andando a piè ciascun de loro,Gionsero un giorno sopra alla fiumana,Ove la falsa Fata del TesoroAvea ordinata quella cosa strana,Più strana e più crudel che avesse il mondo,Perché il fior de' baroni andasse al fondo.

Fu profondato quivi il fio de Amone,Come di sopra odesti raccontare,E seco Iroldo e l'altro compagnone,Che ancor mi fa pietate a ricordare;Né dopo molto vi gionse Dudone,Il qual venìa questi altri a ricercare,Ché comandato li avea Carlo ManoChe trovi Orlando e il sir de Montealbano.

Caminando il baron senza paura,Cercato ha quasi il mondo tutto quanto;E, come volse la mala ventura,Gionse a quel lago fatto per incanto,Ove Aridano, orrenda creatura,Cotanta gente avea condutta in pianto,Perché ogni cavalliero e damigellaGetta nel lago la persona fella.

Così fu preso e nel lago gettatoDudone il franco, e non vi ebbe diffesa,Perché Aridano in tal modo è fatato,Che ciascadun che avea seco contesa,Sei volte era di forza superchiato,Onde veniva ogni persona presa;Perché, se alcun baron ha ben possanza,E lui sei tanta di poter lo avanza.

Tanta fortezza avea quel disperatoChe, come spesso se potea vedere,Natava per quel lago tutto armato,E tornava dal fondo a suo piacere;E quando alcuno avesse profondato,Giù se callava senz'altro temere,E poi, notando per quella acqua scura,Di lor portava a soma l'armatura.

E tanto era superbo ed arrogante,Che delle gente occise e da lui preseL'arme che avea spogliate tutte quanteA sé d'intorno le tenea suspese;Ma a tutte l'altre se vedea davante,Sopra a un cipresso bene alto e palese,La sopravesta e l'arme de Ranaldo,Che avea spogliato il saracin ribaldo.

Or, come io dissi, in su questa rivieraNe gionge il conte caminando a piede,E Falerina sempre a canto gli era;Ma quando quella dama il ponte vede,Tutta se turba e cangia ne la ciera,Biastemando Macone e chi li crede;Poi dice: - Cavallier, con duol amaroTutti siam morti, e più non c'è riparo.

Questo voluto ha il perfido Apollino(Così poss'el cader dal celo al basso!)Che ce ha guidato per questo camino,Per roïnarce a quel dolente passo.Or, perché intendi, quivi è un malandrinoChe già robbava ogniomo a gran fraccasso,Crudele, omicidiale ed inumano,E fu il suo nome, ed è ancora, Aridano.

Ma non avea possanza e non ardire,Ché è de rio sangue e de gesta villana;Or tanto è forte, e il perché ti vo' dire,Ché cosa non fu mai cotanto strana.Dentro a quel lago che vedi apparire,Stavi una fata, che ha nome Morgana,Qual per mala arte fabricò già un corno,Che avria disfatto il mondo tutto intorno.

Perché qualunche il bel corno suonava,Era condutto alla morte palese.Sì lunga istoria dirti ora mi grava,Come le gente fusser morte, o prese.In poco tempo un barone arivava(Il nome suo non so, né il suo paese):Lui vinse e tori, il drago e la gran guerraDi quella gente uscita della terra.

Quel cavallier, persona valorosa,Così disfece il tenebroso incanto,Onde la fata vien sì desdignosaChe mai potesse alcun darsi tal vanto;E fie' questa opra sì meravigliosa,Che, ricercando il mondo tutto quanto,Non serà cavallier di tanto ardire,Qual non convenga a quel ponte perire.

Ella si pensa che quel campïoneChe suonò il corno, quindi abbia a passare,O ver che per ardir, come è ragione,Venga questa aventura a ritrovare;Così l'averà morto, o ver pregione,Ché omo del mondo non potria durare.Per far perir quel cavallier MorganaFatto ha quel lago, il ponte e la fiumana.

E ricercando tutte le contrateDe uno om crudel, malvaggio e traditore,Trovò Arridano senza pïetateChe già la terra non avea peggiore,E ben guarnito l'ha de arme affatateE d'una maraviglia ancor maggiore,Che qualunche baron seco s'affronta,Sei tanta forza a lui vien sempre agionta.

Onde io mi stimo il vero, anci son certaChe a tale impresa non potria durare;Ed io con teco, misera, disertaDentro a quella acqua me vedo affogare,Ché noi siam gionti troppo a la scoperta,E non c'è tempo o modo di campare.Non è rimedio ormai: noi siam perduti,Come Aridano il fier ce abbia veduti. -

Il conte, sorridendo a tal parole,Disse alla dama ragionando basso:- Tutta la gente dove scalda il sole,Non mi faria tornare adietro un passo.Sasselo Idio di te quanto mi dole,Poi che soletta in tal loco te lasso;Ma sta pur salda e non aver temanza:Il ferro è il mezo a l'om che ha gran possanza. -

La dama ancor piangendo pur dicia:- Fuggi per Dio, baron, campa la morte!Ché il conte Orlando qua non valeria,Né Carlo Mano e tutta la sua corte.Lasciar m'incresce assai la vita mia,Ma de la morte tua mi dôl più forte,Ché io son da poco e son femmina vile,Tu prodo, ardito e cavallier gentile. -

Il franco conte a quel dolce parlareA poco a poco si venìa piegando,E destinava dietro ritornare.Oltra quel ponte d'intorno guardandoL'arme cognobbe che suolea portareIl suo cugin Ranaldo, e lacrimando:- Chi mi ha fatto - dicea - cotanto torto?O fior d'ogni baron, chi te me ha morto?

A tradimento qua sei stato occisoDal falso malandrin sopra quel ponte,Ché tutto il mondo non te avria conquiso,Se teco avesse combattuto a fronte.Ascoltami, baron; dal paradiso,Ove or tu dimori, odi il tuo conte,Qual tanto amavi già, benché uno erroreCommesse a torto per soperchio amore.

Io te chiedo mercè, damme perdono,Se io te offesi mai, dolce germano,Ch'io fui pur sempre tuo, come ora sono,Benché falso suspetto ed amor vanoA battaglia ce trasse in abandono,E l'arme zelosia ce pose in mano.Ma sempre io te amai ed ancor amo;Torto ebbi io teco, ed or tutto me 'l chiamo.

Che fu quel traditor, lupo rapace,Qual ce ha vetato insieme a ritornareAlla dolce concordia e dolce pace,A i dolci baci, al dolce lacrimare?Questo è l'aspro dolor che mi disface,Ch'io non posso con teco ragionareE chiederti perdon prima ch'io mora;Questo è l'affanno e doglia che me accora. -

Così dicendo Orlando con gran piantoTra' for la spada, e il forte scudo imbraccia:La spada a cui non vale arme né incanto,Ma sempre dove gionge il camin spaccia.Il fatto già vi contai tutto quanto,Sì che non credo che mistier vi facciaTornarvi a mente con quale arte e quandoDa Falerina fusse fatto il brando.

Il conte, de ira e de doglia avampato,Salta nel ponte con quel brando in mano;Spezza il serraglio e via passa nel prato,Ove iaceva il perfido Aridano.Sotto al cipresso stava il renegato,Quelle arme del segnor de Montealbano,Che erano al tronco de intorno, mirando,Quando li gionse sopra 'l conte Orlando.

Smarrisse alquanto il malandrino in viso,Quando a sé vide sopra quel barone,Però che adosso gli gionse improviso;Pur saltò in piede e prese il suo bastone,E poi dicea: - Se tutto il paradisoTe volesse aiutare e idio Macone,E' non avrian possanza e non ardire,Ché in ogni modo ti convien morire. -

Al fin delle parole un colpo lassaCon quel baston di ferro il can fellone;Gionse nel scudo e tutto lo fraccassa,E cadde Orlando in terra ingenocchione.A braccia aperte il saracin se abassa,Credendolo portar sotto al gallone,Come portar quelli altri era sempre usoE poi nel lago profondarli giuso.


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