Chapter 5

La damisella subito dismonta,E il palafreno a lui donar volìa.Dicea Ranaldo a lei: - Tu mi fai ontaAd invitarme a tanta vilania. -Lei rispondeva con parole pronta,Che seco a piedi mai nol menaria:Al fin, per far questa novella corta,Lui montò in sella e quella in groppa porta.

La dama andava alquanto spaventata,Per la temenza che avea del suo onore;Ma poi che tutto il giorno ha cavalcata,Né mai Ranaldo ragionò de amore,Alquanto nel parlar rasicurata,Disse a lui: - Cavallier pien di valore,Or entrar nella selva si conviene,Che cento leghe di traverso tiene.

Acciò che men te incresca il caminarePer questa selva orribile e deserta,Una novella te voglio contare,Che intravenne, ed è ben cosa certa.In Babilonia potrai arivare,Dove la istoria manifesta è aperta;Però (quel ch'io ti narro è veritade)Fu fatto dentro de quella citade.

Un cavallier, che Iroldo era chiamato,Ebbe una dama nomata Tisbina;Ed era lui da questa tanto amato,Quanto Tristan da Isotta la regina.Esso era ancor di lei inamorato,Che sempre, dalla sera alla mattina,E dal nascente giorno a notte oscura,Sol di lei pensa, e de altro non ha cura.

Vicino ad essi un barone abitava,Di Babilonia stimato il maggiore;E certamente ciò ben meritava,Ché è di cortesia pieno e di valore.Molta ricchezza, de che egli abondava,Dispendea tutta quanta in farsi onore;Piacevol nelle feste, in l'arme fiero,Leggiadro amante e franco cavalliero.

Prasildo nominato era il barone.Quello invitato è un giorno ad un giardino,Dove Tisbina con altre personeFaceva un gioco, in atto peregrino.Era quel gioco di cotal ragione,Che alcun li tenea in grembo il capo chino;Quella alle spalle una palma voltava:Chi quella batte a caso indivinava.

Stava Prasildo a riguardare il gioco:Tisbina alle percosse l'ha invitato;Ed in conclusïon prese quel loco,Perché fo prestamente indivinato.Standoli in grembo, sente sì gran focoNel cor, che non l'avrebbe mai pensato;Per non indivinar mette ogni cura,Ché di levarse quindi avea paura.

Dapoi che il gioco è partito e la festa,Non parte già la fiamma dal suo core,Ma tutto 'l giorno integro lo molesta,La notte lo assalisce in più furore.Or quella cagion trova, ed ora questaChe al volto li è fuggito ogni colore,Che la quïete del dormir gli è tolta,Né trova loco, e ben spesso si volta;

Ora li par la piuma assai più duraChe non suole apparere un sasso vivo.Cresce nel petto la vivace cura,Che d'ogni altro pensiero il cor l'ha privo.Sospira giorno e notte a dismisura,Con quella affezïon ch'io non descrivo,Perché descriver non se può lo amoreA chi nol sente e a cui non l'ha nel core.

E correnti cavalli, e cani arditi,De che molto piacer prender suolia,Li sono al tutto del pensier fuggiti.Or se diletta in dolce compagnia,Spesso festeggia e fa molti conviti,Versi compone e canta in melodia,Giostra sovente, ed entra in torniamentiCon gran destrieri e ricchi paramenti.

E benché pria cortese fosse assai,Ora è cento per un multiplicato,Ché la virtude cresce sempre mai,Che se ritrova in l'omo inamorato:E nella vita mia già non trovaiUn ben che per amor sia rio tornato;Ma Prasildo, che è tanto d'amor preso,Sopra a quel che se stima, fo corteso.

Egli ha trovato una sua messagiera,Che avea molta amicizia con Tisbina,Che la combatte e il mattino e la sera,Né per una repulsa se rafina.Ma poco viene a dir, ché quella altieraA preghi né a pietade mai se inchina;Perché sempre interviene in veritateChe la alterezza è gionta con beltate.

Quante volte li disse: "O bella dama,Cognosci l'ora della tua ventura,Dapoi che un tal baron più che sé te ama,Ché non ha il cel più vaga creatura.Forse anco avrai di questo tempo brama,Ché il felice destin sempre non dura;Prendi diletto, mentre sei su il verde,Ché lo avuto piacer mai non se perde.

Questa età giovenil che è sì zoiosa,Tutta in diletto consumar si deve,Perché quasi in un ponto ce è nascosa.Come dissolve il sol la bianca neve,Come in un giorno la vermiglia rosaPerde il vago colore in tempo breve,Così fugge la età come un baleno,E non se può tenir, ché non ha freno."

Spesso con queste e con altre paroleEra Tisbina combattuta in vano.Ma, quale in prato le fresche vïoleNel tempo freddo pallide se fano,Come il splendido giaccio al vivo sole,Cotal se disfacea il baron soprano,E condotto era a sì malvagia sorte,Che altro ristor non spera che la morte.

Più non festeggia, sì come era usato:In odio ha ogni diletto, e ancor se stesso.Palido molto e macro è diventato,Né quel che esser suolea, pareva adesso.Altro diporto non ha ritrovato,Se non che della terra usciva spesso,E suolea solo in un boschetto andareDel suo crudele amore a lamentare.

Tra l'altre volte avenne una matinaChe Iroldo in quel boschetto a caccia andava,Ed avea seco la bella Tisbina;E così andando, ciascuno ascoltavaPianto dirotto con voce meschina.Prasildo sì soave lamentava,E sì dolce parole al dir gli cade,Che avria spezzato un sasso di pietade.

"Odeti, fiori, e voi, selve, - dicia -Poi che quella crudel più non me ascolta,Dati odïenza alla sventura mia.Tu, sol, che hai mo del cel la notte tolta,Voi, chiare stelle, e luna che vai via,Oditi il mio dolor solo una volta:Ché in queste voce estreme aggio a finireCon cruda morte il lungo mio martìre.

Così farò contenta quella altiera,A cui la vita mia tanto dispiace,Poi che ha voluto il celo un'alma fieraCoprire in viso de pietose face.Essa ha diletto che un suo servo pèra,Ed io me occiderò, poi che li piace;Né de altre cose aggio io maggior diletto,Che di poter piacer nel suo cospetto.

Ma sia la morte mia, per Dio, nascosaTra queste selve, e non se sappia maiChe la mia sorte è tanto dolorosa,(Né mai palese non me lamentai),Ché quella dama in vista grazïosaPotria de crudeltà colparsi assai;Ed io così crudel l'amo a gran torto,Ed amarolla ancor poi che io sia morto."

Con più parole assai se lamentavaQuel baron franco, con voce tapina,E dal fianco la spada denudava,Palido assai per la morte vicina;E il suo caro diletto ognior chiamava.Morir volea nel nome di Tisbina;Ché, nomandola spesso, gli era avisoAndar con quel bel nome in paradiso.

Ma essa col suo amante ha bene intesoDi quel barone il suo pianto focoso.Iroldo di pietate è tanto acceso,Che ne avea il viso tutto lacrimoso;E con la dama ha già partito presoDi riparare al caso doloroso.Essendo Iroldo nascoso rimaso,Mostra Tisbina agionger quivi a caso.

Né mostra avere inteso quei richiami,Né che tanto crudel l'abbia nomata;Ma, vedendol giacer tra i verdi rami,Quasi smarita alquanto se è firmata.Poi disse a lui: "Prasildo, se tu me ami,Come già dimostrasti averme amata,A tal bisogni non me abandonare,Perché altramente io non posso campare.

E se io non fossi a l'ultimo partitoInsieme della vita e dello onore,Io non farebbi a te cotale invito,Ché non è al mondo vergogna maggioreChe a richieder colui che hai deservito.Tu m'hai portato già cotanto amore,Ed io fui sempre a te tanto spietata;Ma ancor col tempo te serò ben grata.

Ciò ti prometto su la fede mia,E già de l'amor mio te fo sicuro,Pur quel ch'io cheggio da te fatto sia.Or odi, e non ti para il fatto duro:Oltra alla selva della BarbariaÈ un bel giardino, ed ha di ferro il muro;In esso intrar si può per quattro porte,L'una la Vita tien, l'altra la Morte,

Un'altra Povertà, l'altra Ricchezza:Convien chi ve entra, alla opposita uscire.In mezo è un tronco a smisurata altezza,Quanto può una saetta in su salire;Mirabilmente quello arbor se apprezza,Ché sempre perle getta nel fiorire,Ed è chiamato il Tronco del Tesoro,Che ha pomi de smeraldi e rami d'oro.

Di questo un ramo mi conviene avere,Altramente son stretta a casi gravi;Ora palese ben potrò vedereSe tanto me ami quanto demostravi.Ma se impetro da te questo apiacere,Più te amarò che tu me non amavi;E mia persona ti darò per mertoDi tal servigio: tientine ben certo."

Quando Prasildo intende la speranzaEsserli data di cotanto amore,De ardire e di desio se stesso avanza,Promette il tutto senza alcun timore.Così promesso avria, senza mancanza,Tutte le stelle, il celo e il suo splendore;E l'aria tutta, con la terra e il mare,Avria promesso senza dubitare.

Senza altro indugio si pone a camino,Lasciando ivi colei che cotanto ama;In abito va lui de peregrino.Or sappiati che Iroldo e la sua damaMandavano Prasildo a quel giardino,Che l'Orto di Medusa ancor se chiama,Acciò che il molto tempo, al longo andare,Li aggia Tisbina de l'animo a trare.

Oltra di ciò, quando pur gionto sia,Era quella Medusa una donzellaChe al Tronco del Tesor stava a l'ombria.Chi prima vede la sua faccia bella,Scordasi la cagion de la sua via;Ma chiunche la saluta, o li favella,E chi la tocca, e chi li sede a lato,Al tutto scorda del tempo passato.

Quello animoso amante via cavalcaSoletto, o ver da Amore acompagnato.Il braccio de il mar Rosso in nave varca,E già tutto lo Egitto avea passato,Ed era gionto nei monti di Barca,Dove un palmier canuto ebbe trovato;E ragionando assai con quel vecchione,Della sua andata dice la cagione.

Diceva il vecchio a lui: "Molta venturaOr t'ha condotto meco a ragionare;Ma la tua mente pavida assicura,Ch'io te vo' far il ramo guadagnare.Tu sol de entrare a l'orto poni cura;Ma quivi dentro assai è più che fare:Di Vita e Morte la porta non se usa,E sol per Povertà viense a Medusa.

Di questa dama tu non sai la istoria,Ché ragionato non me n'hai nïente;Ma questa è la donzella che se gloriaDi avere in guardia quel Tronco lucente.Chiunche la vede, perde la memoria,E resta sbigotito nella mente;Ma se lei stessa vede la sua faccia,Scorda il tesoro e de il giardin se caccia.

A te bisogna un specchio aver per scudo,Dove la dama veda sua beltade.Senza arme andrai, e de ogni membro nudo,Perché convien entrar per Povertade.Di quella porta è lo aspetto più crudoChe altra cosa del mondo in veritade;Ché tutto il mal se trova da quel lato,E, quel che è peggio, ogni om vien caleffato.

Ma a l'opposita porta, ove hai a uscire,Ritrovarai sedersi la Ricchezza,Odiata assai, ma non se gli osa a dire;Lei ciò non cura, e ciascadun disprezza.Parte del ramo qui convienci offrire,Né si passa altramente quella altezza,Perché Avarizia apresso lei lì siede;Benché abbia molto, sempre più richiede."

Prasildo ha inteso il fatto tutto apertoDi quel giardino, e ringraziò il palmiero.Indi se parte e, passato il deserto,In trenta giorni gionse al bel verziero;Ed essendo del fatto bene esperto,Intra per Povertate de leggiero.Mai ad alcun se chiude quella porta,Anci vi è sempre chi de entrar conforta.

Sembrava quel giardino un paradisoAlli arboscelli, ai fiori, alla verdura.De un specchio avea il baron coperto il viso,Per non veder Medusa e sua figura;E prese nello andar sì fatto aviso,Che all'arbor d'oro agionse per ventura.La dama, che apoggiata al tronco stava,Alciando il capo nel specchio mirava.

Come se vide, fu gran meraviglia,Ché esser credette quel che già non era;E la sua faccia candida e vermigliaParve di serpe terribile e fera.Lei paurosa a fuggir se consiglia,E via per l'aria se ne va leggiera;Il baron franco, che partir la sente,Gli occhi disciolse a sé subitamente.

Quinci andò al tronco, poi che era fuggitaQuella Medusa, falsa incantatrice,Che, de la sua figura sbigotita,Avea lasciata la ricca radice.Prasildo un'alta rama ebbe rapita,E smontò in fretta, e ben si tien felice;Venne alla porta che guarda Ricchezza,Che non cura virtute o gentilezza.

Tutta de calamita era la entrata,Né senza gran romor se puote aprire.Il più del tempo si vede serrata:Fraude e Fatica a quella fa venire.Pur se ritrova aperta alcuna fiata,Ma con molta ventura convien gire.Prasildo la trovò quel giorno aperta,Perché de mezo il ramo fece offerta.

De qui partito torna a caminare;Or pensa, cavallier, se egli è contento,Che mai non vede l'ora de arrivareIn Babilonia, e parli un giorno cento.Passa per Nubia, per tempo avanzare,E varcò il mar de Arabia con bon vento;Sì giorno e notte con fretta camina,Che a Babilonia gionse una matina.

A quella dama fece poi assapereCome a sua volontade ha bon fin messa;E, quando voglia il bel ramo vedere,Elegia il loco e il tempo per se stessa.Ben gli ricorda ancor come è dovereChe li sia attesa l'alta sua promessa;E quando quella volesse disdire,Sappiasi certo di farlo morire.

Molto cordoglio e pena smisurataPrese di questo la bella Tisbina;Gettasi al letto quella sconsolata,E giorno e notte di pianger non fina."Ahi lassa me! - dicea - perché fui nata?Ché non moritti in cuna, piccolina?A ciascadun dolor rimedio è morte,Se non al mio, che è fuor d'ogni altra sorte.

Ché se io me uccido e manca la mia fede,Non se copre per questo il mio fallire.Deh quanta è paccia quella alma che credeChe Amor non possa ogni cosa compire!E celo e terra tien sotto il suo piede,Lui tutto il senno dona, e lui lo ardire.Prasildo da Medusa è rivenuto:Or chi l'avrebbe mai prima creduto?

Iroldo sventurato, or che farai,Dapoi che avrai la tua Tisbina persa?Benché tu la cagion data te ne hai:Tu nel mar di sventura m'hai sumersa.Ahi me dolente! perché mai parlai?Perché non fu mia lingua alor riversaTutta in se stessa e perse le parole,Quando impromessi quel che ora mi dole?"

Aveva Iroldo il lamento ascoltatoChe facea la fanciulla sopra al letto,Però che egli improviso era arivato,Ed avea inteso ciò ch'ella avea detto.Senza parlare a lei si fo accostato,Tiensela in braccio e strenge petto a petto;Né solo una parola potean dire,Ma così stretti se credean morire.

E sembravan duo giacci posti al sole,Tanto pianto ne li occhi gli abondava;La voce venìa meno a le parole,Ma pur Iroldo alfin così parlava:"Sopra a ogni altro dolore al cor mi doleChe del mio dispiacer tanto ti grava,Perché aver non potrebi alcun dispettoChe a me gravasse, essendo a te diletto.

Ma tu cognosci bene, anima mia,Che hai tanto senno e tal discrezïone,Che, come amor se gionge a zelosia,Non è nel mondo maggior passïone.Or così parve alla sventura riaCh'io stesso del mio mal fossi cagione;Io sol te indussi la promessa a fare,Lascia me solo adunque lamentare.

Soletto portar debbo questa pena,Ché ti feci fallire al tuo mal grato;Ma pregoti, per tua faccia serenaE per lo amor che un tempo m'hai portato,Che la promessa attendi integra e piena,E sia Prasildo ben remeritatoDella fatica e del periglio grandeA che se pose per le tue dimande.

Ma piacciati indugiar sin ch'io sia morto,Che serà solamente questo giorno.Facciami quanto vôl Fortuna torto,Ch'io non avrò mai, vivo, questo scorno,E nello inferno andrò con tal confortoDe aver goduto solo il viso adorno;Ma quando ancor saprò che me sei tolta,Morrò, se morir pôssi, un'altra volta."

Più lungo avria ancor fatto il suo lamento,Ma la voce mancò per gran dolore;Stava smarito e senza sentimento,Come de il petto avesse tratto il core.Né avea di lui Tisbina men tormento,Ed avea perso in volto ogni colore;Ma, avendo esso la faccia a lei voltata,Così rispose con voce affannata:

"Adunque credi, ingrato a tante prove,Ch'io mai potessi senza te campare?Dove è l'amor che me portavi, e doveÈ quel che spesso solevi iurare,Che, se tu avesti un celo, o tutti nove,Non vi potresti senza me abitare?Ora te pensi de andar nello infernoE me lasciare in terra in pianto eterno?

Io fui e son tua ancor, mentre son viva,E sempre serò tua, poi che sia morta,Se quel morir de amor l'alma non priva,Se non è in tutto di memoria tolta.Non vo' che mai se dica, o mai se scriva:'Tisbina senza Iroldo se conforta.'Vero è che de tua morte non mi doglio,Perché ancora io più in vita star non voglio.

Tanto quella convengo differireCh'io solva di Prasildo la promessa,Quella promessa che mi fa morire;Poi me darò la morte per me stessa.Con te ne l'altro mondo io vo' venire,E teco in un sepolcro serò messa.Così ti prego ancora, e strengo forte,Che morir meco vogli de una morte.

E questo fia de un piacevol veneno,Il qual sia con tale arte temperato,Che il spirto nostro a un ponto venga meno,E sia cinque ore il tempo terminato;Ché in altro tanto fia compiuto e pienoQuel che a Prasildo fo per me giurato.Poi con morte quïeta estinto siaIl mal che fatto n'ha nostra pacìa."

Così della sua morte ordine dànnoQuei duo leali amanti e sventurati,E col viso apoggiato insieme stanno,Or più che prima nel pianto afocati,Né l'un da l'altro dipartir se sanno,Ma così stretti insieme ed abbracciati.Per il venen mandò prima TisbinaAd un vecchio dottor di medicina.

Il qual diede la coppa temperata,Senz'altro dimandare alla richiesta.Iroldo, poi che assai l'ebbe mirata,Disse: "Or su, ché altra via non c'è che questaA dar ristoro a l'alma adolorata.Non mi serà Fortuna più molesta,Ché morte sua possanza al tutto serba:Così se doma sol quella superba."

E poi che per mitade ebbe sorbitoSicuramente il succo venenoso,A Tisbina lo porse sbigotito.Lui non è di sua morte paurosoMa non ardisce a lei far quello invito;Però, volgendo il viso lacrimoso,Mirando a terra, la coppa gli porse,E de morire alora stette in forse,

Non del tossico già, ma per dolore,Che il venen terminato esser dovia.Ora Tisbina con frigido core,Con man tremante la coppa prendia,E biastemando la Fortuna e Amore,Che a fin tanto crudel li conducia,Bevette il succo che ivi era rimaso,Insino al fondo del lucente vaso.

Iroldo se coperse il capo e il volto,E già con gli occhi non volìa vedereChe il suo caro desio li fosse tolto.Or se comincia Tisbina a dolere,Ché non è il suo cordoglio ancor dissolto;Nulla la morte li facea al parereIl convenirgli da Prasildo gire:Questa gran doglia avanza ogni martìre.

Nulla di manco, per servar sua fede,A casa del barone essa ne è andata,E di parlare a lui secreto chiede:Era di giorno, e lei accompagnata.Apena che Prasildo questo crede,E fattosegli incontro in su la entrata,Quanto più puote, la prese a onorare,Né di vergogna sa quel che si fare.

Ma poi che solo in un loco secretoSe fo con lei ridotto ultimamente,Con un dolce parlare e modo queto,E quanto più sapea piacevolmente,Se forza de tornarli il viso lieto,Che lacrimoso a sé vede presente.Lui per vergogna ciò crede avenire,Né il breve tempo sa del suo morire.

Essa da lui al fin fu scongiurata,Per quella cosa che più al mondo amava,Che li dicesse perché era turbataE di tal noglia piena si mostrava,Ad essa proferendo tutta fiataVoler morir per lei, se il bisognava;Ed a risposta tanto la stringia,Che odete quel che odir già non volia.

Perché Tisbina li disse: "Lo amoreChe con tanta fatica hai guadagnato,È in tua possanza, e serà ancor quattr'ore.Per mantenirte quel che te ho giurato,Perdo la vita, ed ho perso l'onore;Ma, quel ch'è più, colui che tanto ho amatoPerdo con seco, e lascio questo mondo;E a te, cui tanto piacqui, me nascondo.

S'io fossi stata in alcun tempo mia,Avendomi tu amata, sì come hai,Avrei commessa gran discortesiaA non averte amato pur assai;Ma io non puotevo, e non se convenia:Duo non se ponno amare, e tu lo sai;Amor non ti portai giammai, barone,Ma sempre ebbi di te compassïone.

E quello aver pietà della tua sorteM'ha di questa miseria centa intorno;Ché il tuo lamento mi strense sì forte,Allora che te odiva al bosco adorno,Che provar mi convien che cosa è morte,Prima che a sera gionga questo giorno."Con più parole poi raconta a pienoSì come Iroldo e lei preso ha il veleno.

Prasildo ha di tal doglia il cor ferito,Odendo questo che la dama dice,Che sta senza parlargli sbigotito;E dove se credeva esser felice,Vedese gionto a l'ultimo partito.Quella che del suo core è la radice,Colei che la sua vita in viso porta,Vedesi avanti agli occhi quasi morta.

"Non è piaciuto a Dio, né a te, Tisbina,Della mia cortesia farne la prova, -Dice il barone - accioché una roinaDe amor crudele il nostro tempo trova.Gionger duo amanti di morte tapinaNon era al mondo prima cosa nova;Ora tre insieme, sì come io discerno,Seran sta sera gionti nello inferno.

Di poca fede, or perché dubitastiDi richiedermi in don la tua promessa?Tu dici che nel bosco me ascoltastiCon gran pietade. Ahi fiera! il ver confessa,Ché già nol credo; e questa prova basti,Che, per farme morir, morta hai te stessa.Or che me sol almanco avessi spento,Ch'io non sentissi ancor di te tormento!

Tanto ti spiacque ch'io te volsi amare,Crudel, che per fuggirme hai morte presa?Sasselo Idio ch'io non puote' lasciare,Benché io provassi, di amarte l'impresa.Me nel bosco dovevi abandonare,Se de amarme cotanto al cor ti pesa;Chi te sforzava de quel proferireChe poi con meco al fin te fa morire?

Io non volevo alcun tuo dispiacere,Né lo volsi giamai, né il voglio adesso;Che tu me amassi cercai di ottenere,Né altro da te mai chiesi per espresso.E se altrimenti ti desti a vedere,Di scoprirne la prova sei apresso,Perch'io te asolvo da ogni giuramento,E stare e andar ne puoi a tuo talento."

Tisbina, che il baron cortese odìa,Di lui fatta pietosa, prese a dire:"Da te son vinta in tanta cortesia,Che per te solo io non voria morire.Volse Fortuna che altrimenti sia,Né posso farti un lungo proferire,Però che il viver mio debbe esser poco;Ma in questo tempo andria per te nel foco."

Prasildo di gran doglia sì se accese,Avendo già sua morte destinata,Che le dolci parole non intese,E con mente stordita e adolorataUn bacio solamente da lei prese,Poi l'ebbe a suo piacer licenzïata.E lui se levò ancor dal suo cospetto:Piangendo forte se pose su il letto.

Poi che Tisbina ad Iroldo fo gionta,Ritrovandol col capo ancora involto,La cortesia di quel baron li conta,E come solo ha un bacio da lei tolto.Iroldo dal suo letto a terra smonta,E con man gionte al celo adriccia il volto;Ingenocchiato, con molta umiltatePrega Dio per mercede e per pietate,

Che Lui renda a Prasildo guiderdoneDi quella cortesia dismisurata.Ma, mentre che lui fa la orazïone,Cade Tisbina, e pare adormentata;E fece il succo la operazïonePiù presto ne la dama delicata;Ché un debil cor più presto sente morteEd ogni passïon, che un duro e forte.

Iroldo nel suo viso viene un gelo,Come vede la dama a terra andare,Che avea davanti a gli occhi fatto un velo:Dormir soave, e non già morte appare.Crudel chiama lui Dio, crudel il celo,Che tanto l'hanno preso ad oltraggiare;Chiama dura Fortuna, e duro Amore,Che non lo occida, ed ha tanto dolore.

Lasciàn dolersi questo disperato:Stimar puoi, cavallier, come egli stava.Prasildo nella ciambra se è serrato,E così lacrimando ragionava:"Fu mai in terra un altro inamoratoPercosso da fortuna tanto prava?Ché, se io voglio la dama mia seguire,In piccol tempo mi convien morire.

Così quel dispietato avria solaccio,Che è tant'amaro e noi chiamiamo Amore.Prèndeti oggi piacer del mio gran straccio,Vien, sàziati, crudel, del mio dolore!Ma al tuo mal grato io ne uscirò d'impaccioChé aver non posso un partito peggiore,E minor pene assai son nello infernoChe nel tuo falso regno e mal governo."

Mentre che se lamenta quel barone,Eccoti quivi un medico arivare.Dimanda di Prasildo quel vecchione,Ma non ardisce alcuno ad esso entrare.Diceva il vecchio: "Io, stretto da cagione,Ad ogni modo li voglio parlare;Ed altramente, io vi ragiono scorto,Il segnor vostro questa sera è morto."

Il camarier, che intese il caso grave,Di entrar dentro alla zambra prese ardire,(Questo teneva sempre un'altra chiave,Ed a sua posta puotea entrare e uscire);E da Prasildo con parlar soaveImpetra che quel vecchio voglia odire.Benché ne fece molta resistenza,Pur lo condusse nella sua presenza.

Disse il medico a lui: "Caro segnore,Sempremai te aggio amato e reverito;Ora ho molto sospetto, anzi timoreChe tu non sia crudelmente tradito;Però che zelosia, sdegno ed amore,E de una dama il mobile appetito,Ché è raro a tutte il senno naturale,Possono indurre ad ogni estremo male.

E ciò te dico, perché stamatinaMe fo veneno occulto dimandatoPer una cameriera de Tisbina.Or poco avanti me fu racontatoChe qua ne venne a te la mala spina.Io tutto il fatto ho bene indivinato;Per te lo tolse, e tu da lei ti guarda:Lasciale tutte, che il mal fuoco l'arda.

Ma non sospicar già per questa volta,Ché in veritade io non gli diè veneno:E se quella bevanda forse hai tolta,Dormirai da cinque ore, o poco meno.Così quella malvaggia sia sepolta,Con tutte l'altre de che il mondo è pieno!Dico le triste, ché in questa citateUna vi è bona, e cento scelerate."

Quando Prasildo intende le parole,Par che se avivi il tramortito cuore.Come dopo la pioggia le vïoleSe abatteno, e la rosa e il bianco fiore;Poi, quando al cel sereno appare il sole,Apron le foglie, e torna il bel colore:Così Prasildo alla lieta novellaDentro se allegra e nel viso se abella.

Poi che ebbe assai quel vecchio ringraziato,A casa de Tisbina se ne andava;E, ritrovando Iroldo disperato,Sì come stava il fatto li contava.Ora pensati se costui fu grato!Colei che più che la sua vita amava,Vuol che nel tutto de Prasildo sia,Per render merto a sua gran cortesia.

Prasildo ne fie' molta resistenza,Ma mal se può disdir quel che se vôle;E benché ciascun stesse in continenza,Come tra duo cortesi usar se suole,Pur stette fermo Iroldo alla sua intenzaSino alla fine, ed in poche paroleLascia a Prasildo la dama piacente;Lui de quindi se parte incontinente.

Di Babilonia se volse partire,Per non tornarvi mai nella sua vita.Da poi Tisbina se ebbe a resentire,La cosa seppe, sì come era gita;E benché ne sentisse gran martìre,E fosse alcuna volta tramortita,Pur cognoscendo che quello era gitoNé vi è remedio, prese altro partito.

Ciascuna dama è molle e tenerinaCosì del corpo come della mente,E simigliante della fresca brina,Che non aspetta il caldo al sol lucente.Tutte siàn fatte come fu Tisbina,Che non volse battaglia per nïente,Ma al primo assalto subito se rese,E per marito il bel Prasildo prese. -

Parlava la donzella tutta fiata,Quando davanti a lor nel bosco foltoOdirno una alta voce e smisurata.La damigella sbigotita è in volto,Benché Ranaldo l'abbia confortata.Or questo canto è stato lungo molto;Ma a cui dispiace la sua quantitate,Lasci una parte, e legga la mitate.

Canto decimoterzo

Io vi dissi di sopra come oditoFu quel gran crido di spavento pieno.Di nulla se è Ranaldo sbigotito;Smonta alla terra, e lascia il palafrenoA quella dama dal viso fiorito,Che per gran tema tutta venìa meno;Ranaldo imbraccia il scudo, e trasse avante.La cagion di quella era un gran gigante,

Che stava fermo sopra ad un sentiero,Dietro a una tomba cavernosa e oscura,Orribil di persona e viso fiero,Per spaventare ogni anima sicura.Ma non smarrite già quel cavalliero,Che mai non ebbe in sua vita paura,Anci contra gli va col brando in mano;Nulla si move quel gigante altano.

Di ferro aveva in pugno un gran bastone,De fina maglia è tutto quanto armato;Da ciascun lato li stava un grifone,Alla bocca del sasso incatenato.Or, se volete saper la cagioneChe tenea quivi quel dismisurato,Dico che quel gigante in guardia aviaQuel bon destrier che fu de l'Argalia.

Fu il caval fatto per incantamento,Perché di foco e di favilla puraFu finta una cavalla a compimento,Benché sia cosa fuora de natura.Questa dapoi se fie' pregna di vento:Nacque il destrier veloce a dismisura,Che erba di prato né biada rodea,Ma solamente de aria se pascea.

Dentro a quella spelonca era tornato,Sì come lo disciolse Ferraguto:Però che in quella prima fu creato,E chiuso in essa sempre era cresciuto.Dapoi, per forza de libro incantato,L'Argalia un tempo l'avea possedutoFin che fu vivo; e quello ultimo giornoFece il cavallo al suo loco ritorno.

E quel gigante in sua guardia si stava,Con fronte altiera, crudo e pertinace;E seco due grifoni incatenava,Ciascun più ongiuto, orribile e rapace.Quella catena a modo se ordinava,Che solver li può ben quando a lui piace;Ogni grifon di quelli è tanto fiero,Che via per l'aria porta un cavalliero.

Ranaldo alla battaglia se appresentaCon grande aviso e con molto riguardo;Né crediati però che il se spaventa,Perché vada sospeso, a passo tardo.L'alto gigante nel core argumentaChe questo sia un baron molto gagliardo;Lui scorgìa ben ciascun, se è vile o forte,Ché a più de mille avea data la morte;

E tutto il campo intorno biancheggiavaDe ossi de morti dal gigante occisi.Or la battaglia dura incominciava:Preso è il vantaggio e li apensati avisi.Ma colpi roïnosi se menava:Non avea alcun di lor festa né risi;Anci cognoscon ben, senza fallire,Che l'uno o l'altro qui convien morire.

Il primo feritor fo il bon Ranaldo,E gionse a quel gigante in su la testa.Ma egli avea uno elmo tanto forte e saldo,Che nulla quel gran colpo lo molesta.Ora esso di superbia e de ira caldoMena il bastone in furia con tempesta;Ranaldo al colpo riparò col scuto:Tutto il fraccassa quel gigante arguto.

Ma non li fece per questo altro male;Ranaldo colpì lui con gran valoreDe una ferita ben cruda e mortale,Che fo nel fianco, assai vicina al core.Subitamente par che metti l'ale,Rimena l'altra con più gran furore,Rompe di ponta quella forte maglia,Sino alle rene passa la anguinaglia.

Per questo fo il gigante sbigotito,E vede ben che li convien morire;De le due piaghe ha un dolore infinito,Né quasi in piedi se può sostenire;Onde turbato prese il mal partitoDi far con seco Ranaldo perire:Corre alla tana, e con molto fraccassoDislega i duo grifon dal forte sasso.

Il primo tolse quel gigante in piede,E via per l'aria con esso ne andava;Tanto è salito, che più non se vede.L'altro verso Ranaldo se aventava,Ché di portarsi il baron forse crede;Con le penne aruffate zuffellava,L'ale ha distese ed ogni branca aperta;Ranaldo mena un colpo di Fusberta.

E già non prese in quel ferire errore:Ambe le branche ad un tratto tagliava.Sentì quello uccellaccio un gran dolore;Via va cridando, e mai più non tornava.Ecco di verso il celo un gran romore:L'altro grifone il gigante lasciava.Non so se camparà di quel gran salto:Più de tre mila braccia era ito ad alto.

Roïnando venìa con gran tempesta:Ranaldo il vede giù del cel cadere;Pargli che al dritto venghi di sua testa,E quasi in capo già sel crede avere.Lui vede la sua morte manifesta,Né sa come a quel caso provedere;Per tutto ove egli fugge, o sta a guardare,Sembra il gigante in quella parte andare.

E già vicino a terra è gionto al basso:Poco è Ranaldo da lui dilungato,Che li cade vicino a men d'un passo.Percosse al capo quel dismisurato,E mena nel cader sì gran fraccasso,Che tremar fece intorno tutto il prato.Tal periglio a Ranaldo è stato un sogno;Ora aiutilo Dio, ché egli è bisogno.

Però che quel grifone in giù venìaAd ale chiuse, con tanto romore,Che il celo e tutta l'aria ne fremia,Ed oscurava il sole il suo splendore,Così grande ombra quel campo copria:Mai non fo vista una bestia maggiore.Turpin lo scrive lui per cosa certa,Che ogni ala è dece braccia, essendo aperta.

Ranaldo fermo il grande uccello aspetta,Ma poco tempo bisogna aspettare,Perché, quale è di foco una saetta,Cotal vide il grifon sopra arivare.Lui si stava ben scorto alla vedetta;Nella sua gionta un colpo ebbe a menare:Sotto la gorga, a ponto al canalettoGionse un traverso, e fese assai nel petto.

Non fu quel colpo troppo aspro e mortale,Però che al suo voler non l'ebbe còlto;Quel torna al cel battendo le grande ale,E furïoso ancor giù se è rivolto.Gionse ne l'elmo quel fiero animale,E il cerchio con lo ungion tutto ha disciolto,Né 'l rompe, né lo intacca, tanto è fino!Lo elmo è fatato, e già fo di Mambrino.

Su vola spesso, e giù torna a ferire;Ranaldo non la puote indovinare,Che una sol volta lo possa colpire.Stava la donna la pugna a guardare,E di paura se credea morire,Non già di sé, che non gli avia a pensare,Né de esser quivi lei se ricordava:Del baron teme, e sol per lui pregava.

Per la notte vicina il giorno oscura,E la battaglia ancora pur durava.Di questo sol Ranaldo avea paura,De non veder la bestia che volava;Onde per trarne fin pone ogni cura,Ogni partito in l'animo pensava;Al fin non trova quel che debba fare,Poi che per l'aria lui non puote andare.

Alfin su il prato tutto se distendeGiù riversato, come fusse morto;Quello uccellaccio subito discende,Ché non si fu di tale inganno accorto,Ed a traverso con le branche il prende.Stava Ranaldo in su lo aviso scorto;Non fu sì presto da l'uccel gremito,Che menò il brando il cavalliero ardito.

Proprio sopra alla spalla il colpo serra,E nervi e l'osso Fusberta fraccassa;Di netto una ala li mandò per terra,Ma per questo la fiera già nol lassa.Con ambedue le grife il petto afferra,E sbergo e maglia e piastra tutte passaE l'uno e l'altro ungion strenge sì forte,Che pare a quel baron sentir la morte.

Ma non per tanto lascia de ferire;Or nella pancia il passa or nel gallone,Di tante ponte, che il fece morire;Poi si levava in piede quel barone.Gran periglio ha portato, a non mentire;Lui Dio ringrazia con devozïone;E già la dama al palafren lo invita,Parendo a lei la cosa esser finita.

Ma Ranaldo quel loco avia veduto,Dove stava il destrier meraviglioso;Se non avesse il fatto a pien saputo,Serìa stato in sua vita doloroso.Era quel sasso orribile ed arguto:Dentro vi passa il principe animoso;Da cento passi vicino alla intrataEra di marmo una porta intagliata.

Di smalto era adornata quella porta,Di perle e di smiraldi, in tal lavoroChe non fu mai da uno occhio d'omo scortaCosa de un pregio di tanto tesoro.Stava nel mezo una donzella morta,Ed avea scritto sopra in lettre d'oro:'Chi passa quivi, arà di morte stretta,Se non giura di far la mia vendetta;

Ma se giura lo oltraggio vendicare,Che mi fu fatto con gran tradimento,Avrà quel bon destriero a cavalcare,Che di veloce corso passa il vento.'Or non stette Ranaldo più a pensare,Ma a Dio promette, e fanne giuramento,Che quanta vita e forza l'avrà scorto,Vendicherà la dama occisa a torto.

Poi passa dentro, e vede quel destriero,Che de catena d'oro era legato,Guarnito aponto a ciò che fa mestiero,Di bianca seta tutto copertato.Egli come un carbone è tutto nero,Sopra la coda ha pel bianco meschiato;Così la fronte ha partita de bianco,La ungia di dietro ancora al pede manco.

Destrier del mondo con questo si vantaCorrere al paro, e non ne tro Baiardo,Del qual per tutto il mondo oggi si canta.Quello è più forte, destro e più gagliardo;Ma questo aveva leggierezza tanta,Che dietro a sé lasciava un sasso, un dardo,Uno uccel che volasse, una saetta,O se altra cosa va con maggior fretta.

Ranaldo fuor di modo se allegravaDi aver trovato tanto alta ventura;Ma la catena a un libro se chiavava,Che avea di sangue tutta la scrittura.Quel libro, a chi lo legge, dichiaravaTutta la istoria e la novella oscuraDi quella dama occisa su la porta,Ed in che forma, e chi l'avesse morta.

Narrava il libro come Trufaldino,Re di Baldaco, falso e maledetto,Aveva un conte al suo regno vicino,Ardito e franco, e de virtù perfetto;Ed era tanto de ogni lodo fino,Che il re malvaggio n'avea gran dispetto.Fo quel baron nominato Orrisello;Montefalcone ha nome il suo castello.

Avea il conte Orrisello una sorella,Che de tutt'altre dame era l'onore,Perché è di viso e di persona bella;Di leggiadria, di grazia e di valoreSe alcuna fo compita, lei fu quella.Essa portava a un cavalliero amore,Nobil di schiatta e famoso de ardire,Leggiadro e bello a più non poter dire.

Il sol, che tutto 'l mondo volta intorno,Non vedea un altro par de amanti in terraSì de beltade e de ogni lode adorno.Una voglia, uno amor questi duo serra,E cresce ogniora più di giorno in giorno.Or Trufaldino a possanza di guerraMai non puotria pigliar Montefalcone,Ché sua fortezza è fuor de ogni ragione.

Sopra de un sasso terribile e duro,Un miglio ad alto, per stretto sentiero,Se perveniva al smisurato muro;Né a questo s'apressava di leggiero,Perché un profondo fosso e largo e scuroVolge il castello intorno tutto intiero;Ciascuna porta ove dentro si vane,Ha di tre torre fuora un barbacane.

Con incredibil cura si guardavaQuesta fortezza de il franco Orrisello;Lui temea Trufaldin che lo odïava,E fatto ha già più assalti a quel castello,E con vergogna sempre ritornava.Or sapeva quel re de ogni altro felloChe la sorella del conte, Albarosa,Polindo amava sopra ogni altra cosa.

Polindo il cavallier è nominato,Albarosa la dama delicata,Quella de che aggio sopra ragionatoChe amava tanto, ed era tanto amata.Ora quel cavalliero inamoratoAndava alla ventura alcuna fiata,Cercando e regni per ogni confino:In corte si trovò di Trufaldino.

Era quel re malvaggio e traditore,Ciascuna cosa sapea simulare:A Polindo faceva molto onore,Con gran proferte e cortese parlare;E prometteli aiuto e gran favore,Quando Albarosa voglia conquistare.Diversa cosa è lo amor veramente!Teme ciascuno, e crede ad ogni gente.

Chi altri mai che Polindo avria credutoA quel malvaggio mancator di fede,Che così da ciascuno era tenuto?Il cavallier nol stima e ciò non crede;Anci di avere il proferito aiutoSempre procaccia, e mai l'ora non vedeChe Albarosa la bella tenga in braccio;E de altra cosa non se dona impaccio.

Poi che la dama fu tentata in vanoChe dentro dalla rocca toglia gente,A Polindo promette e giura in manoUna notte partirse quietamente,Al piè del sasso scender gioso al piano,Ed esserli in sua vita obedïente,Andar con lui, e far tutte sue voglie:Esso promette a lei tuorla per moglie.

L'ordine dato se pone ad effetto.Avea già Trufaldin prima donataA Polindo una rocca da diletto,Longe a Montefalcone una giornata.Qui dentro intrarno senza altro rispettoQuel cavalliero e la giovene amata.Cenando insieme con gran festa e riso,Eccoti Trufaldin quivi improviso.

Vaga fortuna, mobile ed incerta,Che alcun diletto non lascia durare!Sotto la terra è una strata coperta,Per quella nella rocca se può andare.Avea il malvaggio questa cosa esperta,Perciò li volse la rocca donare.Così cenando, e doi de amore accesiFuor de improvviso crudelmente presi.

Polindo di parlar già non ardiva,Per non far seco la dama perire;Ma di grande ira e rabbia se moriva,Ché non può a Trufaldin sua voglia dire.Quel re comanda alla dama che scrivaAl suo german che a lei debba venire,Fingendo che Polindo l'ha menataDentro a una selva grande e smisurata;

E quivi a forza rinchiusa la tene,Sotto la guarda di tre suoi famigli;Ma se lui quivi secreto ne viene,Vôl che Polindo e quelli insieme pigli;Che le cagion diragli intiere e pieneDi sua partita, e non se meravigli;Che poi lo chiarirà che il suo caminoCampato ha lui di man di Trufaldino.

La dama dice de voler morirePiù presto che tradire il suo germano;Né per minaccie o per piacevol direPuò far che prenda pur la penna in mano.Il re fa incontinente qui venireUn tormento aspro, crudo ed inumano,Che con ferro affocato e membri straccia:Quella fanciulla prende nella faccia.

Nella faccia pigliò col ferro ardente:Non se lamenta lei, né getta voce;Alla richiesta risponde nïente.Quel focoso tormento assai più cocePolindo, che vi stava di presente;E benché fosse de animo feroce,E de uno alto ardir pieno in veritate,Pur cade in terra per molta pietate.

Narrava il libro tutte queste cose,Ma più destinto, e con altre parole;Ché vi erano atti con voci pietose,E quel dolce parlar che usar se suoleTra l'anime congionte ed amorose.Eravi che Polindo assai se dolePiù de Albarosa che del proprio male;E lei fa del suo amante un altro tale.

Legge Ranaldo quella istoria dura,E molto pianto da gli occhi li cade;Nel viso se conturba sua figuraPer quell'estremo caso de pietade.Una altra fiata sopra al libro giuraDi vendicar quella aspra crudeltade;E torna fuora il cavallier sopranoCon quel destrier che ha nome Rabicano.

Sopra di quello è il cavallier salito,E via cavalca con la damisella,Ma poco andâr, e il giorno fo sparito:Ciascun di lor dismonta dalla sella.Sotto ad uno albro è Ranaldo adormito,Dorme vicino a lui la dama bella;Lo incanto della Fonte de MerlinoHa tolto suo costume al paladino.

Ora li dorme la dama vicina:Non ne piglia il barone alcuna cura.Già fo tempo che un fiume e una marinaNon avrian posto al suo desio misura;A un muro, a un monte avria data roinaPer star congionto a quella creatura;Or li dorme vicina e non gli cale:A lei, credo io, ne parve molto male.

Già l'aria se schiariva tutta intornoAbenché il sole ancor non se mostrava;Di alcune stelle è il cel sereno adorno,Ogni uccelletto agli arbori cantava;Notte non era, e non era ancor giorno.La damisella Ranaldo guardava,Però che essa al mattino era svegliata;Dormia il barone a l'erba tutta fiata.

Egli era bello ed allor giovenetto,Nerboso e asciutto, e de una vista viva,Stretto ne' fianchi e membruto nel petto:Pur mo la barba nel viso scopriva.La damisella il guarda con diletto,Quasi, guardando, di piacer moriva;E di mirarlo tal dolcezza prende,Che altro non vede ed altro non attende.

Sta quella dama di sua mente tratta,Guardandosi davanti il cavalliero.Or dentro quella selva aspra e disfattaStava un centauro terribile e fiero;Forma non fo giamai più contrafatta,Però che aveva forma di destrieroSino alle spalle, e dove il collo usciaE corpo e braccie e membra d'omo avia.

De altro non vive che di cacciasone,Per quel deserto che è sì grande e strano;Tre dardi aveva e un scudo e un gran bastone,Sempre cacciando andava per quel piano;Alora alora avea preso un leone,E così vivo sel portava in mano.Rugge il leone e fa gran dimenare;Per questo se ebbe la dama a voltare,

Ed altramenti sopra li giongìaTutto improviso il diverso animale.E forse che Ranaldo occiso avria:Molto comodo avia di farli male.La damisella un gran crido mettia:- Donaci aiuto, o Re celestïale! -A quel crido se desta il baron pronto,E già il centauro è sopra di lor gionto.

Ranaldo salta in piede e il scudo imbraccia,Benché il gigante l'avea fraccassato;E quel centauro di spietata facciaGetta il leon, che già l'ha strangolato.Ranaldo adosso a lui tutto se caccia:Quel fugge un poco, e poi se è rivoltato,E con molta roina lancia un dardo;Stava Ranaldo con molto riguardo,

Sì che nol puote a quel colpo ferire.Or lancia l'altro con molta tempesta;L'elmo scampò Ranaldo dal morire,Ché proprio il gionse a mezo della testa;L'altro ancor getta, e nol puote colpire.Ma già per questo la pugna non resta,Perché il centauro ha preso il suo bastone,E va saltando intorno al campïone.

Tanto era destro, veloce e leggiero,Che Ranaldo se vede a mal partito;Lo esser gagliardo ben li fa mestiero.Quello animal il tien tanto assalito,Che apressar non se puote al suo destriero;Girato ha tanto, che quasi è stordito.A un grosso pin se accosta, che non tarda:Questo col tronco a lui le spalle guarda.

Quello omo contrafatto e tanto stranoSaltando va de intorno tuttavia;Ma il principe, che avia Fusberta in mano,Discosto a sua persona lo tenìa.Vede il centauro afaticarsi in vano,Per la diffesa che il baron facìa;Guarda alla dama dal viso sereno,Che di paura tutta venìa meno.

Subitamente Ranaldo abandona,E leva dello arcion quella donzella;Fredda nel viso e in tutta la personaAlor divenne quella meschinella.Ma questo canto più non ne ragiona;Ne l'altro contarò la istoria bellaDi questa dama, e quel ch'io dissi avante,Tornando ad Agricane e Sacripante.

Canto decimoquarto

Aveti inteso la battaglia duraChe fa Ranaldo, la persona accorta,E come la diversa creaturaPrese la dama, e in groppa se la porta.Non domandati se ella avea paura:Tutta tremava, e in viso parea morta;Ma pur, quanto la voce li bastava,Al cavalliero aiuto dimandava.

Via va correndo lo animal legieroCon quella dama in groppa scapigliata;A lei sempre ha rivolto il viso fiero,Ed a sé stretta la tiene abracciata.Or Ranaldo se accosta al suo destriero;Ben se âgura Baiardo in quella fiata,Ché quel centauro è tanto longe assai,Che averlo gionto non se crede mai.

Ma poi che ha preso in man la ricca brigliaDi quel destrier che al corso non ha pare,De esser portato da il vento asimiglia:A lui par proprio di dover volare.Mai non fu vista una tal meraviglia;Tanto con l'occhio non se può guardarePer la pianura, per monte e per valle,Quanto il destrier se il lascia dalle spalle.

E non rompeva l'erba tenerina,Tanto ne andava la bestia legiera;E sopra alla rugiada matutinaVeder non puossi se passato vi era.Così, correndo con quella roina,Gionse Ranaldo sopra una rivera,Ed allo entrar de l'acqua, a ponto a ponto,Vede il centauro sopra al fiume gionto.

Quel maledetto già non l'aspettava,Ma, via fuggendo, nequitosamenteLa bella dama nel fiume gettava:Giù ne la porta il fiumicel corrente.Che di lei fosse, e dove ella arivava,Poi lo odirete nel canto presente;Ora il centauro a quel baron se volta,Poi che di groppa se ha la dama tolta;

E cominciorno a l'acqua la battaglia,Con fiero assalto, dispietato e crudo;Vero è che il bon Ranaldo ha piastra e maglia,E quel centauro è tutto quanto nudo:Ma tanto è destro e mastro de scrimaglia,Che coperto se tien tutto col scudo;E il destrier del segnor de MontealbanoCorrente è assai, ma mal presto alla mano.

Grosso era il fiume al mezo dello arcione,De sassi pieno, oscuro e roïnoso.Mena il centauro spesso del bastone,Ma poco nôce al baron valoroso,Che gioca di Fusberta a tal ragioneChe tutto quello ha fatto sanguinoso;Tagliato ha il scudo il cavalliero ardito,E già da trenta parte l'ha ferito.

Esce del fiume quello insanguinato,Ranaldo insieme con Fusberta in mano,Né se fu da lui molto dilungato,Che gionto l'ebbe quel destrier soprano;Quivi lo occise sopra al verde prato.Or sta pensoso il sir de Montealbano,Non sa che far, né in qual parte se vada:Persa ha la dama, guida de sua strada.

A sé d'intorno la selva guardava,E sua grandezza non puotea stimare;La speranza de uscirne gli mancava,E quasi adrieto volea ritornare,Ma tanto ne la mente desïavaDa quello incanto il conte Orlando trare,Che sua ventura destina finire,O, questa impresa seguendo, morire.

Ver Tramontana prende la sua via,Dove il guidava prima la donzella;Ed ecco ad una fonte li appariaUn cavalliero armato in su la sella.Or Turpin lascia questa diceria,E torna a raccontar l'alta novellaDel re Agricane, quel tartaro forte,Che è chiuso in Albracà dentro alle porte.

Dentro a quella citade era rinchiuso,E fa soletto quella ardita guerra:Il popol tutto quanto ha lui confuso.Sappiati che Albracà, la forte terra,Da uno alto sasso calla al fiume giuso,E da ogni lato un mur la cinge e serra,Che se dispicca da il castello altano,Volgendo il sasso insino al monte piano.

Sopra del fiume ariva la murata,Con grosse torre e belle a riguardare.Quella fiumana Drada è nominata,Né estate o verno mai se può vargare.Una parte del muro è qui cascata:Quei della terra non hanno a curare,Ché il fiume è tanto grosso e sì corrente,Che di battaglia non temon nïente.

Ora io vi dissi sì come AgricaneFa la battaglia dentro alla citate;Re Sacripante è con seco alle mane,Con gente della terra in quantitate.Prove se fier' dignissime e sopranePer l'uno e l'altro, e sopra l'ho narrate;E lasciai proprio che una schiera novaDietro alle spalle de Agrican se trova.

Nulla ne cura quel re valoroso,Ma con molta roina è rivoltato;Mena a due mane il brando sanguinoso.Questo novo trapel che ora è arivato,Era un forte barone ed animoso,Torindo il Turco, che era ritornatoCon molta di sua gente in compagnia;Per altre parte gionse a questa via.

Quel tartaro ne' Turchi urta Baiardo,Getta per terra tutta quella gente;Ora ecco Sacripante, il re gagliardo,Che l'ha seguito continüamente.Tanto non è legier cervo ni pardo,Quanto è quel re circasso veramente;Non vale ad Agrican sua forza viva,Tanta è la gente che adosso gli ariva.

Già son le bocche delle strate prese,Chiuse con travi, ed ogni altra serraglia;Le schiere dalle mure son discese,E corre ciascaduno alla battaglia:Non vi rimase alcuno alle diffese.Or quei del campo, quella gran canaglia,Chi per le mure intrò, chi per le porte,Tutti cridando: - Alla morte! alla morte! -

Onde fu forza a l'aspro SacripanteEd a Torindo alla rocca venire;Angelica già dentro era davante,E Trufaldin, che fo il primo a fuggire.Morte son le sue gente tutte quante;La grande occisïon non se può dire:Morto è Varano, e prima Savarone,Re della Media, franco campione.

Morirno questi fora delle porte,Dove la gran battaglia fo nel piano.Brunaldo ebbe sua fine in altra sorte:Radamanto lo occise de sua mano.Quel Radamanto ancor diede la morteDentro alle mura al valoroso Ungiano;Tutta la gente di sua compagniaFo il giorno occisa alla battaglia ria.

E tutta la citate hanno già presa:Mai non fu vista tal compassïone.La bella terra da ogni parte è incesa,E sono occise tutte le persone;Sol la rocca di sopra se è diffesaNe l'alto sasso, dentro dal zirone:Tutte le case in ciascuno altro locoVanno a roina, e son piene di foco.

La damisella non sa che si fare,Poi che è condotta a così fatto scorno;In quella rocca non è che mangiare,Apena evi vivande per un giorno.Chi l'avesse veduta lamentareE battersi con man lo viso adorno,Uno aspro cor di fiera o di dragoneSeco avria pianto di compassïone.

Dentro alla rocca son tre re salvatiCon la donzella, e trenta altre persone,Per la più parte a morte vulnerati.La rocca è forte fora di ragione,Onde tra lor se son deliberatiChe ciascuno occidesse il suo ronzone,E far contra de' Tartari contesa,Sin che Dio li mandasse altra diffesa.

Angelica dapoi prese partitoDi ricercare in questo tempo aiuto;Lo annel meraviglioso aveva in dito,Che chi l'ha in bocca, mai non è veduto.Il sol sotto la terra ne era gito,E il bel lume del giorno era perduto:Torindo e Trufaldino e SacripanteLa damisella a sé chiama davante.

A lor promette sopra alla sua fedeIn vinti giorni dentro ritornare,E tutti insieme e ciascadun richiedeChe sua fortezza vogliano guardare;Che forse avrà Macon di lor mercede,Perché essa andava aiuto a ricercareAd ogni re del mondo, a ogni possanza,Ed ottenerlo avia molta speranza.

E così detto, per la notte brunaLa damisella monta al palafreno,Via camminando al lume della luna,Tutta soletta, sotto al cel sereno.Mai non fo vista da persona alcuna,Benché di gente fosse intorno pieno;Ma a questi la fatica e la vittoriaLi avea col sonno tolto ogni memoria.

Né bisogno ebbe di adoprar lo annello,Ché, quando il sol lucente fo levato,Ben cinque leghe è longe dal castello,Che era da' suoi nemici intornïato.Lei sospirando riguardava quello,Che con tanto periglio avea lasciato;E così caminando tutta via,Passata ha Orcagna, e gionse in Circasia.

Gionse alla ripa di quella rivera,Dove il franco Ranaldo occiso aviaLo aspro centauro, maledetta fiera.Come la dama nel prato giongia,Un vecchio assai dolente nella cieraPiangendo forte contro a lei venìa,E con man gionte ingenocchion la chiedeChe del suo gran dolore abbia mercede.

Diceva quel vecchione: - Un giovenetto,Conforto solo a mia vita tapina,Mio unico figliolo e mio diletto,Ad una casa che è quindi vicina,Con febre ardente se iace nel letto,Né per camparlo trovo medicina;E se da te non prende adesso aiuto,Ogni speranza e mia vita rifiuto. -

La damigella, che è tanto pietosa,Comincia il vecchio molto a confortare:Che lei cognosce l'erbe ed ogni cosaQual se apertenga a febre medicare.Ahi sventurata, trista e dolorosa!Gran meraviglia la farà campare.La semplicetta volge il palafrenoDietro a quel vecchio, che è de inganni pieno.

Ora sappiati che il vecchio canuto,Che in quella selva stava alla campagna,Per prender qualche dama era venuto,Come se prende lo uccelletto a ragna;Per ciò che ogni anno dava di tributoCento donzelle al forte re de Orgagna.Tutte le prende con inganno e scherno,E prese poi le manda a Poliferno.

Però che ivi lontano a cinque migliaSopra de un ponte una torre è fondata:Mai non fo vista tanta meraviglia,Ché ogni persona che è quivi arivata,Dentro a quella pregion se stesso piglia.Quivi n'avea il vecchio gran brigata,Che tutte l'avea prese con tale arte,Fuor quella sol che fu di Brandimarte.

Però che quella, come io vi contai,Fo dal centauro gettata nel fiume.Essa nel fondo non andò giamai,Però che de natare avea costume.Quella onda, che è corrente pur assai,Giù ne la mena, come avesse piume;Al ponte la portò, che mai non tarda,Dove la torre è de quel vecchio in guarda.

Lui dal fiume la trasse meza morta,E fecela curar con gran ragioneDa quella gente che avea seco in scorta,Ché medici lì aveva, e più persone;Poi la condusse dentro a quella porta,Dove con l'altre stava alla pregione.De Angelica diciamo, che venìaCon quel falso vecchione in compagnia.

Come alla torre fo dentro passata,Quel vecchio fora nel ponte restava.Incontinente la porta ferrata,Senza che altri la tocchi, se serrava.Alor se avide quella sventurataDel falso inganno, e forte lamentava;Forte piangia, battendo il viso adorno:L'altre donzelle a lei son tutte intorno.

Cercano tutte con dolce paroleLa dolorosa dama confortare;E, come in cotal caso far si sôle,Ciascuna ha sua fortuna a racontare;Ma sopra a l'altre piangendo si dole,Né quasi può per gran doglia parlare,De Brandimarte la saggia donzella,Che Fiordelisa per nome se appella.

Lei sospirando conta la sciaguraDi Brandimarte da lei tanto amato:Come, andando con essa alla ventura,Fo con Astolfo al giardino arrivato,Dove tra fiori, a la fresca verdura,L'ha Dragontina ad arte smemorato;E, in compagnia de Orlando paladino,Sta con molti altri presi nel giardino.

E come essa dapoi, cercando aiuto,Se gionse con Ranaldo in compagnia;E tutto quel che gli era intravenuto,Senza mentire, a ponto lo dicia;E del gigante, e del grifone ungiuto,E de Albarosa la gran villania,E del centauro al fin, bestia diversa,Che l'avia dentro a quel fiume sumersa.

Piangeva Fiordelisa a cotal dire,Membrando l'alto amor de che era priva.Eccoti odirno quella porta aprire,Che un'altra dama sopra al ponte ariva.Angelica destina di fuggire;Già non la può veder persona viva:Lo incanto dello annel sì la coperse,Che fuora uscì, come il ponte se aperse.

Non fo vista da alcuno in quella fiata,Tanta è la forza dello incantamento;E fra se stessa, andando, èssi apensataE fatto ha nel suo cor proponimentoDi voler gire a quella acqua fatataChe tira l'omo fuor de sentimento,Là dove Orlando ed ogni altro baroneTien Dragontina alla dolce prigione.

E caminando senza alcun riposo,Al bel verzier fo gionta una matina.In bocca avia lo annel meraviglioso:Per questo non la vede Dragontina.Di fora aveva il palafreno ascoso,Ed essa a piede fra l'erbe camina,E caminando, a lato ad una fonte,Vede iacerse armato il franco conte.

Perché la guarda faceva quel giorno,Stavasi armato a lato alla fontana.Il scudo a un pino avea sospeso e il corno;E Brigliadoro, la bestia soprana,Pascendo l'erbe gli girava intorno.Sotto una palma, a l'ombra prossimana,Un altro cavallier stava in arcione:Questo era il franco Oberto dal Leone.

Non so, segnor, se odisti più contareL'alta prodezza de quel forte Oberto;Ma fu nel vero un baron de alto affare,Ardito e saggio, e de ogni cosa esperto.Tutta la terra intorno ebbe a cercare,Come se vede nel suo libro aperto.Costui facea la guarda alora quandoGionse la dama a lato al conte Orlando.

Il re Adrïano e lo ardito GrifoneStan ne la loggia a ragionar de amore;Aquilante cantava e Chiarïone,L'un dice sopra, e l'altro di tenore;Brandimarte fa contra alla canzone.Ma il re Ballano, ch'è pien di valore,Stassi con Antifor de Albarosia:De arme e di guerra dicon tutta via.

La damisella prende il conte a mano,Ed a lui pose quello annello in dito,Lo annel che fa ogni incanto al tutto vano.Or se è in se stesso il conte risentito,E scorgendosi presso il viso umanoChe gli ha de amor sì forte il cor ferito,Non sa come esser possa, e apena credeAngelica esser quivi, e pur la vede.

La damisella tutto il fatto intese:Sì come nel giardino era venuto,E come Dragontina a inganno il prese,Alor che ogni ricordo avia perduto.Poi con altre parole se distese,Con umil prieghi richiedendo aiutoContra Agricane, il qual con cruda guerraAvea spianata ed arsa la sua terra.

Ma Dragontina, che al palagio stava,Angelica ebbe vista giù nel prato.Tutti e suoi cavallier presto chiamava,Ma ciascun se ritrova disarmato.Il conte Orlando su l'arcion montava,Ed ebbe Oberto ben stretto pigliato,Avengaché da lui quel non se guarda;Lo annel li pose in dito, che non tarda.

E già son accordati i duo guerrieriTrar tutti gli altri de incantazïone.Or quivi racontar non è mestieriCome fosse nel prato la tenzone.Prima fôr presi i figli de Olivieri,L'uno Aquilante, e l'altro fo Grifone;Il conte avante non li cognoscia:Non dimandati se allegrezza avia.

Grande allegrezza ferno i duo germani,Poi che se fo l'un l'altro cognosciuto.Or Dragontina fa lamenti insani,Ché vede il suo giardino esser perduto.Lo annel tutti e suoi incanti facea vani:Sparve il palagio, e mai non fo veduto;Lei sparve, e il ponte, e il fiume con tempesta:Tutti e baron restarno alla foresta.

Ciascun pien di stupor la mente avia,E l'uno e l'altro in viso si guardava;Chi sì, chi non, di lor se cognoscia.Primo di tutti il gran conte di BravaFece parlare a quella compagnia,E ciascadun, pregando, confortavaA dare aiuto a quella dama pura,Che li avea tratti di tanta sciagura.

Raconta de Agricane il grande attedio,Che avea disfatta sua bella citade,Ed intorno alla rocca avia lo assedio.Già son quei cavallier mossi a pietade,E giurâr tutti di porvi rimedio,In sin che in man potran tenir le spade,E di fare Agricane indi partire,O tutti insieme in Albraca morire.

Già tutti insieme son posti a camino,Via cavalcando per le strate scorte.Ora torniamo al falso Trufaldino,Che dimorava a quella rocca forte.Lui fu malvagio ancor da piccolino,E sempre peggiorò sino alla morte;Non avendo i compagni alcun suspetto,Prese e Cercassi e i Turchi tutti in letto.

Non valse al bon Torindo esser ardito,Né sua franchezza a l'alto Sacripante,Ché ciascadun de loro era feritoPer la battaglia de il giorno davante,E per sangue perduto indebilito;E fur presi improvisi in quello istante.Legolli Trufaldino e piedi e braccia,E de una torre al fondo ambi li caccia.

Poi manda un messagiero ad Agricane,Dicendo che a sua posta ed a suo nomeAvia la rocca e il forte barbacane,E che due re tenìa legati; e comeVolea donarli presi in le sue mane.Ma il Tartaro a quel dire alciò le chiome;Con gli occhi accesi e con superba faccia,Così parlando, a quel messo minaccia:

- Non piaccia a Trivigante, mio segnore,Né per lo mondo mai se possa direChe allo esser mio sia mezo un traditore:Vincer voglio per forza e per ardire,Ed a fronte scoperta farmi onore.Ma te con il segnor farò pentire,Come ribaldi, che aviti ardimentoPur far parole a me di tradimento.

Bene aggio avuto avviso, e certo sollo,Che non se può tenir lunga stagione;A quella rocca impender poi farollo,Per un de' piedi, fuora de un balcone,E te col laccio ataccarò al suo collo;E ciascadun li è stato compagnoneA far quel tradimento tanto scuro,Serà de intorno impeso sopra al muro. -

Il messagier, che lo vedea nel voltoOr bianco tutto, or rosso come un foco,Ben se serebbe volentier via tolto,Ché gionto si vedeva a strano gioco;Ma, sendosi Agricane in là rivoltoPartisse de nascoso di quel loco.Par che il nabisso via fuggendo il mene;De altro che rose avea le brache piene.

Dentro alla rocca ritorna tremando,E fece a Trufaldin quella ambasciata.Ora torniamo al valoroso Orlando,Che se ne vien con l'ardita brigata,E giorno e notte forte cavalcando,Sopra de un monte ariva una giornata:Dal monte se vedea, senza altro inciampo,La terra tutta e de' nimici il campo.


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