Veramente nel programma non c'era un cómpito di disegno, ma si rise eglielo hanno passato per buono.
Mi sono dimenticata nella mia descrizione di parlarti di un ciarlatano che ci fece molto divertire, e siccome Vittorio lo descrisse nel suo componimento, così te lo mando perchè tu ti possa formare un'idea esatta del modo con cui abbiamo passato questi giorni. Addio, e un bel bacio._
RICORDI DELLA FIERA (dal taccuino di Vittorio)
Dove sono? Chi fu il mago che ha trasformato il mio villaggio? Forse siamo di carnevale? Che frastuono! Che baraonda! Ma è pur bella qualche volta un po' di confusione!
Ed io godo in questi giorni di fiera appunto perchè durano poco.
Mio Dio, che strepito!
—Signorine, vengano a comperare! novantanove centesimi al pezzo, guardino che bella roba.
—Della tela bellissima, dei fazzoletti, tutto a buon mercato; avanti avanti, signori!
—Il teatro delle scimmie, le sette meraviglie del mondo! il cosmorama pittorico! entrino, signori, che resteranno sorpresi!—E simili grida da tutte le parti, tanto che mia sorella ha tutte le ragioni di dire che ha la testa grossa come un pallone.
—Taratatà taratatà, che cos'è questo rumore che viene laggiù dalla strada maestra? Si vede un nuvolo di polvere, s'ode uno scalpitìo di cavalli, tutti tacciono per un momento e si domandano:
—Che cosa sarà?
Le trombe squillano più forte, la massa nera s'avvicina, e già si distinguono quattro cavalli bianchi attaccati ad un cocchio alto e maestoso.
Vengono a gran carriera, son già vicini alla piazza.
—Largo largo, indietro, eh op, eh op.
La folla si restringe, si pigia, e il cocchio passa a mala pena in mezzo a quel mare di teste e s'arresta nel centro della piazza.
Un uomo di mezza età, colla barba brizzolata, d'aspetto abbastanza simpatico, sale sul seggio davanti, il quale è tutto ricoperto di velluto rosso, e si rivolge a tutta quella folla, intenta ad ascoltarlo.
Parla bene, con voce sonora, dice di chiamarsi Rocco Lavarione, d'aver studiato all'università, viaggiato mezzo mondo e conclude che possiede una polvere miracolosa che guarisce tutti i mali, ed invita quella gente a farsi avanti per comprarsela.
Il professore Damiati dice che è uno dei soliti ciarlatani; però io non mi sarei mai figurato un ciarlatano dall'aspetto così rispettabile.
«Venite venite,—intanto egli continua dall'alto del suo cocchio,—io non sono un ciarlatano, quello che dico è la pura verità, comperate la mia polvere, se non avrà la virtù ch'io vi prometto me la renderete, ed io vi restituirò il vostro danaro; posso parlar meglio di così? vedete che non arrischiate nulla.»
Tutta quella popolazione, rimasta incerta fino a quel momento, incomincia a scuotersi; già una donna si avvicina, sale sul cocchio e domanda la polvere, che le viene subito data per una lira; un'altra segue il suo esempio; un giovanotto dice di avere un dolore sulla faccia, e Rocco Lavarione gli fa una fregagione colla sua polvere, e poi gli chiede:
—E il dolore non lo sentite più?
Il ragazzo dice di no e se ne va tutto contento.
Incomincia il pigia pigia della gente intorno alla carrozza; tutti stendono le mani per chiedere la polvere miracolosa.
Rocco Lavarione e il suo domestico non hanno braccia bastanti per appagar tutti; le lire piovono nel vassoio, s'accumulano in un momento. E tutta quella gente se ne va contenta col pacchetto di polvere in mano, sorridente come se portasse a casa un tesoro.
Vicino a noi c'è un gruppo di villeggianti che vorrebbero persuadere quei contadini che è un inganno, ma essi non credono e continuano ad affollarsi intorno al cocchio di Rocco Lavarione.
Se si mette in dubbio l'efficacia di quella polvere essi ci guardano con occhi feroci; e infatti perchè togliere loro la fede e la speranza?
L'idea di possedere un farmaco che guarirà i loro mali, non è già una felicità?
Il professore presso di noi dice che il popolo è come un fanciullo che vuole il meraviglioso.
Al medico del villaggio, che si presenta come qualunque altra persona e che pure ha studiato, non credono, ed invece hanno fede in quell'uomo che parla come un oracolo, dall'alto della sua carrozza.
Io vorrei comperare un pacchetto di polvere per sapere di che cosa è composta, ma mia sorella non vuole; lo fa invece un mio vicino, il quale dal vestito si capisce che non è un contadino.
Al vedere quel signore ben vestito che s'avanza verso Rocco Lavarione, si fanno arditi anche i più timidi; e coloro che se ne stavano incerti, tutti s'avanzano a far ressa intorno al cocchio; i danari piovono, i pacchetti sfumano e Rocco Lavarione sorride contento, e quando vede diradarsi la folla, mette il danaro in un sacco di pelle, fa sferzare i cavalli, e via di corsa, aprendosi un varco in mezzo alla gente che lo segue cogli occhi, mentre egli si dilegua in lontananza, come una visione fantastica. I venditori ricominciano ad offrire la loro merce; si sente la gran cassa richiamare gli spettatori nel teatro delle scimmie, e noi restiamo a discutere se sia permesso approfittare della credulità della gente per intascare danaro come fa Rocco Lavarione.
Taluno dice che non si dovrebbe permettere; altri invece gli danno ragione di far così, finchè vi sono gonzi che si lasciano pigliare. Uno racconta la storia di quell'uomo, e narra che una volta era un povero diavolo che aveva anche studiato per far il dottore, ma non era riuscito a conseguire la laurea, avea cercato un impiego inutilmente e stava quasi per morire di fame, quando gli venne l'idea della sua polvere, che se non ha la virtù che egli le attribuisce, è composta di erbe aromatiche polverizzate e non è nociva.
—Infine ha diritto di vivere anche lui,—soggiunge,—e se la gente si lascia ingannare, suo danno.
In tutta la giornata non si fece che pensare a quello spettacolo, ed io me ne tornai dalla fiera con una grande compassione per tutta quella gente credula, così felice dell'acquisto fatto, e per Rocco Lavarione, che era un ciarlatano per quanto sostenesse di non esserlo, e in quello stesso momento mi pareva di vederlo felice intorno ad una tavola ben guernita, mangiando il suo pranzo, tutto allegro del danaro guadagnato, e mi domandavo se la sua baldoria durerà molto tempo; ma mi persuadevo che durerà fintanto che al mondo vi saranno dei gonzi, cioè ancora per un bel numero d'anni.
Quella sera, dopo che i ragazzi ebbero terminato di leggere i loro componimenti, vollero che Maria leggesse uno dei suoi racconti. Non era giusto che essa non prendesse parte alla gara dei suoi fratelli.
—Già che lo volete, ne leggerò uno volentieri, ed anche d'un argomento che ha qualche analogia coi divertimenti di questi giorni, ma il mio, sarà fuori di concorso.
—In quanto a questo, le decretiamo subito il primo premio, e credo che nessuno se ne lagnerà,—disse il professore Damiati.
—Benissimo!—esclamarono gli altri applaudendo,—ed ora sentiamo questo racconto.
—Ed io rinuncio ad illustrarlo,—disse Mario,—mi sono stancato troppo colla mia composizione.
Maria aveva già cercato nella sua cartella il racconto che avea promesso di leggere ed incominciò.
Tom e Frida erano fratello e sorella, e non sapevano in qual modo si fossero trovati a far parte del circo equestre diretto dai signori Harris, nè perchè li chiamassero con quei nomi esotici, essi che erano nati sotto il bel cielo d'Italia.
Tom era maggiore di Frida di quattro anni, e aveva soltanto un vago ricordo della sua infanzia.
Si rammentava, come in sogno, un bel paese illuminato dal sole, dove stava tutto il giorno all'aria aperta, in mezzo al profumo dei fiori, allegro e felice; poi una notte mentre dormiva nel medesimo lettuccio con Frida, si ricordava d'aver sentito tremare la casa, poi un rombo, un grido, e avea visto il palco della camera abbassarsi in modo che poteva toccarlo colle sue manine, e tanti sassi, tanta polvere, da rimanere accecati, poi più nulla.
Qualche tempo dopo si era trovato nel circo del signor Harris, assieme ai cani sapienti, alle scimmie ammaestrate ed ai cavalli addestrati all'alta scuola.
Aveva sentito parlare d'esser stato salvato colla sorella quasi per miracolo al tempo del terremoto di Casamicciola, perchè la trave della sua stanza avea formato come un arco sopra il letto, impedendo alle macerie di schiacciarlo assieme alla sorella.
Essendo rimasti soli al mondo, la signora Harris era stata così buona da accoglierli nel suo circo, per educarli all'alta scuola come i suoi cavalli.
Infatti ogni giorno c'erano parecchie ore di lezione. Tom doveva imparare varii esercizii ginnastici, e di equilibrio: poi, fare i salti mortali e montare i cavalli più indomiti.
Egli avrebbe preferito fare qualche altra cosa; ma era agile e forte, e si prestava abbastanza volentieri a quegli esercizii, che imparava colla massima facilità; invece Frida, gracile e delicata, si rifiutava spesso di ubbidire alla signora Harris, e allora erano colpi di frusta che scendevano sulle sue spalle delicate, perchè la padrona voleva adoperare il medesimo sistema colle persone, e coi suoi cavalli.
Tom fremeva quando facevano piangere la sua sorellina, e una volta che le fece scudo colla propria persona s'ebbe una scudisciata così forte, da dover rinunciare alla volontà di difenderla.
Essi vivevano uniti, tenendosi abbracciati, o giocando assieme, e quasi estranei a tutto quel mondo di bestie e d'uomini peggiori delle bestie, che viveva intorno a loro. Ogni volta che venivano chiamati per gli esercizii, Frida piangeva, e nascondendo la sua testina sulle spalle del fratello diceva:—Non voglio.—
Egli proponeva di far doppio lavoro, anzi di fare le parti di Frida, purchè la lasciassero in pace; ma la signora Harris diceva che nessuno della compagnia doveva mangiare il pane a tradimento, e se Frida non era buona di lavorare da sè sola, doveva rassegnarsi a fare gli esercizii assieme cogli altri.
La bimba pesava poco, ed era molto utile nelle piramidi umane dove il suo posto doveva esser sempre su in cima; tremava come una foglia dalla paura, quando la signora Harris faceva gli esercizii sul cavallo e la tenea ritta in piedi sulle spalle mentre il cavallo galoppava colla massima celerità.
Mandava allora dei piccoli gridi; credeva di morire, e l'Harris le dava dei pizzicotti nelle gambe per farla tacere.
Soltanto quando faceva qualche esercizio assieme al fratello non si ribellava; egli la prendeva delicatamente, si sdraiava in terra e poi colle gambe in aria, i piedini di lei appoggiati sui suoi, girava intorno come una ruota, e quand'era stanca apriva le braccia, ed essa spiccava un salto e cadeva in grembo a lui con tanta grazia che tutti applaudivano.
—Quando sono con te mi sento sicura,—diceva Frida;—ma quando sono presa da quelle manacce, mi vien freddo e mi par di morire.
Tom, nella speranza di render i suoi padroni più buoni colla sorella, imparava sempre nuovi giuochi: era riuscito a salire e scendere sopra un piano inclinato, con una gran palla sotto i piedi, a fare il doppio salto mortale sul cavallo in moto, a correre col velocipede sopra un filo di ferro, mostrando una destrezza ed un coraggio straordinarii in un fanciullo di dodici anni; ma queste cose, invece di giovare, recavano danno a Frida, perchè i coniugi Harris, avidi solo di guadagno, diventavano più esigenti colla fanciulla, che volevano seguisse l'esempio del fratello. Ogni giorno le insegnavano qualche nuovo gioco, ed essa piangeva sempre, che era proprio una compassione.
Si può dire che gli Harris, i loro quattro figliuoli e Tom e Frida, unitamente a quattro cani, due scimmie e quattro cavalli, formassero il nucleo della compagnia stabile; poi si scritturavano ogni tanto, per qualche sera, degli artisti avventizii, che erano ora qualche fenomeno vivente, ora dei ginnasti famosi, oppure degli animali sapienti.
Una volta si trovavano in una città di provincia dell'Italia settentrionale, quando si unirono a loro due ginnasti, che facevano delle cose meravigliose, restando appesi solo coi piedi a due trapezii collocati in alto sotto alla vôlta del teatro. Erano giuochi da mettere i brividi, pensando al pericolo di una caduta che poteva riuscire pericolosissima, benchè sotto ci fosse una rete per ammortire il colpo.
Quando questi ginnasti, i quali erano marito e moglie, videro Frida,dissero:
—Quanto è leggera! Pare una palla, che bei giuochi si potrebbero farecon questa bimba!—
—Prendetela,—dissero gli Harris,—e fatela lavorare, con noi non faquasi nulla.
Essi furono contenti, e un giorno la condussero su, in alto, dove c'erano i trapezii; la bimba piangeva, ma la fecero tacere a furia di busse.—Avanti, marmotta,—le dicevano quando essa non voleva salire le scale malsicure, che univano la rete ai trapezii.
Una volta in alto, la donna prese in braccio la bimba e si lasciò cadere colla testa in giù tenendosi coi piedi attaccata al trapezio; il marito dall'altro trapezio nella stessa posizione, aspettava colle braccia aperte, e a quell'altezza incominciarono a gettarsi la bambina come se fosse una palla; essa strillava, ma non le davano retta. Tom era in teatro cogli occhi in alto per non perder nulla di quella scena, e fremeva di sentirsi impotente a liberare la sorella da quel supplizio.
—Va benissimo,—esclamarono gli acrobati,—questa sera faremo il giuoco che sarà di un bellissimo effetto, e tu bada di non piangere,—dissero a Frida,—se apri bocca, guai a te!
Tom pregava che la lasciassero in pace, ma nessuno gli badava, e la sera Frida fu costretta a prender parte ai giochi della coppia volante.
Il teatro era pieno di spettatori, le signore tremavano per la povera piccina, quando la videro lassù sotto la vôlta del teatro gettata come una palla; ma era un'emozione mai provata, un gioco nuovo e applaudivano calorosamente, tanto che dovettero ripetere il gioco, e la coppia degli acrobati era trionfante.
Ogni sera, quand'era il momento della rappresentazione, Frida usciva tremante e Tom stava ad osservare tutti i suoi movimenti, non staccando gli occhi da lei, e quando la vedeva scendere, le correva incontro, la prendeva fra le braccia e la portava via.
—Basta,—diceva la bimba piangendo e tutta ansante,—non voglio più,mi fa troppo male.
—Anche a me fa male—diceva Tom—vederti lassù; potessi andar io intua vece, come sarei contento!
—No, no, non dirlo, vengono le vertigini, par di vedere una bucaprofonda colla bocca aperta per ingoiarci; è terribile.
Una sera tutti erano al solito posto, i due ginnasti salirono le scale di corda trascinandosi dietro Frida che aveva gli occhi pieni di lagrime; aveva detto di non sentirsi bene, di avere un forte mal di capo, ma l'esercizio era annunciato nel programma e bisognava eseguirlo.
I due coniugi incominciarono le loro evoluzioni, mentre la bimbariposava, seduta sopra un trapezio, tenendo in mano una corda.
—Andiamo, a noi,—disse la donna, aprendo le braccia per pigliareFrida.
Essa si lasciò andare, come corpo inerte, e incominciarono il solitogioco, mandandosela da una mano all'altra come una palla, ad un certopunto essa ebbe una specie di vertigine, perdette i sentimenti,sgusciò di mano alla donna e andò a cadere a capo fitto nella rete.
Un gemito partì dal petto della bimba, un altro dagli spettatori, e un grido da Tom, il quale tutto tremante s'arrampicò sulle corde che scendevano dall'alto, e lesto come un gatto andò nella rete, prese fra le braccia Frida e la portò giù.
Essa sentendosi nelle braccia del suo amico aperse gli occhi.
—Ti sei fatta male?—disse Tom.
—Sono tutta stordita,—rispose la fanciulla.
Appena fu scesa, il signor Harris le si avvicinò e volle che camminasse.
—Non posso,—disse Frida.
—Un momento solo, devi uscire e mostrare che sei viva;—così dicendo la strappò dalle mani di Tom e la spinse in mezzo al circo, dove la piccina fu salutata da un applauso.
Tom li raggiunse con un salto, riprese la sorella fra le braccia, e la condusse via mandando ad Harris un'occhiata feroce.
—Non voglio più fare quell'esercizio,—disse Frida.
—Non temere, appena potrai reggere alla fatica, andremo via, lontano da qui; io farò di tutto piuttosto che sopportare questo supplizio.
—Sì, andiamo presto,—disse la bimba.
—Ancora non sei forte abbastanza.
—Con te posso andare fino alla fine del mondo, non ho paura.
Una notte mentre tutti dormivano, Tom e Frida zitti, zitti, uscirono, prima dagli alloggi della compagnia, e poi dalle porte della città, si misero a correre per potersi trovare il giorno dopo molto lontani dai loro aguzzini. Però ad un certo punto Frida rallentò il passo.
—Sei stanca?—disse Tom.
—Non è nulla, andiamo avanti.
Ma venne il momento che la bimba non si sentì più la forza diproseguire.
Tom la prese in braccio, e così fece ancora qualche chilometro, tantoper mettere maggior distanza fra sè e gli Harris.
L'aria della notte e la lunga strada aveva aguzzato il loro appetito enon avevano un soldo in tasca per comprarsi del pane.
Fu quello il primo momento in cui Tom si trovò seriamente impensierito, nel dubbio di aver salvato la sorella da un pericolo, per poi farla morire di fame.
Cominciava appena ad albeggiare, e le strade erano deserte.
—Entriamo qui,—disse Tom trovando una cascina aperta, di quelle che si trovano in mezzo ai boschi e servono ai boscaiuoli per riporvi gli arnesi del lavoro,—quando sarà giorno andremo laggiù dove si vedono quelle case, e domanderemo del pane.
Sdraiati sulla paglia si addormentarono, e si svegliarono quando il sole era già alto sull'orizzonte. Tom incominciò a temere d'essere inseguito dagli Harris, e si mise a correre con Frida attraverso il bosco finchè giunse al villaggio nel pomeriggio.
Avevano fame; ma Tom non ebbe coraggio di chiedere l'elemosina e pensò di guadagnarsi qualche soldo facendo qualcuno dei suoi giochi.
Egli s'era portato in un sacco i suoi arnesi, e là, in mezzo alla piazza sulla nuda terra incominciò a far salti, capriole, giocò con delle palle e dei piatti, tanto per divertire quella gente, mentre si sentiva stanco e affranto dalla fatica. Guadagnò qualche soldo che valse a fargli proseguire la via e continuò così per parecchi giorni, conducendo la sua sorellina, soffermandosi quand'era stanca, facendo i suoi giochi quando aveva fame, e temendo sempre d'essere scoperto ed inseguito dagli Harris.
Un giorno lesse nei giornali che gli Harris offrivano un premio a chi scoprisse il luogo dove dovevano esser nascosti due ginnasti della compagnia, che erano fuggiti rubando degli attrezzi di proprietà dei signori Harris.
Tom si sentì i brividi al leggere quelle parole, e come gli facessero una colpa d'aver portato con sè gli attrezzi ch'egli adoperava sempre, e che avea pagati cento volte col suo lavoro; e lo colse tanta paura d'essere preso, che da quel momento pensò di andare lontano, lontano, dove non sentisse mai più parlare degli Harris, che gli avevano fatto tanto male.
Incominciò a camminare giorno e notte senza fermarsi; quando Frida era stanca la prendeva in braccio e continuava il suo cammino guardandosi indietro nel timore d'essere inseguito. Se incontrava qualche carro per via, supplicava che gli permettessero di salirvi per fare un tratto di strada assieme alla sorella; diceva che doveva andar lontano lontano, e che la bimba era stanca e ammalata.
Essa era pallida, gracile, ma non parlava mai, contenta di appoggiarsi solamente sopra suo fratello, e di non far più quegli esercizii che le incutevano tanta paura.
Un giorno arrivarono in una bella città in riva al mare, dove c'erano tanti bastimenti pronti per la partenza.
Il primo pensiero di Tom fu d'imbarcarsi sopra uno di quei bastimenti e andare in un paese lontano, dove gli Harris non l'avrebbero potuto raggiungere.
Ma non aveva danari; poi, sopra un bastimento non avrebbero accolto tanto facilmente due piccoli vagabondi, come qualche volta s'erano sentiti chiamare andando per i villaggi, e infatti coi loro vestiti sbrindellati, colla faccia pallida, ne avevano tutta l'apparenza.
Tom, deciso d'imbarcarsi ad ogni costo, pensò ad uno stratagemma.
Sull'imbrunire, mentre una folla d'emigranti caricava la propria roba sopra il bastimento, s'offerse di aiutare a trasportare i bagagli.
Era forte, alzava dei pesi enormi per la sua corporatura; venne accettato. Così incominciò ad andare avanti e indietro in mezzo a quel via vai di gente e di facchini, finchè s'accorse che s'erano abituati a vederlo e non badavano più a lui.
Allora prese per mano Frida, e la condusse sul bastimento, e scesero giù per una scala erta e stretta finchè entrarono in un bugigattolo nascosto, buio, dove non c'era pericolo che nessuno li potesse scoprire.
—Ed ora, zitti,—disse Tom,—non dobbiamo muoverci finchè il bastimento non è in moto.
Frida aveva paura in quel bugigattolo che pareva una tomba e stava vicina al fratello, facendosi piccina e rannicchiandosi come un uccello spaurito.
Stettero così delle ore, che parvero interminabili, quando udirono prima un gran movimento, poi un rumore, e finalmente si sentirono trasportare lontani con delle scosse che li facevan traballare nel loro antro.
—Usciamo,—disse Frida,—ho paura.
Ma Tom non osava uscire; all'idea che il suo stratagemma venissescoperto gli batteva il cuore dalla trepidazione.
E intanto il bastimento andava, andava a tutto vapore; dovevano esserlontani dal porto; ma Tom non osava uscire.
Tutto ad un tratto videro un'ombra nera, entrare nel loro bugigattolo: era un marinaio venuto a prendere del carbone; il quale quando vide muovere qualche cosa, accese un lanternino e—Che cosa fate qui, piccoli vagabondi?—chiese vedendo i due fanciulli che tremavano come una foglia.
—Pietà,—disse Tom,—non abbiamo fatto nulla di male, ho volutofuggire i miei padroni, che mi maltrattavano.
—Intanto uscite di qui,—disse il marinaio,—e sentiremo che cosa nepenserà il capitano.
Quando i ragazzi furono alla presenza del capitano, Tom raccontò la sua storia, e dichiarò che avrebbe fatto qualunque servizio, anche il più umile, per guadagnare il vitto per sè e per Frida.
—Vedrà, sarà contento di me,—disse il ragazzo coll'accento della sincerità.
Il capitano si lasciò commovere da quelle parole e disse:
—Basta, vedremo; se vi condurrete bene, vi perdonerò la vostra scappatella, altrimenti appena arriviamo in America, vi farò mettere in prigione.
Ma Tom era buono, ubbidiente e servizievole; tutto il giorno in piedi, non si stancava di correre, e rendersi utile. Egli s'arrampicava come uno scoiattolo sugli alberi del bastimento, scendeva le scale colla massima rapidità, e stava ritto in piedi, anche quando il mare era agitato, e i più esperti marinai traballavano e perdevano l'equilibrio; non era un ginnasta per nulla.
Il capitano si affezionò a quel fanciullo così docile e laborioso, e gli propose di restar con lui e di fare il marinaio.
Il mare era sempre stato il sogno di Tom, e a quella proposta egli si sentì battere il cuore dalla gioia, tanto che si sarebbe sentito una voglia prepotente di abbracciare il capitano.
—Essere marinaio!—pensava,—viaggiare, vedere paesi nuovi, fare un mestiere nobile, vestire una divisa onorata, invece della maglia del saltimbanco, servire il proprio paese, invece di avvilirsi a fare il giocoliere e divertire una folla che l'avrebbe sprezzato; questa era la felicità, la riabilitazione, ed esclamò:—Ma dice davvero?
—Sì, sì, davvero.
—E Frida potrà stare con me?
—Questo no, non è possibile.
Tom stette un poco a pensare, diede un'occhiata alla sorella che gliera vicina, e lo guardava in aria supplichevole, e rispose:
—Grazie, capitano, la sua proposta mi fa tanto piacere, ma non possoaccettarla.
—E perchè?
—Non posso abbandonare la mia sorellina.
—E che cosa farai quando sarai arrivato?
—Mi farò scritturare in qualche circo equestre, e ritornerò alla vita del saltimbanco: è il mio destino.
Sì dicendo prese fra le braccia Frida, e scappò via; aveva un nodo alla gola, temeva di pentirsi, di lasciarsi tentare ad accettare fa proposta del capitano, e non voleva, no, non voleva abbandonare la sua Frida.
La bimba, ormai sicura che Tom non l'avrebbe lasciata, gli cingeva il collo colle sue piccole braccia; batteva le mani dalla contentezza ed era felice. Essa però non poteva comprendere la lotta che avea dovuto sopportare il di lui nobile cuore; nè il grande sacrificio che avea fatto per lei.
La fiera era terminata, ma i ragazzi continuavano ad essere distratti, irrequieti e non avevano voglia di rimettersi a studiare.
Carlo voleva andare a vedere in piazza se ci fosse ancora un po' di gente e Mario desiderava salutarepolentinae le scimmie prima che partissero; Maria disse che non poteva accompagnarli perchè avea promesso d'andare colle ragazze a visitare una donna ammalata e poi avevano da occuparsi in casa; soli non li avrebbe lasciati, perchè in paese c'era ancora troppa confusione.
Più tardi videro passare il professore Damiati e Carlo si fece coraggio per chiedergli d'accompagnarli fino al villaggio.
—Volentieri,—disse il professore,—se vostra sorella lo permette.
Visto che andavano col professore, Maria non aveva più nulla a ridire, e i tre ragazzi tutti contenti, presero il cappello e s'avviarono assieme al Damiati.
Elisa rimase imbronciata, perchè anch'essa avrebbe desiderato andar a divertirsi; ma Maria volle che le fanciulle restassero in casa ad occuparsi; erano state a zonzo abbastanza nei giorni passati.
Infatti avevano da cucire della biancheria; da aggiustare i loro vestiti e da fare tante altre piccole cose trascurate durante la fiera.
Prima di tutto uscirono per andare a vedere una povera donna, una vicina di casa, che si era scottata gravemente un braccio. Quella stessa mattina aveva chiamato Maria, la quale con delle compresse inzuppate d'acqua fredda e con qualche goccia d'etere versata sulla ferita era riuscita a calmarne gli spasimi; ora andava a farle la fasciatura e portava con sè tutto l'occorrente. Essa desiderava che le sue sorelle assistessero a simili medicazioni, affinchè imparassero a fare altrettanto se si fosse presentata l'occasione.
Elisa aveva ribrezzo di tutte le piaghe, Giannina diventava pallida e quasi si sentiva mancare, ma dovevano avvezzarcisi per contentare Maria: la quale diceva sempre:
—Voi siete di quelle che in un caso di disgrazia, invece di recare aiuto, scappereste un miglio lontano, e intanto il povero ammalato potrebbe morire, per mancanza di soccorso.
Angiolina invece, si metteva di buona voglia ad imparare; e quando furono dalla donna si fece forza ed aiutò Maria a fasciarle il braccio.
La poveretta diceva di sentirsi un po' più sollevata, ma lungo il braccio aveva una piaga con tutt'attorno una striscia rossa infiammata. Maria la medicò con tutta delicatezza, lavando la piaga con acqua tiepida, poi mettendovi delle filacce inzuppate d'acqua fenicata e fasciando il braccio in modo che la fasciatura non si muovesse e nello stesso tempo non fosse tanto stretta da impedire la circolazione del sangue; poi legò un fazzoletto dietro al collo della donna in modo che le scendesse sul petto e le fece mettere dentro il braccio.
—Vi raccomando di non muoverlo,—disse Maria salutandola, ed uscì dicendo:—Giacchè Elisa si mostra tanto delicata, la prima volta che ci sarà da fasciare un ammalato, dovrà occuparsene lei.
Quando furono a casa incominciarono a parlare di mali e rimedii.
Angiolina voleva notarsi i consigli di Maria; essa aveva sempre il rimorso della risipola venuta alla sua mamma, perchè non aveva saputo curarla bene.
—Pensare che s'io avessi saputo tante cose come lei,—diceva a Maria,—la mamma non avrebbe sofferto tanto! Non so perchè a scuola non insegnino una scienza che è così utile.
Maria la confortava, dicendole che trattandosi d'un male grave è sempre meglio chiamare il medico, ma aggiungeva che è certo una soddisfazione il saper assistere una persona cara ed esserle utile, almeno se il dottore tarda a venire; anzi, giacchè in quella mattina non avevano distrazioni, avrebbe dato qualche norma in proposito.
Angiolina prese la penna per scrivere; sapendo che in fatto di medicina bisogna essere esatti, temeva che la memoria non le servisse.
—Gli accidenti che possono succedere più spesso in una famiglia,—disse Maria,—sono il tagliarsi con un coltello, con un vetro, con delle forbici; se il taglio è semplice, basterà lavarlo coll'acqua fredda, unire gli orli della ferita e legarla con un pezzo di tela; se la ferita è più profonda bisogna comprimere un po' più forte; se poi il sangue che esce in gran copia, di color roseo, mostra che è stata tagliata un'arteria, allora la cosa è più grave, bisognerà fortemente comprimere la ferita colle dita: se le bende o una moneta avvolta in un pezzo di tela non bastano, legare stretta l'arteria sopra la ferita e non stancarsi di far tutti questi sforzi per arrestare il sangue, finchè venga il medico.
—E quando ci si abbrucia?—chiese Angiolina.
—Avete veduto come ho fatto a quella donna. Basterà una fasciatura con qualche cosa di fresco, come un pezzo di tela bagnato d'acqua o della neve o del ghiaccio; quando il dolore è un po' calmato, converrà fasciare la ferita con pezze inzuppate nell'acqua fresca, aggiuntavi qualche goccia di acido fenico.
Una persona che si espone ad un freddo intenso può aver le membra gelate in modo da perderle, perchè si sospende la circolazione del sangue e la carne s'incancrenisce; in questi casi non bisogna assolutamente esporre la parte offesa al fuoco, perchè ne sarebbe certa la perdita, bisogna invece, far ritornare la circolazione e il calore lentamente con fregagioni fatte prima colla neve e col ghiaccio, senza mai stancarsi; poi con pezzuole di lana, e così a poco a poco riscaldare il membro intirizzito.
—E se ci punge un insetto?—chiese Angiolina.
—Se ti punge un insetto, ciò che avviene spesso in campagna, sono utili le fregagioni fatte con acqua ed aceto o acqua fenicata, o meglio ancora coll'ammoniaca: rimedio che bisognerebbe aver sempre pronto, perchè salva anche dal veleno della vipera; però se avete la disgrazia d'essere morsi da uno di questi animali venefici, bisogna legare subito la parte sopra la ferita, bruciarla coll'ammoniaca, e prenderne anche per bocca, mista coll'acqua.
—Come ha fatto ad imparare tutte queste cose?—chiese Angiolina.
—Sono vecchia,—disse Maria,—poi ho sempre avuto il desiderio d'imparare quello che può esser utile, e credete pure che recar sollievo ad un ammalato, salvare una persona cara, è una grande felicità.
Angiolina voleva altre ricette e altri insegnamenti, ma Maria disse che prima ancora di portar soccorso ai mali bisogna procurar d'evitarli, e ciò si può fare facilmente con un po' d'attenzione.
—In casa vi sono sempre dei veleni,—soggiunse,—che servono per varii usi domestici; bisogna tenerli lontani dalle cose che si mangiano, poi non devono essere a mano e si deve scrivere sulle boccettevelenocon tanto di lettere; poi ci sono le cose facilmente infiammabili, come il petrolio, la benzina, l'alcool, ecc. e bisognerà tenerle lontane dal fuoco, e se per caso con tali materie avviene un principio d'incendio, bisogna esser pronti a soffocarlo con cenere, con coperte, e mai gettarvi un liquido che potrebbe mutare un semplice accidente in una grave disgrazia. Anche nell'adoperare le cose taglienti bisogna aver riguardo; trattandosi poi di armi, è una grave imprudenza tenerle cariche in casa, e specialmente i ragazzi non dovrebbero mai toccarle.
Quelle fanciulle stavano tutte ad ascoltar con tanto d'orecchi; Giannina diceva che voleva imparare tutte quelle cose che sapeva la sorella. Elisa invece confessava che non sarebbe mai stata buona da nulla, e soltanto alla vista del sangue cadeva in svenimento.
Ma Maria sosteneva che con un po' di buona volontà ci si avvezza a tutto, che anch'essa una volta scappava al vedere una ferita, ma che avea voluto vincere quella ripugnanza e si era poi trovata tanto contenta.
Angiolina andò a prendere una bambola e volle che Maria le insegnasse a fasciarla e a curarla come se fosse ferita, ma la bambola era di legno e non poteva servire, sicchè Giannina si prestò a lasciarsi fasciar lei un dito e poi un braccio.
Maria mostrò come si doveva fare, poi si provò Angiolina, poi Elisa; ma nè una nè l'altra riuscirono a fare una fasciatura così forte come quella di Maria. Poi essa volle che imparassero a preparare un impiastro; prese dalla sua farmacia un po' di farina di semi di lino, e insegnò a versarci sopra l'acqua bollente e fare come una poltiglia, poi a stenderla sopra una stoffa leggera e cucirla tutto intorno in modo che non uscisse; questa cosa divertì molto quelle bambine; come se fosse un gioco, vi si misero di buona voglia. Pareva proprio che ci trovassero gusto, e visto che Giannina si stancava di far la parte di ammalata, ricominciarono colla bambola, che da quel giorno fu considerata come un'inferma, ebbe la testa fasciata, le braccia coperte d'impiastri, e venne messa a letto dove di tratto in tratto riceveva le visite delle sue infermiere.
Le bambine stavano ancora sedute lavorando accanto a Maria, la quale aveva un bel da fare a rispondere alle interrogazioni di Angiolina, che non si stancava mai d'imparare cose nuove, quando s'udirono delle voci, poi dei passi e finalmente entrarono nella stanza tre ragazzi che parevano indiavolati e il professore che volea salutare Maria.
I ragazzi si misero a parlare tutti in coro e raccontare dei saltimbanchi che avevano veduto partire, diPolentinache avevano salutata, e poi di un cane, di Vittorio, dei signori Guerini; una confusione di discorsi che assordavano quelle povere ragazze, le quali non riuscivano a capir nulla e si turavano le orecchie.
—Zitti, zitti,—disse il professore Damiati,—ora parlerò io; intanto presento alla signorina Maria un altro piccolo eroe, che potrà figurare con onore nella sua collezione.
—Come! Vittorio? fa per celia?—disse Maria.
—Quella marmottina!—soggiunse Elisa ridendo.
Vittorio sentendo che si parlava di lui, era andato tutto confuso a rincantucciarsi e per far qualche cosa avea preso un libro in mano.
—È proprio così,—soggiunse Damiati,—e Carlo e Mario sono testimoni della sua prodezza. Io però voglio raccontare il fatto come è avvenuto, perchè so che sarà utile a queste bambine, e poi il coraggio di Vittorio merita di essere conosciuto.
Dunque andavamo verso il villaggio dove c'era sempre molto chiasso, sebbene un po' meno che nei giorni passati.
I venditori ambulanti raccoglievano le mercanzie e le mettevano nelle casse. I saltimbanchi spogliavano le baracche, e caricavano i carri di roba, mentre le scimmie facevano le capriole e Polentina salutava tutti, mangiando dolci, che le venivano regalati da qualche ammiratore.
Noi ragionavamo; e facevamo le nostre osservazioni. Abbiamo anche noi salutato Polentina e regalato un pomo ad una scimmia che ci avea stesa la mano e i ragazzi si divertivano in mezzo a quella confusione, tanto che non avrebbero voluto più ritornare a casa; c'erano anche i Guerini coll'istitutrice, e Mario voleva restare finchè restavano loro; non so veramente per qual ragione, perchè essi non si voltavano mai dalla nostra parte; ma forse per studiare il naso dell'istitutrice inglese. Finalmente quando essi si mossero, anche noi, dietro di loro, ci siamo posti in cammino. Bisogna sapere che io ero con Mario, e davanti camminavano Vittorio e Carlo, i quali si trovavano più vicini alla comitiva dei Guerini.
Tutto ad un tratto, non so precisamente come sia avvenuto, perchè io ero intento a dare delle spiegazioni a Mario, si vede sbucare un cane brutto, brutto, si slancia dietro ai Guerini che non potevano vederlo e nello stesso tempo sento Vittorio gridare:
—Un cane idrofobo, scappate, correte!
Quelli non badano e continuano la loro strada, non sospettando di aver il cane proprio alle calcagna colla bocca aperta, la lingua fuori, tanto che poco mancò che afferrasse la gamba di Alberto. Quand'ecco Vittorio in un lampo prende un sasso e lo scaglia con tutta la sua forza sulla testa del cane, il quale, quantunque mezzo tramortito dal colpo, si volge furente contro Vittorio, mentre i Guerini infuriati non sapendo nulla del cane, gridavano voltandosi verso di noi:—Chi è quel villano che getta sassi?
A questo punto m'accorsi di tutto quello che accadeva e vidi il pericolo di Vittorio, che con un coraggio qual non mi sarei mai aspettato aveva preso un altro sasso per scagliarlo contro al cane inferocito. Non so se sia stato precisamente il sasso di Vittorio o un colpo di bastone ch'io gli assestai sul capo: ma il fatto è, che il cane cadde morto, e noi potemmo pensare al pericolo corso e nello stesso tempo al coraggio e alla rapidità colla quale Vittorio aveva operato.
Ma io non ho potuto trattenermi dal dire in inglese all'istitutrice di casa Guerini additando il nostro eroe:—Potete ringraziare Vittorio Morandi se non siete stati morsicati da un cane idrofobo.
—Come idrofobo?—disse la signorina.
—Sicuro, proprio così, guardate, e le facevo osservare la lingua nera e la bava che usciva dalla bocca del cane steso morto per terra.
I ragazzi tremavano e non potevano parlare per l'emozione.
—Non toccatelo,—dissi,—e andiamo a casa, perchè abbiamo bisogno di rimetterci dallo spavento provato. I Guerini se n'andarono salutandoci appena; eppure forse Vittorio ha salvato loro la vita.
—Ma era proprio idrofobo?—disse Maria tutta commossa pensando al pericolo al quale erano sfuggiti i suoi fratelli.
—Sì, sì, idrofobo!—disse Vittorio.—me ne sono accorto subito, aveva una faccia brutta, la testa bassa, la lingua fuori, la bocca spalancata, la coda strasciconi, era brutto brutto, proprio come mi ha spiegato il professore che sono i cani idrofobi.
—E perchè non sei scappato?—disse Elisa.
—Ho visto che andava verso i Guerini, e mi son fatto coraggio.
—E se ti mordeva?—disse Maria.
—Non m'hai insegnato tu che bisogna fare quello che si deve, senza pensare a ciò che può accadere?
—Meritava proprio che tu esponessi la vita per quegli antipaticiGuerini!—disse Elisa.
—L'idrofobia è una cosa così terribile!—soggiunse Maria, tutta pallida all'idea del pericolo cui s'era esposto il fratello; poi lo fece venire vicino, gli prese la testa fra le mani e gli diede un bacio dicendogli:
—Va, sono proprio contenta di te; non avrei immaginato tanto coraggio con un'apparenza così tranquilla.
—E Carlo che cosa faceva,—disse Elisa,—egli che vuol essere un eroe?
—Carlo aveva la testa bassa e non fiatava.
Vi fu un momento di silenzio, nessuno voleva parlare.
—Ma dunque che cosa faceva?—chiese Maria, rivolgendosi a Mario.
—È scappato,—disse Mario,—come ha fatto ora; infatti, mentre tenevano quel discorso, Carlo tutto confuso era sgattaiolato fuori di casa.
Carlo, tutto avvilito d'essersi scoperto pauroso la prima volta appunto che s'era presentata l'occasione di mostrare un po' di coraggio, pensò di mettersi a studiare sul serio, anche per sfuggire alle beffe dei fratelli che non lasciavano di tormentarlo.
—Ecco il nostro eroe!—diceva Elisa.
—Guarda che bella figura facevi!—diceva Mario mostrandogli una caricatura dove scappava a gambe levate, mentre Vittorio combatteva con un cane.
—Lasciatemi in pace, voglio studiare,—rispondeva Carlo;—del resto io non sono così sciocco da esporre la mia vita per chi non mi saluta nemmeno quando m'incontra. Egli avea detto al professore che volea studiare, e mostrargli che se non avea coraggio di affrontare i cani idrofobi, avea quello di superare le difficoltà della grammatica.
Damiati era contento di poter frequentare la casa Morandi, perchè si trovava bene in quell'atmosfera serena e quieta, ed era tutto pieno d'ammirazione per Maria, che sotto apparenze modeste avea molto ingegno e non comune istruzione, non che rara pazienza nel sopportare tutte le impertinenze dei fratelli, cui correggeva senza perdere la calma e non lagnandosi mai della sorte che le era toccata, di perdere i più begli anni della giovinezza nel fare da mamma.
Egli era pronto a renderle servigio, e contento di aver ridestato un po' d'amore allo studio nella mente di Carlo, ci metteva tutto l'impegno a renderglielo facile e piacevole.
Stava appunto correggendo i lavori del suo allievo, mentre Maria lavorava accanto alla finestra assieme alle sorelle e ad Angelina che le continuava a chiedere ricette domestiche, Mario scarabocchiava, e Vittorio leggeva un libro di viaggi, quando tutt'a un tratto quel silenzio fu interrotto da un rumore di ruote, e una carrozza si fermò appunto davanti alla loro casa.
—I signori Guerini,—disse Elisa guardando dalla finestra;—mio Dio, che disordine che c'è qui!—soggiunse guardandosi intorno.
—Non è nulla,—disse Maria,—è il disordine che c'è sempre in una stanza dove si studia e lavora; io non mi confondo per così poco, sei tu che hai fatto tutto questo disordine tagliando i vestiti per la bambola.
Ma Angelina aveva già radunati i ritagli di stoffa che erano in terra e li aveva portati in cucina nella cassetta della spazzatura, appunto mentre la signora Guerini entrava accompagnata dai suoi figli.
Tutti si alzarono, e vi fu nel salotto un momento di silenzio vedendo entrare nella stanza modesta quella bella signora vestita colla massima eleganza. Ma essa fece cenno che nessuno si scomodasse, e rivoltasi a Maria, disse che avea saputo il pericolo corso dal suo Alberto e avea voluto condurlo in persona a ringraziare il suo salvatore.
Così dicendo essa dava intorno un'occhiata come per cercare a chi dovesse rivolgersi.
Maria chiamò Vittorio, il quale si fece innanzi tutto confuso; la signora Guerini lo accarezzò, lo presentò al figlio, dicendogli:
—Spero che sarete amici, e il mio Alberto non si dimenticherà mai che l'hai salvato da un gran pericolo.
—Io non ho fatto nulla che meriti tutti questi elogi, è stata una combinazione, ho veduto una brutta bestia e l'ho uccisa.
—Sei altrettanto modesto quanto coraggioso!—disse la signora che si era seduta, e indirizzato il discorso a Maria le fece molti complimenti dell'aver educato così bene quei ragazzi.
—Creda che non ci ho alcun merito,—disse Maria,—quando hanno una natura buona, riescono bene.
La signora parlò ad uno ad uno a tutti i ragazzi e chiese i loro nomi, poi presentò la sua figlia Elvira, che poteva avere l'età di Elisa, ma se ne stava silenziosa accanto alla mamma e non osava parlare.
—È molto timida,—disse la signora Guerini,—ma spero che farà amicizia colle bambine, come già vedo Alberto che fa coi ragazzi….
Infatti Alberto parlava con Carlo che avea interrotta la lezione e con Vittorio, poi osservava gli scarabocchi di Mario e si smascellava dalle risa vedendosi rappresentato sul punto di esser morso da un cane, scappando da una parte mentre Carlo scappava dall'altra.
Il professore s'era unito al crocchio dove c'era la signora Guerini, la quale diceva a Maria che avea appunto udito far i suoi elogi dal professore e da don Vincenzo, e invitava tutti ad una festa campestre, che dovea dare nel suo giardino il giorno dopo.
Maria disse che dopo la morte della mamma faceva una vita molto a sè e tentò di rifiutare, ma la signora Guerini ci mise un po' di insistenza; era una cosa alla buona, proprio campestre, senza etichetta, e aggiunse che avrebbe avuto un immenso dispiacere se non fossero andati tutti a rallegrare la sua casa; si fece promettere da Maria che non sarebbero mancati, poi la pregò di leggere ai suoi figli uno di quei bei racconti che divertivano tanto don Vincenzo e che erano così istruttivi.
—Sono racconti da ragazzi,—disse Maria tutta confusa.
—Ed è per questo che ho piacere che i miei figli li sentano, e la pregherò d'invitarci tutte le volte che ne farà la lettura.
—Sono tutti troppo buoni,—mormorò Maria.
—Sono così belli quei racconti!—entrò a dire Angiolina,—anzi bisogna che ora ne legga uno ogni giorno, perchè voglio sentirli tutti prima di andare a casa.
—Andiamo, ce ne legga uno,—disse la signora Guerini.
—Sì,—soggiunse Angiolina,—almeno il più breve.
—Ebbene, già che lo volete, non mette conto che mi faccia pregare; lo dico volentieri, tanto più che l'eroina è una persona di mia conoscenza.
Era una famigliuola modesta e felice perchè si contentava di poco. Il babbo era operaio meccanico e guadagnava venticinque lire la settimana, la mamma era cucitrice di bianco, e lavorava per vivere con un po' d'agiatezza, e possibilmente far qualche risparmio.
Avevano una figlia che era la loro consolazione e il costante pensiero di tutti e due.
Volevano procurarle quel benessere che avevano invano sognato per loro, e lavoravano con maggior lena e con più coraggio pensando alla cara bambina.
Vivevano a questo modo da parecchi anni; la figlia frequentava la scuola, studiava con amore, ed era fra le prime della sua classe, tanto che i genitori formavano i più bei sogni per quella bimba d'ingegno.
Volevano che potesse studiare e diventar da più di loro, non c'era sacrificio a cui si sarebbero rifiutati per lei, ed essa era tanto buona che meritava tutto il bene che le volevano.
In casa non mancava nulla; il marito consegnava alla moglie tutta la sua settimana e non spendeva un soldo all'osteria; dicendo che se la sera si sentiva voglia di bere un bicchiere di vino, preferiva di berlo in casa, nella sua cameretta tepida e ben illuminata, avendo accanto la moglie e la figlia, che lo rallegrava col raccontargli i fatti e gli avvenimenti della scuola, e colle sue allegre risate.
Qualche volta prendeva la figlia sulle ginocchia, e le raccontava delle storielle, mentre la mamma faceva andare la sua macchina da cucire per terminare un lavoro urgente.
A lei non veniva mai meno il lavoro, essa era precisa, onesta, i principali negozianti la conoscevano, le davano quantità di commissioni, tanto che il lavoro si ammucchiava nella sua stanza, ed essa era lieta pensando al benessere che così poteva procurare alla famiglia.
Ma un giorno l'allegria scomparve da quella casa.
Lavorando in fretta, facendo correre allegramente il pedale della sua macchina, l'ago, senza che si accorgesse, le trapassò una mano, tanto che dal dolore fu sul punto di cadere svenuta.
Era sola in casa, e trovò appena la forza di mettere la mano dentro l'acqua fresca, poi sentendo quietare il dolore fasciò la ferita, e fece uno sforzo per mostrarsi sorridente quando rientrarono il marito e la figlia.
—Che hai, mamma?—chiese la piccina vedendole la mano fasciata.
—Non è nulla, mi sono punta, ma passerà.
Però quel giorno non ebbe voglia di mangiare, e il giorno dopo non potè servirsi della mano che si era tutta gonfiata.
Essa non disse nulla al marito per non affliggerlo; ma la accorava il non poter continuare a lavorare; appunto in quei giorni aveva promesso di terminare dei lavori urgenti che dovevano servire per il corredo d'una sposa.
—Perchè non mangi?—le diceva la bambina.
—Non mi sento troppo bene, è questa mano che mi duole, ma guarirà.
—Va dal dottore,—le disse il marito.
—È inutile, noi non abbiamo tempo d'essere ammalati; questa sera mi metterò un impiastro.
Ma la notte, invece, il male s'aggravò, e le venne la febbre, tanto che la mattina il marito prima d'andare all'officina andò a chiamare il medico.
La bambina, sentendo che la mamma era ammalata, e che doveva venire il medico, non volle andare alla scuola, e pregò una compagna che venisse a dirle la lezione che avevano fatta, così avrebbe potuto studiare restando in casa.
Quando venne il dottore trovò che il male era grave, c'era già un principio di risipola, poi la febbre era abbastanza alta.
Raccomandando alla donna il massimo riposo, ordinò una medicina da prendere ogni due ore, e disse che forse avrebbe dovuto fare un piccolo taglio alla mano, ma in ogni modo per parecchi giorni non c'era da pensare ad alzarsi.
La fanciulla si sentiva venire le lagrime agli occhi, vedendo la sua mamma ammalata più di quello che avrebbe immaginato; ma si fece coraggio e le disse:
—Tu stattene quieta, alla casa penserò io.
—Sì, ma il mio lavoro che il negoziante aspetta e che gli premeva tanto…. Chissà che cosa penserà di me!
—Passerò io, e gli dirò che sei ammalata,—disse la fanciulla.
—Non dirgli nulla, forse domani starò meglio, e se potrò lavorare cercherò di far presto.
Ma il giorno dopo stava peggio, aveva la febbre e vaneggiava.
Padre e figlia s'erano messi d'accordo di star alzati la notte, prima uno, poi l'altro per assistere l'inferma.
La fanciulla, quantunque piccina, pareva una infermiera provetta, scriveva tutte le prescrizioni del dottore per non dimenticar nulla, e le eseguiva a puntino, poi colle sue mani preparava dei brodi succolenti per l'ammalata, e il mangiare per il babbo, a sè pensava poco, non n'aveva tempo, spesso si contentava d'un po' di latte e un po' di pane.
Ma la malattia si prolungava, e la mamma era sempre preoccupata del suo lavoro.
Una sera, mentre l'ammalata riposava, la fanciulla provò ad avviare la macchina e a far andar avanti il lavoro che stava ammucchiato in una cesta.
Vide che le riusciva bene e continuò ad andare innanzi, approfittando dei momenti nei quali la mamma dormiva, perchè quando era desta doveva stare ad assisterla.
La povera donna si crucciava sempre, e diceva al dottore:
—Mi faccia guarir presto, ho bisogno di alzarmi, di lavorare; esserammalati e non guadagnar niente per giunta è una gran pena.
—Stia tranquilla che guarirà presto, specialmente se starà un po'quieta.
Alla figliuola diceva invece:
—Come faremo ad andare avanti se non posso lavorare?
—Mamma, bada a guarire, non pensare a nulla.
Il lavoro andava sempre avanti, e la fanciulla vedendo che le riusciva bene, lavorava, lavorava tutte le notti; si sentiva stanca, le sue palpebre si facevano gravi pel sonno, ma essa lo combatteva facendo un giro per la stanza e dandosi dei pizzicotti, e il lavoro procedeva sempre, finchè un giorno, lo portò tutta contenta al negoziante senza dir nulla alla mamma, e tornò a casa con un gruzzolo di danaro che capitava a proposito, perchè colla malattia avevano quasi consumato tutti i risparmi.
Quando la fanciulla era stanca da non potersi più reggere in piedi incominciò la convalescenza per la mamma: era tempo.
Il dottore prediceva che fra pochi giorni l'inferma avrebbe potuto alzarsi, e intanto la fanciulla poteva dormire di più mentre la mamma non aveva più febbre, la ferita s'andava rimarginando e non c'era bisogno di vegliare la notte.
Il primo pensiero della povera donna quando si sentì meglio, fu di chiedere il suo lavoro.
—È stato consegnato al mercante.
—E chi lo ha terminato?
—Io non so, sarà stata una fata.
La donna guardò in faccia la figlia, poi si ricordò d'averla veduta come in un sogno, nelle sue notti febbrili, tutta intenta a far andare la macchina da cucire e alla sua mente apparve la verità.
—Figlia mia,—disse abbracciandola,—sei stata proprio tu; ma come hai fatto a far questo miracolo?—poi la guardò bene in faccia, e soggiunse:—Povera bimba, si vede; sei tanto pallida, e hai sotto agli occhi quei due cerchi neri; e pensare che non m'ero accorta di nulla! Come si diventa egoisti quando si è ammalati! Ma ora dovrai andar fuori all'aria aperta e divertirti, sarò io che ti curerò.
—Vedrai, mamma, che il saperti guarita mi renderà per la gioia il colore alla faccia; non temere, sto bene e sono tanto contenta.
—È la storia di Angiola,—saltò su Giannina.
Angiolina era tutta confusa, e disse:—È un tradimento, ma la storia non è terminata.
—Raccontaci il seguito,—disse Giannina.
—Ecco,—soggiunse Angela:
«Quella bambina, non meritava d'essere collocata fra le eroine, perchè ognuno al suo posto avrebbe fatto lo stesso; si trattava della sua mamma! ma è stata più fortunata di tante altre. Un giorno è capitata a casa sua una buona fata, la quale l'ha condotta in campagna, in mezzo agli alberi verdi, agli uccelli che la mattina la rallegrano coi loro canti, e nella compagnia di tanti bei bambini, con tanti divertimenti; davvero che quella fanciulla domanda sempre a sè stessa, perchè è stata tanto fortunata.»
Tutti le fecero festa, la signora Guerini la additò come esempio ai suoi figli, poi salutando Maria, disse:
—Sono proprio felice d'esser venuta in mezzo a fanciulli così buoni, vi assicuro che nell'uscire dalla vostra casa ci si sente migliori; vi supplico, non mancate domani alla nostra festa; abbiamo bisogno di buone fate come siete voi, a rivederci; anche voi, professore, ricordatevi.
Maria li accompagnò alla carrozza e stette coi fratelli sulla porta finchè li vide allontanarsi sulla strada maestra.