UNA PASSEGGIATA.

—Un'altra sera, ora sono stanca.

—Brava!—esclamò don Vincenzo.

—È bello davvero,—disse il professore.

—È una storia vera,—disse Maria,—non ho fatto che trascriverla.

—E aggiungervi un po' della vostra grazia e del vostro sentimento,—soggiunse il Damiati.

—È bellissima la sua idea, e spero non mancherà di avvertirmi quando ne leggerà qualche altro.

—Si figuri, ne sono tutta orgogliosa, e non mi sarei mai aspettata che queste storie per i ragazzi, potessero interessare un professore come lei; ma ella è tanto buono!

Poi per cambiar discorso guardò quello che stava scarabocchiando Mario in silenzio.

—È proprio incorreggibile,—disse mostrando al professore i disegni del fratello.

Era una carta che rappresentava un treno dal quale scendevano dei tipi veramente buffi d'inglesi impalati, di forestieri camuffati con mantelli ridicoli; c'erano teste che guardavano fuori dai finestrini coi capelli irti e le facce spaventate, oppure con dei berretti dalle fogge più strane. Davanti a tutti poi, una bimba, con una cappa nera, con una bacchetta in mano, in atto di fermare il treno.

Il professore osservò quei scarabocchi e disse:

—Non c'è male, ha dell'attitudine a cogliere il lato ridicolo delle cose, e una certa facilità di disegnarle.

Poi rivoltosi a Mario, soggiunse:

—Però oltre che cercare di perfezionarti nell'arte del disegno, devi tenerti in mente una cosa: che se è bello qualche volta far spuntare il sorriso sulle labbra, e far risaltare anche il lato umoristico di un fatto o d'una persona, ci sono certi fatti, certe virtù che non si possono mettere in ridicolo, senza mostrare poco criterio o poco cuore. Non bisogna lasciarsi trascinare dalla smania di faro lo spiritoso a qualunque costo; vedi, per esempio, in questo tuo disegno tutti possono ridere al vedere quelle facce spaventate, quelle persone vestite in modo bizzarro, perchè sono persone immaginarie, e possono anche esser ridicole; ma hai avuto un bel camuffare la povera Pierina con quella cappa nera, hai potuto ben farla piccina, tutti quelli che ne conoscono la storia, rispetteranno quella veste, come si rispetta il cappotto del soldato crivellato di palle sul campo di battaglia, e più l'hai fatta piccina, più grande appare il suo eroismo. Impara dunque a distinguere quello che può essere colto impunemente, o anche con vantaggio, da quello che deve esser sacro ad una persona di cuore.

—Come parla bene, professore!—disse Maria.—Vede, tutte queste cose le ho pensate tante volte, ma non sapevo dirle come le ha dette lei: se mi volesse aiutare ad educare questi ragazzi!

—Volentieri,—rispose,—sono a sua disposizione per quello che posso.

Intanto era venuta a don Vincenzo la voglia di fare anche lui la sua predica, e disse che appunto l'arma di satirizzare, adoperata bene, può recare dei vantaggi, e citò il Giusti, che colle sue poesie satiriche, gettando il ridicolo sopra i principotti che opprimevano da tiranni l'Italia, diede loro il colpo di grazia, tanto che col suo spirito fu uno dei principali autori dell'indipendenza del nostro paese.

Damiati, al vedere che don Vincenzo incominciava il suo discorso favorito, e non avrebbe terminato tanto presto, s'alzò dicendo:

—È tardi, un'altra sera io farò la lezione a Carlo, e don Vincenzo vi potrà raccontare tutte le sue avventure del quarant'otto; se domani intanto i ragazzi vogliono venire a fare una passeggiata con me sulla collina, potrò continuar loro la mia predica, se non si annoiano.

Essi accettarono con gioia, e Maria ringraziò con un sorriso il professore che la sollevava un po' dal pensiero di quei ragazzi vivaci.

Mario stava ancora disegnando.

Il professore gli disse salutandolo:

—Ti raccomando, se fai la mia caricatura, non farmi troppo brutto; però te lo permetto, ma certe cose, no.

Quando fu uscito assieme a don Vincenzo i ragazzi si misero a ridere forte.

Il professore doveva essere un mago, aveva proprio indovinato: Mario faceva il ritratto del Damiati in piedi su un pulpito, in atto di predicare.

Il professore Damiati, la mattina dopo, mentre un bel sole di autunno indorava la cima delle colline e le goccie di rugiada tremolavano sull'erba dei prati, chiamò, passando da casa Morandi, i ragazzi per condurli a passeggiare sulla collina. Voleva indurre a seguirli anche Maria colle fanciulle, ma ella si scusò dicendo di dover accudire ad alcune faccende domestiche e promise di andare ad incontrarli più tardi, verso l'ora del tramonto.

Il professore aveva intenzione di condurre i ragazzi ad un Santuario che si vedeva biancheggiare sulla cima d'una collina in mezzo alle piante verdi, dove un tempo c'era un chiostro. Di lassù si godeva una bella vista e nei mesi d'autunno era il pellegrinaggio favorito delle comitive di villeggianti; vi andavano a far colazione, per passare tutta la giornata all'ombra delle piante e visitare nel medesimo tempo il Santuario.

Si avviarono, allegri, col paniere pieno di viveri in mano, e Vittorio si offerse di portare anche quello del professore. Mario aveva, oltre al paniere, l'album, che portava sempre con sè per disegnare gli avvenimenti della giornata.

Damiati cercò di star vicino a Carlo e incominciò subito ad interrogarlo dei suoi studii e volle sapere perchè non cercasse di essere più attento alla scuola e di contentare la sorella.

Gli rispose quello che diceva sempre:

—Non sono nato per studiare, voglio fare il soldato.

—E credi che i soldati non abbiano bisogno di studiare? Naturalmente tu non ti contenteresti di esser soldato semplice.

—Il mio sogno è di diventar generale, vorrei fare come Garibaldi.

—Probabilmente se tu avessi il coraggio e l'abilità di Garibaldi, ti mancherebbe l'occasione per metterli alla prova e per farli conoscere. Non capisci che ora i tempi sono cambiati, e colle armi perfezionate anche le battaglie si vincono al tavolino e la guerra è diventata una scienza? Poi le guerre di conquista non sono più conformi alla nostra civiltà, e l'Italia libera e indipendente non ha più gran bisogno che i suoi figli le consacrino il loro coraggio e il loro sangue, bensì le occorrono ingegni educati a forti studii, che la facciano ricca e potente.

—Se non potrò fare il soldato, diventerò marinaio,—disse Carlo.

—E avresti poi la forza di sopportare una vita dura e piena di pericoli? Non sai quanti ragazzi attratti dalla poesia del mare, dopo aver provato quella vita di privazioni e di paure, vi hanno rinuncialo spossati e spoetizzati. Prima di esporsi alle grandi fatiche, bisogna aver coraggio di affrontare le piccole, prima di essere grandi, bisogna esser piccoli eroi, come dice bene tua sorella; perciò, se vuoi darmi retta, incomincerai a vincere la tua pigrizia ed a metterti a studiare sul serio; quando avrai superate le difficoltà che ti si presentano, quando avrai fatto degli sforzi per fare non quello che ti piace, ma quello che è tuo dovere, sarai già incamminato a diventare qualche cosa e forse anche un eroe se te ne capita l'occasione; ma dà ascolto a me, principia col riportare qualche piccola vittoria sopra te stesso, le altre verranno da sè.

Lo lasciò poi andare dicendo che non voleva annoiare tutta la compagnia a furia di prediche e incominciò ad ammirare il paesaggio, a cogliere dei fiori lungo il sentiero della collina, e fu una gara fra quei ragazzi per arrampicarsi sui declivi onde scoprire i ciclamini che si vedevano spuntare in mezzo al verde. Quel sentiero girava intorno al monte, incurvandosi e salendo sempre, mentre da un lato c'era la valle profonda che in certi punti faceva l'effetto d'un baratro.

Il professore raccomandò ai ragazzi di tenersi dalla parte del monte, perchè dall'altra, c'era pericolo di cadere nel vuoto. Proseguivano il loro cammino, arrampicandosi e cogliendo fiori, quando tutt'a un tratto, ad una svolta della strada, videro avanzarsi verso di loro una mandria di buoi, che occupava tutto il sentiero e sbarrava la via. I ragazzi si fermarono esitanti.

—Avanti, Carlo—disse il professore,—tu che vuoi fare il soldato dovresti essere il più coraggioso, passa per il primo in mezzo a quei buoi.

—Non c'è posto—disse tutto tremante il ragazzo.

—Avvicinati! coraggio!

Carlo s'arrampicò sul monte per evitare quegli animali, ma lo fece così in fretta e con tanta paura che un vitello ch'era sul pendio lo rincorse, ed egli gridando, tutto pauroso, rifece i suoi passi e si nascose dietro il professore.

Tutti si misero a ridere e il professore disse a Vittorio:

—Prova tu, vediamo se hai più coraggio.

Vittorio si fece innanzi ubbidiente e passò in mezzo a quelle bestie come se nulla fosse, seguito dagli altri, che dopo il suo esempio non vollero esser da meno di lui.

—Vedete,—disse Damiati,—che non c'è da temere, quelle sono le bestie più docili che ci siano, basta non spaventarle. Osservate, le conduce un ragazzo.

Infatti il mandriano era un ragazzo di forse quindici anni.

—Io non ho mai capito come bestie così grosse,—disse Mario,—si lascino condurre da un ragazzo così piccolo; io al loro posto scapperei.

—Sì, ma ai loro occhioni, come si suol dire, un ragazzo è un gigante, e poi non conoscono la forza che possiedono e non si ribellano che quando sono infuriati—disse il professore;—vi assicuro che le bestie sono buone, basta non molestarle.

—Sì, ma i leoni?

—Se hanno fame s'ingegnano come possono e se incontrano per istrada una buona preda l'ammazzano; io invece conosco dei ragazzi che tormentano, inutilmente, delle povere bestioline che non fanno nulla di male. Chi è più crudele?

Mario aperse la mano tutto confuso e lasciò fuggire una farfalla che ci teneva chiusa.

—L'avevo presa per copiarla,—disse;—del resto sono bestie stupide che non sentono nulla.

—Speriamo sia così, in ogni modo questi animali hanno la vita di un giorno e non bisogna esagerare nemmeno nella compassione; anche gli scienziati li tormentano, ma con uno scopo utile, solo non mi piace che si faccia per crudeltà.

Intanto s'avvicinarono alla meta. In mezzo alle piante secolari si vedeva sorgere una chiesetta circondata da cappelle, poi, accanto, una casa e un cortile con un gran porticato che pareva un convento.

—Ci sono i frati?—chiese Vittorio.

—No,—rispose Damiati,—c'è soltanto un custode che si fa chiamare col nome di eremita, ed è infatti un eremita dei nostri tempi.

—Che gioia!—disse Mario;—sono proprio contento di far conoscenza con un eremita.

—È un uomo come gli altri.

—Come! io che me lo figuravo con una tonaca e una barba lunga; allora non c'è nessuna novità.

—Un vero eremita dovrebbe essere quasi un selvaggio, una persona che vive soltanto colla natura e mangia solo i frutti della terra; ora è cambiato anche questo, ci sono degli uomini che vivono solitari, ma a patto di scendere ogni tanto al villaggio quando sono stanchi della solitudine, e forse stanno soli perchè sono d'un carattere così bisbetico che non vanno d'accordo col loro simili,—disse Damiati;—ma ecco l'eremita.

Infatti un uomo veniva incontro a loro e chiedeva se volessero vedere la chiesa.

I ragazzi lo guardavano con curiosità e gli chiesero se non s'annoiasse di star sempre lassù solo. Egli disse che non aveva bisogno di nessuno; gli domandarono la sua età e la ragione per cui si fosse ritirato in quella solitudine, ma non volle dir nulla, e visto ch'essi avevano levato le provviste dai loro involti, s'offerse di portare dei sedili e dei piatti perchè potessero mangiare comodamente all'ombra delle piante.

Prima di tutto si misero a mangiare, perchè l'aria fresca della mattina aveva aguzzato il loro appetito, e divoravano la carne, le uova sode e le altre provviste che avevano recato, come se fossero bestie affamate.

—Bisogna lasciar qualche cosa per l'eremita,—disse Mario.

—Ma io ho fame,—rispose Carlo.

—Non ci pensate,—disse Damiati,—al caso gli lasceremo qualche moneta;—poi fece loro ammirare il bellissimo paesaggio che si vedeva da quel posto: di faccia una fila di colline verdeggianti intersecato da strade che formavano delle righe bianche, poi giù una valle sparsa di paeselli con un torrente che scendendo dallo montagne l'attraversava e sul quale stavano in certi punti sospesi dei ponticelli pittoreschi.

—Bello!—diceva Mario,—come mi piacerebbe dipingere questo quadro, ma quando sarò più grande lo farò. Senta, professore, dica al babbo ed a Maria che mi facciano studiare la pittura.

—Se avrai una vera inclinazione, lo faranno certo, ma intanto devi cercare da te stesso di esercitare l'occhio a cogliere il vero; prova a ritrarre quel paesaggio e ne vedrai la difficoltà. Si fa presto a dire voglio essere un artista, o voglio essere un eroe, come dice tuo fratello, anzi a questo mondo tutti vorrebbero essere qualche gran cosa, tutti hanno grandi aspirazioni, ma pochissimi riescono ad uscire dalla mediocrità. Sentite, ragazzi, ora siete giovani e dovete pensare a faticare e a lavorare molto, e forse dopo potrete avere il premio che sperate.

Mario s'era posto a disegnare colla matita in mano e l'album aperto, ma dopo due o tre tentativi inutili per copiare il paesaggio si contentò di fare la caricatura di Carlo che fuggiva inseguito da un vitello perdendo lungo la via il paniere della colazione, e disse:

—È inutile, io non sarò altro che un pittore caricaturista.

—Chi sa che cosa diverrai!—disse Damiati.—È troppo presto per saperlo, intanto pensa a studiare.

Visitarono la chiesa e poi scesero saltellanti dalla collina, contenti della loro passeggiata. Ai piedi del monte trovarono Maria, Elisa, Angiolina e Giannina e tutti assieme s'avviarono verso casa narrandosi gl'incidenti della giornata.

Ad un certo punto videro un gruppo di ragazze guardare attentamente per terra; Elisa, che era molto curiosa, si avvicinò a quel gruppo composto della signorina Guerini, l'istitutrice, e di una loro amica, ma appena si accostò, le altre se n'andarono senza salutarla, ed essa si trovò davanti ad una biscia morta che faceva ribrezzo. Corse subito a raggiungere la sorella, dicendo tutta imbronciata:

—Hai visto la signorina Guerini? che superbia!

—Perchè? S'è fermata un momento, ma non metteva conto che si fermasse di più per quella bella vista.

—È stato per non salutarci; domanda anche a Carlo come questa mattina sono passati davanti a noi in carrozza senza nemmeno degnarsi di guardarci.

—Non vi conoscono e non si saranno accorti di voi, che non siete poi dei personaggi illustri.

—Ma Alberto è stato alla scuola elementare con me?—disse Carlo.

—Non se ne ricorderà; ma perchè volete occuparvi degli altri?Pensiamo a godere piuttosto della nostra passeggiata.

Ma Elisa che sperava di far amicizia colla signorina Guerini era imbronciata, Giannina ed Angiola correvano avanti per fermarsi a coglier fiori e Mario raccontava a Vittorio che voleva fare la caricatura di Alberto Guerini quando passa tutto superbo sul suo velocipede, senza degnarsi di guardare i miseri mortali che camminano lungo la via.

—Vedi,—diceva,—voglio disegnarlo in tre tempi: prima nell'atto che passa superbo lungo la strada, poi quando scende impetuosamente da un declivio, e finalmente nel punto che cade in un fosso colle gambe all'aria e il cappello un miglio distante.

Maria parlava invece col professore Damiati domandandogli consigli sul modo d'educare i ragazzi, sempre preoccupata dal pensiero dei cinque figliuoli, e quando la salutò sull'uscio di casa essa gli raccomandò di venire spesso la sera a trovarli insieme a don Vincenzo.

—La loro conversazione sarà tanto utile ai miei figliuoli,—disseMaria;—mi raccomando, non mi abbandonino.

A don Vincenzo pareva di ringiovanire quando andava a passar la sera in casa Morandi. Perciò vi andava spesso e volentieri, accompagnato dal professore, che ammirava la dolcezza e l'abnegazione di Maria la quale si dedicava così giovane al benessere della famiglia e all'educazione dei suoi fratelli. Egli era tutto felice di esserle utile e s'era fitto in capo di far amare lo studio a Carlo; lo trovava un po' pigro e svogliato, ma sperava, aiutandolo nelle difficoltà, stuzzicando il suo amor proprio, di riuscire a renderlo più docile ed a fare che dedicasse qualche ora della giornata allo studio.

Gli parlava più da amico che da professore, ed il ragazzo si rassegnava a studiare con lui, in grazia delle storielle piacevoli e degli aneddoti curiosi che gli raccontava e delle passeggiate che sapeva organizzare per divertirlo quando rimaneva contento dei suoi cómpiti.

Però la sua idea fissa erano i fatti eroici, i lunghi viaggi, la vita avventurosa, e diceva sempre:

—Io studio per non vedervi imbronciati, ma se capita l'occasione, scappo e mi faccio soldato, marinaro o esploratore.

Quando don Vincenzo parlava del quarant'otto, Carlo pregava Damiati di sospendere la lezione e s'avvicinava con tanto d'orecchi alla tavola, dove le ragazze lavoravano, e il prete ricominciava per la centesima volta i suoi racconti, ma sempre animandosi, gesticolando in modo che pareva avessero la virtù di levargli una ventina d'anni dalle spalle.

«Ora si muore, si vegeta,—egli diceva,—quelli erano tempi in cui si viveva, ogni giorno c'era qualche novità, qualche avvenimento che ci faceva battere il cuore, e s'era tutti uniti in un solo pensiero come se attraverso tutte le nostre teste passasse una medesima corrente elettrica.

«Io, in quel tempo, ero a Milano al seminario a studiare, ma anche là dentro, fra quelle quattro mura, in mezzo ai nostri studi, penetravano le idee che correvano per la città, si sapeva tutto quello che accadeva, eppure non vi saprei dire in che modo quelle notizie giungessero fino a noi.

«Voi, nati in questi tempi, non sapete che cosa voglia dire non esser padroni in casa propria, essere tenuti schiavi, spiati e magari posti in prigione e condannati per una parola sfuggita involontariamente, per un'occhiata mal interpretata; pensate che un mio fratello il quale aveva dato senza accorgersi uno spintone ad un ufficiale austriaco, fu posto agli arresti e mancò poco che fosse fucilato.

«Ve la immaginate voi la nostra vita agitata? Eppure era così bella, si congiurava nascostamente, s'era pieni di speranze nell'avvenire, e ci si consolava delle continue sofferenze nel vederci tutti uniti nelle nostre aspirazioni e nei nostri desiderii.

«Noi si studiava, ma la nostra mente faceva mille progetti per concorrere a liberare il nostro paese, ognuno di noi sognava d'essere un eroe e di riuscire in qualche impresa ardita da far tremare quelli che ci opprimevano; fra una lezione di latino e di teologia si scrivevano dei versi nei quali s'invocava l'angelo sterminatore che sperdesse i nostri nemici. Quando poi si seppe che Pio IX, il nostro pontefice, favoriva la libertà, allora furono inni al Santo Padre, preghiere che ci aiutasse, e lo adoravamo in ginocchio come si adorano i Santi e la Madonna. Vi assicuro che vivevamo in un'agitazione febbrile, ognuno di noi era una specie di bomba pronta a scoppiare alla prima scintilla, e quando si seppe che fuori c'era la rivoluzione, che si facevano le barricate, allora nessuno seppe star tranquillo, si fece anche noi la nostra piccola rivoluzione interna, e si volle prendere parte agli avvenimenti.

«Mi par ancora ieri, e sì che ne sono passati dei begli anni; quando ci si mise a fabbricare le barricate, si pareva matti, si entrava nelle case a prendere lo mobiglie che potevano servirci, si spogliavano gli appartamenti, si smantellavano le fabbriche per adoperare i materiali onde sbarrare le vie, ci si cambiava in facchini, manovali, e poi si finiva col diventare non soldati, ma leoni per difendere le barricate che avevamo innalzate con tanta fatica, e là, dietro a quei ripari, fabbricati dalle nostro mani, vi dico io che ne ho vedute di scene commoventi, vi assicuro che se vivessi cent'anni, il ricordo di quei tempi basterebbe per riempirmi la mente e tenermi compagnia.

«In quei giorni tutta la popolazione era nelle strade, le donne scappavano in casa qualche ora per prepararci da mangiare, e poi venivano a recarcelo colle loro mani.

«Mi pare di vedere ancora una bella giovane di venti anni venir tutti i giorni con un canestro pieno di viveri, che distribuiva indistintamente a poveri e ricchi, amici e sconosciuti, a tutti quelli che erano là instancabili, oppure accasciati dalle ferite e dalla fatica a combattere; ci appariva come una fata benefica, quando un giorno, mentre faceva la distribuzione dei viveri, scoppiò una bomba accanto a lei e rimase ferita orribilmente: fu un urlo d'indignazione in tutti noi e ci si mise a combattere con maggiore energia per vendicarla.

«Mi ricordo d'un bambino che s'arrampicava come uno scoiattolo sulle barricate, e munito dei sassi che avea tolti dal selciato della via li lanciava con forza sopra quelli che osavano avvicinarsi; di tratto in tratto veniva la madre a strapparlo da quel posto pericoloso.

«—Sei matto,—gli diceva,—ad esporti così?

«Ma egli ritornava sempre al suo posto elevato; e quando una palla gli trapassò un braccio, egli disse:

«—Non è nulla, fasciatemelo presto che ritorni al mio posto, per fortuna ho ancora un braccio buono.

«Non ci fu verso, volle ritornare ma cadde svenuto, e dovettero trascinarlo via per forza.»

—Come mi sarebbe piaciuto vivere in quel tempo!—disseCarlo;—allora, sì, avrei potuto diventare un eroe.

—Eravamo tutti eroi,—soggiunse don Vincenzo,—però non si poteva fare altrimenti, non era permesso di tremare nè di aver paura. Mi ricordo un signore che trovò il figlio nascosto dietro una porta, e trascinandolo fuori per un braccio gli disse:—Almeno muoviti e fa il galoppino da una barricata all'altra, e se vengo a sapere che non hai fatto il tuo dovere, non ti riconosco più per figlio.

Quando don Vincenzo s'infervorava in quei discorsi, anche il signorMorandi, di consueto silenzioso, si animava e parlava di quei tempiquando anch'egli si era trovato in mezzo alla rivoluzione e bloccato aVenezia.

Come avea sofferto in quel tempo! Anzi, quelle sofferenze gli avevano lasciato un'ombra di tristezza che non si sarebbe cancellata mai più.

—Pensi, don Vincenzo,—disse una volta,—a Milano la rivoluzione è durata cinque giorni, ed è quasi stata una festa, ma io che mi son trovato a Venezia, ed ho sofferto la fame per un anno!… E ai figli disse: Se sapeste che cosa voglia dire soffrire la fame, come sareste contenti della vita che fate, come godreste la vostra agiatezza e la vostra tranquillità!

—E perchè non ci racconti nulla, babbo?—chiesero i ragazzi.

—Quel tempo mi ricorda cose troppo tristi,—rispose il signor Morandi;—mio fratello è morto a Marghera, mia madre morì di dolore, non posso evocare quei giorni senza che mi si spezzi il cuore; la libertà mi è costata troppo cara.

—Come saranno stati belli i primi tempi di libertà, dopo tante lotte e tanti sagrifizi!—disse Maria.

«—Si dovette attendere ancora dieci anni, ma quei primi giorni furono deliziosi,—disse don Vincenzo,—fu una gioia da non poter comprendere se non si è provata. Si pareva pazzi, per le vie ci si abbracciava tutti, amici e sconosciuti, si saltava dalla contentezza, si parlava dalle finestre, poveri, ricchi, tutti amici, tutti uniti, come si fosse una sola famiglia; quando entrarono i nostri soldati fu una frenesia: una pioggia di fiori li coperse, un grido d'entusiasmo uscì da tutto le bocche, tutti volevano vederli da vicino, i ragazzi andavano in mezzo alla truppa, fra le zampe dei cavalli, si voleva ammirarli, abbracciarli, i nostri fratelli, i nostri soldati che avevamo tanto desiderato. Quando poi entrarono i bersaglieri correndo, seguendo il ritmo della loro allegra fanfara, lesti, colle penne dei cappelli agitate dal vento che correndo per le vie come se volassero, parevano un gaio stormo d'uccelli che venisse a portarci la primavera, la pace, l'allegria, allora l'entusiasmo fu al punto culminante. So che tutti ridevamo, piangevamo, eravamo pazzi; in quel delirio di gioia avevo la febbre; so che dovetti andarmene a casa affranto, non potei dormire, tanto ero agitato, e se chiudevo gli occhi mi vedevo una danza di bandiere a tre colori, di soldati e di cappelli da bersagliere.

«E la gioia maggiore fu di vedere il nostro re Vittorio Emanuele entrare a Milano col suo aspetto marziale, la sua faccia aperta e buona. Sono stati momenti quelli che non si dimenticano, e vedete, io non invidio la vostra gioventù baldanzosa, piena di speranza nell'avvenire, perchè sono contento d'esser vissuto in quei giorni in cui eravamo tutti fratelli, e come si era stati compagni nelle lotte e nelle privazioni si ritornava ad esserlo nella gioia comune.

«Però passato quel tempo d'entusiasmo la vita m'apparve monotona. Pio IX non era più quello di prima, dovevano avergli cambiata la testa; noi, preti, in città, non avevamo più tante simpatie, e il mondo mi parve così brutto che volli venire in campagna, dove lo spettacolo della natura è sempre grandioso ed attraente.

«Qui ho trovato delle gioie tranquille e non mi pento della mia risoluzione, ho degli amici che mi vogliono bene, ho i miei fiori, gli uccelli che ritornano ogni anno a fare i nidi sotto al mio stesso tetto. Quando poi avevo vostro zio che era stato un mio compagno del quarant'otto e non si stancava mai di ricordare quel tempo, io non desideravo nulla di più, e proprio bisogna dire che il Signore mi vuol bene; dopo che m'ha dato il dispiacere di togliermi quel buon amico, ecco che siete venuti voi ed io posso ritornare in questa casa, che mi ricorda tante cose, e vi vedrò ritornare tutti gli anni come gli uccelli dei miei nidi; crescere, poi magari prendere il volo, finchè un giorno o l'altro lo prenderò io il volo. Intanto, l'avervi conosciuto sarà una consolazione dei miei ultimi anni, e poi sono certo che resterà qualcuno a ricordare il vecchio curato, non è vero?

—Ora deve star qui tanti anni con noi, non dobbiamo pensare a malinconie,—dissero in coro i ragazzi.

—Anzi,—soggiunse il Damiati che avea terminato di ripassare il compito di Carlo,—la signorina Maria dovrebbe raccontarci le avventure d'un altro piccolo eroe.

—Questa sera, no,—disse Maria,—una bella figura farebbero i miei eroi dopo i discorsi del quarant'otto! Se volete v'invito per domani sera.

—Bene, bene, domani sera è impegnata,—disse il professore.

E si contentarono di far ancora un po' di chiacchiere finchè Mario terminava una vignetta dove pretendeva d'aver rappresentato la rivoluzione del quarant'otto con bombe, barricate e una tal confusione nella quale non si poteva raccapezzare nulla, tanto che anche il futuro artista dovette concludere che i quadri storici non erano il suo forte.

Angiolina era andata a prendere il manoscritto e l'avea posto davanti a Maria, mentre tutti gli altri stavano intorno alla tavola attenti ad ascoltarla.

—Quest'oggi—disse Maria—è una storia molto semplice, e forse dopo i fatti eroici di ieri sera non riuscirà ad interessarvi; procurerò di esser breve.—E preso il manoscritto incominciò:

Siamo in un tugurio sopra una montagna; intorno, delle praterie, verdi l'estate, e l'inverno coperte di neve, delle cime aguzze di monti con boschi di abeti neri e di tratto in tratto qualche capanna, qualche casolare, in mezzo a quella solitudine

In una camera povera, affumicata e quasi spoglia, se ne sta rannicchiata accanto al fuoco una donna dall'aspetto macilento e tremante dal freddo.

Un ragazzo entra portando un fascio di legna.

—Ecco, mamma, della legna per riscaldarci.

—Se bastasse!—disse la Maddalena con un sospiro,—ma bisogna mangiare,

—Abbiamo ancora della farina,—rispose il ragazzo che si chiamava Antonio,—poi Francesco m'ha lasciato i suoi quattrini prima di partire.

La donna diede in un sospiro più forte sentendo nominare l'altro figliuolo e disse:

—Se almeno me lo avessero lasciato, non si correrebbe il pericolo di morire di fame, oppure se mi sentissi bene, qualche cosa potrei fare, ma invece me lo mandano soldato ora che avevo più bisogno di lui.

—Ci sono io,—disse Antonio.

—Che cosa vuoi fare tu che sei ancora bambino?

—Ho dodici anni e sono forte, cercherò del lavoro e l'ho promessoanche a Francesco.

—A proposito, che cosa ti ha detto prima di partire?—chiese ladonna.

—Nulla! che cercassi del lavoro, anzi scendo al villaggio per vederese trovo da fare qualche cosa.

Così dicendo uscì, e mentre scendeva la montagna erta e sdrucciolevole per la neve caduta, andava pensando a quello che gli avea detto appunto Francesco prima di partire pel reggimento.

Egli era vissuto fino a quel giorno senza crucci, andando alla scuola, e i giorni di vacanza giocando cogli amici. Avea spesso fatto qualche piccolo servizio al fratello o alla mamma, e all'ora consueta trovava in casa un boccone da mangiare, che, per quanto fosse semplice, gli facea l'effetto di un cibo squisito, ed era vissuto tranquillo e felice come un uccellino.

Ma quella mattina, dopo il discorso fattogli dal fratello, si sentiva trasformato, i suoi pensieri non erano più tanto allegri e gli pareva d'esser già un uomo col peso d'una grande responsabilità.

—Senti,—gli avea detto Francesco,—se non mi chiamavano soldato, non t'avrei parlato di nulla, e non avrei turbato con delle inquietudini la tua età spensierata, ma parto, e devo dirti tutto quello che mi pesa sul cuore da tanto tempo. Tu ora così piccino devi aver molto giudizio e fare il capo di famiglia.

—E la mamma?—avea detto Antonio.

—Povera mamma! Non sai che è molto ammalata? il dottore dice che ha mal di cuore e non deve aver pensieri nè inquietudini, ha bisogno di mangiar bene e di non faticare; insomma, bisognerebbe essere ricchi, oppure ch'io potessi pensare per tutti, invece ora a lei devi pensarci tu, finchè sono via; ti raccomando, sai, bada che quella povera donna non soffra, fa tutto il possibile, magari chiedi l'elemosina, ma procura che non le manchi un po' di pane; io, sta tranquillo, cercherò di mandarti qualche soldo, ma che cosa può fare un povero soldato!

Antonio pensava a questo discorso e a Francesco che nel farglielo avea le lagrime agli occhi, e rammentava come l'avea preso fra le braccia stringendolo stretto contro la sua faccia, quando gli promise di lavorare e guadagnare il pane per sè e per la mamma ammalata.

Ma ora in quella strada deserta, intirizzito dal freddo, vedeva che era più difficile di quello che avesse immaginato.

Se fosse la buona stagione, pensava, potrei offrirmi a qualche mandriano per pascolare le bestie, ma siamo d'inverno…. Vedremo, giù al villaggio può darsi che trovi qualche occupazione.

Egli nella sua mente vagheggiava i tempi delle fate, quando bastava esser buoni e ubbidienti, per veder subito qualche fata accorrere ad aiutarci; egli sarebbe stato tale per meritare la protezione di una buona fata, e si guardava intorno se ci fosse qualche animaluccio da salvare, qualcuno da soccorrere, come se fossero ancora quei bei tempi; ma non c'era anima viva, e soltanto udiva il rumore del vento che usciva dalle gole dei monti e scuoteva le cime degli abeti.

Quando vide le prime case del villaggio il suo cuore si aperse alla speranza; in quelle case abitava della gente, e forse qualcuno si sarebbe mosso a pietà di lui.

Camminando adagio per quelle vie deserte, vide aprirsi una porta eduna donna uscire con un paiuolo in mano, per ripulirlo.

Si avvicinò a lei e si fece coraggio di chiederle se avesse qualcheoccupazione da dargli.

—Posso far di tutto,—disse,—ripulire e lavare la casa, aver curadelle bestie, far delle commissioni.

—Sei matto,—disse la donna;—coi tempi che corrono, non c'èabbastanza da lavorare nemmeno per noi.

Egli proseguì il suo cammino con un sospiro.

Vicino alla chiesa, vide un uomo piuttosto ben vestito che venivaincontro a lui.

Egli si fece avanti, e pensando alla mamma ammalata, a quello che gliaveva detto il fratello, stese la mano per chiedere l'elemosina.

—Non ti vergogni?—gli disse quell'uomo,—alla tua età chiederel'elemosina! va a lavorare, piccolo vagabondo.

Non chiedeva di meglio che procurarsi del lavoro, avrebbe voluto dirglielo, ma sentì come un gruppo alla gola che gli tolse il respiro e corse via senza dir nulla, vergognandosi.

Cominciava ad essere scoraggiato e pensava se non fosse meglio per quel giorno ritornare a casa, quando udì il rumore della diligenza che arrivava, e non si mosse, nella speranza che quelli che venivano di lontano fossero più pietosi.

La diligenza si fermò davanti all'osteria della Posta, ed egli corse subito per togliere ai viaggiatori le sacche, gl'involti che avevano in mano, e per aiutare a scaricare i bauli. Ma l'oste che al rumore della diligenza era uscito, diede uno scappellotto ad Antonio dicendogli:

—Levati dai piedi, non abbiamo bisogno del tuo aiuto.

Il povero ragazzo non potè più resistere e diede in uno scoppio di pianto.

La figlia dell'oste, uscita anch'essa all'arrivo dei viaggiatori, ebbe compassione di quel ragazzo e si avvicinò domandandogli che cosa avesse.

—Volevo guadagnarmi qualche soldo aiutando a scaricare i bauli; ho tanto bisogno di trovar lavoro, colla mamma ammalata e mio fratello soldato, ma sono troppo disgraziato, dovrò tornare a casa a mani vuote.

La fanciulla fu commossa dalle parole di quel ragazzo che le pareva sincero, e pensò di aiutarlo.

—Vieni,—disse,—ti darò un po' di brodo per riscaldarti.

—Per me non importa, ma è per la mia mamma che voglio guadagnare qualche cosa.

—Povero ragazzo!—pensò la fanciulla. Poi si rivolse a lui dicendogli:—Posso fidarmi di te? sei forte per portare un pacco sulla montagna nella cascina chiamata Colombara?

—Se sono forte! Lo credo io! Mi dia questo pacco.

—Ma potrai farlo? Non lo lascerai cadere lungo la via?

—No, stia sicura; glie lo giuro!—disse mettendosi la manina sul petto.

—Bada che è pesante.

—Sono forte.

—Ecco,—disse la ragazza consegnandogli un involto alquanto voluminoso;—vedi, è inutile, è più grande di te.

—Non abbia timore,—disse Antonio. Prese un pezzo di legno che trovò in terra, si fece dare una corda e vi attaccò il pacco solidamente e se lo mise dietro le spalle.—Mi pare una piuma,—soggiunse,—domani ritornerò a vedere se ha altri pacchi da consegnarmi.

—Bada di portarlo direttamente alla Colombara, ti daranno venticinque centesimi per la tua fatica; buon viaggio, procura di non sdrucciolare.

—A rivederci domani,—disse Antonio tutto contento e saltellando sulla strada fangosa, come se andasse ad una festa.

Il pacco era pesante, la salita faticosa, ma egli non sentiva nulla, nella sua felicità di poter fare qualche cosa ed essere utile alla mamma; pensava ch'egli aveva trovato una buona fata, e ormai l'ostessa l'avrebbe protetto. Aveva una faccia così buona quella ragazza che si teneva sicuro che non l'abbandonerebbe più, e saliva saliva la montagna con quei pensieri allegri, non sentendo nè il freddo, nè il disagio del cammino; eppure ci voleva circa un'ora per giungere a destinazione, e quando la montagna si faceva più erta egli sentiva il pacco farsi più pesante, ma era pieno di coraggio e andava avanti finchè giunse alla cascina, tutto sudato.

Gli venne incontro una ragazza e gli chiese se avesse una lettera perlei.

—Non m'hanno consegnato che questo pacco, ma domani ritorno in paesee domanderò se vi sono lettere per voi,—disse Antonio.

—Ricordati,—le disse la fanciulla,—per ogni lettera che mi porterai ti darò un soldo, prendi intanto.—-E gli diede i cinque soldi per il pacco ed un bicchiere di vino per giunta.

Antonio discese la montagna canterellando, egli aveva un progetto concui sperava di mantenere la sua mamma, e gli pareva già d'esser ricco.

Giunse a casa allegro portando una bottiglia di latte e un po' dipane, comperato lungo la via.

Trovò la mamma inquieta della sua lunga assenza.

—Bisognerà bene che tu mi lasci andare se vuoi che guadagni da vivere; non sono più un bimbo io, e non c'è pericolo che mi perda.

Essa si mostrò contenta del figliuolo, ma pensava sempre al suo Francesco che era lontano, e tutte le volte che Antonio ritornava dal villaggio, gli chiedeva ansiosa se avesse ricevuto lettera dal fratello.

In pochi giorni Antonio era diventato il corriere della montagna. Aveva tanto pregato Rosa, la figlia dell'oste (ch'egli si ostinava a riguardare come la sua buona fata), che affidasse a lui tutti i pacchi e la corrispondenza della montagna, che malgrado la sua giovinezza glielo aveva accordato. Sempre però gli diceva:

—Bada che non sia troppa fatica e troppa responsabilità per un ragazzo come te; se perdessi una lettera, guai! non ti darei più nulla e dovresti pagare la multa.

Ma Antonio la rassicurava, e la supplicava di lasciare a lui quell'incarico, affinchè potesse guadagnare qualche soldo, per poter comperare il pane alla sua mamma.

E così, ogni mattina, scendeva al villaggio, ed era tutto felice quando la diligenza portava tanti pacchi e tante lettere per gli abitanti della montagna, e bisognava vedere come si caricava, tanto che qualche volta la sua personcina scompariva sotto quella massa di roba; ma più ne aveva, più era contento, e girava la montagna per delle ore, finchè avesse tutto consegnato all'indirizzo preciso.

Il ragazzo era ormai un amico per gli abitanti di quei casolari, che gli venivano incontro col sorriso sulle labbra, in attesa di notizie dei parenti lontani.

La ragazza che abitava alla Colombara stava ad attenderlo sempre sull'uscio, nella speranza che le portasse qualche lettera del suo promesso sposo, ch'era soldato; essa lo faceva sempre entrare a riscaldarsi, e non mancava mai di dargli un bicchiere di vino o una ciotola di latte; gli faceva anche delle confidenze e gli raccontava quello che Enrico le scriveva, quando egli le portava una lettera.

E Antonio le parlava di Francesco che era soldato anche lui, e le raccontava che aveva voluto andare a Massaua in un paese lontano lontano, dove si moriva dal caldo, ma per guadagnare di più; e ciò gli dava pensiero perchè le lettere tardavano a venire, e per non vedere inquieta la mamma dovea dirle che aveva avuto notizie, anche se non ne sapeva nulla.

—Dille che Enrico mi scrive che sta bene,—gli diceva la ragazza,—-sono soldati tutti e due, ed è naturale che essendo dell'istesso paese, si possano conoscere.

E così Antonio diceva sempre alla mamma che Francesco stava bene;l'avea saputo alla Colombara.

C'erano giorni che in paese non arrivava nulla e Antonio doveatornarsene a casa tutto avvilito d'aver perduta la sua giornata.

Ci fu un periodo di tempo che nevicava forte, e andar per quellemontagne era difficile e pericoloso.

La Rosa lo consigliava di aspettare che il tempo si facesse migliore; ma egli non le dava retta, e quando c'era qualche cosa da portare, voleva andare lo stesso, a costo di arrivare a casa sfinito e assiderato.

Dalle notizie che raccoglieva da quelli che avevano i parenti lontani, avea saputo che in Africa c'era stato un combattimento con morti e feriti, ed egli era in pensiero pel fratello che da tanto tempo non mandava notizie; anche la mamma era inquieta e per calmarla le diceva che Francesco faceva sapere col mezzo d'Enrico che stava bene e li salutava.

Però quella vita cominciava ad esser troppo faticosa per lui, e quel dover tenere tutto chiuso in sè stesso, gli opprimeva il cuore, s'aggiunse che la malattia della mamma s'aggravò ed egli andava al villaggio coll'inquietudine di trovarla peggiorata, ritornando a casa la sera.

Un giorno ebbe come una scossa quando trovò una lettera del sindaco che avea delle comunicazioni da fare alla sua mamma. Non disse nulla e andò tutto solo a sentire la ragione di quella chiamata.

Quando il sindaco gli disse che l'aveva fatto chiamare per dirgli che suo fratello era morto a Dogali combattendo contro Ras Alula, egli non volea credere e stette là ad aspettare che gli dicesse d'aver fatto per celia, ma il sindaco gli confermò la tremenda notizia.

—Consolati,—gli disse,—è morto da eroe, e certo gli daranno la medaglia.

Ma che cosa gl'importava e la medaglia e che fosse morto da eroe, se non sarebbe ritornato, e non l'avrebbe più riveduto! E alla mamma come avrebbe potuto dare quella terribile notizia? No, non era possibile, piuttosto che dirglielo non sarebbe ritornato a casa.

Infatti non disse nulla, ma gli pesava di dover continuare ad ingannarla; andò a consigliarsi colla sua amica alla Colombara, ed anch'essa lo esortò a non dir nulla alla mamma; era inutile affliggerla, poichè non aveva che pochi giorni di vita.

Essa compiangeva il povero Antonio; ma quel giorno era contenta perchè le aveva portata una lettera nella quale Enrico le scriveva che sarebbe presto venuto in congedo.

Essa regalò al suo amico tante cose da portare a casa; delle frutta, della farina e delle uova.

—Prendi,—disse,—almeno che la tua mamma abbia da sostentarsi.

Ma egli non pensava che al suo fratello morto e al segreto che doveatenere in petto.

Quando entrò in casa volle mostrarsi contento, ma aveva le lagrimeagli occhi.

—Perchè hai quella faccia?—gli disse la mamma.

—Sono stanco, ecco.

—E di Francesco non sai nulla?

—Sta bene, me lo dissero alla Colombara.

—Pure dovrebbe scrivere, io sono inquieta,—replicò la povera donna.

Antonio non parlò più in tutta la giornata, e da quel momento avrebbe voluto star tutto il giorno fuori perchè la mamma non gli chiedesse di Francesco. E stava fuori infatti il maggior tempo possibile, e in casa non parlava mai; si era fatto chiuso e muto come una tomba.

Anche la sua mamma era di cattivo umore, si lagnava sempre dei suoi mali, borbottava perchè egli non le raccontava più nulla e Francesco non scriveva.

Ed egli continuava la sua vita faticosa, sempre in giro sulla montagna, carico di pacchi e di lettere, che portavano ora la gioia ora la tristezza nei tugurii di quei montanari.

Un giorno, di ritorno dalle sue escursioni, trovò la mamma che si dibatteva in preda a violente convulsioni fra spasimi atroci; egli corse a chiamare il medico che tentò di calmarla, ma essa era uscita, avea saputo che suo figlio era morto ed era ritornata a casa in quello stato.

Quando incominciò a rinvenire se la prese con Antonio che non le aveva detto nulla, e continuò a rimproverarlo dicendogli che non aveva cuore perchè le avea tenuto nascosto un fatto simile, e l'avea ingannata sulla sorte del suo figlio prediletto.

Antonio, tutto confuso, non sapeva che cosa dire; ma la sua vita diventava più triste e più insopportabile e il suo lavoro più ingrato.

Egli si sentiva la voglia di andarsene solo, lontano, per non sentir più quei rimproveri che sapeva di non meritare; ma poi pensava che senza di lui la sua mamma sarebbe morta di fame e rimaneva.

Pochi ragazzi avrebbero avuto tanta pazienza di sopportare i rimproveri e le ire di quella donna, divenuta quasi pazza dal dolore; ma egli si rammentava le raccomandazioni di Francesco e continuava a lavorare per lei, a curarla quand'era ammalata ed a sopportare pazientemente le sue sfuriate.

E quando un giorno la trovò morta nel suo letto e non lo sgridò più, egli si sentì un groppo alla gola e pianse d'esser rimasto solo al mondo.

Egli continuò a girare quei monti, ma triste, senza parlar mai, conun'idea fissa nel capo: di andar soldato in Africa e di uccidere RasAlula per vendicare il fratello.

Questa storia aveva interessato molto Carlo, il quale diceva che, sebbene non avesse da vendicare nessuno, sarebbe andato anche lui assieme ad Antonio in Africa, tanto per andare alla guerra.

E Mario alla vignetta che rappresentava Antonio che saliva la montagna sepolto sotto una quantità di pacchi e d'involti, ne aggiunse un'altra, che rappresentava Carlo, il quale, appena incontrato un africano, fuggiva a gambe levate come se avesse veduto il diavolo.

La mattina, mentre Maria colle sorelle ed Angiolina attendevano alle faccende domestiche, i ragazzi solevano fare una passeggiata fino al villaggio.

Un giorno ritornarono tutti animati, allegri, raccontando che nei giorni seguenti ci doveva essere la fiera del villaggio: avevano letti gli avvisi che promettevano feste, fuochi e luminarie: poi in piazza incominciavano già a piantar banchi, baracche, per mostrare fenomeni viventi, un teatro di burattini, una giostra e tante altre cose; doveva proprio essere una vera baldoria, ed essi erano contenti pensando di approfittare di tutti quei divertimenti.

Maria disse chiaro e tondo che non li avrebbe lasciati andare a divertirsi se prima non avessero dedicato qualche ora allo studio, perchè ci doveva esser tempo per tutto e che non pensassero di starsene in piazza tutto il giorno.

Carlo ed Elisa non volevano intendere quelle ragioni, e replicarono che durante la fiera volevano far festa, come tutti quelli del villaggio, e facevano progetti di divertirsi, d'assistere a quegli spettacoli, e già, prima del tempo, cominciavano a distogliere la mente dallo studio. Maria con quei due ragazzi pigri ed insubordinati si sentiva scoraggiata e avvilita nella sua impotenza di renderli ubbidienti.

Guai se gli altri non l'avessero compensata delle sue fatiche colla loro dolcezza di carattere e colla loro ubbidienza! Specialmente Giannina la rendeva contenta cercando d'imitare l'Angiolina, la quale era una perfetta massaia e una ragazza ben educata e piena di cuore.

Maria era sempre più contenta d'aver invitata l'Angiolina, perchè colla sua operosità dava il buon esempio alle altre. Essa la mattina si alzava prima di tutti, e dopo aver dato aria alla camera ed essersi lavata e pettinata, rifaceva il suo letto ed anche quello di Elisa, la quale non finiva mai di star allo specchio a ravviarsi i capelli, e non le parea vero d'avere un'amica che facesse anche la sua parte di lavoro.

—Come sei buona!—le diceva,—ma che non sappia Maria che sei tu quella che metti in ordine la camera, altrimenti mi sgrida.

—Mi piace tanto, mi fa tanto bene questo moto, diceva l'Angiola; e intanto andava di qua e di là a spolverare i mobili, e quando aveva finito scendeva per dare una mano a Maria e alla donna di servizio.

Poi si mettevano tutte a lavorare, e quel giorno appunto dovevano terminare di orlare delle lenzuola, e ci si misero tutte e tre con molta assiduità per restare libere pei giorni di fiera. Angiolina rimpiangeva la macchina da cucire della sua mamma, ma la Maria diceva che aveva piacere che le sorelle s'avvezzassero a cucire a mano; esercitavano così la pazienza, stavano tranquille e potevano chiacchierare.

—Le macchine,—disse,—vanno bene quando c'è fretta, ma forse sono una delle ragioni per cui le donne al giorno d'oggi sono tanto nervose, non dico per te, Angiolina che sei un'eccezione; ma mi pare più sano raccogliersi intorno al tavolino e stare assieme a discorrere. Guardate come sta bene Giannina, orlando il suo fazzoletto.—Infatti quella bimba lavorava con una grazia che faceva venir voglia di baciarla.

Mario si annoiava quando le ragazze lavoravano, e andava a tirar loro le trecce e non le lasciava un momento in pace.

—Bada che domani non ti conduco alla fiera,—disse Maria,—se non stai tranquillo.

—M'annoio,—disse Mario.

—Fa qualche cosa.

—La vostra caricatura, allora.

—Quello che vuoi, basta che ci lasci quiete.

Ma mentre le ragazze facevano andar l'ago sulla tela colla massima rapidità, i ragazzi erano distratti e continuavano a parlare dei divertimenti che avrebbero goduto il giorno appresso.

Mario tutt'a un tratto nel temperare la matita si tagliò un dito, e andò da Maria pallido per lo spavento.

—Non è nulla,—disse la fanciulla, e legò con un fazzoletto il dito tagliato. Andò poi a prendere nell'armadio la cassetta della farmacia, ne tolse cotone e pezzuole fenicate, e con queste, legò stretto il dito del fratello raccomandandogli di star tranquillo e di star più attento un'altra volta.

L'Angiolina le chiese perchè adoperasse quelle pezzuole che puzzavano, invece di un semplice pezzo di tela. Allora Maria spiegò come è sempre più prudente di fasciare una ferita con roba disinfettata.

—Vedi,—disse,—noi siamo circondati da microbi, cioè da animali invisibili che se penetrano nell'organismo ci possono avvelenare il sangue e farci molto male. Quando la pelle è tagliata, è come se ci fosse una porta aperta per lasciarli entrare; sicchè è sempre meglio adoperare sostanze che riescono loro nocive.

Angiolina stava ad ascoltarla a bocca aperta; poi dopo aver pensato un momento, disse:

—Ma quella volta che la mamma si ferì la mano colla macchina da cucire, se io l'avessi fasciata come il dito di Mario, non le sarebbe venuta la risipola?

—Probabilmente no,—rispose Maria,—perchè quello è un male che viene spesso da infezione del sangue.

—Pensare che s'io avessi saputo queste cose la mamma non avrebbe sofferto tanto! Ma m'insegnerà, non è vero, tutto quello che sa di medicina?—disse rivolgendosi a Maria.

—Volentieri. Prenderai degli appunti, come ho fatto io stessa, e come desidero che facciano anche le mie sorelle; nella vita non si sa mai quello che può accadere, ed è una grande soddisfazione prevenire i mali che possono venire ad una persona di famiglia e saperli curar bene.

—Ma dimmi, una volta non c'erano questi microbi?—chiese Giannina.

—C'erano,—rispose Maria,—ma nessuno lo sapeva, perchè non si potevano vedere; fu l'invenzione dei microscopii potenti, che fece scoprire tutto un mondo invisibile, e fu l'ingegno di grandi scienziati che a furia di studii e d'esperienze riuscì qualche volta a trovar il modo di combattere questi nemici. Un tempo quando uno era ferito gravemente, gli si faceva un'operazione chirurgica, e la morte era molto probabile: ora invece coi nuovi sistemi questo pericolo è molto diminuito.

Angiolina stava attenta a quei discorsi come se si trattasse di un racconto fantastico.

—Come è bella la scienza e quanto mi piacerebbe studiarla! Ma mi dica, se non si hanno alla mano dei disinfettanti, come si fa?

—Si può sempre lavar la ferita coll'acqua bollita, perchè ad un certo grado di calore tutti i microbi muoiono e l'acqua bollita è già disinfettata.

Mario, che era pauroso e sentiva dolore nella ferita, era tutto pallido e temeva di aver qualche microbo; la sorella lo rassicurò, ma volle cambiare discorso, promettendo ad Angioina di darle una lezione di medicina domestica in seguito, tranquillamente, dopo finito il chiasso della fiera.

Cara mamma.

Come sei stata buona a lasciarmi venire in campagna colla signora Morandi! Quanto mi diverto! E quante cose avrò da raccontarti al mio ritorno.

Da tre giorni siamo in piena baldoria, c'è la fiera in paese e ci siamo dati tutti alla pazza gioia.

Però oggi la signorina Maria volle che si rimanesse in casa a raccogliere le nostre idee, e per non restare oziosi ci disse di scrivere le nostre impressioni sulla fiera del paese.

È una specie di gara, per vedere chi di noi scrive meglio, e questa sera il professar Damiati giudicherà, e classificherà i nostri componimenti.

Io approfitto subito di questa giornata di tranquillità, e sono felice di aver tempo di scriverti; ma Carlo quando seppe che oggi si stava a casa, ha fatto il muso, l'Elisa andò di malavoglia a prendere i suoi quaderni, e sento Mario, nella stanza vicina, irrequieto, che s'alza ogni momento per correre alla finestra ad ogni più piccolo rumore che vien dalla strada.

—Ma mi accorgo che anche la mia signora figlia si perde in divagazioni inutili,—mi par di sentirti dire.

Hai ragione, mammina mia, ed ecco che torno all'argomento.

T'assicuro che la vita di questi giorni pare un sogno. Il nostro villaggio non è più riconoscibile.

Nella piazza quasi sempre spopolata e tranquilla, tanto che quando passavamo per andare alla messa o alla posta, non s'incontrava che qualche donna colle secchie la quale andava ad attingere l'acqua alla fontana, o qualche contadino colla gerla sulle spalle, c'è un frastuono indiavolato, intorno alla chiesa sono collocati dei banchi colle tende bianche, e sui banchi una quantità di oggetti variopinti e luccicanti, che si vendono per quarantanove centesimi, e una folla di contadine vestite da festa, alcune venute dalle montagne, nei loro costumi tradizionali, colle camicette bianche ricamate, i corpetti di velluto, la vita corta, e le vesti di panno con bordure rosse, che guardano cogli occhi meravigliati, tutta quella roba, incerte su quello che devono comperare; poi banchi pieni di dolci e frutta, e in terra mucchi di stoffe variopinte, poi delle altre distese sui muri, e i venditori che gridano da assordare, e una folla che non lascia passare se non a forza di spintoni.

La parte più interessante dello spettacolo è sul prato dietro la chiesa, dove c'è una giostra che è il gran divertimento dei ragazzi, poi il teatro delle scimmie, che mi ha tanto divertito, ed è molto buffo. Pensa, delle scimmie vestite da gran dame, coi cappellini piumati, e i vestiti guarniti di gale, che fanno delle scene buffe e graziose.

Ce n'è una che mi piace tanto; si mette il cappellino davanti allo specchio, come si potrebbe far noi, si guarda con compiacenza, poi quando un'altra scimmia vestita da cameriera, le dice che la carrozza è pronta, sale in carrozza,—una carrozzella colle ruote dorate, e tirata da due cani bardati con molta eleganza,—si sdraia, sui cuscini con grande sussiego, tenendo colla mano l'occhialino, e di tanto in tanto facendosi vento con un gran ventaglio.

Il cocchiere e lo staffiere sono due scimmie vestite di azzurro, coi cappelli a cilindro, coi galloni d'oro, e anch'esse stanno sedute a cassetta, così impettite e serie come la loro padrona.

Quando la carrozza ha fatta due o tre giri sul palcoscenico, la signora scende, e si fa portare da mangiare; pare che le vivande non siano di suo aggradimento, perchè va sulle furie, e getta il piatto in faccia al cameriere, e irritata sbattendo il ventaglio, salta in carrozza, e via senza salutare nessuno. Se sapessi quanto ci ha fatto ridere! ti assicuro che non ne potevo più.

Fuori, sul prato, abbiamo assistito ad un altro spettacolo. Una compagnia di saltimbanchi avea steso un tappeto, tirata una corda, e facevano salti ed esercizii ginnastici.

C'era una bimba, tanto carina, che l'avrei mangiata coi baci. Avea una bella faccia bianca, coi capelli biondi come l'oro, e degli occhi dolci e buoni, tanto che mi pareva, una piccola fata; essa mi faceva compassione così vestita, succinta con un piccolo gonnellino a pagliuzze d'argento. Ballava sulla corda con molta grazia, e tutti andavano pazzi per lei; però anch'essa si diverte, ed è tutta felice quando le battono le mani.

La chiamanopolentina, e il pubblico non è mai sazio di vederla, tanto che quando ha terminato i suoi giochi, si sente gridare da tutte le parti:

—Ancora, ancora, Polentina,—e lei, quantunque stanca, e rossa infocata, riprende i suoi esercizii allegra e sorridente.

Benchè essa sembri contenta della sua sorte, io la compiango; e quando ho veduto la sua casa, ho pensato quanto io sia felice d'avere una mamma come te, che pensa a farmi star bene, e degli amici come i Morandi che mi fanno tanto divertire.

Se vedessi la casa diPolentina!

È un carro coperto di tela, dove dorme assieme al suo babbo, che suona la gran cassa; alla sua mamma, che dice la buona ventura, vestita da zingara, e ad uno scimmiotto.

In quel carro dormono, fanno da mangiare, e si portano da un paese all'altro, dove vanno a ripetere sempre i medesimi giuochi.

Povera gente! Eppure non si mostrano malcontenti della loro sorte.

Mi sono anche molto divertita a vedere la cuccagna, ch'era una cosa nuova per me.

Tu, sai già di che cosa si tratta: è un albero alto alto, liscio, dove in cima sono attaccate tante buone e belle cose, che i contadini devono conquistare, arrampicandosi lassù, a furia di braccia e di ginocchi, ciò che riesce abbastanza difficile, perchè quell'antenna è tutta insaponata e sdrucciolevole.

Se avessi veduto quanti ragazzi tentavano quella salita, e poi non erano ancora a mezza strada che scendevano giù sdruccioloni, fra le risate e i motteggi di tutta la popolazione.

Finalmente, dopo molti tentativi inutili, uno riuscì ad arrivare in cima, poi un altro, poi un altro ancora. Bisognava sentire che applausi e che grida da tutte le parti!

Come erano contenti quei ragazzi, che scendevano carichi dei trofeidella vittoria.

Erano polli, salsicciotti, sciarpe colorate, e anche dei borsellinicon qualche moneta.

Don Vincenzo, ch'era vicino a noi, e che se la godeva come un bambino, diceva che in questo gioco c'è la sua moralità: prima è un esercizio ginnastico, poi mostra che non si giunge alla meta senza fatica.

Più tardi, ci dovevano essere i fuochi d'artifizio; i ragazzi volevano aspettarli, ma la signorina Maria non volle, perchè dice che di notte, in mezzo alla folla, sono pericolosi; una volta essa vide un fanciullo sfigurato, per esser stato colto da un razzo in mezzo alla faccia; dunque non metteva conto per un piccolo divertimento, esporsi ad un pericolo anche lontano, ed ho trovato che aveva ragione.

Se sapessi che buona ragazza, è la signorina Maria! Ho imparato da lei tante cose, in questi pochi giorni, più che se fossi andata a scuola; essa sa tutto: sa curare gli ammalati, fasciare le ferite, fa dei buoni dolci, e poi ha scritto dei racconti, che ci legge qualche volta, ed è per me una vera festa il sentirli.

Se una buona fata mi domandasse di esprimere un desiderio, ti assicuro che non chiederei, come farebbe l'Elisa, gli equipaggi e i vestiti eleganti della signorina Guerini, nè di essere un famoso pittore, come vorrebbe Mario, o un eroe come Carlo; ma le chiederei di farmi rassomigliare a Maria.

Spero che quando saranno ritornati in città, mi lascerai andar spesso in casa Morandi; sarà il mio più grande divertimento, ed io studierò, e sarò buona per meritarmelo.

Addio, mammina, abbraccia il babbo, e sta sicura che per quanto io mi trovi qui assai bene, pure sono impaziente di abbracciarti._

La tua ANGIOLINA.

P.S. _Prima di spedirti la lettera ti racconto l'esito della nostragara.

Alla presenza del professore Damiati si diede lettura dei nostriscritti.

Quello di Vittorio, e quello della tua figlia furono giudicati imigliori.

Carlo ed Elisa erano troppo distratti per poter far bene.

Mario mostrò un foglio di disegni che fecero rider tutti.

Rappresentavano il teatro delle scimmie, e le scimmie eravamo noi:Elisa che voleva imitare la signorina Guerini, Carlo il ragazzoGuerini, io la Maria, la Giannina volea imitar me; insomma tuttiscimmie, e sopra scrisse: Impressioni della fiera.


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