— Era di verno, e il freddo repente assiderava le membra. Tre accattoni che non erano nè ciechi, nè vecchi, nè storpiati, ma solamente per mancanza di voglia di lavorare non avevano arte nè parte, se ne stavano oziando in sulla porta di una chiesa, a battere i denti e a mormorare contro la Provvidenza, che negava loro un tetto per ricoverarsi dai rigori della stagione. Passa un carro di paglia: uno di essi lo adocchia, e ratto va dietro a sfilarne un covone ben grosso, e se lo porta via per goderselo da sè solo. Ma i compagni, garosi[281]di spartire la preda, gli corrono addosso, e uno di qua uno di là acciuffano il covone, e fanno a tira tira per carpirglielo. Era meschina cosa un covone di paglia; ma l’astio dei mascalzoni s’infiammò tanto, che convertitosi in aspra contesa vennero alle percosse. In questo mentre si levò un turbine di vento, e la paglia tritata da quelle mani rapaci fu dispersa in un attimo, e le mani rapaci restarono vuote. Allora, posto giù lo sdegno, il primo esclamò:
— O s’io l’avessi compra?
— Chi te l’avrebbe tocca? — disse il secondo: — la roba rubata non fa frutto, tu lo sai.
— Lo sappiamo tutti e tre — soggiunse l’altro con aria d’amaro rimprovero.
— Ma intanto non ho più freddo, — concluse il terzo; — questo moto mi ha riscaldato.
— E il moto vi scalderebbe sempre, non col percotervi tra di voi per contendervi la roba involata, ma col lavorare onestamente, — esclamò un uomo intabarrato che passava rasente ad essi.
— Ah! non c’è lavoro! — gridarono ad una voce gli accattoni.
— Non c’è voglia! — rispose l’incognito; e tirò via.
Guardatisi un poco in silenzio, uno degli accattoni disse addio ai compagni, si voltò da una parte, e andò a chieder lavoro per misericordia ad un onesto artigiano di sua parentela; ebbe il lavoro, non patì più freddo nè fame, e si pentì del passato. Un altro, accomiatatosi dal compagno prese la strada opposta, e fatti pochi passi trovò un facchino che per essersi tolto in ispalla un peso sproporzionato alle sue forze, non poteva andare più innanzi; l’accattone se gli accostò per dargli una mano, e il facchino gliene seppe buon grado e lo condusse a far colazione e a scaldarsi con lui; e i pesi da portare non mancarono mai. Il terzo ricordandosi per che verso andava l’incognito, gli corse dietro, lo raggiunse, e fattoglisi accanto gli disse: — Dunque, abbiate la carità di darmi da lavorare. — L’incognito gli accennò di seguirlo; e andarono innanzi un buon tratto senza parlarsi, finchè usciti dalla città e giunti a un podere, l’incognito si fermò presso una casupola rovinata di cui le macerie ingombravano i solchi del campo: — Ecco, — disse all’accattone — un turbine di vento buttò giù questa casa; sgombera il terreno dai sassi, affinchè il mio contadino possa seminarvi il grano, che tu mangerai con lui, se avrai sempre voglia di lavorare e se sarai uomo onesto. —
A Michele stesso intravenne che una sera sull’imbrunire passando di lung’Arno, dove la via è più solitaria, gli s’accostò a chiedergli l’elemosina un giovinotto cencioso, ma ben quadrato di spalle e ben piantato sopra le seste,[282]sicchè aveva tutto l’aspetto d’un bighellone: — Figliuolo mio, — rispose Michele con dolcezza — ti comprerò volentieri un po’ di pane, perchè tu mi dici che sei digiuno; ma o non potresti guadagnartelo? Tu mi sembri sano e robusto.
— Che cosa volete? — rispose l’accattone — lavorerei, ma non so far nulla; esco ora dal militare, e senza avere imparato un mestiere non trovo chi mi pigli; per bardotto ho troppa età ; a casa mia son più tribolati di me; qui non conosco nessuno....
— I’ voglio credere a quel che tu dici — soggiunse Michele, — ma non ti stancare a cercare lavoro, perchè alla fine chi ha voglia davvero lo trova. — E mentre andava innanzi per arrivare alla bottega d’un fornaio, scòrse per terra una quantità di fiocchetti di lana tra le fessure delle lastre, perchè in quel luogo i tintori sogliono distendere al sole la lana lavata per farla asciugare. Allora spiegò il suo fazzoletto, e disse all’accattone: — Fammi intanto un servizio; raccogliamo questi fiocchetti; nissuno li gode, se non fossero le rondini per portarli nel loro nido. — E tornando anche addietro, e rifrustando per tutto, in poco d’ora tra lui e l’accattone, che attonito lo seguiva, n’ebbero pieno quel fazzoletto. — Ecco, — disse dipoi Michele al compagno — di questa lana, non foss’altro rivendendola ad un cenciajuolo tu puoi prendere almeno un par di soldi: tanto pane per domattina: ecco la ricompensa della tua fatica; è un mestiere facile; e così puoi raccogliere fogliucci, ossi, pezzi di cuoio, di ferro, di latta; insomma per ora puoi fare lo spazzaturaio non sapendo che altro. — Intanto giunsero al forno, e comperatogli il pane, Michele aggiunse: — Porta pur teco il fazzoletto: me lo renderai a tuo comodo; — e dettogli dove egli stava di bottega, lo lasciò con Dio. L’accattone, fosse egli o no disgraziato ed onesto come dalle sue parole poteva credersi, fatto sta che fu puntuale a riportare il fazzoletto, e che fino da quel giorno avendo deliberato di non far più la vita del vagabondo, s’appigliò al consiglio di Michele. Questi gli prestò allora un canestro per raccogliere le spazzature, gli procacciò un luogo da farne deposito, e lo vide poi sempre industriarsi in quel modo e ricavarne onesto campamento.
Ma vediamo una volta questo buon vecchio a casa sua, poco tempo prima ch’egli morisse, ed assistiamo ad una conversazione tra lui e la sua famiglia.
È una sera di verno: Michele, eccolo là seduto a scranna, accosto al bischetto di Santi suo figliuolo, che lavora di calzolaio. Il vecchio ha già passato la settantina, ma li porta bene; posa le mani sul pomo della mazza, e appoggia il mento sopra le mani; ha i capelli bianchi, ma lunghi e folti; è piuttosto secco e col viso pieno di grinze, ma le carni sono ancora sodette e bronzine; gli occhi scintillano come quelli di un giovanotto, ed ora sorride, ora parla con piacevole posatezza; non è sordo, non gli manca un dente...; insomma è un uomo ferrigno[283]e rubizzo, che ha saputo conservarsi bene con la temperanza; e di verno ei non ha mai bisogno di fuoco; non può vedere i veggi, specialmente nel letto; e dice che sono fatti per gl’infingardi e per chi vuole avere in casa un incendio.
Accanto a lui siede la Teresa, moglie del suo figliuolo, donna di circa trentacinque anni, non bella, ma con sembiante pieno di dolcezza e con tutto il senno di una buona massaia; fa poche parole, ma buone; veste sempre di roba ordinaria, ma linda; e non alza gli occhi di sul lavoro se non quando parla il vecchio Michele. Dall’altra parte vi è l’Isabella, figliuola della Teresa, giovanetta leggiadra, vispa e modesta, abile tessitora di seta, e piena di attenzioni verso il nonno. Per non istare in ozio la sera quando non si può tessere, cuce o rimenda per casa, o si prepara il corredo.
Santi poi è sempre lì al suo bischetto a cucire le scarpe. Chi volesse dipingere la giovialità e la salute, dovrebbe fare il suo ritratto. Figuratevi un pezzo d’uomo tarchiato, piuttosto grasso, pieno di robustezza, col volto quasi sempre ridente, le carni bianche e rosse, i capelli neri e ricciuti, gli occhi tutto fuoco, i denti bianchissimi e la voce sonora.
Andrea, giovine pigionale e amico di casa, vi capita ogni sera per un par d’ore; si mette di faccia al vecchio ed accanto a Santi. Andrea è piuttosto serio e taciturno, non però zotico nè sgarbato; anzi, le sue maniere sono affettuose, ed ha sempre un rispettoso contegno. I suoi lineamenti sono regolari, il colorito sano, e il personale ben fatto. Dal vestito coperto di peli e di lische,[284]si conosce che fa il linaiuolo; ed anch’egli, per non perdere il tempo, si prova a cucire le scarpe, e così va dietro a quella buona massima «Impara l’arte e mettila da parte.» Se una volta o l’altra il suo mestiere non gli desse più il pane, s’ingegnerebbe con quello del calzolaio.
Spesso vi suole essere in conversazione anche Angiolino, figliuolo minore di Santi: ha nove anni; è vegeto, robusto, vivace, e qualche volta farebbe il diavolo a quattro, se una parola del nonno o dei suoi genitori non bastasse a frenarlo; dagli occhi neri e sgranati traluce l’acutezza della mente; e la faccia sempre aperta e serena dà indizio d’ingenuità e di buon cuore. Ha in mano un libro: legge benino; e quand’è in conversazione, fa la sua lettura a voce alta. Tutti vi stanno attenti, e spesso il vecchio lo interrompe con qualche utile osservazione. Così Angiolino fa una parte d’importanza; ma non se ne investe come farebbe un ragazzo vanesio. Va a scuola al Reciproco Insegnamento,[285]e spesso è premiato con buoni libri, che sono quelli che di mano in mano legge alla famiglia.
— La felicità ? — diceva Andrea — e dov’è la felicità ? io ne conosco una sola — e guardava l’Isabella; — ma che tutti la possono avere la felicità che m’intendo io? I’ veggo tante miserie ogni giorno, ch’e’ mi par proprio d’essere in un mondo di disperati. Nè anche i signori sono felici!...
— Anzi, — soggiunse Santi ridendo, — i’ non ne conoscouno che non si rammarichi sempre d’un visibilio di molestie, e che specialmente non triboli a camminare; vogliono le scarpe troppo attillate e poi si lamentano meco de’ piedi sciupati.
— Ma prima di ragionare, — disse il vecchio, — leggiamo avanti. A te, Angiolino: — e Angiolino leggeva:
«Se l’uomo non potesse mai essere felice, si direbbe che non fosse stato creato da quella Divina Sapienza, che governa tutte le cose. Esaminate la magnificenza e l’ordine dell’universo. Le stelle brillano sempre con lo stesso splendore; il sole ogni giorno c’illumina, e la luna segue eternamente il suo corso. Vedete poi il giro delle stagioni, la perfetta struttura delle piante, l’istinto degli animali per conservare la loro specie; e riflettete come i venti, le pioggie, le nevi, le stesse tempeste purghino l’aria, fecondino le campagne, e rendano più vigorosa la vegetazione delle piante e la vita degli animali. L’uomo, che è la creatura più intelligente, non può esser nato per vivere a caso, o per languire nell’avvilimento e nella miseria. Iddio ci ha collocati sopra la terra perchè tutti viviamo, perchè tutti godiamo dei suoi benefizii, e perchè siamo sempre più felici, facendo buon uso dei beni che Egli ci ha compartito.»
Michele fece fare ad Angiolino una pausa, e guardando Andrea: — Ora che cosa ne dici? —
— Va tutto bene, — rispose; — lo so anch’io che tutti, adempiendo i nostri doveri, possiamo sperare d’essere felici, e di migliorare il nostro stato; ma qual’è la felicità che deve toccare a noi? Forse quella di campare senza pensieri, come i fagiani delle Cascine?[286]Veggo che chi non ha quattrini sta male; chi ne ha troppi, il più delle volte sta anche peggio....
— Male, figliuolo mio, — interruppe Michele, — male se tu fai consistere la felicità solo nei quattrini. Che cos’è la ricchezza? Uno che guadagna tanto da vivere, è più riccodi chi ha mille scudi il mese e ne spende mille uno o vorrebbe averne duemila.
— È vero; non dico questo, — riprese Andrea; — ma in somma nessuno è contento: chi si rammarica della troppa fatica, e chi è ammazzato dalla noja non avendo da fare o perchè non sia stretto dal bisogno o perchè gli manchi la voglia.
— Ho capito, — replicò Santi; — la felicità è come il giudizio: la viene a quarti d’ora. Per un giorno di bene un anno di guai.
— Piuttosto direi che la felicità possa dipendere dal giudizio, — disse la Teresa. — Per me chi ha più giudizio è più felice.
— Lo credo anch’io! — soggiunse con timidezza l’Isabella.
— Ma alle volte, — rispose Andrea sospirando, — alle volte si trova più felicità a dar retta al cuore, che a lasciarsi governare dal giudizio. —
Michele disse allora: — O che il cuore e il giudizio non hanno a andare d’accordo? Anzi credo che chi si lasciasse trasportare dal cuore senza governarsi colla riflessione, spesso rischierebbe di diventare infelice e di fare infelici anche gli altri. Puta caso, un padre di famiglia spenderà tutto il suo per saziare le voglie, i capricci, l’ambizione della moglie e dei figliuoli: e’ si dirà ch’ei lo fa per buon cuore; ma si può anche dire ch’ei non abbia giudizio, perchè non pensa alle malattie, non pensa che morto lui la famiglia rimane povera.... Val più un po’ di risparmio, un po’ di previdenza, anche a costo di privarsi di qualche cosa, che una condiscendenza fuori di proposito. Quel giovine vuol bene ad una ragazza, e crederò che il buon cuore lo faccia risolvere a sposarla presto; ma se i suoi guadagni non sono ancora buoni e sicuri, non sarà meglio che aspetti un poco, invece di andare a rischio d’aver figliuoli senza la possibilità di mantenerli e di educarli come si deve? Nello stesso tempo io credo che un uomo senza buon cuore, ancora che abbia molto giudizio, non possa godere un’ora di vero bene.
— Dunque, — soggiunse Andrea, — non sbaglio io; la felicità viene dal cuore.
— Purchè la vada d’accordo col giudizio.... — ripetè Michele. — O andiamo avanti, Angiolino. —
«Ma siccome l’uomo non è perfetto, così egli non può godere di una felicità senza limiti. L’uomo ha bisogno di occuparsi, di migliorare sempre sè stesso e le cose sue, e di superare i pericoli ai quali è esposto. Se si ritrovasse ad essere felice senza niuna fatica, correrebbe rischio di diventare fiacco, vile, egoista ed avaro; ma nel compiere costantemente il proprio dovere, l’anima si nobilita e ringagliardisce. Il pretendere d’essere felici come gli Angeli, è una pazzia; nello stesso modo che sarebbe delitto ridurci a vivere come bruti. Restiamo volentieri nella condizione d’uomini, e in essa troveremo la felicità che ci spetta. Quindi non ci affliggiamo d’esser privi di quelle cose che non possiamo avere. Alla fine, del bene ve n’è per tutti. Un povero pastore non ha idea delle comodità dei ricchi; ma e’ possiede le sue proprie, delle quali i ricchi non goderanno giammai. Lasciamo stare se sia meglio esser nato pastore che uomo ricco, giacchè ambedue possono esser felici a modo loro; ma intanto è cosa certa che il pastore potrà arrivare alla felicità più presto del ricco, e che l’uno è meno esposto ai gravi pericoli e agli strani precipizj dell’altro. Siccome Iddio non ha voluto che la felicità sia solamente privilegio di pochi, perciò per esser felici non è necessario possedere le ricchezze e nascere in alto stato. Il bene non consiste in queste cose. Anch’esse possono procacciarlo, ma ad una condizione rigorosa; ed è quella di non lasciarsi sedurre dall’oro o dal potere; di saperne fare buon uso, e di moderare i desiderj: cosa difficile, perchè la ricchezza e il potere hanno attrattive molto pericolose sugli uomini, e diventano tribolazione e miseria per chi li vuole acquistare con modi poco onesti, per chi si crede di doverli possedere a preferenza degli altri, o per chi non se ne sa approfittare a vantaggio del prossimo. Si pena poco a voler troppo, a scordarsi degli altri, a incorrere nelle disgrazie dalle qualiè salvo chi vive nella mediocrità , chi nasce oscuro, chi non si lascia rodere l’anima dall’invidia; e le cadute dei grandi sono più micidiali perchè sono fatte dall’alto.»
— Vero, verissimo! — esclamò Santi. — Mi ricordo io d’aver fatto gli scarpini da Corte ad uno che ora ha un dicatti di scantonare i chiassuoli. E allora faceva il gallo[287]con tutti; aveva sotto di sè un visibilio di gente, e comandava a bacchetta; e guai a chi avesse avuto che dire con lui! e’ ne fece anche a me di quelle.... Basta, se ora m’intoppa, fa il viso rosso.
— E tu voltati; o soccorrilo se ti chiede misericordia, — interruppe Michele, — o compiangilo; e fa’ ch’ei non s’accorga d’essere riconosciuto da chi può farlo arrossire: se è reo, lascia che lo giudichi Iddio; e pensa che se tu fossi stato nei suoi piedi, potresti aver fatto anche peggio. Ringrazia piuttosto il Cielo che non corri pericolo di patire umiliazioni così dolorose.
— Avete ragione, — riprese Santi tutto commosso; — fece compassione anche a me, quando lo vidi la prima volta. Mi pentii d’averlo guardato dall’alto in basso; non avevo mai avuto una giornata così malinconica come quella.
— E tu a che cosa pensi? — scuotendo Andrea che se ne stava a capo basso, e pareva immerso in profondi pensieri.
— Io, — disse Andrea, — io mi lambicco il cervello per trovare cosa vi vuole ad esser felici.
— Dimmi, Andrea, — soggiunse Michele, — quando sei proprio contento di te stesso, ti par egli allora d’esser felice?
— Sì; ma che si può esser sempre contento? E poi, chi sa quali sono per l’appunto le cose che ci possono fare stare più contenti?
Michele.Quando hai fatto il tuo dovere, per esempio, sei tu contento?
Andrea.Sì; ma non ci potrebbe essere qualche cosa che mi rendesse più contento che mai?
Teresa.Ma se voi siete incontentabile, lo credo anch’io, non potrete mai esser felice!
Andrea.Diamo che oggi la mi vada bene per aver fatto il mio dovere a bottega. Domani mi ammalo, e non posso più lavorare.... sono io felice?
Michele.Convengo che per esser felici vi voglia anche la sanità ; ma dimmi un poco: se la tua malattia è venuta per disgrazia, avrai tu il rimorso d’essertela procurata con gli stravizj?
Andrea.No; questo è naturale.
Michele.Intanto anche nel male che ci viene addosso v’è la sua differenza, perchè il male voluto scotta più di quello che viene senza nostra colpa. Avrai male; ma almeno la tua coscienza è tranquilla, e non ti mancherà la forza di sopportarlo; non ti mancherà nemmeno l’ajuto di chi ti vuol bene; guarirai più facilmente; acquisterai maggior vigore per sopportare le nuove disgrazie.... Rammentati che l’uomo è imperfetto, e non deve presumere d’ottenere perfetta felicità .... Ma intanto eccoti sano; e se alla tua sanità unisci quella tranquillità di coscienza, che ti faceva sopportare con rassegnazione la malattia, di che cosa avrai tu da lagnarti? Ora, in conclusione, la salute e la pace dell’anima, non le possiamo aver tutti?
Santi.Senza dubbio. E anche dico io che una fa bene all’altra. Quando non ho nulla da rimproverarmi, mi par d’essere l’uomo più felice di questo mondo.
Andrea.Ma queste due cose non bastano; perchè con tutta la mia salute e con la coscienza tranquilla potrei aver la tasca pulita, e patir la fame. In oggi chi fa l’uomo onesto è un miserabile; tutti tirano ad ingannare il prossimo, e a levarsi il pane di bocca l’un l’altro!...
Le donne e il vecchio fecero un atto di disapprovazione, e Santi battendo il martello sul bischetto esclamò infiammato:
Santi.Questo poi non è vero! Tu l’hai a lasciar dire a chi accusa gli altri per discolpare sè stesso, a chi vuol mangiare a ufo, a chi vuole scorticare i fratelli, a chi facapitale delle disgrazie, delle imprudenze o della dabbenaggine del prossimo. Un uomo che lavora tutta la sua giornata, che non getta il guadagno nell’osteria, che cerca, se può, di risparmiare qualche cosuccia pei bisogni straordinarj, che non si rovina col giuoco, oh! lo trova il modo di campare onestamente. Non potrà scialare, ma non morirà mai di fame.
Michele.E poi, come potresti esser contento di te, se tu non avessi fatto il tuo dovere? E facendo il tuo dovere da onesto bracciante, che è quello di lavorare, è certo che tu guadagni.
Andrea.Se ci fosse sempre il lavoro!...
Michele.Prima di tutto, a chi ha voglia e capacità il lavoro non manca mai. Se per disgrazia un maestro è obbligato a mandar via qualche garzone, fa sempre di tutto per conservarsi i più onesti e i più capaci. E se poi fossero licenziati anche loro, quando hanno buona reputazione, trovano facilmente un’altra bottega; e se non la trovano subito, qualcheduno li ajuterà . Ma convengo che per dire d’esser felici, oltre alla sanità e alla pace dell’anima, ci vuole un guadagno sicuro e sufficiente a provvedere ai nostri bisogni.
Santi.E tu vedi bene che queste cose vengono una dietro l’altra. Per lavorare ci vuol salute; la salute si mantiene coi buoni costumi; il lavoro, la salute e i buoni costumi ci assicurano il pane e ci danno modo di risparmiare; e quando non ti manca da mangiare ed hai l’animo in pace, tu sei contento. Allegri dunque, e coraggio! Ma a quel che veggo non sei ancora persuaso. Che cosa vorresti di più?
Andrea.Le malattie, avete detto, possono esser volute, e allora peggio per chi le ha; ma quando le vengono per disgrazia? Un muratore che caschi dalla fabbrica, e si rompa una gamba....
Michele.Hai ragione. L’uomo è sempre sottoposto alle disgrazie; ma v’è il modo di prevenirle....
Andrea.Come volete che io faccia a prevenire una caduta?
Michele.Non dico questo, sebbene la prudenza possa far molto; ma in ogni caso non ti ricordi che cosa leggemmo sere sono sulla Cassa di risparmio? Metti assieme anche un soldo per giorno, e avrai una sommerella da parte, che basterà spesso a rimediare alle tue disgrazie. E se le disgrazie non vengono, i frutti del tuo denaro potranno servirti a migliorare il tuo stato, a dare una buona educazione ai figliuoli, e ad assicurarti una vecchiaja tranquilla.
Andrea.Voi dite bene; ma poniamo il caso che una disgrazia mi venga presto, e quando non ho che pochi paoli[288]nella Cassa di risparmio?....
Isabella.Per carità , non fate tanti casi disperati!
Santi.Lascia dire, perchè la risposta viene a proposito.
Teresa.Se ci fosse stato l’altra sera, non farebbe una domanda come questa.
Andrea.Sentiamo la risposta. Dev’esser bella davvero se vo’ m’insegnate il modo di rimediare alle disgrazie d’un bracciante, che per un pezzo non potrà lavorare.... So anch’io che lo Spedale e il Reclusorio sono fatti pei poveri; ma....
Michele.Lasciamo star queste cose. La risposta che ti darò sarà buona; ma non ti credere ch’e’ sia un rimedio caduto giù dalle nuvole, e bell’e pronto. In queste cose non bisogna figurarsi miracoli. Non si tratta di fortune prodigiose, di tesori nascosti. Ora dobbiamo studiare un espediente per prevenire la miseria, per rimediare alle disgrazie impreviste, per assicurarsi il pane nella vecchiaja, per migliorare il proprio stato. E questo espediente deve sempre essere fondato sulla previdenza e sul risparmio, ma in un modo più efficace di quello della Cassa di risparmio. Per ora è un disegno, ma che potrebbe riuscire a bene, basta volere. E sta a noi a farne la prova. Ora ne giudicherai da te stesso.
Andrea stava ad ascoltare attonito, ma poco disposto a credere.
— Angiolo, — seguitò Michele, — to’ su il libro che parladelleSocietà di Soccorso scambievole tra gli operaj,[289]e leggi di dove feci un segno coll’unghia. —
Andrea, scotendo il capo, disse allora sottovoce: — Finchè sono cose scritte nei libri, ci ho poca fede. Saranno belle; ma chi vi pon mano?
Michele.Ho detto che tocca a noi; e sostengo che se vogliamo, possiamo. Abbi pazienza, ed ascolta. —
Angiolino lesse:
«Gli operaj sono sottoposti a perdere il pane a motivo della mancanza di lavoro, delle malattie, della vecchiaja e delle disgrazie impreviste. Vi sono già le Casse di risparmio che rimediano a molti guai: ma non tutti coloro che vi ricorrono, possono avervi depositata una somma bastante a provvedere ad una necessità inaspettata; non tutti possono aver cominciato tanto presto a depositare i loro risparmj, da mettere insieme una somma, che dia un frutto sufficiente per farsi le spese nella vecchiaja. Ora, i buoni operaj, hanno immaginato leCasse o Società di previdenza o di soccorso scambievole, ossia Compagnie contro le disgrazie della vita; e a un dipresso in questo modo.
«Ogni operajo che ha una giornata sicura, per quanto guadagni poco ed abbia famiglia, se vuole, può levare un soldo il giorno dal suo salario, e depositarlo nelle mani di un onesto cassiere. Già parecchi sono quelli ai quali riesce di depositare ogni settimana nelle Casse di risparmio anche una somma molto maggiore di sei soldi.
«Quando il numero dei contribuenti passa i dugento, la società può soccorrere, finchè il bisogno lo richiede, quei socj che si ammalano o quelli che non hanno lavoro, o assicurar loro una pensione per tutta la vecchiaja. Se un operajo che sia stato ammesso alla società , non può più guadagnare per malattia o per mancanza di lavoro, con pochi soldi ha acquistato il diritto di godere, finchè sarà necessario, di un tanto il giorno, e d’aver medico e medicine pagate; e se non ha famiglia, sarà custodito in casa sua daisuoi compagni, senza bisogno d’andare allo spedale. Ancora che per venti anni di seguito un operajo abbia depositato nella cassa della società tanti soldi da fare una somma di sole tre o quattrocento lire, con questo piccolo capitale ha diritto di godere una pensione di cinquanta lire il mese, e anche più, secondo il numero dei socj. Il piccolo capitale di quattrocento lire gli frutta allora come quello di quindicimila al quattro per cento. Una società che incassi trecento lire il mese può dare sei pensioni di cinquanta lire l’una.
«La società destina un certo numero di persone che, senza pregiudizio del loro tempo, debbono andare per turno a visitare i socj malati, e, se è necessario, ad assisterli, ed accompagnare i defunti alla sepoltura ec.
«Pel buono andamento della società è necessario che tutti i suoi membri sieno scelti tra gli artigiani più onesti e più sobri.
«I malati per effetto di stravizj o di colpevoli risse, non sogliono essere ammessi al benefizio dei soccorsi, o vien loro restituito col debito frutto il denaro che hanno depositato nella cassa, e rimangono esclusi dalla società ; la quale tra le persone più specchiate ne deputa alcune per giudicare di questi casi.
«Il socio che senza un’assoluta impossibilità dipendente da straordinarie cause nelle quali non abbia nessuna colpa, non paga per due o tre mesi la sua tassa, perde la somma che può aver già depositato, e rimane escluso dalla società e dai diritti che aveva acquistati.
«La medesima persona alla quale riesca di fare maggiori risparmj di quelli che occorrono per pagare la sua tassa, può nello stesso tempo depositare il superfluo nella Cassa di risparmio, o appartenere a due o tre di consimili associazioni.
«Il marito e la moglie possono appartenere ciascuno alla medesima società , pagando ambedue la tassa, o a due società diverse, e procacciarsi così il mezzo di passare insieme la loro vecchiaja senza patimenti e senza le umiliazioni della povertà .
«Le più facili a istituirsi fra tali società sono quelle che provvedono principalmente alla vecchiaja, e non sarebbe male incominciare da queste.
«L’esperienza ha già dimostrato in Francia e in Italia quanto sieno utili; e non v’è da temere che la quantità dei pensionati le mandi in rovina: prima, perchè niun contribuente è obbligato ad aumentare la tassa, sia piccolo o grande il numero delle pensioni da darsi; quindi perchè per lo più questo numero è piccolo in confronto a quello dei contribuenti. Una società di questo genere composta di dugento cinquanta artefici, tra maestri di bottega, garzoni e fattorini, non giunge ad aver mai più di otto pensionati, cioè neppure uno su trenta.
«Quando si sono trovati tanti socj, che bastino a mettere in piedi un’associazione di questo genere e che abbiano tutte le condizioni richieste per renderla stabile e veramente morale, le difficoltà principali da superare stanno nello scegliere gli ufficiali, nel fare il regolamento, nell’assicurare l’utile d’ogni socio e nel far fruttare convenientemente il denaro che avanza. Uomini o inesperti o tuttodì occupati non possono provvedere a queste cose. Dunque è necessario che vi pongano mano i maestri di bottega più istruiti, i capi dei traffici, i fondatori e i direttori di altre società caritatevoli. I capi d’arte specialmente sapranno stabilire e regolare siffatte associazioni, e troveranno in esse molti mezzi per migliorare lo stato dei loro sottoposti, per affezionarseli maggiormente, e per renderne più corretti i costumi. Essi conoscono più d’ogni altro i bisogni, i difetti, la possibilità degli operaj, e possono offrir loro una opportuna sicurezza per la custodia e pel giro dei capitali. Nonostante bisogna che uno cominci; e sia chi si voglia, purchè uomo onesto, il suo zelo e i suoi tentativi potranno fare un gran bene al prossimo. Noi ne abbiamo già un bellissimo esempio nella Compagnia della Misericordia; e le antiche nostre corporazioni delle arti e dei mestieri (lasciamo stare le ragioni per cui furono soppresse) provvedevano a un dipresso con questo mezzo ai bisogni degli operaj più poverie di quelli che rimanevano colpiti dalle disgrazie. Possedevano inclusive terre e case, e adoperavano in tali opere di carità una buona parte delle rendite di questi beni. Anche adesso, se non tutti, almeno molti mestieranti hanno la buona usanza di assistersi scambievolmente; e un cappellajo, per esempio, che per qualche disgrazia rimanga privo di lavoro, o vada a cercarne da una città in un’altra, trova soccorso nei suoi compagni. Ma questo è un soccorso sempre incerto, e mancano i regolamenti che sarebbero necessarj per provvedere al vero bisogno, e per isfuggire il pericolo di assistere chi non lo merita, e di fomentare l’infingardo ed il vagabondo. Nonostante, quest’assistenza tacita, spontanea, indipendente da ogni patto e da ogni obbligazione, mostra la buona indole dei nostri operaj, e sarebbe preferibile a ogni altro metodo; ma non può sempre porgere aiuti costanti e corrispondenti ai bisogni; indi per lo più è tutta a carico di pochi, e va a rischio di mantenere gli abusi. Alla fine l’istituzione d’una di queste società non toglie che altri assista come gli pare e piace gli amici e i compagni. Il buon esito di una società che provveda ai bisogni della vecchiaja, farebbe nascere il desiderio di istituirne altre consimili, le quali in varj modi migliorerebbero l’economia domestica e la moralità della classe manifattrice.»[290]
— Basterà per istasera, — disse Michele ad Angiolino. — Ora puoi andare a letto. — Indi volgendosi ad Andrea: — Ecco a un dipresso come si potrebbe rimediare alle nostre disgrazie. Mancherà ora chi voglia farne la prova e dare un esempio anche tra noi? Io spero che non passerà gran tempo che vedremo istituita la società di soccorso reciproco tra i calzolaj. Intanto il mio figliuolo ed io daremmo subito un pajo di lire al mese per ciascheduno; che cosa ne dici? —
Andrea approvò il pensiero, ed esclamò: — Dio volesseche una società come questa fosse già fatta! Anch’io sarei per uno. Ma chi comincia?
— Subito che fuorivia lo fanno, e se ne trovano bene — aggiungeva Santi, — perchè non s’ha a poter fare anche qui?
— E poi — ripetè Michele — ricordatevi che non si può nè anche dire che sia cosa nuova per noi. Nei tempi antichi c’era anche più di questo; e l’unione tra gli operai non solamente era giovevole alla loro prosperità domestica, ma potevano ancora accumular denari per opere di pubblica magnificenza, come fece l’Arte della Lanache sostenne le maggiori spese per la fabbrica del Duomo, e tutte le altre che fecero fondere e scolpire le belle statue di bronzo e di marmo, che sono nelle nicchie di Orsanmichele.
— Oh! ma quelli erano altri tempi, — diceva Andrea sospirando.
— E ora chi dice di fare un’altra cupola? — soggiunse Michele; — si tratta di assicurare il campamento di qualche povero vecchio, di prevenire la miseria, di migliorare il nostro stato, di trovare almeno il mezzo di morire in pace in casa nostra, piuttosto che andare a chiedere l’elemosina o chiuderci in un ospizio di mendicità , o finire una vita tribolata nello spedale. E poi, cominciamo, non ci lasciamo sgomentare dalle difficoltà e dalle dubbiezze; proviamo, se non foss’altro. Lasceremo noi dire che ora non siamo capaci d’immaginare un’opera buona o di condurla a fine? Ci sono tante compagnie religiose, che si reggono da lungo tempo! e anche in quelle si paga; forse meno, è vero; ma a tener di conto di tante spesicciuole traverse, e per lo più superflue, in capo all’anno si farebbe una bella somma! E nello stabilire una società di scambievole soccorso, credete voi che la religione non debba avervi la sua parte? E ve l’ha naturalmente, perchè questo è il miglior modo di esercitare la carità cristiana, perchè è il più utile al maggior numero, e perchè deve reggersi sui buoni costumi e tener cura della morale. La miseria, voi lo sapete, è una causa di molta depravazione. Dite: un figliuolo che fosse esatto a pagarela sua tassa alla compagnia, pel calo del torcetto alla processione, per la festa al tabernacolo, pel desinare ec., e che sapesse fare la sua bella figura sul banco del Governatore, ma che poi non volesse aiutare suo padre invecchiato nella fatica, e lo lasciasse andare a chiedere l’elemosina o a chiudersi in Montedomini, vi parrebbe egli un buon figliuolo, un vero cristiano codesto? Non direste che egli fa quelle spese più per ostentazione che per zelo religioso? Ma io non voglio fare la predica. Siete persuasi della bontà della proposta? bisogna cominciare a metterla ad effetto. Meno parole e più fatti. Aggiungerò solamente, ma non per voi, che molti i quali crederanno di non si potere obbligare a un tanto la settimana o a un tanto il mese per questa compagnia, troveranno un mezzo paolo ogni venerdì pel giuoco del lotto. Se a codesti disgraziati si dicesse: Che cosa preferite; un terno al lotto, promesso tante volte e non ottenuto mai, e se ottenuto, cagione spesso di molti altri inconvenienti; ovvero una pensione anche di sole trenta lire per tutta la vostra vecchiaja? Credete voi che dubiterebbero nella scelta? Andiamo, andiamo! Io spero che presto vedremo prosperare in gran numero anche fra noi queste nuove società di soccorso scambievole tra gli operaj; che tutti si persuaderanno della loro utilità , e che ne verrà un notabile miglioramento nei nostri costumi. —
Tutti applaudirono alle parole del vecchio, e Andrea esclamò: — Domani voglio parlarne subito al mio maestro di bottega; so che gli piacciono, queste cose!
— Benissimo! parlatene subito. — esclamarono le donne.
E Andrea, data la buona notte, un’occhiata amorosa alla fanciulla e una stretta di mano a Michele ed a Santi, tornò a casa più contento del solito, e impaziente di conferire col suo maestro di bottega intorno alle cose che aveva udito.