La partenza.
Venne finalmente il giorno della partenza per Torino. Parrebbe ch'io avessi dovuto lasciar con dolore quella casa dov'ero entrato bambino e donde partivo giovinetto, e quella piccola città, che era per me come la città nativa, dov'ero vissuto quattordici anni, dov'ero cresciuto così sano e forte e lasciavo tante memorie. Eppure questo non fu. La prima età ha di questi momenti di duro egoismo, in cui la furia d'uscir del guscio, l'ebbrezza di mutare orizzonti e di slanciarsi nella vita preme con tanta forza su tutti gli altri affetti, da cacciarli quasi dal cuore. Quella città, che doveva diventarmi poi così cara, mi si era fatta in ultimo intollerabile. Vi conoscevo tutti i visi, avevo impresse nella mente le facciate di tutte le case, potevo rammentare per ordine tutte le botteghe di tutte le strade, e questa conoscenza di tutto mi dava un senso di sazietà d'ogni cosa: perfino dall'aspetto dei dintorni bellissimi, che m'erano stampati nel cervello sentiero per sentiero e alberoper albero, mi veniva un tedio infinito: mi dibattevo fra quelle mura come un falchetto in una stia da uccellino; sentivo una tale smania d'andarmene che il solo odore del fumo della strada ferrata, alle volte, mi faceva fremere come fa l'amante al profumo d'un fiore regalatogli dalla sua bella. E ciò non ostante non m'è rimasta nella memoria alcuna traccia dei particolari della partenza: non mi ricordo neppure degli addii dati in casa, nè di chi m'abbia accompagnato alla stazione, nè dello stato d'animo, triste o lieto, in cui mi ritrovavo all'ultimo momento. Mi ricordo soltanto che il giorno prima della partenza chiamai a raccolta nel cortile quelli che rimanevano dei miei antichi compagni scamiciati di gioco e di milizia, e che distribuii fra tutti, perchè ne facessero un regalo ai loro fratelli piccoli, quanto mi era restato in casa dei miei trastulli della fanciullezza: stampe colorite, che rappresentavano soldati francesi e italiani, casette e figurine di presepio, e trombe e daghe di legno dei miei tempi bellicosi. Solo allora, quando vidi portar via quella roba che m'era stata un tempo così preziosa, provai un senso di tenerezza e di mestizia, come se in quel punto si fosse spezzato il legame che teneva ancora unito in me il giovinetto al fanciullo, e quei giocattoli fossero stati una parte viva di me, che morisse in quel punto, e la portassero a seppellire. V'è da quel momento un buio nella mia memoria fino a quello in cui mi trovai solo in un vagone, sul treno che andava a Torino, con una grande sacca coricatasul sedile, dentro la quale c'era tutta la compagnia dei grossi burattini dalle teste di legno, scolpite dal mio buon padre, che avevan deliziato non solo la mia, ma anche la fanciullezza dei miei fratelli, e che mia madre m'aveva affidati con molte raccomandazioni perchè li portassi a un mio nipotino di Torino. Vedo ancora quella vecchia sacca da viaggio ricamata a colori vistosi, e quasi risento sotto le mani le teste dure di quegli antichi amici, che facevan gobba da tutte le parti. E a questo ricordo mi vien sulle labbra un sorriso d'ironia malinconica. Sì, proprio, in quella sacca era chiusa l'immagine del mio avvenire. Ahimè! Che cosa ho fatto altro nella vita che far ballare dei burattini? E non ho nemmeno la coscienza d'essere stato un grande burattinaio. Eccomi qui, coi capelli bianchi, già preparato a un'altra partenza, e mi pare d'aver di nuovo accanto quella sacca. Allora c'era chiuso il mio avvenire, ora c'è chiuso il mio passato.Vanitas vanitatum: ecco il fondo delle cose, e la conclusione di tutto. Quando queste parole, che sogliono rattristar l'animo e offender l'orgoglio dell'uomo, gli son diventate un conforto, vuol dire che il suo cammino è finito.