Chapter 12

— Il mio diritto — interruppe Riccardo — il mio diritto che mia cugina ha riconosciuto ed alquale io avrei rinunziato lieto di vivere nell’oscurità e di spargere il mio sangue pel servizio dei miei Sovrani...

— Questo sì, che è ben detto! — esclamò il Re.

— Ah, ah, il lupo si va addomesticando — mormorarono i cortigiani.

— Stia qualche giorno a Corte e diverrà cane da pagliaio.

— Fu mia cugina che svelò il segreto — continuò Riccardo — al certo perchè ripugnava alla sua natura eletta, alla sua anima nobilissima...

— Bene, bene... Dite invece al suo amore per voi — interruppe il Re con bonomia — al suo amore che le fece commettere un fallo sì enorme con aprirvi di notte la porta della sua stanza. Ma noi ripareremo e sarà tutto per il meglio... Quel titolo che il vostro diritto le portava via le sarà ridato dal matrimonio...

Lord Bentinck che aveva taciuto finallora, tenendosi impassibile in vista, pure essendo roso in cuor suo dalla rabbia, ruppe il silenzio per dire al Re:

— Perdoni, Sire, ma a me pare che Sua Maestà la Regina dovrebbe pur dire qualcosa. Dio mi guardi dal dubitare delle parole di questa nobile giovinetta, parole troppo gravi perchè fossero dette inconsideratamente. Ella si è accusata di una colpa così... via, così... starei per dire... inverosimile, da far supporre quasi che il suo sia... sia... un sacrifizio eroico; sì, eroico per una fanciulla così pura... così immacolata...

— Che intendete dire, milord? — esclamò il Re stizzito, ben comprendendo che l’Inglese cercava d’intorbidare le acque.

— Nulla più di quello che ho detto! — rispose lord Bentinck che intanto fissava la Regina con un sarcastico sorriso ed uno sguardo minaccioso.

Carolina d’Austria che era rimasta finallora oppressa dalla fatalità, atterrita dal veder crollare tutte le sue speranze, colpita nei suoi affetti e nelle sue ambizioni di donna e di Regina, si drizzò fieramente a quello sguardo e a quel sorriso.

Era quello, quello il nemico, quello il suo demone! Tutto il suo odio, la sua rabbia, la torrida sete di vendetta, si versarono su quell’Inglese che ancora la sfidava, che ancora la minacciava come se non fosse soddisfatto appieno nel vederla così confusa, così avvilita, così oppressa, egli che pur doveva comprendere tutto l’orrendo strazio che le lacerava il cuore; egli che pur comprendeva quanto l’eroico sacrifizio di quella giovinetta le riuscisse atroce, chè se evitava lo scandalo, sottraeva al suo giogo l’uomo da entrambe amato.

Onde trasse dall’odio quella forza che non le avevan dato la gelosia e l’amore deluso. Si alzò e quantunque le parole che stava per proferire fossero per lei irte di spine e le lacerassero la labbra disse:

— Sì, è vero, trovai quel giovane in colloquio amoroso con la mia lettrice, nella stanza di lei. Quando irruppe qui tutta cotesta gente, essi confessavano a me la loro colpa...

E sorrise lei, ora, sarcasticamente; balenarono a lei gli occhi minacciosi mentre diceva ciò fissando l’Inglese che aveva sperato di confonderla.

— Ma se io l’aveva chiusa a chiave nella mia stanza! — gridò il padre di Alma che non potè più oltre contenersi.

— È vero, padre mio — rispose la giovinetta — ma io scesi per la finestra per venir qui ove mio cugino mi aspettava.

— Insomma — disse il Re rassicurato e quindi riprendendo il buon umore — la cosa è chiaraoramai, ed è finita, meglio di quello che era incominciata. Ora dirò io l’ultima parola e poi tutti andremo a letto, chè dovremo alzarci per tempo domani.

Poi volgendosi al padre di Alma:

— Sono io, il Re, che vi chieggo la mano della vostra figliuola per il giovane duca di Fagnano vostro nipote.

— Sire! — balbettò il vecchio inchinandosi.

— Voi — continuò il Re — serberete il titolo di duca; vostro nipote porterà quello di conte di Rovito che io gli concedo come regalo di nozze.

In fondo il vecchio duca di Fagnano non era del tutto scontento, onde s’inchinò al Re senza poter dire parola. Gli è che era stato così rapido quell’avvenimento, così impreveduto, sconvolgeva a tal segno la vita che egli non era ben sicuro se fosse un’allucinazione, un giuoco della fantasia.

— Ed ora andiamo a letto — disse il Re volto agli astanti. — Permetto a questo giovane di venire ai nostri ricevimenti e curerò io stesso che fra otto giorni le nozze siano celebrate.

La Regina era rimasta in piedi. Rispose appena con un lieve cenno della testa al profondo inchino di ciascuno degli astanti, sorrise al Re che le augurò la buona notte; ma quando vide che lord Bentinck le si appressava, un’espressione di sovrano orgoglio le si dipinse in volto. In quel dolore in quello strazio, la vittoria riportata su se stessa e che era anche vittoria sulla perfidia inglese, le era di supremo conforto e la risollevava ai suoi occhi.

— Che Vostra Maestà perdoni — disse l’Inglese inchinandosi — se osai chiedere il suo parere su questo strano incidente, del tutto impreveduto e... imprevedibile.

Ella che sentiva salir dalle viscere delle ondate di odio si contenne e rispose, fissando negli occhi dell’Inglese gli occhi fiammeggianti:

— Io sono usata, milord, all’imprevedibile che muta talvolta la vittoria in disfatta.

L’Inglese per quanto facesse sforzi per tenersi impassibile, pure impallidì, s’inchinò di nuovo e andò via dietro gli altri signori a cui tardava di poter raccogliersi in crocchio per commentare lo strano caso.

La Regina aveva cercato con gli occhi Riccardo, ma Riccardo era sparito.

Alma era rimasta: si teneva immobile, pensosa, stanca delle tante emozioni e sorpresa quasi di quel che era accaduto in sì breve tempo. Oramai era la fidanzata, fra pochi giorni sarebbe stata la sposa... dell’amante della Regina!

È vero che ella l’amava, è vero che egli l’amava, ma pur sempre un’altra, un’altra aveva dei diritti sull’uomo al quale fra breve sarebbe stata congiunta. Ah, la sua vita dolce, tranquilla, pensosa era finita, finita per sempre in un contrasto ben terribile di affetti!

Non si era accorta che la Regina le si era avvicinata. Sol quando intese la mano di lei sulla spalla alzò il capo e trasalì nell’incontrarne lo sguardo.

— Tu dunque sapevi del tranello che mi si tendeva? — chiese la Regina.

— Sì, lo compresi da alcune parole.

— E solo per salvarmi, solo per salvarmi ti accusasti di un fallo che ti disonorava in faccia a tutti?

— Sì — rispose lei sostenendo con fierezza lo sguardo della Sovrana — solo per salvar la vostra dignità regale.

— E per uccidere il mio cuore!

— Ho pensato alla Regina, non alla donna, alla figlia di una imperatrice, alla sorella di tanti augusti sovrani, alla vostra corona regale, sicura che la donna avrebbe saputo vincer se stessa.

— E tu dunque fra otto giorni te ne andrai con lui, felice, esultante, superba di aver salvato la tua Regina strappandole l’amante per fartene un marito che ti ridà il titolo e i beni a cui d’ora innanzi non avresti più diritto!

L’insulto oltraggioso, vieppiù acuito dall’accento onde la Regina proferì queste parole, fece impallidire la giovinetta. Lo sdegno sfavillò negli occhi pur così dolci; sussultò in tutta la persona come al tocco di un ferro rovente, mosse le labbra tremanti per rispondere nell’impeto della collera, ma giunse con uno sforzo supremo a dominarsi, e la pietà subentrò di un tratto allo sdegno.

— Voi dite parole indegne di un labbro regale, indegne di un’anima di donna e di regina — disse lentamente. — Se i vostri nemici vi udissero, se vi vedessero, avrebbero pietà di voi!...

— Pietà di me, pietà di me! — gridò lei.

— Sì, come ne ho io. Io vi ho salvata non per essere la sposa di lui, no: egli non entrerà nella camera nuziale. Io lego indissolubilmente l’anima mia ad un uomo che amo, è vero, ma dal quale mi separerò per sempre, intendete? per sempre. Voi non perderete il vostro amante, o signora, chè io sdegnerei i baci umidi ancora dei baci di un’altra donna, sdegnerei le carezze che un’altra donna inebbriarono. Del sacrificio dell’onor mio alla vostra salvezza, della mia bontà al vostro onore, io non chieggo altro compenso che l’obblio.

L’accento dolce ma fermo della giovinetta scossela Regina. La tensione di quell’anima travagliata cedette di un tratto per la sua stessa violenza. Comprese quanto nobile e generosa fosse quella fanciulla che senza esser nata a piè di un trono aveva virtù regali, e quanto diverso dal suo fosse l’amore di lei per Riccardo.

Non la rovina dei suoi disegni, non la disfatta intera, completa riportata nella lotta ingaggiata contro tutti l’avviliva tanto quanto il dover constatare la sua inferiorità di cuore e di carattere innanzi a quella giovinetta che pure in lei riveriva la Sovrana, al cui decoro, al cui prestigio si era sacrificata.

Non era la donna che doveva esser grata, era la Regina che in quella dolce e buona creatura aveva trovato una virile, eroica difesa, mentre tutti l’avevano abbandonata; in quella buona e dolce creatura, la quale rinunciava financo al diritto che le veniva dalla sua nobile ma disonorante menzogna: all’amore di Riccardo.

E cadde sulla poltrona, mentre due calde lacrime le sgorgavano dagli occhi.

Alma le vide, e compresa da una profonda tenerezza le s’inginocchiò dinanzi. Il dolore di quell’anima di donna rendeva vieppiù augusta la Regina. Le prese le mani e non potendo proferir parola, le baciò.

Carolina d’Austria si chinò dolcemente sulla testa della giovinetta e le disse:

— Tocca a me ora, tocca a me sacrificarmi per la tua felicità. Come donna la vita del mio cuore è finita, come Regina con un sacrificio compenserò il tuo sacrificio. Fra otto giorni lascerò la Sicilia per andar lontano, lontano a morire come Regina e come donna!

E quelle due creature tanto diverse d’indole, divita, di costumi l’una dolce e pura come un raggio di sole, l’altra ardente, come fiamma di vulcano, feroce nelle vendette, atroce negli odi, s’intensero accomunate dal dolore e piansero a lungo, strette in un amplesso.


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