X.

X.

Erano scorsi otto giorni.

Ferdinando IV non aveva mai preso tanto a cuore gli affari del suo regno quanto le nozze di Alma con Riccardo che il giorno appresso all’accaduto di quella sera in cui la figliuola del duca di Fagnano innanzi a tutta la Corte aveva confessato i suoi rapporti col cugino, era stato nominato conte di Rovito.

Il Re però aveva fatto venire innanzi a lui il vecchio duca, il quale dopo un colloquio con la figliuola si era mostrato propenso a riconoscere il nipote ed aveva assentito alle nozze che il Re voleva si celebrassero al più presto.

Grande era stato lo stupore in tutti per la cedevolezza del duca, di cui si sapevano le ambizioni e gli occulti maneggi per tenersi in grazia degl’Inglesi, e si sapeva anche come ei vagheggiasse di dar la figliuola in moglie ad un parente di lord Bentinck. Riconoscere così di un tratto per suo nipote un avventuriere in base a un documento che se anche autentico ben poteva essere attaccato di falso, pareva strano assai a quella gente, la quale non aveva tanta stima di lui da credere che ubbidisse alla voce del cuore e del rimorso.

Quale era stato dunque il movente, se bisognava escludere quello dell’onestà, che aveva indotto il padre di Alma ad accettare per genero un giovane che finallora aveva qualificato come un intrigante e se mai, come un bastardo di suo fratello?

Nessuno però sapeva quel che da poco aveva saputo il vecchio furbo: che il riconoscimento di Riccardo come figlio legittimo del vero duca di Fagnano era avvenuto in presenza di tutti gli ufficiali francesi del battaglione che aveva messo stanza nel castello; quindi la loro testimonianza avrebbe conferito maggior valore all’atto matrimoniale ed alla fede di battesimo da Alma consegnati al conte di Ferrantino, notaio della Corona; inoltre, ciò che ancora era da tutti ignorato, pochi giorni innanzi il Re Murat aveva promulgato un decreto d’amnistia per tutti gli emigrati napolitani, anche se avessero combattuto contro i Francesi, anche se avessero fatto parte delle bande brigantesche; e dava facoltà ad essi di tornare in patria ove avrebbero riavuti i beni confiscati appena dimostrati i loro diritti e a patto che facessero adesione al nuovo governo.

Ora il vecchio furbo che aveva visto venir meno tutti i suoi disegni e deluse tutte le sue ambizioni; che vedeva in pericolo l’ufficio affidatogli e le magre risorse che gliene venivano; il vecchio furbo che pensava con una stretta al cuore al suo castello divenuto una caserma, ai suoi boschi, alle sue terre, a tutte quelle sterminate ricchezze che facevano dei duchi di Fagnano i più cospicui signori del Regno, sentiva prepotente la nostalgia dei luoghi in cui era nato, in cui era vissuto nei piaceri.

Il matrimonio di sua figlia con suo nipote appianava tutti gli ostacoli, evitava una lite che avrebbe di certo perduto, gli ridava per dir così la legittimità del possesso; ed ecco che quel fortunato incidente si risolveva a suo vantaggio pur salvando la Regina da uno scandalo.

Nè l’eroica abnegazione della figlia nel dirsirea di un fallo che macchiava indelebilmente l’onore del nome l’aveva punto turbato. Essa aveva salvato l’apparenza, ma non la sostanza; aveva impedito che il perfido tranello teso alla Regina avesse i rovinosi effetti che se ne ripromettevano i nemici di lei, ma nessuno, proprio nessuno aveva creduto alla nobile e generosa menzogna della fanciulla, sicchè non solo l’onore era salvo, ma l’eroismo della figliuola tornava a lode, ad alta lode del suo nome!

D’altra parte lord Bentinck, deluso e scornato, aveva smesso il proposito di perseguitar Riccardo. Tornava alla politica inglese il non metter troppo in mostra le sue violenze. Se il tranello fosse riuscito e Riccardo fosse stato riconosciuto per un volgare avventuriero di quelli che la Regina aveva assoldato, l’arrestarlo e quindi il condannarlo non avrebbe sorpreso; ma si era rivelato per uno dei primi signori del Regno, ma il Re lo aveva nominato conte di Rovito, ma le sue nozze avrebbero dovuto riparare all’onore di una delle più cospicue fanciulle: bene odioso dunque sarebbe riuscito l’intentargli un processo pel quale mancavano anche i testimoni d’accusa, chè a ver dire nessuno avrebbe potuto giurare che il calabrese uccisore in rissa, di due soldati inglesi, che colui il quale era accorso in difesa dei suoi compaesani rifugiatisi nel bosco di S. Andrea fosse proprio lui, Riccardo.

Del resto, l’odio di lord Bentinck per la Regina era in parte soddisfatto: quantunque il tranello fosse stato sventato la Regina non aveva perduto l’amante? Non era questo il dolore di lei, che era stato di conforto al ministro inglese? Non l’aveva vista smarrita, anelante, quasi furente per la generosa menzogna della figlia del duca di Fagnano?Inoltre, l’intento che si proponeva era raggiunto. Il giorno appresso era corsa una voce che le spie al servizio del ministro inglese avevano confermato: tra pochi giorni la Regina sarebbe partita per Vienna!

Verso il pomeriggio del giorno indetto per le nozze che il Re aveva voluto si celebrassero nella villa reale, in un appartamentino a pianterreno Riccardo e il vecchio duca di Fagnano discorrevano da buoni amici. Era stato il duca che il giorno appresso al riconoscimento aveva voluto che il giovane lo seguisse a Palermo, donde eran tornati insieme quella mattina.

— Dunque, siamo d’accordo — diceva il vecchio. — Non si parli più del passato; tuo padre, requie all’anima sua, ebbe i suoi torti io ebbi i miei. Certo se avessi saputo che mio nipote, il figlio di mio fratello languiva nella miseria...

— Non si parli del passato! — interruppe Riccardo con un malinconico sorriso.

— È vero, è vero. Del resto, tutto per il meglio, caro conte. Intanto sai la nuova? La Regina partirà domani per Vienna. Sarebbe partita prima, ma vuole assistere alle nozze. Quella lì è furba, quella lì! Non vuol far credere che le riescano dolorose.

E rise nel dir ciò guardando maliziosamente il giovane che rimase impassibile.

— Questa partenza viene a proposito, altrimenti Alma non avrebbe potuto lasciare il servizio senza esser detta ingrata... Ma tu sei triste, tu sei preoccupato!... Capisco, capisco... Non si sta tanti anni a Corte senza divenire esperto del cuore umano. Pure se vuoi confidarmi le tue pene, troverai in me un buon consigliere.

— Non ho nulla da confidarvi — rispose il giovanecon un sospiro. — Comprenderete però quanto sia incerto l’animo mio...

— Comprendo, comprendo! Il colpo di testa di Alma... perchè fu un vero colpo di testa... dovette sbalordirti come sbalordì me, come sbalordì tutti, quantunque nessuno ci abbia creduto; nessuno, neanche il Re che ha commissionato l’abito, il velo nuziale, con la più candida corona che mai abbia cinto fronte di fanciulla. E lo so io perchè è lieto il Re, perchè ostenta tanta premura! Povero vecchio, non gli parve vero, anzi non gli par vero, tanto più che è giunto anche a liberarsi dalla moglie che partirà dimani, di esserne uscito senza molti fastidi, e che sia finito come finiscono tutte le commedie: con un matrimonio, ciò che pareva dovesse finire come una tragedia!

Il giovane taceva pensoso scrollando il capo talvolta, per rispondere al certo ad un suo pensiero non lieto!

Invero, delle tante avventure della sua vita, quella che verosimilmente sarebbe stata l’ultima, era la più grave, la più triste, pur avendo per una strana e perfida ironia del destino l’apparenza di un fausto evento.

Il Re non solo aveva riconosciuto i suoi diritti come duca di Fagnano, ma gli aveva conferito un altro titolo per toglierlo di imbarazzo innanzi a suo zio; non solo egli non aveva nulla da temere dagl’Inglesi che a lui e alla Regina avevan teso un tranello rovinoso, ma con la sua menzogna Alma aveva reso inevitabile un matrimonio che fino a pochi giorni innanzi pareva financo assurdo il sognarlo.

Da quella sera fatale suo zio l’aveva voluto con sè a Palermo ove lo avea presentato alla più alta nobiltà di Napoli e di Sicilia. In quelli otto giorniche aveva vissuto come in un vaneggiamento, avrebbe giurato che lui fosse un altro uomo; così diverso era il mondo nel quale viveva, così strani eran per lui quelli avvenimenti; e vedendosi in abito signorile che, costretto da suo zio, aveva vestito, in mezzo a gente nuova che lo trattava da pari a pari, sentendosi dare un titolo al quale non era usato, era tale la stupefazione che doveva guardarsi nello specchio per chiedere se fosse lui, proprio lui, il conte di Rovito, il fidanzato di Alma, e se fosse vero, se fosse vero che fra otto giorni, nella villa reale, innanzi al Re, innanzi alla Corte, al piè di un altare Alma gli avrebbe dato la mano di sposa!

Sposo di Alma, lui! E la Regina, la Regina della quale rivedeva l’immagina sconvolta dal dolore, dallo strazio, e di cui gli pareva d’udire i sordi gemiti; la Regina, vinta, umiliata, delusa anche in quell’ultimo affetto del suo cuore di donna; la Regina, mal sopportata dal marito, in odio ai figli, maledetta dalle tante vittime, e cui solo per atroce ironia restava un titolo regale, una parvenza di sovranità, la Regina si sarebbe rassegnata a vedersi anche da lui abbandonata, si sarebbe rassegnata a vederlo e a saperlo felice nella gioia di un amore che era stato l’unico e vero amore della sua vita?

E Alma, Alma, quantunque l’amasse, avrebbe, lei così fiera, lei così leale, accettato con tutte le conseguenze quelle nozze a cui era costretta dalla sua generosa menzogna? Avrebbe aperto le braccia all’amante della Regina, la quale in quella menzogna avrebbe visto non un’eroica abnegazione, ma un calcolo perfidamente ipocrita?

Eran questi i pensieri che volgeva nell’anima e che si confondevano in un torbido vaneggiamento,nel quale egli, per dir così, non sentiva più se stesso. Uomo di azione, solo in presenza del nemico, nell’imminenza del pericolo ritrovava la sua energia, ridiveniva l’audace capobanda; ma in tali contrasti d’affetti e di sentimenti, si smarriva, sentendosi come in un ginepraio dal quale non sapeva come liberarsi.

E perciò mentre il duca, sicuro di essere ascoltato, discorreva lasciandosi trasportare dal suo lieto umore, lieto perchè già vagheggiava un disegno che gli avrebbe ridato definitivamente la pace e il benessere, il giovane si teneva silenzioso, tutto immerso nel tristi pensieri che gli riddavano pel capo.

— Io sono stanco — continuava a dire il duca che gli era seduto vicino — stanco di questa vita così incerta, così faticosa, ed anche così poco onorevole. I veri padroni qui son gl’Inglesi. Ora stranieri per stranieri, padroni per padroni, valgono un pò più i Francesi. Non dico bene? E perciò ho pensato di avvalermi dell’amnistia e di ritrarmi con voialtri in Calabria.

Il giovane fece un gesto che parer poteva di consenso.

— Non per me oramai che son vecchio, nè per te che devi esser anche disilluso della vita vissuta finora, ma... ma per coloro che verranno bisogna riordinare un pò l’azienda di casa nostra. Chi sa che rovina, chi sa che disastro in quelle nostre terre, in quei nostri boschi, in quel nostro povero castello! Ma in breve, vedrai, riparerò a tutto, farò tornare tutto in ordine... Bisogna dire che i Francesi sono onesti, che re Gioacchino è un gran Sovrano! Ah, se si tornasse a nascere!

— È certo dunque che la Regina va via? — chiese Riccardo come ridestato di un tratto.

— E che farebbe più qui? — rispose il duca con una scrollata di spalle. — Va via, sicuro. Se la povera Sicilia come la Calabria non fu tutta in fiamme, non fu certo per merito suo. Gli è che qui non poteva riuscire il piano infernale perchè noi abbiamo fatto senno dopo tanti e tanti disinganni, e tante sventure. La sai la canzone?Carulì, è fernuto quell’anno — Ch’era ognuno gabbato da te — Mo se sape, sì piena d’inganni...

— Povera donna! — mormorò il giovane.

— Sì, povera donna! — bofonchiò il duca. — Ma sai tu quel che ha tentato di fare, lo sai? Suo figlio, il Vicario generale, l’ha scampata per puro miracolo e i medici furono tutti di accordo nel ritenerlo avvelenato. Da chi? Dalla madre, comprendi? dalla madre! Sai tu che lord Bentinck ha le prove che ella era affiliata a quell’Arciconfraternita di San Paolo che mandava i suoi adepti da un capo all’altro della Sicilia con l’ordine di uccidere di incendiare, e sai tu chi designava le vittime al coltello degli assassini, lo sai tu? La Regina!

— Povera donna! — ripetè Riccardo che pareva non avesse inteso le parole del duca.

— Ah! — fece il duca offeso — se continui a compassionarla così, mi costringi ad esclamare: Povera figlia mia!

Tali parole fecero sussultare Riccardo; furono il vento che fuga la nebbia, il grido della scolta che sveglia il soldato. Si drizzò in tutta la bella e maschia persona.

— Alma — gridò — Alma! Ma un Dio ebbe mai adoratore più fervido, un cuore più devoto, un’anima più disposta a morire per ottenerne un sorriso? Voi dunque non sapete, non sapete che dal fango in cui vissi finchè la Provvidenza nonmi trasse in su, io, come il navigante perduto nell’Oceano si affissa nella luce di una stella, mi affissai in lei che avrebbe sdegnato financo di calcarmi col suo piede? Ella lo sa, lo sa che di lei ho vissuto anche mentre travolto da una fatalità legai il mio destino a quello di una misera figlia di monarchi, sovrana anche lei, le cui sventure, le cui angosce han cancellato le colpe, han purificato l’anima, l’han fatta degna di pietà e di rispetto!

Il duca non sapeva qual contegno tenere. Nelle violente parole del giovane intravedeva un fiero biasimo per sè e per tutti coloro che non avendo più nulla a temere dalla Regina, la vilipendevano. Pure non seppe trattenersi dal dire:

— Nei tuoi panni io... non mostrerei tanto interesse. Si sa, si sa che... Si sa tutto, insomma. Ammirerei la tua costanza se non fossi il padre di colei che fra poche ore sarà tua moglie!

— Io non l’abbandonerò — rispose lui con risoluto accento — io che forse se l’avessi vista sul trono innanzi a voi tutti in ginocchio mi sarei tenuto in disparte. Non l’abbandonerò finchè ella stessa non mi manderà via. Vostra figlia è troppo una nobile ed eletta creatura per non comprendere che il dovere, intendete? il solo dovere mi impone di non imitare i suoi cortigiani di un tempo. Come ella ha sacrificato il suo onore di fanciulla, come ella per stornare poi il pericolo che sovrastava alla Sovrana osò con una eroica menzogna rendere necessario un matrimonio al quale il mio e il suo cuore anelavano, ma che la fatalità aveva reso impossibile, così io debbo fare al dovere olocausto del mio cuore. Io non varcherò la soglia della camera nuziale: farei oltraggio a me stesso...

— Come? — gridò sbalordito il duca. — Ho compreso bene quel che hai detto?

— Sì: la vostra meraviglia, il vostro sdegno attestano che l’avete ben compreso, quantunque vi sembri strano e forsanco... forsanco...

— Cose da pazzi, cose da pazzi! — proruppe il duca — Mia figlia dunque non avrebbe voluto tali nozze che la sua menzogna ha reso necessarie? Ma che pasticcio è questo? Moglie senza marito, marito senza moglie, nozze senza... E tutto ciò per quella donna che ha portato il lutto, il disordine ovunque ha esercitato la sua infausta influenza!... E mia figlia, mia figlia...

— Vostra figlia è un angelo, vostra figlia è la più nobile e più eletta creatura... Voi, duca, non potete intenderne tutta l’angelica e insieme fiera natura. Io andrò ramingo, io dovrò forse a lungo lottare col mio destino, io forse morrò, ma l’ultimo mio sospiro sarà per quella santa creatura, al cui nome adorato raccomanderò l’anima mia.

— Io non ci capisco nulla, non ci capisco nulla! — borbottò il vecchio.

— Voi tornerete in Calabria — continuò il giovane. — I Francesi saranno ben lieti di accogliervi; il Re Gioacchino ama di rinconciliarsi con l’antica nobiltà napolitana. Io, anche se il dovere non mel vietasse, non verrei. Troppo il mio nome di guerra echeggiò per quei boschi, troppi Francesi caddero per mia mano: solo il tempo potrà attenuare la memoria delle mie imprese. Voi sarete umano con la povera gente che ha tanto sofferto, e che delle nostre passioni, delle nostre ambizioni ha sopportato tutte le orribili conseguenze. Un’altra cosa voglio da voi: che sulla tomba di famiglia ove fu seppellito il povero padre mio facciateelevare un ricordo marmoreo, in vostro nome, zio, in vostro nome!

Il duca apparve visibilmente turbato; il giovane non mostrò accorgersene e proseguì:

— Vi è un vecchio laggiù, spero non sia morto, Carmine, un brav’uomo che mi raccolse, che divise con me il suo scarso pane e che... è legato a me da tanti vincoli. Egli conobbe la madre mia e ne raccolse l’estremo sospiro; egli confortò l’agonia di mio padre. Se lo troverete ancor vivo, gli darete alloggio nel castello, non già come servo, no, come amico, intendete? come amico.

Quantunque dolce e quasi dimesso fosse l’accento del giovane, pure non pareva che volgesse una preghiera, ma che desse degli ordini. Era una dolcezza autorevole e recisa la sua, tanto che il vecchio ne subiva l’influenza.

— Sta bene — rispose — farò quel che vuoi.

— Non quel che voglio, quel che dobbiamo. Inoltre, vi ricordate, è vero? di una certa Geltrude, una vecchia mugnaia? Anche lei fu buona e pietosa con me. Lasciatele finchè campa il godimento del molino. È il meno che si possa fare per lei.

Il vecchio non pareva punto soddisfatto, ma non osava protestare. Capiva che il nepote gl’imponeva quella espiazione alle sue colpe: nobile espiazione che lo costringeva a soccorrere coloro che aveva perseguitato. Ciò riusciva ostico assai alla sua altezzosità, ma si ricordò in buon punto che non aveva il diritto di ribellarsi più, onde piegò il capo assentendo.

— E poi ci è un altro, un altro, che al certo vorrà godere dell’amnistia.

— Un altro?

— Sì, che mi salvò la vita più volte, che piùvolte rischiò la sua per me; un vecchio, che conservò per trent’anni l’atto matrimoniale che fa fede essere io nato da legittime nozze; un vecchio che mi amò più che figlio, al quale unicamente debbo oltre la vita, il mio stato attuale... Pietro il Toro.

— Quel brigante? — esclamò il duca che si conteneva a stenti.

— Sì — rispose il giovane il cui sguardo fiammeggiò di sdegno, pur continuando con accento dolce e tranquillo — sì, quel brigante, più leale più onesto, più fedele del più cospicuo signore di Napoli e di Palermo; un galantuomo a petto del quale molti duchi, conti, marchesi, son dei farabutti. Se egli dunque tornerà nel nostro paesello, voglio, intendete? voglio che lo si metta a capo dei nostri guardiani, che si alloggi nel castello, lo si provveda di cibo, di vesti, di fuoco, lo si tenga in conto di un amico, non di un servo. Mi avete ben compreso, mio caro zio?

— Sì, sì, ho compreso — rispose il duca stizzito.

Gli è che tentava ma invano di ribellarsi contro il fascino che esercitava su lui il nipote. Capiva che quel giovane aveva qualcosa in sè di autorevole, d’imperioso, da soggiogare la volontà di lui come già l’aveva soggiogata. E cosa strana, in quella natura egoistica, quasi cinica, sentiva di volergli bene, come non ne aveva mai voluto a nessuno, fuor che alla figliuola: era la così detta voce del sangue, quella, o era il rimorso che si manifestava in tenerezza per la vittima della sua ambizione?

Ma Riccardo si era di nuovo immerso nei suoi pensieri.

Intanto si avanzava la notte, e già per la villasi notava un insolito movimento. Delle carrozze erano giunte da Palermo e gli appartamenti eran pieni di signori e di dame attratti dal caso strano. La maggiore curiosità era destata dallo sposo, intorno al quale correva una leggenda che lo rendeva interessantissimo. Il Re aveva ordinato che nulla si risparmiasse perchè le nozze riuscissero sontuose. Un ricco corredo messo insieme in fretta e in furia era venuto da Palermo: una vecchia dama di palazzo, la marchesa di Gioncada, era stata pregata dal Re di far da madrina alla sposa per la quale aveva fatto addobbare un appartamento in un angolo finallora disabitato dell’ampia villa.

O volesse divertire la sua solitudine e rompere la monotonia della sua vita quotidiana, o volesse far prendere sul serio la confessione della giovanetta, o volesse incrudelire con la moglie, ben comprendendo quanto dolorose dovessero riuscirle quelle nozze che legavano indissolubilmente a un’altra donna il di lei amante, l’interessamento del Re era davvero insolito. Però la vera ragione non era sfuggita alla duchessa di Floridia che aveva ottenuto un invito per le nozze, e che verso l’imbrunire per una porticina segreta era penetrata nell’appartamento del Re.

— È stata un’imprudenza, cara duchessa — le disse il Re seccato, temendo che la presenza dell’amante potesse suscitare qualche spiacevole incidente. — In verità, speravo che non avreste tenuto conto alcuno dell’invito...

— Un invito di Vostra Maestà è un ordine per me — rispose lei con aria sorniona.

— Capisco, ma avrei preferito che disubbidiste questa volta, e ve ne sarei stato gratissimo, credetelo.

— Ma allora... perchè mi avete fatto comprendere nella lista degl’invitati?

— Dio mio... perchè avendo invitato tutta lo nobiltà palermitana, non volevo eccettuar voi... Vi conosco assai bene: non me l’avreste perdonato... ma mi lusingavo che...

— Che io fossi stata così debole, così vile da non osar affrontare la presenza di vostra moglie?

— No, ma così generosa, così curante di me, così preveggente da evitarmi un impiccio, una preoccupazione. Infine quella lì fra due o tre giorni andrà via...

— In un modo o in un altro abbiamo raggiunto il nostro intento. Solo di quella povera ragazza mi dispiace... Legarsi per tutta la vita ad un uomo che non si sottrarrà mai, mai, agli artigli di...

— Io voglio, duchessa, voglio che non parliate così! Non posso permettere nessuna oltraggiosa allusione a chi Dio fece salire sul trono dei miei padri!

In ciò dire il Re aveva un aspetto severo che impose alla duchessa, la quale chinò il capo tra stizzita e confusa.

Ma erano rapidi in Ferdinando IV i risvegli alla dignità regale e presto dileguavano. Temendo il corruccio della duchessa, la prese pel mento e l’obbligò a sollevare la bella testa.

Gli occhi di lei erano bagnati di lagrime, vere o false.

— Ma insomma, è destino, è destino che ovunque mi volgo debbo vedere delle facce tristi? Andiamo, via! Del resto non è poi tanto da compiangere quella povera ragazza che riceveva l’amante fin negli appartamenti regali...

— Voi non lo credete, voi non lo credete punto.Quella poveretta si è sacrificata — gridò la duchessa che, sicura del suo ascendente sull’animo del Re, voleva punirlo del severo rimprovero che le aveva mosso.

— Piccina mia — disse il Re impazientito — va, va nella sala con gli altri invitati. E mi raccomando, anche se devi sopportare qualche... qualche sgarberia. Pensa che fra due o tre giorni tu sarai l’assoluta signora e padrona di qui. Hai capito?

Ella, tutt’ora in collera, si era alzata.

— Poichè Vostra Maestà mi manda via... — disse con voce di bimba piagnucolosa.

— No, no, ma no, non ti mando via; ma io ora debbo attendere alla mia toeletta... ho già fatto avvisare il cameriere.

— Vostra Maestà mi manda via ed io vado via!

Ed uscì, lasciando il Re stizzito, afflitto, ed un tantino anche seccato.

— Si equivalgono, si equivalgono; non pensano che a se stesse e sono ben liete di tormentarci! È una perfidia congenita la loro, anche nelle più buone!

Questo mormorava il vecchio Re mentre si affidava al cameriere che doveva curarne la toletta.

Alma da quella sera fatale aveva vissuto come incosciente di ciò che accadeva d’intorno a lei: affissata in se stessa del tutto estranea alle disposizioni che il Re aveva dato per affrettare il matrimonio, le avevano assegnato un appartamentino in fondo alla villa, lontano e separato da quello che abitava la Regina. La vecchia marchesa di Gioncada, pregata dal Re aveva assentito non solo a far da madrina alla sposa, ma anche a restar con lei finchè non si fosse celebrato il matrimonio.

Alma si chiedeva talvolta se quello fosse un sogno.Nel generoso impulso non aveva riflettuto alle conseguenze del suo sacrificio, onde era rimasta presa nell’ingranaggio. Comprendeva confusamente che coloro i quali avevano teso il tranello sventato da lei, si vendicavano del suo intervento facendogliene subire gli effetti, e forse avevano influito sull’animo del Re che dalla sua consueta apatia era uscito per occuparsi di quelle nozze come se fossero un affare di grande importanza.

Ella dunque sarebbe stata fra poco la sposa di Riccardo! Nella camera attigua a quella da lei abitata, la mattina del giorno destinato alle nozze aveva visto un affaccendarsi di camerieri e di valletti che agli ordini della marchesa di Gioncada disponevano arazzi e mobili e tappezzerie. Sarebbe stata quella la camera nuziale, chè il Re voleva esser l’ospite della giovane coppia. Ella nel suo intontimento intese come un brivido nel vedere in fondo, fra le tende di seta azzurra, elevarsi il talamo sormontato da un ricco baldacchino. Non le pareva vero, non le pareva vero! Pure non protestava, chè non sapeva come sottrarsi alla fatalità incombente. Aveva visto deporre nella sua stanza le vesti nuziali, col velo e la corona, ma era giunta quasi a credere che fossero per un’altra, tanto le pareva impossibile che proprio lei, fosse la sposa!

E pure talvolta era tutta una esultanza la sua, e le si dispiegava dinnanzi agli occhi un miraggio soffuso di una luce soavissima. Non amava ella quel giovane? Non aveva inteso per lui qualcosa d’ineffabile che non osava credere amore quando egli non era che un povero avventuriero venuto su pel suo coraggio dagli strati più umili della vita sociale? Non si era intesa punta da un sentimento che ben riconosceva adesso per gelosia, allorchècomprese quali fossero i rapporti fra quel giovane e la Regina?

Ella dunque l’amava, da gran tempo l’aveva amato, ed ora che lo sapeva suo cugino e per di più vittima delle male arti del padre, quanto più degno dell’amore suo non era quel giovane?

Le loro nozze avrebbero riparato a tutte le conseguenze dannose di quel riconoscimento. Sarebbero tornati insieme in quel vecchio castello, nei boschi secolari, tra la buona gente del paesello e avrebbero a poco a poco scordati i dolori e le traversie. I loro sogni s’erano incontrati ed erano divenuti una realtà: che importava se il caso aveva presieduto alle loro nozze, se la fatalità facendo macchinare l’indegno tranello ai nemici della Regina, aveva fatto sì che ella con una subita risoluzione salvasse l’onore della Sovrana e rendesse indispensabili quelle nozze? Di quel mezzo la Provvidenza si era servita per il suo altissimo fine, per congiungere i loro cuori, per riconciliare zio e nipote, per far risorgere una famiglia tra le più cospicue! Ella dunque poteva abbandonarsi all’esultanza ed affissar tranquilla e fidente la nuova vita che le si dispiegava dinanzi come un bel sogno d’oro e d’azzurro!

Ma il miraggio dileguava repente e ad esso subentrava una ben terribile visione: lui fra le braccia di un’altra donna, lui stretto da vincoli che nè la pietà, nè il dovere, nè la dignità di uomo gli avrebbero permesso d’infrangere, ad una donna da tutti abbandonata, in odio a tutti, che da una eccelsa altezza era precipitata nell’abisso di ogni miseria!

Alma sentiva che il suo orgoglio di donna si ribellava: lui non le aveva voluto quelle nozze: lui le subiva perchè salvavano la sua amante: luiquella sera non aveva osato smentirla perchè avrebbe dovuto confessare i suoi rapporti con la Regina!

Nel varcar la soglia della camera nuziale l’anima di lui non si sarebbe volta all’amante che sotto l’istesso tetto, sola, gemente, rosa dalla gelosia, straziata dal dolore, avrebbe maledetto l’istante in cui, dimentica della regale dignità, gli aveva aperto le braccia?

················

I convitati si tenevano in piedi presso alla sedia che era loro assegnata, volgendo gli occhi impazienti alla gran porta del salone donde venir doveva il corteo degli sposi. La presenza della coppia regale teneva in rispettoso silenzio la folla, solo lord Bentinck che avrebbe dovuto sedere alla destra del Re, dopo aver profondamente inchinato la Regina gli si rivolse per dirgli:

— La Maestà Vostra sa del decreto di amnistia, promulgato dal Murat?

— Sì — rispose il Re — e ne son lieto, milord. Anzi credo sia buona politica incoraggiare molti dei signori che mi han seguito in Sicilia e che... son costretti per vivere ad attingere a piene mani nella mia cassetta privata, a tornarsene nei loro feudi, ove forse potrebbero rendermi più utili servigi.

— Ma debbono riconoscere il nuovo governo e giurare di osservarne le leggi.

— Giurare, giurare! — borbottò il Re. — Il giuramento prestato ai felloni, agli usurpatori, non ha valore alcuno!

Intanto lord Bentinck guardava la Regina per scrutarne l’espressione del viso. Profondo osservatore, non gli era sfuggito nulla di ciò che ellaaveva in cuore. Il tranello non era riuscito, ma gli effetti erano stati disastrosi per la sua nemica, che era costretta ad andar via. Una battaglia perduta aveva fruttato ben più d’una battaglia vinta. La Regina, però era giunta ad imporsi un contegno calmo e fiero insieme, e all’inchino dell’Inglese aveva risposto con un sorriso.

— Ho pestato io il suo cuore in un mortaio! — mormorò l’Inglese che si teneva impassibile al suo posto.

— Eccoli, eccoli! — si susurrò dalla folla che aveva visto farsi innanzi il corteo nuziale.

Alma si appoggiava al braccio del padre. Al vederla un mormorio di ammirazione corse per gli astanti. La soave leggiadria della giovinetta era di quelle che accarezzano lo sguardo come un blando raggio di stella. Non aveva punto l’incedere timido e incerto delle giovani spose, quasi convinta che a tutti fosse noto che quelle nozze fossero la continuazione della sua generosa menzogna. Pure, allorchè vide l’altare sfavillante di lumi con monsignor Caccano, cappellano di Corte, in abiti vescovili, che doveva benedire gli sposi, impallidì, e il padre intese che il braccio tremava sul suo, mentre la giovinetta si arrestava quasi sgomenta.

Dietro a lei veniva Riccardo, che aveva vestito la divisa di colonnello degli usseri, cui gli dava diritto il brevetto firmato dal Re e che gli era stato dato dal duca nel giorno precedente alla difesa del castello di Fagnano. Era stato lo zio a volere che indossasse quell’uniforme: aveva voluto fargli una tale sorpresa facendo cucire a Palermo l’uniforme, e l’obbligò a vestirla proprio pochi istanti prima che scoccasse l’ora delle nozze.

— È il tuo diritto — gli aveva detto. — Conquali abiti vorresti comparire a Corte? Eppoi è un grado che hai ben guadagnato! Ne vedrai tanti in divisa di generali che han visto solo il fuoco del caminetto!

Egli si persuase. Perchè nascondersi? Non aveva il corpo crivellato di ferite? Non aveva esposto la sua vita quasi ogni giorno e per lunghi anni nelle zuffe sanguinose contro i Francesi e in difesa di quel Re e di quella Regina innanzi ai quali sarebbe comparso?

— Bellissimo, bellissimo! — si mormorava vedendolo passare dando il braccio alla vecchia marchesa di Gioncada. — Ma chi gli ha conferito il grado di colonnello?

— Questo sì che è un soldato! Che aria fiera e risoluta!

— È tutto un romanzo la sua vita!

— Un romanzo di armi e di amori!

Le signore guardavano ammirate. La giovinezza, la beltà, il nome, le avventure che si narravano confusamente, con quanto vi aggiungeva la fantasia; la passione della Regina per lui, quel che si susurrava dell’amore di Alma, che con un’ardita menzogna era giunta a sottrarlo alla rivale, conferivano maggior fascino alla sua bellezza maschia e fiera.

La Regina lo fissava, forzandosi di dissimulare l’emozione, superba di lui che vedeva ammirato, ma insieme col cuore stretto da una ineffabile trepidanza.

Il contegno del giovane non era nè spavaldo nè dimesso: solo quando giunse innanzi a lord Bentinck che aveva sul labbro un sorriso sarcastico, lo fissò; ma l’Inglese sì mantenne impassibile.

— Colonnello, colonnello degli usseri! — mormorò sorpreso Ferdinando IV.

Il vecchio duca di Fagnano che l’udì, s’inchinò al Re e rispose:

— Sì, Sire, nominato da Vostra Maestà con uno dei brevetti firmati in bianco che mi diede per premiare i più meritevoli. Allora non sapevo che uno dei più, se non il più meritevole, fosse mio nipote, al cui valore dobbiamo se i sacri giorni di Sua Maestà la Regina e la sua libertà furono salvi.

— Ah, ora intendo, ora intendo! — fece il Re — scrollando il capo.

Intanto Riccardo si era avvicinato all’altare. Alma nel vederlo trasalì lievemente: i loro sguardi s’incontrarono; essi intesero tutto il dolore delle loro anime, tutto il terribile contrasto dei loro cuori. Quelle nozze che avrebbero compendiato la felicità della loro vita, quelle nozze alle quali le loro anime anelavano; che erano per lui l’inaudita, l’immensa fortuna, la quale prima di quel giorno sarebbe parsa un sogno nel sogno; che erano per lui un cielo poc’anzi nero di nubi e che di un tratto aveva visto scintillante di stelle; quelle nozze, per un’ironia atroce del destino, erano per entrambi un abisso profondo!

La cerimonia incominciò nel silenzio solenne degli astanti.

— Sì! — rispose lui alla domanda del sacerdote.

— Sì! — rispose lei.

Gli anelli furono scambiati. Il sacerdote mormorò alcune parole e poi li benedisse.

Gli sposi si alzarono.

— Figli, figli miei! — disse il vecchio duca stringendo in un amplesso la figlia e il nipote.

Ella era livida: pur sorrideva, ma era una piega di dolore quella delle sue labbra. Lo sguardo immoto, senza luce, era di chi abbia l’anima altrove.

Lui si teneva immobile, scuro in viso, come perduto in un sogno. Nel darsi la mano, secondo il rituale, egli aveva inteso gelida la mano di lei nella sua pur anco gelida.

La Regina guardava con la torbida anima negli occhi: nulla le era sfuggito del cuore di entrambi. Quando ne udì il «sì» che assentiva alle nozze, un’ondata di sangue le annebbiò il cervello. Ma era giunta a dominarsi, era giunta a tenersi calma ed in vista sorridente.

Anch’ella si sentiva scrutata dallo sguardo sarcastico e trionfante di lord Bentinck, che assaporava la sua vendetta.

Il Re si fece innanzi agli sposi che s’inchinarono profondamente.

— Voi avete ben servito me e Sua Maestà la Regina: noi non scorderemo mai i vostri servigi. Questo gioiello vi ricordi, contessa, che la nostra benevolenza non vi verrà mai meno.

Ciò dicendo porse una busta alla giovinetta volgendole uno sguardo che ne sottolineava le parole.

Alma prese la busta e non rispose.

Il Re si fece da parte: Carolina d’Austria si avanzò e con voce ferma, quantunque le labbra le tremassero per la commozione:

— Porterò meco scolpito nel mio cuore quel che vi debbo — disse, evitando di guardare Riccardo, il quale era così chiuso nei suoi pensieri che parve non si fosse accorto che anche a lui la Regina aveva rivolto la parola.

Alcune dame si erano fatte intorno alla sposa per complimentarla; il Re discorreva con lord Bentinck; la Regina con una rapida occhiata volta in giro vide la gente distratta da lei, onde con atto furtivo si accostò a Riccardo e gli disse rapidamente a mezza voce:

— Stanotte ti aspetto...

Egli trasalì. Poi si rivolse e quasi bruscamente come se non alla Regina, ma rispondesse a un suo pensiero:

— Non dubitate — disse — Verrò!

— A cena, signori — fece il Re volgendosi agli astanti, e in ciò dire offerse il braccio ad Alma.

Era un grande onore che il Re concedeva alla sposa, la quale non parve punto imbarazzata. Riccardo avrebbe dovuto offrire il suo alla Regina, ma egli se ne stava immobile, come del tutto estraneo a quel che avveniva. Il vecchio duca di Fagnano gli passò vicino e senza aver l’aria di parlargli mormorò:

— Su, presto, offri il braccio alla Regina, che diavolo!

E passò oltre. Il giovane a queste parole tornò in sè, si avanzò verso la Sovrana e offrendole il braccio le disse con un amaro sorriso:

— Perdono, Maestà: gli è che son del tutto nuovo a certi usi...

Dietro al Re e alla Regina venivano a coppie le signore e i signori invitati, che potevano finalmente sciogliere la lingua ai commenti:

— Un matrimonio assai strano! — diceva la giovane e bella baronessa di Feroleto al suo cavaliere. — Lei aveva una cert’aria indefinibile... Mi è parso di assistere ad una monacazione più che ad uno sponsale!

— Lui pare smemorato! Certo un gran mistero vi è sotto!...

Mancava un’ora alla mezzanotte e la cena era in sul finire. Durante quel tempo Riccardo aveva scambiato poche parole con coloro a cui era stato presentato. Aveva evitato che i suoi sguardi s’incontrasseroin quelli di Alma e in quelli della Regina. Il suo pensiero era andato lontano lontano, ai primi anni della giovinezza, agli strani casi della sua vita di avventuriere, ben comprendendo che da quella sera un’altra ne incominciava per lui, forse più triste, più dolorosa della prima.

Eppure sentiva che la felicità era a pochi passi da lui, ne vedeva l’immagine luminosa, ne vedeva il miraggio fascinatore, ma per una atroce ironia del destino egli doveva volgere per un’altra via che gli additava il dovere: egli doveva distaccarsi da quella giovinetta che era stata la religione di tutta la sua vita.

Se ne doveva distaccare, doveva fuggirla ora che era sua, ora che Dio gliel’aveva data! Quell’ora suprema in cui due cuori, dopo avere a lungo sofferto si fondono nel bacio che incatena per l’eternità due esistenze, esser doveva per lui l’ora della separazione angosciosa! Non solo la fierezza di lei lo respingeva, ma anche la sua dignità di uomo si opponeva che egli usasse dei suoi diritti.

Quelle nozze erano una violenza, erano una menzogna, come la menzogna che le aveva rese necessarie. Se per tutti egli era lo sposo, per la sua coscienza era l’usurpatore, quasi un intruso, e ciò bastava forse a spegnere nell’anima di lui ogni sentimento di amore.

Pure egli sentiva che non si apparteneva più, e nonpertanto sentiva altresì che d’ora innanzi sarebbe stato solo al mondo. Se il suo dovere, il suo giuramento, la lealtà gl’imponevano di non abbandonare la regal donna che era da tutti abbandonata, la fede che aveva giurato ad Alma gli faceva un obbligo di rompere ogni altro rapporto con la Regina.

Per quelle nozze avrebbe dato la vita allorchè era un misero avventuriere, avrebbe dato la salvezza dell’anima sua, avrebbe dato tutto l’universo se fosse stato in suo potere; ora che quelle nozze erano compiute egli si sentiva più misero, più solo, vieppiù sprofondato nell’abisso del tempo in cui era un misero trovatello.

Non apparteneva a se stesso perchè legato dal dovere e dal giuramento alla Regina; non apparteneva a nessuna di quelle due donne, perchè l’una l’avrebbe respinto all’altra. Era questa la catastrofe, la terribile catastrofe della sua vita.

Il Re intanto si era alzato, sicchè come prescriveva il cerimoniale, tutti furono in piedi.

— Io bevo — disse il Re tenendo alto il bicchiere — alla felicità della giovane coppia, e che i figli abbiano del padre il valore e la lealtà, della madre le virtù del cuore.

Tutti bevvero in onore degli sposi, i quali rimasero muti, come affatto estranei a quel che accadeva.

La Regina si era alzata anch’essa e cercava con lo sguardo lo sguardo del giovane. Una fiera battaglia si combatteva in cuor suo, roso da una invincibile e atroce gelosia.

Quantunque egli le avesse risposto recisamente che in quella notte stessa sarebbe andato nella camera di lei, pure nel momento di lasciarlo, ben sapendo che, dopo, gli sposi, accompagnati dagl’invitati fin sull’uscio dell’appartamento che il Re aveva fatto addobbare per essi, sarebbero rimasti soli, un dubbio atroce le attenagliava il cuore.

Essi si amavano. Poteva mai la voce della lealtà, del dovere, dell’orgoglio esser più forte della voce dell’amore? Quale notte di spasimi sarebbestata la sua se invano lo avesse atteso, quale tragica notte di angoscia, di avvilimento!

Il Re mosse per andar via; la Regina che discorreva con alcune dame pur cercando ma invano con lo sguardo quello di Riccardo, comprese che non conveniva indugiare più oltre. Confusa, incerta, si mosse verso i valletti che sostenevano i grandi candelabri d’argento e che aspettavano per accompagnarla, ma nel rispondere con un cenno della testa al profondo inchino degli astanti si vide fissata con un perfido sorriso sardonico da lord Bentinck che si era inchinato non meno profondamente degli altri.

Le occorse uno sforzo sovrumano per non slanciarsi sul suo nemico. La tigre che era in lei s’accovacciò fremente d’ira sanguigna.

— Via, su — disse il vecchio duca di Fagnano volgendosi a Riccardo — dà il braccio a tua moglie: è tempo ormai di pensare a voi. Io sono stanco ed ho bisogno di riposo.

Il giovane, che se ne stava come trasognato, si scosse, si avanzò verso Alma che dritta in piedi aspettava. Egli le offrì il braccio.

Quando ella gli posò la mano sul braccio, Riccardo intese come un brivido per la persona. Il duca faceva da cavaliere alla marchesa di Gioncada, le altre coppie seguivano secondo il grado di ciascuno.

Giunto il corteo dinanzi all’appartamento destinato agli sposi, si arrestò.

Il duca di Fagnano era veramente commosso. Si avvicinò alla figlia e senza poter proferir parola se la strinse al petto e la baciò in fronte.

Ella rimase fredda, altera, impassibile.

— È questo il mio solo amore — disse poi il duca volgendosi a Riccardo pur non lasciando ditenere stretta a sè la figliuola. — Se ebbi dei torti con tuo padre, io sono sicuro che egli da questo istante benedice mia figlia, benedice la Provvidenza che ha affidato a quest’angelo tanta missione conciliatrice.

E baciò il giovane stringendo entrambi gli sposi al suo petto.

Alma varcò per la prima la soglia della camera: Riccardo la seguì e chiuse dietro a sè la porta.

Rimasero entrambi muti, immobili, mentre giungevano ad essi le voci dei convitati, ognuno dei quali si dirigeva verso il suo alloggio. Poi fu fatto silenzio.

La camera era blandamente illuminata da una lampada in un globo di alabastro che scendeva dal mezzo del soffitto; in fondo biancheggiava il talamo nuziale sormontato da un serico baldacchino.

— Ed ora, addio disse lei con voce soffocata ma ferma, additando al giovane l’uscio che aveva chiuso dietro a sè.

Egli impallidì a quel commiato. Mosse per uscire, poi, ubbidendo ad un impulso imperioso:

— No — disse — non così deve uscire l’uomo a cui testè avete giurato la fede di sposa.

— La Regina vi aspetta! — rispose lei con un amaro sorriso — Ho sentito tutto. Il vostro dovere v’impone di non farla attendere. Andate.

— Ascoltatemi, Alma — fece il giovane, nel cui viso si leggeva lo strazio dell’anima — ascoltatemi. Lo so che debbo andar via, lo so che questa atroce commedia che abbiamo recitato doveva aver per fine la muta, a tutti ignota tragica catastrofe dell’anima mia; lo so che mai non fummo così divisi, neanche allorchè noi due rappresentavamo gli estremi della vita sociale: voi tantoin alto, io tanto in basso che nemmeno con lo sguardo giunger potevo a voi; mai non fummo così divisi come siamo ora che innanzi a Dio e alla legge voi siete mia. Pure voi mi amate, lo so; io... non ho avuto dacchè il cuore ebbe palpiti, l’anima ebbe sospiri, la fantasia ebbe immagini, la mente ebbe idee, altro amore che per voi: nacque con me, crebbe con me, fu la mia religione, fu il mio sogno, fu il nutrimento continuo, perenne dell’anima mia. Lo portai meco nei boschi in cui, povero fanciullo, vagavo solitario e pensoso; lo portai meco nelle mischie, nelle fughe, negli agguati: mi sorrideva nei riposi inquieti, nelle notti vegliate col fucile in pugno e lo spettro della morte innanzi agli occhi: lo invocai quando, ferito, giacevo sotto un faggio, sicuro di non giungere al dimani; lo invocai chiedendo a Dio solo una grazia: che mi facesse morire, se dovevo morire, contemplando la vostra immagine. Quel po’ di bene che ho fatto mi era premiato dalla visione vostra radiosa e sorridente: il male che ho dovuto commettere era punito dalla visione vostra che si velava. E ciò senza alcuna speranza, e ciò come l’adorazione di una divinità alla quale si sa di non poter giungere, si sa che non potrà mai incontrarsi, da cui neanche lassù forse ci è dato di ottenere un sorriso od una parola. Voi passavate bella, felice, superba, come passa un raggio di sole che illumina tanto il rosaio quanto il roveto e che trae scintille tanto dal mare quanto dal putrido padule!

Ella, seduta su una poltrona su cui si era lasciata cadere, ascoltava immobile, con gli occhi fissi a sè dinanzi, rigido il corpo come l’anima straziata dalle parole del giovane, ma inflessibile.

— Voi — continuò Riccardo — non eravate unarealtà, eravate più che un sogno, una idea. Le contingenze della vita, anche cattive, non offuscano il culto che l’anima professa. Quando, dopo una bizzarra avventura, la mia giovinezza non seppe resistere alle lusinghe di una realtà che sopravanzava ogni ambizione, non fu infedele l’animo mio a quel culto che continuò in me come continua l’adorazione per la Madre di Dio nell’uomo che pur vive o ha vissuto nel delitto. Accettai quella realtà continuai a vivere in quella illusione. Ora...

Ella disse, calma e fredda:

— Ora anche io sono una realtà. Voi siete troppo leale e io sono troppo superba perchè nulla di comune vi sia tra di noi. Siamo entrambi due vittime del destino.

— Ma voi mi amate non è vero? Voi mi amate! — gridò lui — Quale dunque sarà la nostra vita?

— Voi mi avete parlato del vostro amore io non voglio parlarvi del mio. Se a voi mi fossi concessa nel segreto di un’alcova sarebbe stata meno solenne, meno inconfutabile la prova dell’amor mio di quella che vi ho dato proclamandovi in faccia a tutti il mio amante. Una donna nel delirio dà i suoi baci, dà le sue carezze all’uomo che ama: io ho gettato ai vostri piedi il mio pudore di fanciulla alla presenza di tutta una Corte. Chi ama così muore del suo amore come io ne morrò!

— Alma! — gridò lui che tremava di passione.

Aveva preso le mani della giovinetta che lo respinse dolcemente.

— Continua ad amarmi quale una illusione come per tanti anni mi amasti! — rispose lei che mal dissimulava lo strazio del cuore. — Che io sia per te quel che fui finora, quel che per me tu sarai sempre. Le nostre anime si cercheranno per lospazio immenso... Colà vivremo del nostro amore, fuori della vita, fuori della realtà, poichè la realtà ci impone dei doveri, e noi siamo troppo leali e troppo superbi per trasgredirli...

— Hai ragione! — rispose lui alzandosi.

Era livido, ma s’impose di non venir meno innanzi all’ineluttabile. Or che quella giovinetta era sua, per una ironia della fatalità doveva fuggirla, anche se la Regina lo sciogliesse dal suo giuramento. Aveva giurato di non appartenersi, aveva abdicato alla sua volontà, era venuto in Sicilia affrontando rischi e pericoli mortali, per la promessa che aveva giurato. Ben vile sarebbe stato se si fosse avvalso dell’accaduto per tradire una donna precipitata nell’abisso. Comprendeva altresì che tanto più Alma lo avrebbe amato quanto più per lei fosse stato un fantasma.

Si diresse verso la porta che aprì. Ella lo aveva seguito e si teneva muta, immobile sulla soglia. I loro sguardi s’incontrarono. Vi son degli istanti in cui si decide dell’avvenire di un uomo. Era quello istante supremo della loro vita, del loro amore. In quello sguardo entrambi lessero la loro angoscia, la passione che li spingeva l’uno nelle braccia dell’altra. Egli comprese che era per soccombere, ella comprese che era per venir meno.

Il giovane fece uno sforzo disperato, varcò l’uscio, trasse la porta a sè e si trovò nelle tenebre dell’anticamera.

Intese che due braccia, due morbide braccia di donna lo prendevano alla vita, un cuore che batteva sul suo, un respiro affannoso che gli bruciava il volto ed una voce anelante che gli diceva sommesso.

— Siete entrambi due nobili creature. Vieni, vieni, vedrai che saprò esser degna dell’immane sacrificio!

Era la Regina che lo costringeva a seguirla attraverso le buie sale. Egli si lasciava condurre, risoluto a dichiarare tutta l’anima sua. Già aveva segnato la via da percorrere ineluttabilmente, e l’occasione gli si offriva per dare il primo passo.

La Regina aprì la porta della sua camera.

— Vieni — gli disse con voce esultante — vieni!

Egli esitò per un istante, poi seguì la Regina che sedette su un divano.

— Nobile cuore! — mormorò, guardando il giovane che si teneva dritto, immobile a lei dinanzi.

— Vedi — disse dopo un istante di silenzio Carolina d’Austria — vedi fino a qual punto mi sono umiliata io, io che ho sangue di venti imperatori nelle vene. Ebbene che importa, che importa la mia rovina se in fondo all’abisso in cui son caduta ho trovato due cuori come i vostri? Che importa? Ho assaporato anch’io, finalmente, la gioia, la pura gioia che dà il bene, che dà la fede, che dan le virtù, io, io, che non ho mai creduto al bene, che non ho mai creduto alla virtù, che non ho mai avuto fede, neanche in me stessa!

— Io avevo giurato! — rispose lui grave e solenne.

— Ed io ti sciolgo dal tuo giuramento. Va, se l’amore per colei che ormai porta il tuo nome, che è tua innanzi a Dio e agli uomini ti gonfia il cuore e ti fa maledire la fede che devi a me come donna e come Regina.

Egli sorrise amaramente.

— Che io vegga Vostra Maestà felice, che io la vegga nel fulgore del trono, formidabile di potenza su quel trono che Dio le ha dato, allora soltanto m’intenderò sciolto dal giuramento prestato. So bene che molta parte di me non mi appartiene;che la mia lealtà come m’impone di dar la vita pel servizio della Maestà Vostra, m’impone di serbar la mia fede di sposo alla giovinetta che si è data a me sol per confondere ed abbattere i nemici di Vostra Maestà. So che voi partite, o Regina, sola, voi la Sovrana di tutto un popolo. Ordinate a che ora bisogna che mi tenga pronto, perchè io vi seguirò.

— Mi seguirai? — disse lei che aveva ascoltato ora sfavillante di gioia, ora abbuiandosi in viso.

— Sì, sì, questo è il mio dovere.

— Quale sarebbe dunque il mio? — mormorò la Regina che contemplava pensosa il giovane fiero e bello, il quale era pur sempre il servo devoto ma che, ben lo comprendeva, non era più l’amante. Qual dunque sarebbe il mio dovere? Morire!


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