II.
Lo scoglio di Malconsiglio è un isolotto deserto in pieno mare, dirimpetto all’estrema punta del porto di Trapani. La tradizione vuole che Procida abbia ivi riuniti i congiurati al tempo dei Vespri siciliani.
Alta era la notte, una notte tutta tenebre e senza stelle; la città era tetra e muta, tetro e muto era il porto. Le lampade innanzi alle Madonne annicchiate all’angolo delle strade e a prora dei bastimenti, gittavano dei fiochi bagliori nelle vie tenebrose e nelle tenebrose acque del mare.
Una barca condotta da due rematori mascherati e montata da un uomo tutto chiuso in una tunica nera il cui cappuccio copriva il capo, il cui viso era nascosto da una maschera, scivolava lungo il molo dello scoglio di Malconsiglio. Fin’allora l’uomo dalla tunica nera si era tenuto immobile; pur gli occhi, attraverso i fori della maschera vagavano per le tenebre, ma in un punto si fissarono verso la riva dalla quale si era staccato un canotto che tenendosi a distanza pareva seguisse o spiasse la barca.
— Una spia! — mormorò l’uomo chinandosi all’orecchio dei rematori — bisogna raggiungerla prima che si accorga della nostra intenzione.
La barca virò di bordo e con una arrancata fu a tre o quattro lunghezze di remi dal canotto che ebbe un istante di esitanza, quindi prese la fuga. Ma fu raggiunto. I due rematori della barca saltarononel canotto che era montato da un solo uomo; si udì un tonfo nel mare, poi tutto fu silenzio. I due rematori tornarono nella barca che riprese a scorrere fra le tenebre profonde.
Giunta allo scoglio la barca andò a collocarsi in un piccolo seno ove altre barche che l’avevano preceduta erano già assicurate al lido. I rematori accostarono la barca a un muricciolo, e l’uomo vi saltò, indi si diresse verso il centro dell’isolotto in cui si tenevano aggruppati alcuni che portavano su i comuni panni l’istessa tonaca nera e sul viso la maschera. Il nuovo venuto fece udire un sibilo modulato stranamente, al quale sibilo quegli uomini si ordinarono in cerchio, pur serbando il silenzio.
— La parola d’ordine! — disse colui che pareva il capo penetrando nel cerchio.
E si diede a percorrerlo, fermandosi innanzi a ciascuno che gli diceva a bassa voce il motto di riconoscimento.
Quando il giro fu compiuto si fermò e traendo una lanterna cieca che segnò un cerchio di luce nelle tenebre, disse:
— Vi è uno straniero fra noi, una spia. Si è tradito nel profferir la parola di riconoscimentoSicilia. Che ognuno scopra il viso.
E togliendosi la maschera fece cadere il cappuccio scoprendo una maschia e bruna testa di siciliano nella maturità degli anni.
Tutti lo imitarono: egli ripetè il giro facendo riverberare su ciascuno la luce della lanterna.
— Ecco il traditore — gridò in un punto, fermandosi innanzi a uno dei convenuti. — Impadronitevi di lui.
L’ordine fu eseguito appena dato.
— Un Inglese — esclamò il capo — un Ingleseche ha osato introdursi fra noi per sorprendere i nostri segreti e svelarli ai carnefici del popolo siciliano! Già poco fa ho fatto giustizia di un’altra spia che seguiva la mia barca; ora ne scopro un’altra sin nelle nostre fila. Che il segreto dei fratelli di S. Paolo sia seppellito nei flutti col traditore!
Il colpevole non cercò nemmeno di difendersi: si lasciò avvincere ed imbavagliare, sopraffatto dal sentimento dell’irrevocabile che ne paralizzava l’anima e il corpo. Quattro uomini lo portarono verso il lido, e poco dopo si udì un tonfo nel mare; poi i quattro esecutori tornarono e silenziosamente ripresero il loro posto nel circolo.
— La necessità ci fa crudeli — disse con voce solenne e triste il capo dei congiurati. — Se i nostri statuti non ce ne facessero una legge, la nostra sicurezza e i sovrani destini della Patria ce lo imporrebbero. L’audacia dei nostri nemici mi spaventa: evidentemente sono state commesse delle imprudenze. Il Governo ha fatto giustiziare ieri sette dei nostri... no, non oso dire fratelli, quantunque il supplizio e il silenzio serbato sulla nostra istituzione li abbiano riabilitati. Invece di colpire, in nome della Patria oppressa, si erano arrogati il diritto di colpire per loro conto, per soddisfare ambizioni e odi privati: perciò non ho potuto sottrarli al giusto supplizio, che altrimenti avremmo dovuto noi punirli per avere infranto le leggi dei nostri statuti alle quali abbiamo giurato di sottometterci. Chi, sia pure per vendicare un padre, un fratello, si giova della nostra Associazione per colpire un suo nemico, è reo di morte. Tutto tutto sparir deve innanzi al sacro, al magnifico, al supremo dovereche ci siamo imposti di far libera e indipendente questa Sicilia adorata. Chi sperpera le sue energie per scopo personale, chi con azioni delittuose getta il discredito sulla nostra Associazione deve morire, come morir debbono coloro che ne volessero carpire i segreti. Però avendo essi col loro silenzio riscattato le colpe, v’invito o fratelli a pregare che la pace di Dio sia con le anime loro.
—Amen!— mormorarono in coro tutti gli astanti.
Per un pezzo quegli uomini tacquero, compresi da un sentimento superstizioso che faceva lor volgere mentalmente una preghiera pei defunti. Poi risuonò di nuovo la voce del capo:
— Ora che noi siamo sorvegliati, ora che il pericolo pende più grave e minaccioso sul nostro capo, soffrite che per ritemprare i vostri cuori al dovere ed alla speranza, io qui richiami l’origine e lo scopo, della nostra istituzione. L’antica Confraternita di S. Paolo, che hanno tanto calunniato, non aveva che un pensiero, che uno scopo: la indipendenza della nostra diletta Sicilia, isola sfortunata che aspirò sempre alla libertà e fu sempre serva or di questo, or di quello straniero. I nostri avi, affiliati alla Confraternita, se riparavano alle ingiustizie sociali, se castigavano i magistrati prevaricatori, gli oppressori potenti, se vendicavano gl’innocenti e i deboli, si è che intendevano fondare la felicità pubblica sulla felicità privata; ma non perdettero mai di vista il voto supremo dell’ordine e più volte furono sul punto di realizzarlo. Il fato volle altrimenti, e la nostra istituzione, logorata dal tempo, esausta da tanti sforzi e da tante crisi, era ridotta un’ombra che minacciava di svanire del tutto. Fu allora che per salvarla ebbi l’idea di trasformarla e ne feci una congregazionedi nobili che serve ora di maschera e la missione pubblica e pietosa copre la missione patriottica e segreta. Fedeli agli esempi dei nostri padri, ciò che essi volevano noi vogliamo, procedendo per lo istesso scopo se non per la stessa via. Abbiamo già fatto molto; faremo di più ancora: Catania, Caltagirone, Mineo son già con noi: Messina e Palermo son piene dei nostri: manca però un capo supremo, ed io a voi che rappresentate tutte le città della nostra isola, ve ne proporrò fra breve uno intorno al quale raccoglierci per l’estremo conato.
Corse un mormorio di curiosità per gli astanti che finallora avevano ascoltato immobili e muti.
Il capo comprese che essi erano impazienti di una spiegazione, onde ripigliò a dire:
— Dobbiamo dare all’Europa la garanzia d’un governo stabile e duraturo, nonchè legittimo. Le utopie danneggiano anche le più nobili imprese: le idee debbono essere impersonate in un uomo e in un nome; è necessario dunque avere un tal nome e un tale uomo onde la nostra guerra agli Inglesi abbia probabilità di stabile vittoria.
E dopo una pausa, come se avesse cercato in sè stesso le parole per esprimere tutto l’odio che covava nel suo cuore contro l’altera e feroce Albione, proruppe:
— Sì, guerra, guerra agl’Inglesi, a questi esecrati, osceni, cinici mercanti che tiranneggiano, che divorano la nostra Patria, che la scannano sotto i nostri occhi, come sotto i nostri occhi ci hanno scannato figli e fratelli!
— È vero, è vero! — esclamarono sordamente i convenuti.
— Non avevo io un figlio, pressochè un fanciullo, l’unico erede del mio nome, l’unico rampollodella mia famiglia e che io amavo come la pupilla degli occhi ama la luce, poichè esso era il solo conforto alle sciagure che l’una su l’altra come le ondate della tempesta han distrutto la mia casa? E sol perchè il mio figliuoletto che amava una fanciulla alla quale io sognavo di unirlo perchè rinverdisse il ceppo dei conti di Bucento, si oppose come era suo dovere, com’era suo diritto, alle turpi insidie che le tendeva un Inglese, di lei oscenamente invaghito, me lo vidi tratto in prigione, ove me lo uccisero con inaudite torture che fecero del suo corpo tutta una piaga!
Vinto dalla memoria inconsolabile il povero padre s’interruppe nascondendo fra le mani la faccia bagnata di lagrime. Un sordo rumorio, simile al rumoreggiar dei flutti prima della tempesta, percorse le file degli astanti. Quando ebbe ripreso un po’ di calma il conte di Bucento proseguì:
— Come Procida ai suoi congiurati che noi rimpiazziamo sopra questo scoglio deserto, consacrato da essi, e le cui ombre al certo ci stan d’intorno, noi dobbiamo opporre l’astuzia all’astuzia, la forza alla forza, ed esser crudeli e inesorabili come essi sono inesorabili e crudeli. Ma non più colpi inutili, non più quelle esecuzioni parziali in cui si sperdono tutte le nostre energie; concentriamole tutte su un punto unico, colpiamo la testa e vinceremo. Voi sapete che in ogni tempo abbiamo avuto a Palermo degli ausiliarii e degli addetti. Ed è Palermo che deve insorgere, come insorse vittoriosa nei gloriosi Vespri; ma ci vuole un agente sicuro e determinato per rappresentarci in mezzo a loro che sono più di tutti invigilati dai nostri nemici. Chi vuol partire per Palermo?
— Io — disse una voce.
Ed un uomo uscì dalle fila e si avanzò verso il capo che lo riconobbe.
— Cavalier Blasi, nessuno è più adatto di voi a tale nobile e perigliosa missione; ma i tre anni di crudele prigionia nella quale vi tennero i nostri nemici...
— Non temete — disse con energico accento il cavalier Blasi — che questa mia precoce decrepitezza faccia ostacolo al mio assunto. Il corpo è disfatto dalle torture cui mi sottoposero sol perchè non volli cedere ad uno di essi la mia solfatara da cui traevo il pane quotidiano per me e per la mia famiglia, alla quale ora provvede la carità dei miei concittadini... Se dunque il corpo è disfatto, l’anima è ancor salda e dall’odio inestinguibile trae maggior vigore.
— Cavalier Blasi, sappiamo tutti quel che avete sofferto per la nostra causa, e il vostro passato ci è caparra certa per l’avvenire. Avete tutta la nostra confidenza.
— Sì, sì — disse a coro l’assemblea.
— Cavalier Blasi, preparatevi dunque a partire per Palermo dove riceverete le nostre istruzioni, coi mezzi e le cautele di cui avete il segreto.
— Prima di partire, però, ho un’accusa capitale da portare.
— Contro chi?
— Contro il marchese Artale, un rinnegato siciliano, commissario straordinario degl’Inglesi in Messina.
— Un traditore.
— Un carnefice dei suoi concittadini! A morte, a morte! — gridò l’assemblea.
— Per quelli che nol sanno dirò che appena giunse a Messina vi sparse il terrore: le lagrime scorsero nelle famiglie, il sangue nelle prigioni. Dietro i suoi ordini, per una parola, per un sospetto, per una denunzia anonima o per compiacereun Inglese, sia pure semplice soldato, si gittarono nelle prigioni centinaia di cittadini. E quali prigioni! Dei sotterranei in cui non si può stare nè in piedi nè seduti, in cui gl’infelici prigionieri carichi di catene sono dimenticati per settimane, per mesi interi, e appena lor si getta, di tanto in tanto, un pezzo di pane ammuffito! E sapete come vengono trattati? A nerbate e a bastonate i più docili; gli altri seviziati con l’applicar loro dei ferri roventi alle piante dei piedi e con lo strappar loro le unghie. Ed è un siciliano, un siciliano che ebbe ed accettò dagl’Inglesi tale missione di sangue e d’infamia!
— Cavalier Blasi — domandò con voce solenne il conte di Bucento — rispondete voi sulla vostra testa della verità dei fatti che avete denunciato?
— Giuro innanzi a voi e innanzi a Dio che ho detto la verità. Se ne dubitate ancora, guardate le mie carni che serbano le cicatrici delle ferite. Un mese in quei sotterranei mi ha invecchiato di quarant’anni. Se non soccombetti alle torture gli è perchè Dio mi serbava a portar testimonianza innanzi a voi. Ed è perciò che io, cavalier Blasi, domando a voi la morte di quel carnefice.
— Chi si oppone — disse il conte di Bucento voltosi agli astanti — esca dalle file e dica le ragioni.
Nessuno rispose.
— Torno a chiedere, secondo le nostre leggi, se vi è qualcuno fra di voi che si opponga alla condanna a morte del marchese Artale, accusato dal cavalier Blasi!
Dopo avere atteso un pezzo nel silenzio profondo, il capo che, secondo gli statuti, aveva l’obbligo di volger per tre volte la stessa dimanda aifratelli, allorchè trattavasi d’infliggere una pena capitale, riprese con voce lenta:
— Sul vostro onore e sulla vostra coscienza siete convinti che il marchese Artale meriti per i suoi delitti e per la sua infamia la pena di morte?
— Sì — risposero gli astanti ad una voce.
— Io dunque, conte di Bucento e gran maestro della Confraternita di San Paolo, in virtù dei poteri che mi son conferiti ed in esecuzione della deliberazione presa ad unanimità, condanno a morte il marchese Artale, commissario straordinario in Messina, accusato di atrocità contro i nostri e suoi concittadini; e delego il fratello Accarditi di Catania e il fratello Lombardi di Siracusa di eseguire la condanna.
I due prescelti per l’autorità che lo statuto conferiva al presidente, si avanzarono.
— Noi siamo pronti — dissero.
— E benedette siano le vostre mani che dovranno punire un malvagio uomo ed uno scellerato cittadino. Tornate ora fra i vostri fratelli.
— Ci resta ora di sapere — disse una voce — chi sia l’uomo intorno al quale dovremo raccoglierci e quale sia il nome che dovrà rappresentare le nostre aspirazioni.
— Ferdinando IV, Re di Napoli e di Sicilia — rispose il capo dopo avere esitato alquanto.
Un mormorio di stupore si levò dal gruppo dei congiurati: il conte di Bucento ne comprese il significato e si affrettò a proseguire:
— Sì, Ferdinando IV, che può sorgere per difendere, mercè il nostro aiuto, i suoi diritti conculcati e vendicarsi delle umiliazioni che gl’Inglesi gli infliggono.
— Ferdinando IV è un codardo che fuggì da Napoli e che ora si è lasciato rinchiudere in una villa come in una prigione!
— Nol nego, ma egli sarà garante innanzi alle potenze d’Europa del governo che noi gl’imporremo. Non ci illudiamo: se giungessimo a scacciar gl’Inglesi e a proclamare la repubblica come molti di voi vorrebbero, avremmo contro tutti i re d’Europa, non escluso l’Imperatore dei Francesi; e se proclamassimo a re di Sicilia un principe straniero, desteremmo la gelosia degli altri Stati e forse non faremmo che mutar di padrone. La prudenza dunque c’impone quella bandiera che ha già in sè un diritto riconosciuto. Ferdinando IV è un codardo, voi dite, ma dietro a quell’uomo ci è una donna che ha osato e osa ancora tener testa ai Francesi.
— Carolina d’Austria! — esclamarono tutti vieppiù stupiti.
— Sì, Carolina d’Austria, la tigre assetata di sangue, la turpe amica di lady Hamilton, l’amante di Acton e di Caramanico: è questo che volete dire? E che importa? Purchè la spada ferisca il nemico non bisogna chiedere di qual ferro sia fatta. Carolina d’Austria è odiata a morte dagl’Inglesi: questo vi dica in qual conto di formidabile avversario essa sia tenuta. La Provvidenza talvolta si serve d’indegni istrumenti per far raggiungere un nobile fine. I maggiori rivoluzionari che proclamarono in Francia i diritti degli uomini non eran punto un fior fiore di virtù; i grandi conquistatori, i grandi legislatori, i geni ai quali l’umanità deve tanto del suo progresso, non furono immuni dei vizi più esecrandi.
— Ma accetterà essa le nostre idee? Sa essa che noi combattiamo per la libertà e l’indipendenza della Sicilia?
— Il proclama che il Re dovrà firmare l’ho scritto io: in esso sta detto che il principe non è che un depositario delle leggi e che l’unico e verosovrano è il popolo. Se il Re firmerà un tal proclama, il nostro patto sarà conchiuso.
— Il Re lo firmerà per lacerarlo poi!
— E noi rovesceremo dal trono il fedifrago.
Intanto si bisbigliava, segno che i pareri eran discordi. Poi sorse una voce e disse:
— E quale altro appoggio porterà la Regina alla nostra impresa?
— Duemila Calabresi scelti fra i più bravi e i più provati alle armi, che ella manterrà a sue spese. Ma è già tardi e bisogna dividerci. Crede l’Assemblea che io possa, se il Re avrà firmato il proclama, stringere il patto in nome della nostra istituzione?
— Sì — risposero i convenuti.
Solo pochi rimasero silenziosi, pur non osando di opporsi alla maggioranza.
— Che ognuno ritorni alla sua casa. Col mezzo convenuto farò giungere le comunicazioni. Si lavori in silenzio: i loquaci e gli imprudenti saran puniti con la morte come i traditori. A rivederci, fratelli, e che Dio ci aiuti!
I congiurati si diressero verso le loro barche che ben presto disparvero nelle tenebre del mare.
— La Regina non sarà qui prima dell’alba, quantunque il vento sia favorevole — disse il conte seduto su uno scoglio. — Saran qui, in questo giorno memorabile, decisi i destini della Patria!