III.
La Torre Nera si elevava a poca distanza dal mare fra due colli che salendo si restringevano formando una angusta gola, ma che presso al mare si aprivano in una insenatura per la quale scorreva un torrentello le cui acque ai raggi infuocati del sole morente avevano tremolii di luce sanguigna.
La Torre Nera, massiccia costruzione dei Normanni, era stata elevata a difesa delle scorrerie barbaresche. Due colubrine sporgevano le bocche dalle cannoniere dell’alto verso il mare che si dispiegava ampio allo sguardo. Ma da gran tempo la torre era stata sguarnita di difensori, chè le navi inglesi in continua crociera avevano spazzato quel mare dalle barbaresche feluche.
La Regina aveva fatto di quella torre, che di poco distava dalla villa in cui era stata relegata, la sua estiva dimora quando voleva sottrarsi allo incessante spionaggio onde era circondata; e vi si trasferiva con pochi dei suoi intimi, fra i quali Alma, oltre alla camerista, unica compagna di esilio di Carolina d’Austria, chè ben poteva chiamarsi esilio il suo.
Il giorno innanzi, quantunque l’autunno fosse inoltrato, la Regina che era allora tornata dalla visita al Re, aveva, come se ubbidisse ad una subita risoluzione, ordinato di apprestarsi la lettiga, volendo quella notte andare a dormire alla Torre Negra. Quantunque usata ai capricci reali, pure
Alma sì meravigliò di quella risoluzione, ma ne fu compiaciuta in cuor suo perchè si confaceva al suo spirito meditabondo la solitudine di quella torre donde lo sguardo spaziar poteva per l’azzurra distesa del mare che ella amava di contemplare standosene seduta sull’alto della piattaforma o presso ad una delle finestre. Il fosco paesaggio dei colli rivestiti di una lussureggiante vegetazione, le ricordava meglio di ogni altro sito i paesaggi della sua calabra terra della quale ella talvolta sentiva l’acuta nostalgia.
Giunti nella torre, la Regina aveva fatto venire un uomo dal fare e dall’aspetto marinaresco che fin dal mattino pazientemente l’aveva attesa. Si era chiusa in una stanza con lui e quando ne era uscita, Alma aveva sentito che diceva:
— Verrete un’ora innanzi giorno per poter giungere poco dopo l’alba.
L’uomo dall’aspetto marinaresco si era inchinato ed era andato via.
La Regina, mentre gli staffieri e i camerieri del seguito attendevano al governo della torre che per più mesi era stata disabitata, prese pel braccio la giovinetta e la trasse sulla piattaforma ove si era sicuri di non essere uditi.
— Bisogna — le disse — che dimani nessuno sappia che ho lasciato la torre.
La giovinetta la guardò meravigliata.
— Ascoltami bene — continuò la Regina — stanotte, un’ora prima dell’alba uscirò dalla mia camera. Giovanni, l’unico servo su cui posso fidare, mi aprirà la porta della torre; fuori mi aspetterà quell’uomo che hai visto testè andar via, a cui ho affidato il comando della mia goletta. Quando potrò tornare non so; forse dimani sera, forse diman l’altro; ma bisogna che nessuno, intendi?nessuno sappia o sospetti che io mi sono imbarcata; perciò son venuta qui, chè nella villa non avrei potuto deludere la vigilanza dei tanti nemici di cui son circondata, servi o cortigiani, dei quali non vi è alcuno che non sia venduto agl’inglesi. Tu dirai che sono indisposta e che sono a letto nella mia camera ove non lascerai entrar nessuno, neanche tuo padre se per caso venisse qui.
— Neanche mio padre?
— No, figliuola mia, neanche tuo padre. Tu sei un’anima buona e leale, ed io, vedi ho tanta fede in te quanta... quanta... non ne ho nel duca. Perdonami, e promettimi di eseguire i miei... di esaudire la mia preghiera.
— Eseguirò i vostri ordini — rispose Alma non dissimulando il suo rammarico.
— No, cara, non dispiacerti di quel che ho detto di tuo padre. Tuo padre è un ambizioso, e in politica bisogna guardarsi dagli ambiziosi.
Aveva così attenuato il suo pensiero, ma in cuor suo diffidava del padre di Alma, nè l’aver permesso che questa adempisse il suo ufficio di lettrice l’assicurava, tanto più in quanto aveva intuito, col maraviglioso acume del suo spirito, che il duca aveva più volte tentato di farsi una spia della figliuola; la quale però meno per diffidenza e più per natural discretezza ne aveva sempre deluso le reiterate e capziose domande. Onde la Regina, che non aveva in chi fidarsi, che sapeva a prova quanto fossero pettegole, intriganti le altre dame della sua Corte, preferiva la compagnia di quella giovinetta, anche sapendo il padre di lei propenso a tradirla se tornasse utile alla sua ambizione.
La sera a cena, mentre i camerieri e gli altri familiari erano intorno alla sua mensa, finse diessere indisposta, e per tempo seguita dalla sua lettrice, si ritirò nella stanza da letto. Nel mezzo della notte, Alma che non aveva potuto prender sonno nella camera attigua a quella della Regina, intese che essa si alzava. Quando entrò nella camera vide che era bell’e vestita.
— Le tenebre sono fonde, il luogo deserto — le disse, impensierita di ciò che ella credeva un capriccio dell’augusta donna. — Vostra Maestà si espone chi sa a quali pericoli!
La Regina scrollò le spalle.
— Il pericolo è uno — rispose — quello di essere spiata da quei maledetti Inglesi... Ascolta! Non ti pare che il silenzio delle tenebre sia stato rotto da un fischio?
— No, Maestà.
— Senti, un altro fischio. È questo il segnale che mi si attende... Per tutti dunque io sono a letto con una fiera emicrania, ed ho proibito che si entri in camera mia.
— Sta bene — rispose la giovinetta.
La Regina tolse dal comodino presso il letto, due piccole pistole, da parer quasi due gingilli, e le nascose nell’ampia saccoccia della veste. Si avvolse in un mantello di cui calò sulla fronte il cappuccio ed uscì.
— Ella stanca il buon Dio con le sue imprudenze e coi suoi capricci! — disse Alma nel tornare a letto.
Nessuno il mattino si accorse che la Regina non era nella torre. Si sapeva che ella ritiravasi in quella dimora quando aveva bisogno di un po’ di solitudine e di raccoglimento, e l’averla vista la sera innanzi indisposta precludeva l’adito ad ogni sospetto. Solo Giovanni, il vecchio negro che era da trent’anni al servizio di lei, avrebbe potutosvelare il segreto; ma Giovanni aveva una cieca devozione per la sua Regina e non avrebbe parlato neanche se l’avessero sottoposto alle più atroci torture.
Quanti terribili segreti non sapeva Giovanni, il vecchio negro, della sua Sovrana! ma non una parola gli era mai uscita dalle grosse labbra che mormoravano perennemente i versetti del Corano.
Per tutta la giornata Alma aveva avuto il contegno di chi debba accudire ad una ammalata: dava degli ordini ai servi e agli staffieri in nome della Regina; entrava nella camera di lei e ne usciva come per attendere a questa o a quella cura del suo ufficio onde nessuno dubitò menomamente che la Regina non fosse a letto indisposta.
Ma uno dei casi previsti accadde: era passato di poco il mezzogiorno quando un servo corse a dire alla giovinetta che il duca di Fagnano era allora allora giunto in carrozza, seguito da alcuni armigeri e che entrato nella torre aveva fatto chiedere della figliuola.
— Mio padre, mio padre! — esclamò Alma cui il piacere di quella visita era attenuata dall’imbarazzo per dover nascondere l’assenza della Regina.
— Dite a mio padre che lo prego di aspettarmi — disse, dopo un istante di esitanza — di aspettarmi alcuni istanti, onde ottenga da Sua Maestà il permesso di allontanarmi.
Entrò nella camera della Sovrana per dar tempo al servo di avvisare il padre. Era seco stessa in collera per dover così fingere e così mentire, lei, anima schietta e leale che pur in mezzo agl’intrighi, alle avventure ed anche ai capricci e ai vizi della sua regale signora era rimasta semplicee pura, quasi l’anima sua fosse altrove e nulla intendesse, nulla vedesse di quel che le accadeva intorno; non pertanto subiva il fascino di quella donna e confessava a se stessa che quasi suo malgrado l’amava e si sentiva disposta a qualunque sacrifizio. Se aveva delle colpe, con quanti dolori non le aveva scontate, con quante umiliazioni non aveva scontato il suo orgoglio; e se aveva talvolta ecceduto nella vendetta, ben mortali erano state le offese che ne avevano ferito e rincrudito l’anima! La natura energica, avventata, estrema così nel male come nel bene della Regina; lo spirito ardente e dominatore, l’indole irrequieta che non sapeva acconciarsi alla vita inerte ed inutile cui l’avevano condannata, esercitavano per ragione di contrasto un gran fascino su Alma, così mite, così raccolta in se stessa che amava di obliarsi, nelle ore in cui il suo ufficio la lasciava libera, nei vaghi sogni dell’anima sua senza chiedere alla vita un perchè ed all’avvenire una felicità da raggiungere. Sola e trascurata in mezzo a quelle aspre lotte politiche, a quell’urto di passioni e di ambizioni, viveva si può dire come in un intontimento di tutto l’esser suo.
E come spesso le avveniva, si era immersa nei suoi pensieri, e in essi si era obliata quando udì venire dalle altre stanze la voce del padre. Assai angusta era la dimora in cui la Regina amava di racchiudersi e quindi maggior cautela occorreva per nascondere l’assenza della regal donna, perciò Alma si trasse con uno sforzo dai suoi pensieri, uscì dalla camera, ne chiuse a chiave la porta e si diresse verso quella in cui il padre l’aspettava.
— E Sua Maestà? — le chiese il duca dopo averla baciata in fronte. — Mi han detto che è indisposta.
— Sì, padre mio — rispose lei che per dissimulare il suo imbarazzo si era rivolta al servo che si teneva ritto presso la porta, per dirgli:
— Sua Maestà dorme: avvertite i servi che non facciano rumore.
Il duca intanto si era seduto su un divanetto: Alma gli si sedette vicino, non osando rivolgergli la parola temendo di tradirsi.
— Ma come è venuto in testa a Sua Maestà di lasciare la villa, dimora di lei assai più degna? Questa è appena appena adatta per una famigliuola di borghesucci.
— Voi sapete, padre mio — rispose Alma — che io non discuto gli ordini e i voleri della mia signora.
— Lo so, lo so che tu... sei una gran furba tu, con quella tua aria di sognatrice. Io ero venuto per discorrere di cose assai gravi con la Regina... Se potesse concedermi udienza aspetterei che si svegli...
— Sarebbe meglio che veniste un altro giorno. Sua Maestà nell’andare a letto oppressa come era da una fiera emicrania, mi disse che non sarebbe stata in grado di ricevere neanche il Re.
— Il Re lo credo: non le parlerebbe che di caccia e di pesca; ma chi come me deve parlarle nel suo interesse, e, figlia mia, bisogna che anche tu lo sappia, pure nel nostro...
— Tornerete un altro giorno, vi ripeto; così avrò il piacere che raramente mi concedete, di rivedervi.
— Ah, figlia mia! — esclamò il duca scrollando il capo e dandosi un pugno sulle ginocchia — è un rimprovero questo, un rimprovero che io non merito. Io non posso, non posso muovermi così spesso da Palermo come pur vorrei, perchè soncostretto a star ben guardingo per difendermi dalle insidie dei miei nemici, i quali mirano a scalzarmi dall’ufficio di sopraintendente alla Marina che il Re mi diede e che gl’Inglesi vorrebbero togliermi per darlo a chi meglio di me ha saputo entrare nelle loro grazie. E sarei rovinato se perdessi un tale ufficio.
— Rovinato voi, il duca di Fagnano, il più ricco signore del Regno?
— Un tempo, prima che il Governo francese sequestrasse i nostri beni!... E poi... tu non sai nulla, povera figliuola? Ma è meglio che lo sappia da me, è meglio. Hai tu sentito parlare d’un tuo zio, una testa matta, che faceva lo stregone e insieme il repubblicano, lui, di una stirpe così nobile come la nostra che fu sempre puntello dei Re e sostegno della Santa Madre Chiesa! Ebbene, quel tuo zio che io credevo da gran tempo morto in Francia, ov’era fuggito, è tornato in Calabria al seguito dei Francesi che lo hanno messo in possesso de’ miei beni e lo hanno riconosciuto come duca di Fagnano!
— Mio zio? Vostro fratello dunque?
— Fratello, sì, non lo nego, pel sangue; ma egli ha rotto ogni legame con me fin da quando per le sue perverse opinioni e per le sue azioni malvagie si rese indegno della nostra famiglia. Un discendente dei duchi di Fagnano, che ha del sangue regale nelle vene, far comunella coi peggiori scellerati, congiurar contro i troni e contro la nostra sacrosanta Religione! Ah, che la vergogna m’inonda la faccia ai rossore! Quel mio... ebbene, sì, quel mio fratello, non contento di aver dato l’anima all’Inferno praticando le più orrende stregonerie, si bruttava di tutti i vizi, sedusse una donna dalla quale dicesi abbia avuto un figlio, unbastardo, capace di ogni nefanda azione. Ma di più non ti dirò per non affliggerti. Vedi dunque a che son ridotto io, unico e solo duca di Fagnano: vedi a che mi ha ridotto la fedeltà al mio Re e l’averlo seguito qui; che se io fossi rimasto in Calabria e avessi fatto adesione al Governo francese, quel... quel mio fratello non avrebbe avuto la tracotanza di tornare là donde una sentenza della gran Corte Criminale lo aveva scacciato!
Si era alzato e misurava la stanza a gran passi in preda alla collera che gli aveva acceso il volto.
— Padre mio — disse lei per calmarlo — è pur sempre vostro fratello!
— Che fratello, che fratello! Infine chi ne soffrirà il maggior danno sarai tu, mia cara, ed ero venuto appunto per parlarti di un certo mio disegno...
— Che disegno? — chiese lei guardando il padre tra curiosa e impensierita.
Il duca facendo forza a se stesso, aveva ripreso il suo consueto aspetto. Tornò a sedersi vicino alla figliuola e le disse guardandosi intorno:
— Possiamo discorrere sicuri di non essere uditi?
— Ma sì...
— E di non essere interrotti?
— Nessuno oserà di entrare qui dentro.
— E se la Regina ti farà chiamare? Perchè quel che debbo dirti esige da te una risposta precisa e risoluta che sarà, ne son certo, quale io la voglio e quale il mio ed il tuo interesse la impongono.
— Non verrà nessuno qui. Parlate — disse lei vieppiù sorpresa e impensierita.
— Chiudi quella porta.
Ella si alzò e chiuse la porta; quindi tornò presso il padre e stette in attenzione di quel che le dovesse dire.
— Figlia mia — incominciò il duca. — Sua Maestà la Regina deve pur comprendere che tu non puoi sacrificare la tua bella e fiorente giovinezza al suo servizio e che devi pur pensare al tuo avvenire. Se è a te indifferente perchè alla tua età non si bada al poi, corre a me l’obbligo di pensarci onde tu un giorno non debba rimproverarmi d’essere stato un cattivo padre. Insomma, a farla corta, bisogna che tu lasci il servizio della Regina e te ne torni con me a Palermo.
— Lasciar la Regina, padre mio? — esclamò lei con visibile rammarico. — Lasciarla proprio ora quando è da tutti abbandonata, quando non vede intorno a sè che degli indifferenti o peggio, degl’ipocriti!
— Bei sentimenti questi, che molto ti onorano! — rispose il duca con accento carezzoso, come se in cuor suo fosse ben lieto della bontà della figlia. — Ma — continuò poi, mutando di tono — ma il proprio interesse, il proprio avvenire innanzi tutto. Non c’illudiamo: i Borboni...
S’interruppe per guardarsi di nuovo intorno: poi chinandosi per avvicinarsi vieppiù alla giovinetta, continuò con voce sommessa:
— Non c’illudiamo: i Borboni attraversano un brutto quarto d’ora. Han perduto il Napolitano ed han quasi perduto la Sicilia. Nè i Francesi, nè gli Inglesi restituiranno quello che hanno tolto. È un’infamia, è una prepotenza, è un delitto, non dico di no, ma quando i delitti son commessi dai potenti, si ammirano, si esaltano e si trova sempre una parola acconcia per legittimarli. Bisogna dunque, figlia mia, pensare ai casi nostri, anzi pensare ai casi tuoi. Puoi tu, bella, colta, leggiadra come sei, con un bel nome, un gran nome anzi, ad onta che i Francesi ne abbiano investitoun altro, puoi dunque continuare a vivere in una villa, lontana da ogni centro di vita e di progresso, in compagnia di una donna, per quanto sia una regina, già logora, non dico dai vizi, come pretendono i suoi nemici, ma dalle sventure, alcune delle quali ben meritate in verità?
— Padre mio — mormorò Alma, mal dissimulando la sua indignazione per quel linguaggio che ascoltava, sempre più stupita — parlavate ben diversamente in altri tempi... Allora la Regina al cui servizio ambiste di mettermi, era per voi...
— Quel che è ancora adesso! — si affrettò a dire il duca interrompendo la figlia della quale non gli era sfuggito lo sdegno. — Io l’ammiro anzi, per la sua energia, pel suo intelletto, per l’anima veramente non degenere da quella di sua madre Maria Teresa; e convengo, sì, che se fosse stata coadiuvata da uomini di saldo animo al par del suo, ben diversa sarebbe stata la sua sorte. Ma intanto il fatto è questo che ella ha perduto ogni potere e che la sua amicizia, non solo a nulla più giova, ma è dannosa, è rovinosa, a chi si ostina ancora a conservarla. Ecco, per esempio: sai con quali armi mi combattono i miei nemici, o meglio, coloro che aspirano a beccarsi la mia carica di sopraintendente della Real Marina? Col dire che io sono un borbonico sfegatato, servo di Maria Carolina, della quale la mia figliuola è lettrice! Debbo io dunque offrire il fianco alle accuse dei miei nemici, debbo io stesso somministrar loro le armi per ferirmi?
Era la prima volta che Alma leggeva addentro nel cuore del padre e ne fu spaventata ed insieme acerbamente afflitta. Le si rivelava in tutto il suo cinismo e in tutta la sua volgare ipocrisia; pure lo sdegno combatteva in lei con l’amore e col doveredi figlia, troppo ribadito nel cuor suo perchè potesse così di un tratto venir meno.
— Ma che volete da me, padre mio? — disse infine.
— Che mi segua a Palermo. Non ora, beninteso, ma fra qualche giorno. Incomincerai col fingerti malata; io verrò con un medico, il quale ti ordinerà di mutar clima... Così la Regina non potrà aversi a male se la lasci. Vedi che io non voglio guastarti con lei, quantunque, figlia mia, quando il proprio interesse lo impone, è da sciocchi aver riguardi.
— E... venendo con voi a Palermo, in casa vostra ove sarei sola, io povera ragazza, senza una madre, senza una parente... che farei in casa vostra?
— Intendo, intendo quel che vuoi dire... La convenienza, è vero, vorrebbe che tu avessi la compagnia di una signora matura, del nostro grado. Ma poichè tu vi dimorerai per poco...
E il duca con aria sorridente, poichè riteneva di essere già riescito nel suo intento, e compiaciuto in cuor suo che Alma si fosse mostrata così pieghevole, la guardò con una espressione di sottile malizia negli occhi.
— Non ti ho detto ancora la cosa più importante... quella per la quale son venuto, e che mi sta a cuore pel tuo avvenire, per la tua felicità... Veggo che ti struggi dall’impazienza di saperla, se già non l’hai indovinata...
— Io non ho indovinato nulla — rispose Alma seria e grave.
— Dimmi un po’ quanti anni hai?
— Ventidue credo.
— A ventidue anni tua madre, quella santa e pia creatura che mi è morta...
E il duca s’interruppe per alzar gli occhi al soffitto della stanza. Poi continuò:
— Tua madre dunque a ventidue anni era già sposa da tre anni e aveva una figlia, l’unico frutto del nostro amore.
— Ebbene?
— Ebbene, tu sei già una vecchia zitellona in questo paese in cui le donne vanno a marito a dodici anni. Bisogna dunque far le cose alla svelta. Io ho già bell’e pronto un buon partito per te e... per me: lord Arturo Chilson, capitano di vascello della Real Marina britannica e cugino... ascolta bene... e cugino di lord Bentink che è il vero signore e padrone della Sicilia.
Ella era divenuta scarlatta in viso; si sentiva soffocare dall’orgasmo in cui l’avevan messa le parole del padre. Con gli occhi chini, anelante, non poteva profferir motto.
— Tu comprendi tutti, tutti i vantaggi — continuò il duca che attribuiva il silenzio e il visibile orgasmo della giovinetta all’orgoglio lusingato che però il pudore facea dissimulare — di un tal matrimonio? Tu sarai tra le più belle, più ricche, più potenti signore di Palermo, cugina nientemeno del vero Re di Sicilia, ed io... già io purchè ti vegga felice, altro non bramo. Lord Arturo Chilson non si può dire un giovanotto di primo pelo, ha di qualche anno varcato la cinquantina, non è certo un Adone, ma in compenso è alle porte per esser nominato contro ammiraglio, è ricco a milioni ed è molto amato e stimato dal suo re. Ma tu devi ricordartelo: ti fu presentato a Palermo nel palchetto della Regina, e da quella sera, mi han detto, egli vagheggia di farti sua moglie.
— Sì — rispose Alma che si era riavuta — sì, lo ricordo bene, un omaccione rozzo, arrogante,che quella sera era ubbriaco come il più maleducato dei suoi marinai, e bestemmiava in inglese credendo che nessuno capisse la sua lingua.
Il duca rimase interdetto. Nell’accento della figlia gli era parso d’intravedere una sottile ironia. Era pur corrispondente al vero il ritratto che Alma avea tracciato di lord Arturo Chilson, del quale eran note a tutta Palermo le sbornie; pure riprese come se non desse molta importanza alle parole della figlia:
— Ah già: gli è che è un marinaio, un vero marinaio; non è al certo uno di quei bellimbusti impomatati che parlano in punta di forchetta! È un bel lupo di mare il quale preso pel suo verso può esser ridotto un agnellino da una donna di garbo. Dunque che ne dici? Già, una superfluità il chiedertelo. Una ragazza saggia, seria, benedice il Cielo per una tale fortuna... Benedice il Cielo ed anche il padre suo che ha saputo procacciargliela... Non è vero forse?
Alma si alzò. Era grave, fredda, severa.
— Padre mio, — disse con voce ferma, ma tranquilla — il dovere mi chiama nella camera di Sua Maestà che mi ha ordinato di svegliarla nell’ora che scocca adesso. In quanto ad abbandonarla mentre tutti l’hanno abbandonata, tutti quelli che ne ebbero favori ed onori strisciando alle sue ginocchia allorchè essa era potente e temuta, io, intendete? io non lo farò mai, nè alcuno sarà tanto ardito da strapparmi dal suo fianco. È sempre lei la Regina di Napoli e di Sicilia, è sempre lei la nostra Sovrana. In quanto poi al matrimonio che mi proponete con un Inglese villano e scostumato, non ho che una sola parola da rispondervi... Rifiuto.
Non aveva ancor proferito questa parola che ilduca si era alzato sconvolto, furente; e mettendosi le mani nei capelli:
— Rifiuti?... Ma è la mia rovina, intendi? la mia rovina! Ma è il trionfo dei miei nemici che del tuo rifiuto si avvaleranno per finire di perdermi nell’animo di lord Bentink.
— Direte a lord Bentink che il rifiuto viene da me, da me sola.
— Si dirà che hai rifiutato per odio contro gli Inglesi, che hai rifiutato per una sciocca, per una stupida avversione politica, che ti han guastato il capo coi balordi principi d’indipendenza, di patriottismo e che so io... E magari accusassero te sola: accuseranno me, me che sono affatto innocente, me che sono stato sempre un uomo serio e che ho riso di tali scempiaggini. L’indipendenza, il patriottismo! Eh via, non ci è che il proprio tornaconto al mondo!
E divenendo carezzevole, quasi umile, con voce piagnucolosa continuò rivoltosi alla figlia che l’ascoltava impassibile, ritta in piedi innanzi alla porta, con la mano alla chiudenda:
— Via, riflettici bene. È la tua e la mia fortuna, capisci? E se anche ti costasse un sacrifizio non rifletti tu al gran compenso che te ne verrebbe? Sei stata sempre docile, rassegnata, pieghevole, si può dire che non hai avuto mai una volontà tua, ed ora, di un tratto mi ti riveli sotto un aspetto che non mi ti fa più riconoscere! Che importa a te che il marito sia un inglese o un siciliano, un giovane o un vecchio? Non ti sei mostrata sempre indifferente a tutto, non è trascorsa quasi tutta la tua prima giovinezza in una completa dedizione di te alla volontà mia e a quella della Regina? Com’è che di un tratto vuoi far di tua testa e rifiuti di salvarmi, comprendi? di salvarmi?
— Padre mio — rispose lei con voce dolce ma sincera — voi non mi avete mai conosciuta e non mi avete mai compresa.
— Che vuoi tu dire?
— Nulla che siate in grado di comprendere ora.
Egli fraintese il significato di quelle parole; nella sua mente balenò un pensiero, che sua figlia chiedesse del tempo per risolversi, trattandosi di una decisione così grave. A tale idea si rincorò: gli si rasserenarono i tratti del viso, gli occhi ebbero un lampo di gioia.
— Ebbene, sì, hai ragione; ora non sono in grado di comprendere nulla perchè confesso di essere in un grande orgasmo. Tornerò sicuro che tu avrai vagliato le mie ragioni, sicuro che avrai apprezzato le mie proposte che ogni ragazza avrebbe accolto con un grido di gioia. No, non te ne ripeto i vantaggi, i vantaggi che potrebbero essere enormi, intendi? enormi!
E mentre si copriva dopo aver gettato sulle sue spalle il mantello, si avvicinò alla figlia e le disse sottovoce guardandosi intorno col suo consueto fare sospettoso:
— Cugina di lord Bentink, capisci? Ciò vuol dire, avendo un po’ di senno ed essendo una donna giovane e bella, esser l’unica e sola regina di Sicilia.
Ella aveva aperto la porta presso la quale si teneva, pallida, immobile, silenziosa. Appena un fremito delle labbra ed un corrugar del ciglio erano stati indizio del suo sdegno. Non si piegò e non rispose al bacio del padre che era tornato gaio e disinvolto.
— Bacerai per me la mano a Sua Maestà — le disse — e mi scuserai con lei. Tornerò da qui a quindici giorni, chè prima non potrò muovermida Palermo. Tu intanto rifletterai. Ho troppa stima della tua saggezza per aver dei dubbi sul risultato delle tue riflessioni. Già, io son sicuro che la tua decisione è presa fin da adesso ed è quale esser deve pel tuo e il mio interesse; ma conosco, conosco le donne: so che vogliono esser pregate a dir di sì anche quando anelano di assentire... Fra quindici giorni, dunque, fra quindici giorni.
Ella voltasi al servo che avea chiamato con uno squillo di campanello, disse:
— Accompagnate il signor duca fino alla sua carrozza.
— A rivederci da qui a quindici giorni, figlia mia — ripetè il duca salutandola con la mano.
Alma lo vide discendere la scaletta della torre che metteva alla porta principale, e continuò per un pezzo a tenersi immobile, pallida in viso e con gli occhi fisi a sè dinanzi. Infine si scosse e lentamente si avviò verso la camera della Regina. Ivi giunta si lasciò cadere su una ampia poltrona presso l’aperta finestra.
Il giorno già declinava: il sole infuocato scendeva sul mare in un nimbo di nubi purpuree; sul mare calmo e di un azzurro cupo guizzavano le fiamme del sole che tingevano di un sanguigno chiarore le vette dei colli.
Non un viandante pei sentieri, non un contadino pei campi, e nella solitudine profonda il silenzio di quel tramonto di autunno.
Ella poggiò i gomiti sul davanzale della finestra e stette un buon tratto perduta nella contemplazione. Da prima il suo pensiero era fatto di mille pensieri senza che potesse affissarsi in uno: le parole del padre erano state la pietra che si getta nel padule, erano state il soffio del vento che sconvolgele acque del lago fino allora stagnanti. Il cinismo di quel vecchio non le riusciva nuovo, che ella, per quanto si fosse mantenuta affatto estranea agl’intrighi dei cortigiani, ne sapeva le ipocrisie e le perversità; e se suo padre era al par degli altri ipocrita e perverso, non era al certo peggiore. La Regina si era spesso rammaricata con lei delle sue disillusioni; nessuna sorpresa dunque aveva in lei prodotto il linguaggio del padre, il quale fin da quando i Sovrani erano stati esiliati da Palermo si era tenuto lontano da essi, temendo di cadere in sospetto degl’Inglesi.
Ma ciò che ne aveva turbato profondamente l’anima era stato il linguaggio che le aveva tenuto, sul suo avvenire e l’oscena e vile proposta di quel matrimonio, che l’aveva costretta a ripiegarsi sul suo cuore, ad interrogarsi, a penetrare attraverso la nebbia che aveva fin’allora avvolto i suoi sentimenti. Perocchè, nelle parole di suo padre ci era pure un fondo di verità, ci era pure un esatto apprezzamento della condizione di lei. Invero, quale ne sarebbe stato l’avvenire se avesse dovuto lasciare il servizio della Regina? Avrebbe dovuto rinunciare ai suoi sogni ed accettare la triste, nauseosa realtà della vita, dandosi ad un uomo che avesse avuto la vernice di un titolo e di una ricchezza, e che ella non avrebbe amato, da cui non sarebbe stata amata?
Aveva vissuto fino alla sua età di ventidue anni permanentemente in un sogno, ciò che l’aveva fatta del tutto estranea, agl’intrighi che vedeva svolgersi a lei d’intorno. Tra la folla di cortigiani in cui aveva vissuto, ella così soavemente leggiadra, se pure era stata fatta segno alle galanti premure dei giovani signori, o non li aveva visti, o non li aveva curati; e se anche per poco losguardo e il sorriso di un uomo erano giunti ad interessarla, aveva visto in breve ora dileguarsi quello interessamento, non le restando che un senso increscioso di meraviglia come ella avesse potuto anche per un istante accogliere nell’animo suo il pensiero di quel sorriso e di quello sguardo! Era giunta a credere quel che gli altri credevano di lei, che fosse del tutto all’amore insensibile, come la Regina più volte le aveva ripetuto. E si era così ostinata in tal pensiero da non saper comprendere come una donna potesse darsi in piena balìa d’un uomo e sottoporsi ad un connubio nel quale l’anima non avesse parte.
A tal pensiero rabbrividiva; l’anima si ritraeva sgomenta come innanzi ad una mostruosità oscena. Era quella la realtà della vita, ben lo comprendeva, ma comprendeva anche che non si sarebbe mai acconciata ad una tale realtà e la respingeva con ribrezzo da sè, pur vedendo che era da tutte le ragazze della sua età e della sua condizione accettata con entusiasmo.
Ma era del tutto sgombra l’anima sua da ogni aspirazione? Ma nei suoi sogni, per quanto vaghi, nessuna immagine di uomo ne turbava la serenità del cuore e dello spirito?
Fin’allora aveva deluso una tale domanda che spesso si era rivolta, quantunque un ricordo, un dolce ed insieme amaro ricordo le salisse dal fondo dell’anima ogni qualvolta interrogandosi si ripiegava su sè stessa. No, non avrebbe potuto dire che il suo cuore fosse del tutto sgombro, non avrebbe potuto dire che tra il suo sogno e lei non si frammettesse talvolta la immagine di un giovane intorno al quale si svolgeva, suo malgrado, quel sogno. Quantunque non sapesse dell’amore che quel che ne aveva inteso, attenuato dai riguardiche si avevano per lei, pure il suo sogno era tutto fatto d’amore che intuiva come qualche cosa di formidabile, al quale avrebbe dato tutta sè stessa, in una dedizione intera dell’esser suo.
Ma chi era quel giovane che ella intravedeva nel buio delle sue notti insonni? Chi era quel giovane che nei suoi vaneggiamenti, nelle sue torride veglie, nei suoi indefinibili desideri ella vedeva sorgere a sè dinnanzi pur senza evocarlo, pur respingendolo, ma invano, pur non osando rivolger a lui il pensiero, tanto le pareva colpevole quella visione?
Ed i suoi sogni di fanciulla erano stati finallora senza determinatezza e le larve che fugacemente le apparivano non avean viso. Ma ora ne avevano uno; da una sera, da una notte avevano uno sguardo, un sorriso, una figura che ella riconosceva perchè l’aveva vista altre volte nella lontana infanzia un giorno, là nella solitudine della sua Calabria. L’aveva vista altra volta, ma avrebbe ritenuto per ben folle chi le avesse detto che un giorno ella avrebbe accolto nell’anima sua la visione di quel giovane e l’avrebbe custodita come un gioiello che non ci appartenga, che non potrà mai appartenerci e che rappresenta una colpa agli occhi del mondo, una insidia infernale ai propri occhi!
Quel giovane, della cui voce udita ben poche volte aveva pieno l’orecchio, del cui sguardo che si era incontrato col suo non più di due o tre volte, aveva la luce nel cuore, il cui sorriso triste e dolce insieme vedeva in tutti i suoi sogni; che inesorabilmente le era dinanzi, attirandola a sè, mentre ella ben sapeva che oltraggioso era il fascino che ne subiva; quel giovane che non aveva più visto dacchè in una notte in cui lo aveva sorpresofra le braccia della Regina, aveva esposto la sua vita come già altra volta, per lasciar loro il tempo di porsi in salvo, era... l’amante della Regina!
L’amante della Regina!... Perocchè nulla, nulla a lei era sfuggito, tutto aveva compreso, la sua inesperienza verginale essendo stata acuita dalla gelosia, una gelosia vaga che non aveva odi, ma che aveva sofferenze ed amarezze.
Pure ella si sentiva amata da quel suo sogno: ella ricordava i giorni della sua infanzia in cui lo aveva incontrato la prima volta, e nello sguardo che egli le aveva rivolto allorchè in quella notte al castello si era incontrato in lei, aveva letto l’anima di lui nella quale ella si sentiva. Ma ormai un doppio abisso li separava: l’esser lui un povero avventuriero e l’esser lui l’amante della Regina!...
Un povero avventuriero! No, non era questo l’abisso insuperabile essendo egli nobilitato con un decreto reale che gli conferiva un alto grado nell’esercito: eppoi, quantunque ella vivesse in una Corte che rappresentava quanto vi era di più vieto negli antichi pregiudizi, quanto di più rigido nel rispetto per le prerogative nobiliari, al soffio dei nuovi tempi si erano incominciati a piegar gli animi, tanto che si era parlato sul serio del matrimonio di una figlia del Re col principe Beauharnais il cui padre era stato un povero soldato di ventura, e si dava per certo quello di una Arciduchessa d’Austria col glorioso Imperatore dei Francesi, figlio di un borghese di Ajaccio! Se dunque quel giovane fosse andato in Sicilia a far valere i suoi diritti ad un reggimento nell’esercito, bene avrebbe potuto aspirare a lei...
Ma non era lui l’amante della Regina? E poteva ella accogliere e vagheggiar nell’anima suaquello amore per un uomo del quale la Regina aveva fatto il suo amante? Se pure egli, quando non era ancora il capobanda famoso che aveva reso tanti servigi alla causa del Re e salvato col rischio della vita più volte la Regina, ma un oscuro contadinello, un povero bastardo, aveva osato volgere a lei l’anima sua, cosa aveva fatto di quell’anima la tresca nella quale si era lasciato impigliare?
Ella non osava fermarsi per analizzarne la natura, chè ripugnava alla sua purezza di fanciulla, comprendendo vagamente esser quello un amore del quale ella non doveva discorrere neanche a sè stessa senza arrossirne. Si trovava dunque in un turbamento che la rendeva insoddisfatta di sè e degli altri, benchè un tale turbamento in nulla scemasse il fascino che su lei esercitava la sua Sovrana e non le impedisse di volgere il pensiero a quell’uomo dal quale un abisso insormontabile la separava, pur senza fargliene una colpa; chè non era tanto inesperta della vita da non comprendere certe contradizioni cui può indurre un momento di ebbrezza. Ma comprendeva anche che ella non avrebbe mai svelato l’amor suo ad un uomo che avesse avuto ancor calde le labbra dei baci di una donna, ad un uomo che non fosse tutto suo pur sentendosene profondamente ed unicamente amata!
Non era quella la prima volta che l’anima sua meditabonda vagava in tali pensieri che aveva tenuto gelosamente occulti. Da tutti era creduta fredda d’indole e che col cuore vuoto e sereno vivesse come del tutto estranea alle passioni che le fremevano d’intorno. La compiacenza di lei per la solitudine, la sua aria pensosa, la sua docilità tranquilla al subito volere e disvolere della Reginaerano interpretate per indizio di una natura senza volontà e senza energia. Solo la Regina aveva talvolta dubitato che ella fosse ben altro, in fondo; che se era così fredda ed altera coi cortigiani, alcuni dei quali avevano per la giovinetta un’ammirazione che avrebbe potuto divenire amore sol che ella l’avesse voluto, un mistero si nascondeva in cuor suo, quantunque sapesse ben nasconderlo. L’aveva vista trasalire allorchè talvolta le parlava di Riccardo, ma poichè tornava di un subito indifferente, il vago sospetto dileguava per tornare a balenarle più vivo ad un nuovo incidente.
Ma ella era vittima di un fenomeno strano: finchè sapeva vivo Riccardo aveva imposto a sè stessa di respingerne l’immagine, di stornarne il pensiero non solo perchè le pareva indegno di lei, ma anche perchè le faceva correre dei brividi per le vene ricordandole quelle notte in cui l’aveva sorpreso in una stanza con la Regina, ricordando quelle notti in cui a Napoli, mentre egli era convalescente in una stanza del palazzo reale la Regina era stata con lui fino all’alba.
Ella era stranamente turbata dalle visioni che le destava quel ricordo nelle quali sentiva germogliare quasi una punta di odio e di sdegno per la Regina e per Riccardo: ma da quando si era andato accentuando il dubbio che egli fosse morto o per le ferite riportate nell’assalto del castello, o in uno scontro coi Francesi, pensava a lui con melanconica dolcezza e giungeva financo a credere che ne amasse la memoria come se la morte, depurandolo, lo avesse reso a lei e fatto tutto suo, perchè credeva che la Regina, distratta da altre cure, impigliata in tanti intrighi, lo avesse del tutto dimenticato, quantunque di tanto in tanto,allorchè più urgente era il bisogno di un amico risoluto e devoto, con rammarico profondo ne deplorasse la perdita.
L’immagine di lui che sorgeva da un letto di morte le era assai più cara dell’immagine di lui fra le braccia della Regina, e Alma si era fatta un’amara ed insieme una invocata compagnia del pensiero di quel morto che la teneva assorta per ore e ore in un tacito raccoglimento.
E quella sera appunto mentre il sole declinava lontano sul mare che aveva mormori lamentevoli, era stata per un pezzo affissata in tal pensiero, nel quale l’anima sua si era rifugiata per dimenticare le tristi cose che il padre le aveva detto e l’osceno mercato che le aveva proposto.
Mentre era così assorta, le ombre della notte scendevano lentamente velando le cose. La Regina intanto tardava a tornare; ella però non era punto preoccupata, avvezza alla vita avventurosa di lei e nulla temendo per sè, chè la torre se non era una comoda dimora poteva dirsi ben sicura.
In questo ella udì verso la spiaggia rimbombare alcuni colpi di fucili.
— Dio mio, la Regina forse, la Regina! — esclamò lei alzandosi di botto. — Un qualche incontro, un qualche agguato!
E stette col cuore tremante, con gli occhi fissi verso la spiaggia donde giungevano a lei alcune voci che le parvero di uomini che inseguissero un uomo. Ma nulla vedeva perchè l’estremità del colle dietro al quale avveniva l’inseguimento glieli nascondeva. Infine vide come un’ombra che di corsa si dirigeva verso la torre, seguita da alcune altre che le parevano soldati. Ad un punto l’inseguito si fermò ed esplose due colpi d’arma dafuoco i quali arrestarono gl’inseguienti, certo perchè alcuni di loro erano stati feriti. Ma intanto altri soldati avevano raggiunto i primi, e tutti insieme si diedero di nuovo ad inseguire il comune nemico.
— Non si tratta della Regina, Dio sia lodato! — disse lei traendo un sospiro di sollievo. — Sono soldati inglesi che inseguono qualche povero diavolo di siciliano.
L’inseguito si era sempre più avvicinato alla torre, ma quando era per esser raggiunto da alcuni soldati che per esser più veloci avevano sorpassato gli altri, si fermò. Ella vide che l’inseguito, un uomo, al certo un giovane a giudicare dalla snella ed agile persona, si rivolse per affrontarli: la mischia fu breve e feroce, ella sentì alcune grida di dolore venir dal gruppo dei combattenti.
— L’avranno ferito, l’avranno ferito! — disse a sè stessa col cuore stretto dall’angoscia per quell’orrendo spettacolo.
Pure non sapeva staccar gli occhi da quel gruppo in cui vedeva dibattersi l’inseguito a favor del quale ella pregava, prendendo parte a quella impari lotta con animo trepidante.
— Salvo, salvo un’altra volta! — gridò, vedendo che il giovane si era di nuovo liberato dai suoi nemici, uno dei quali giaceva lungo disteso a terra, e correva verso la torre da cui era lontano non più di trenta passi.
Era vestito di nero, col cappello alla calabrese tirato fino sugli occhi.
— Un calabrese — mormorò lei — un calabrese!
Sapeva che chiamati dalla Regina ne erano sbarcati molti, deludendo la vigilanza degl’Inglesi,onde ella sussultò con una vaga apprensione e con un più vivo interessamento ormai per la sorte di quel suo conterraneo, di cui tra per l’ombra della sera, tra pel cappello calato sulla fronte non giungeva a vedere il viso.
Quando fu sotto la torre ella si sporse, mentre i soldati che emettevano grida di rabbia si erano avvicinati anch’essi, tanto che ella poteva vederne gli abiti rossi. Ma giunti innanzi la torre si fermarono interdetti.
— Ne hanno perduto le traccie — esclamò lei — avrà guadagnato l’erta del colle dietro la torre...
Si tolse dalla finestra, accorse all’altra di contro donde potevasi vedere il colle dirimpetto. Appuntò gli occhi, scorse con lo sguardo per tutta la pendice... Nessuno!
— Per dove sarà fuggito, per dove? — mormorò sorpresa, spiegandosi il perchè i soldati si fossero fermati incerti.
Questi non erano più in pochi perchè raggiunti dagli altri, fra cui riconobbe un ufficiale che interrogava coloro i quali erano stati alle prese con l’inseguito.
— Ah! — disse lei, ammirata dal valore del fuggitivo che per ben due volte aveva sostenuto una lotta così impari uscendone vittorioso, e nella quale aveva dovuto uccidere o ferire parecchi degl’inseguitori — un eroe, un eroe! Se la Regina ne avesse molti come questo calabrese e come...
Le sue labbra mormorarono il nome di Riccardo. Sospirò e si ritrasse dalla finestra avendo sentito un rumore nella stanza attigua nella quale uno dei servi accendeva i lampadari.
— Eccellenza — disse entrando uno dei valletti che faceva l’ufficio di maggiordomo nelle brevidimore di Sua Maestà in quella torre — un ufficiale inglese chiede un’udienza a lei, signora duchessa, avendogli io detto che Sua Maestà è indisposta.
Ella trasalì: certo nella chiesta udienza ci entrava per qualche cosa lo scacco che i soldati di Sua Maestà Britannica avevano patito. Comprese che non sarebbe stato prudente il negarsi di riceverlo e rispose:
— Introducetelo.
Non si sentiva punto tranquilla, chè sapeva quanto fossero rozzi e arroganti gli ufficiali inglesi anche con le donne e in quanta diffidenza tenessero la Regina e coloro del suo seguito. Sedette con l’animo sconvolto, ma nulla ne traspariva dall’aspetto che era quale si conveniva ad una giovinetta del suo grado.
— Sir Edoardo Walter — annunciò il maggiordomo.
L’ufficiale inglese, un uomo già maturo dai capelli e dai baffi rossi in un viso butterato dal vaiuolo, si avanzò verso Alma, ma parve ben sorpreso di trovarsi innanzi ad una giovinetta.
— Ella ha chiesto un’udienza a Sua Maestà, ma è indisposta e ha ordinato che non la si disturbi per nulla. Può dire a me quel che le occorre.
— A lei! — disse l’ufficiale imbarazzato. — Ma Sua Maestà non ha la sua dama di compagnia?
— Ne fo io le veci.
— Quando è così... Gli è che ella è tanto giovane... Insomma, io sono nella necessità di frugare per tutte le stanze di questa torre nella quale credo si sia nascosto un tale fuggitivo dalle mani de’ miei soldati, dopo averne feriti due e temo ucciso un altro.
— Ma — rispose Alma con accento reciso — sache questa è la dimora attuale della Regina di Sicilia, nostra signora e nostra padrona assoluta, e che se anche quel calabrese...
— Come sa lei che è un calabrese?
Ella arrossì e rimase interdetta. Fece uno sforzo per rasserenarsi e ripigliò:
— Me ne sono avvista agli abiti. Fui testimone dello inseguimento stando alla finestra. Non credo che il fuggitivo abbia avuto l’audacia di ricoverarsi proprio qui. Di dove sarebbe entrato? Non vi ha che una sola porta custodita dal negro della Regina.
— Dietro la torre vi sono delle finestrette, degli spiragli che, come ho visto, possono lasciar passare un uomo. Del resto è nota la predilezione di Sua Maestà per cotesti Calabresi che con la loro furfanteria han compromesso innanzi all’Europa la causa dei Borboni.
— Ella offende la mia Regina! — gridò Alma alzandosi — la mia Sovrana, alla quale qui tutti debbono rispetto ed obbedienza non esclusi gli ufficiali inglesi, essendo essa l’amica e l’alleata di Sua Maestà il Re d’Inghilterra.
Il fiero aspetto e la dignitosa persona della giovinetta imposero all’ufficiale che balbettò con tono più umile:
— Non ho punto voluto mancare di rispetto a Sua Maestà; pure debbo compiere il mio dovere...
Ella comprese che non doveva spinger le cose all’estremo. Se l’ufficiale, cocciuto come tutti gl’Inglesi, avesse voluto usare della forza, come già molte volte era avvenuto, e fosse penetrato financo nella camera della Regina, trovandola vuota non avrebbe scoperto il mendacio di lei? E se con quel pretesto avesse voluto assicurarsi che la Regina era altrove?
— Accetto le sue scuse — disse Alma — ma torno ad assicurarla che non è possibile che il prigioniero sia penetrato nella torre; posso impegnare la mia parola d’onore. Anche io che lo avevo seguito nella sua fuga, fui sorpresa della sparizione; ma lo avrei visto se si fosse intromesso per una finestra o per uno spiraglio, in questo luogo.
— Me ne dà dunque la sua parola d’onore?
— Sì — rispose lei con accento di convinzione che rassicurò l’ufficiale.
E veramente ella credeva per fermo di dire il vero. Come era possibile che il fuggitivo fosse penetrato nella torre?
— Comprenderà — riprese la giovinetta — che io non posso ledere e non posso permettere che si leda una delle prerogative delle dimore regali. Solo la Regina avrebbe potuto concederle quel che ella ha chiesto, signor ufficiale!
L’ufficiale pareva perplesso e irresoluto. Per quanto rozzo comprendeva che sarebbe stata una villania inaudita il non prestar fede all’assicurazione di quella nobile giovinetta, della quale ammirava non solo la leggiadria soavissima, ma l’aria di bontà diffusa nello aspetto, come ne aveva ammirato la fierezza nel difendere la sua sovrana.
— Ma di che è reo quel... calabrese? — chiese Alma, vinta da una curiosità nella quale c’era pure un vivo per quanto dissimulato interessamento.
— Alcuni miei soldati — rispose l’ufficiale alquanto imbarazzato — scherzavano un po’... troppo, via... un po’ troppo vivacemente con certe ragazze del vicino villaggio, le quali... le quali se ne mostravano offese senza ragione alcuna, perchè si sa che la giovinezza è un po’ avventata, epoi dovrebbe pur perdonarsi ai nostri bravi soldati, se venuti qui ad esporre la vita pel bene di questa isola e del suo Re, cercano di prendersi un po’ di svago. Quel marrano di calabrese, al certo un vagabondo, uno di quelli che nel loro paese commettono ogni sorta di nefandezze col pretesto di far la guerra agli invasori, corse senza che ce ne fosse alcun bisogno, in difesa di quelle donne e ferì uno dei miei soldati...
Non proseguì, avendo egli una confusa coscienza che quel racconto, di molto attenuato, produceva una sinistra impressione nell’anima della nobile giovinetta, a danno del buon nome dei soldati inglesi. Ella non rispose, per fargli comprendere che non aveva più voglia di continuare quel colloquio e per liberarsi presto di quell’importuno, tanto più che temeva sopravvenisse la Regina dalla sua misteriosa escursione.
Sir Edoardo Water era assai scontento di sè e della riuscita del suo disegno. Come confessare di essere stato battuto da quella ragazza, perchè sebbene non potesse dubitare menomamente delle assicurazioni di lei, sopravviveva in lui il sospetto che il fuggitivo fosse penetrato nella torre? D’altra parte non voleva insistere, per non esporsi, se fosse avvenuto uno scandalo, e la Regina se ne fosse querelata a lord Bentink, ad essere punito, tanto più che sarebbe venuto a galla la scostumatezza e la indisciplinatezza dei suoi soldati. In odio agl’isolani che vedevano in essi dei nemici, ben si poteva chiudere un occhio sull’una e sull’altra, ma a patto che non destassero troppo rumore, come aveva fatto intendere il generale Mac Ferlane che comandava le armi di Sua Maestà il Re d’Inghilterra in Sicilia.
Volgendo in mente tali pensieri e comprendendoche sarebbe stata villania l’indugiar più oltre, anche perchè nella sua rozzezza sentiva il fascino di quella leggiadra e giovine creatura, salutò e senza dir parola si diresse verso l’uscio.
Ella aveva risposto al saluto e si teneva immobile, trepidante, perchè proprio non aveva sperato di cavarsela secondo i suoi voti. Sentì che l’ufficiale scendeva, preceduto dal maggiordomo; per rassicurarsi corse alla finestra e vide che i soldati, disposti in fila, prendevano la volta d’onde erano venuti.
— Dio, ti ringrazio! — mormorò lei.
Ringraziava Dio sol perchè il segreto della Regina non era stato scoperto, ma era ben lungi dal credere che il fuggitivo fosse nella torre.
— Ma dove, dove mai si è nascosto? Sparito di un tratto, come se fosse stato ingoiato dal terreno! Se avesse cercato di salvarsi su pel colle donde incomincia il bosco, l’avrei visto attraversare il piano!
Uscì dalla stanza in cui aveva ricevuto l’ufficiale inglese e si diresse in un gabinetto ove era solita di ritirarsi allorchè la Regina o in colloquio coi suoi confidenti o occupata a sbrigare la sua corrispondenza le concedeva un po’ di riposo. Quel gabinetto, incavato per così dire nel muro massiccio della torre, era attraversato in un angolo da una scala a chiocciola che saliva sulla piattaforma e scendeva nei sotterranei della torre.
Ella ritrovava lì dentro i suoi libri, i suoi ricordi, ed era il luogo che prediligeva perchè lontano da ogni rumore. Sedette sul lettuccio da campo che era ivi con le spalle alla scaletta ed aperse uno dei grossi volumi istoriati che divertivano la sua solitudine, proponendosi di attendere ivi che la Regina tornasse, perocchè era convinta che l’augustadonna sarebbe tornata a notte alta per non esser vista dai servi e dagli staffieri.
Ma Alma non aveva testa alla lettura. La storia che l’ufficiale inglese le aveva narrata aveva vieppiù acuito il suo interessamento pel fuggitivo, ben comprendendo che l’ufficiale aveva di molto attenuato la colpa dei suoi inglesi.
Non era dunque un volgare vagabondo colui che era intervenuto per difendere alcune povere donne dalla scostumatezza soldatesca: certo aveva ubbidito ad un generoso sentimento che gli aveva fatto affrontare lo sdegno e la vendetta di tutto un manipolo di soldati, e l’uomo che di tanto era stato capace non poteva essere un volgare malfattore. Si sentiva come lusingata nel suo amore per la terra in cui era nata, della quale sentiva talvolta un’acuta nostalgia, perocchè gli anni suoi più belli e più dolci, prima che la paterna ambizione l’avesse costretta a vivere nella Corte, erano stati quelli che aveva passato nel castello dei duchi di Fagnano, e forse quel vago sentimento che la faceva pensare a Riccardo con un senso di viva simpatia, mutatosi, or che lo credeva morto, in una memoria dolcissima, era dovuto alla suggestione che esercitavano in lei i ricordi di quegli anni.
Silenziosa la campagna, silenziosa la torre, chè i servi si erano raccolti tutti nelle stanze inferiori. Ella sfogliando il volume mentre vagava coi suoi pensieri era di tanto in tanto sopraffatta da un senso di paura, chè aveva udito raccontare alcune leggende intorno a quel luogo del tempo in cui i Saraceni facevano di molte escursioni in quelle terre; leggende di donne rapite, di vendette sanguinose, di stragi e di orrendi misfatti. Ella rabbrividiva cercando di stornarne il pensiero, colrievocare la memoria della sua infanzia trascorsa sui monti della lontana Calabria e delle persone che più l’avevano amata e che ella aveva amato. Ben poche veramente: nessuna però aveva lasciato una traccia profonda nel suo cuore i cui affetti, anche quelli di famiglia, erano stati ben superficiali. Ah, se avesse avuto i baci e le carezze di una madre in quella età in cui più se ne ha bisogno! ma ella non l’aveva conosciuta la madre sua; ed il padre che aveva sempre una ambizione da soddisfare, sempre un intrigo a cui attendere, pure amandola molto, non aveva saputo col suo affetto far le veci dei tanti affetti che le erano mancati.
Solo la Regina aveva saputo prender posto nel cuore di lei, che però era come insoddisfatto di quell’amore quasi le costasse una violenza, di quell’amore che era fatto più di suggestione che di stima verace e profonda, ma che non era per questo meno devoto e meno capace di ogni sacrifizio. Certo v’influiva il contrasto tra la sua natura e quella della Regina, della quale ella non ignorava le colpe e i vizî, pur sentendo per lei talvolta una pietà profonda che giungeva a giustificarla e ad assolverla: certo v’influiva il vederla decaduta da tanta altezza, circondata da nemici, insidiata, calunniata, abbandonata anche da coloro che un tempo le strisciavano alle ginocchia mentre ella, sola, impavida, superba, continuava a lottare in Calabria contro i Francesi, in Sicilia contro i ministri di Sua Maestà Britannica.
Ed Alma si sentiva di qualunque sacrifizio capace per la sua signora e padrona, pur biasimandone in cuor suo certe intemperanze e certe perversità, ed ammirandone profondamente certe virtù eroiche che ne facevano un impasto singolare di bene e di male, di maestà e di fralezza.
La notte era discesa da più ore ed ella tutta immersa nei suoi pensieri non se n’era accorta. Quando alzò gli occhi ad un orologio della parete si scosse mormorando:
— Un’ora per la mezzanotte! E la Regina non è rientrata! Eppure bisogna che l’aspetti vegliando. Voglia Iddio che non le sia accaduto nessun male!
Trasalì ad un lieve rumore che intese nel fondo della stanza attraversata dalla scala a chiocciola. Era stato uno scricchiolio cui aveva tenuto dietro di nuovo il silenzio profondo.
— È il caldo che fa scricchiolare il legno — disse a se stessa per rincorarsi.
Ma lo scricchiolio si udì di nuovo. Ebbe l’impressione che qualcuno cautamente salisse per la scaletta fermandosi ad ogni gradino.
— Dio mio — mormoro — Dio mio!
Si era alzata e, incapace a muoversi, a chieder soccorso, stava con gli occhi fisi, sbarrati, sulla botola aperta per la quale scendeva la scaletta.
— Un uomo, un uomo! — balbettò vedendo uscir fuori dalla botola una testa coperta da un cappello calabrese.
Col viso sconvolto dal terrore, con la mano nei capelli fissava quella testa della quale ancora non vedeva il viso. Infine l’uomo dovette alzare il capo perchè ella ne vide gli occhi, due occhi neri e scintillanti, che la fissavano immobili come se anche quell’uomo fosse colpito da stupore e non sapesse risolversi nè a discendere nè a salire.
— Il fuggitivo, il fuggitivo! — gridò lei con voce soffocata ricordando le parole dell’ufficiale.
Si rincorò per una istintiva persuasione che non avesse nulla da temere da quell’uomo che aveva difeso le donne perseguitate dagl’Inglesi. Vincendola paura, facendosi sostegno della mano alla spalliera del lettuccio sentendo tremar le ginocchia:
— Chi è? — chiese con voce tremante.
L’uomo salì due gradini in modo che ella potè vederlo tutto dalla cintola in su. Sogno, allucinazione, realtà? Quell’uomo lo riconosceva: quel viso, quegli occhi, quell’aspetto li aveva già visti altre volte; li vedeva spesso nei suoi ricordi, nei suoi sogni. Sapeva il nome di quell’uomo... Come era lì, come era lì, mentre da tanto tempo non ne aveva più nuove?
— Oh! — disse infine quell’uomo — se è questa una visione che debba dileguare... Se è questo un miraggio... che io sappia se son folle...
Ella aveva ripreso possesso di sè. Pure, se lo spavento era cessato, era sopraggiunto un imbarazzo, una perplessità che le produceva come un intontimento. Comprendeva che avrebbe dovuto rassicurarlo, che toccava a lei far cessare quella incertezza per entrambi convulsa.
— Salite, signore — gli disse con calma ben simulata.
Egli salì il resto della scaletta, ma giunto sul limitare della stanza non osò proseguire. Si era tolto il cappello e si teneva immobile, quasi come un colpevole. Ella di un solo sguardo aveva notato certi particolari della persona e delle vesti di lui che facevano arguire come da lungo tempo lottasse coi bisogni più urgenti. Gli occhi, il cui sguardo era fiero talvolta, ma che nel fissarla diveniva sì dolce, erano affossati nell’orbita; le guance scarne, i capelli lunghi ed incolti gli davano un aspetto di sofferente, mentre le vesti lacere e sordide di fango ne attestavano la miseria.
Ella ne ebbe pietà, più che pietà forse. Qualicasi fortunosi l’avevano ridotto in sì misero stato? Pure non osava chiedergli, quasi temesse di mostrar per lui un troppo vivo interessamento.
Additandogli una sedia discosta dalla sua gli disse:
— Dovete essere stanco, sedete.
Egli sedette. Poi per rompere l’imbarazzante silenzio le si rivolse dicendo:
— Ma dove sono io, signora duchessa?
— In, una delle due dimore di Sua Maestà la Regina, le sole che le hanno assegnato gl’Inglesi.
— La Regina è qui dunque! — esclamò lui.
Ella esitò, ma non volle mentire con quel giovane, quantunque l’esclamazione di lui l’avesse non poco turbata per i ricordi che evocava.
— No — rispose — Sua Maestà è assente ma tornerà questa notte.
Egli si alzò di botto.
— Perdonatemi — disse — perdonatemi. Io non sapevo a chi questa torre appartenesse... quando vi vidi all’improvviso pur non potendo credere agli occhi miei... pur credendomi in preda ad una allucinazione... non sapevo che foste sola in questa casa... Ditemi per dove posso andar via... Ho cercato al buio mentre ero in un angusto sotterraneo una finestra, uno spiraglio per dove uscire... quello pel quale entrai era chiuso... Andando a tentoni trovai questa scala; ne salii i primi gradini sperando di trovare una finestra per saltar giù e... e mi trovai qui. Se per non esser visto dai servi non posso andar via dalla porta, additatemi una finestra per la quale saltar giù...
S’interruppe: aveva visto a sè dinanzi le socchiuse imposte di una finestretta. Vi si diresse dicendo, voltosi alla giovinetta:
— Per questa, non è vero?
— No, no, che fate? — gridò lei sgomenta. — Vi uccidereste!
— Ma allora? — fece lui smarrito, perplesso.
Ella ben comprendendo per qual delicato riguardo il giovane voleva andar via anche saltando dalla finestra, arrossì, ma in cuor suo ne fu esultante. Per quanto sentisse come una ritrosia a parlargli della Regina, pure la gratitudine gliene faceva un obbligo, non sapendo con quali altre parole trattenerlo.
— Sua Maestà — gli disse — vi vedrà con piacere. Era molto impensierita sulla vostra sorte, non avendo da gran tempo vostre nuove. Anzi si diceva....
— Che fossi morto?
— Sedete dunque, poichè non posso farvi uscire avendo Sua Maestà proibito che si apra la porta della torre in assenza di lei.
Egli tornò a sedere.
— Debbo spiegarvi come io sia qui — disse il giovane.
— Lo so.
— Lo sapete?
— Sì. Ero alla finestra e assistetti al vostro inseguimento, ma non vi riconobbi. Seppi poi dall’ufficiale inglese comandante i soldati che vi davano la caccia perchè vi si inseguiva. Egli sosteneva, e non a torto, che vi eravate rifugiato in questa torre, e avrebbe voluto frugarla in ogni suo angolo. A me non pareva possibile che l’inseguito avesse potuto penetrarvi e diedi la mia parola d’onore che qui non c’era nessuno.
— Sicchè, se mi aveste veduto entrare? — fece lui con una mal dissimulata amarezza nella voce.
— Non avrei data la mia parola d’onore ma avrei impedito che si frugasse per non ledere le prerogative delle dimore reali...
— È vero — disse il giovane — tali prerogative mi avrebbero salvato!
Stettero per un pezzo in silenzio. Ella aveva chinato gli occhi confessando a sè stessa che le sue parole avevano dovuto ben ferire quel giovarne. Poi li alzò per dire:
— Narrate dunque. Come risolveste a rifugiarvi qui?
— Compresi che ero perduto. Per ben due volte mi avevano raggiunto e per ben due volte avevo potuto liberarmi dalle loro mani.
— Ferendone parecchi e uccidendone qualcuno.
— Ho il cappello bucato da due palle — rispose lui per iscusarsi — e una ferita al braccio di un colpo di daga... Ma poichè eran cresciuti di numero, se mi avessero agguantato la terza volta sarebbe stata inutile ogni resistenza. Non so chi mi abbia ispirato di dirigermi verso questa torre che io, nuovo affatto di questi luoghi, credevo disabitata; solo quando fui vicino mi accorsi che la porta era custodita da un negro. Girai la torre e vidi una finestrina. Con un salto fui sul davanzale, poi mi lasciai andar giù e caddi in un sotterraneo presso un mucchio di legna nel quale mi nascosi. Dopo un’ora circa sentii un calpestio. Era un tale che si avvicinò alla finestra per la quale mi ero salvato, ne sbarrò le imposte, e assicurò con una catena che chiuse a chiave onde non potesse aprirsi neanche dal di dentro... Ed io compresi che se non ero prigioniero degl’Inglesi, ero, a loro insaputa, prigioniero degli abitanti di questa torre, perchè non avrei potuto, come ne avevo fatto il disegno, riaprire la finestra appena fosse alta la notte, per andar via.
— Per andar dove? — chiese lei.
Ma si pentì di aver fatto una tale domanda che tradiva il suo interessamento.
— Per presentarmi — rispose il giovane — a Sua Maestà la Regina alla quale avevo data la mia parola d’onore di raggiungerla in Sicilia, se mai i Francesi non mi avessero ucciso.
Lo strano era questo, che anche la giovinetta si faceva una colpa del suo interessamento, mentre si rimproverava quel colloquio e la compiacenza che ne sentiva come sconveniente; mentre cedendo al suo interessamento anelava di sapere quali dolorose vicende il giovine avesse subito prima di giungere in Sicilia pur non osando chiederglielo, Riccardo si sentiva punto ed offeso delle parole e dal contegno di lei; offeso in quel culto, in quella religione che custodiva da tanti anni nel cuore per quella nobile giovinetta che era sua cugina, ma per la quale lui era pur sempre un misero avventuriero nato e cresciuto fra i servi della gleba.
E tale si proponeva di rimanere, chè per nulla al mondo l’avrebbe umiliata, per nulla al mondo avrebbe voluto darle un dolore. Ma non per questo egli doveva far credere che pitoccasse cosa alcuna; anzi per quanto più profondo sentiva nell’animo suo l’amore per quella giovinetta che si proponeva di non lasciar mai trapelare, tanto più vivo era in lui il desiderio che ella non lo tenesse in conto di un volgare intrigante.
Pure non si era ancora riavuto dalla emozione di quel così strano incontro. Ah, se ella sapesse per quali legami era avvinto a lei, se ella sapesse qual sangue le scorresse nelle vene, a qual nome e a qual titolo avesse diritto, come vieppiù fatale le sarebbe parso quell’incontro che li aveva messia fronte per la prima volta nella loro vita, mentre finallora appena appena due o tre volte avevano scambiato qualche parola!
Alle parole del giovane Alma si era alzata, non sapendo ella stessa a qual sentimento ubbidisse. In questo dalla riva giunse loro un fischio che li fece trasalire.
— Sua Maestà sarà qui fra poco — disse lei rivoltasi a Riccardo — Sarà bene stanca. Sarebbe meglio che vi presentaste a lei domani.
— Sta bene — rispose il giovane.
Ella si era avvicinata alla porta ove si fermò indecisa. Qualcosa combatteva in lei un’aspra battaglia: la sua pietà, il suo interessamento, fors’anco il rimorso di aver ferito con le sue parole quel giovane che aveva veduto soffrir tanto, come appariva dall’aspetto, lottavano col decoro, col pregiudizio, col suo pudore di giovinetta.
Come lasciarlo lì per tutta una notte, mentre forse aveva fame? Ma era prudente mettere a parte i servi di quel segreto, a rischio anche di compromettere il segreto della Regina? Ma doveva lei, proprio lei, appena la Regina fosse tornata, parlarle di quel giovane, ben sapendo quali fossero i loro rapporti? Non era più conveniente che aspettasse il mattino per rivelarle la presenza di Riccardo in quella torre?
Si rivolse come mossa da una subita risoluzione.
— Resterete qui questa notte, in questa stanza che io chiuderò a chiave onde nessun servo possa entrarvi. Voi chiuderete la botola della scala. E... e penserò a portarvi io stessa di che rifocillarvi.
— Grazie — rispose lui che la fissava con un lungo sguardo.
Ella uscì e chiuse a chiave la porta. In questo udì un rumore di passi giù nel cortile. Giovanni il negro precedeva la Regina rischiarando la scala con una lanterna. Alma dal vocio che aveva sentito si era accorto che alcuni uomini avevano accompagnato fino alla torre l’augusta donna, la quale poco dopo entrò nella piccola sala in cui la giovinetta l’attendeva.
— Buona notte, figliuola, buona notte. Sei stata in gran pensiero per me, non è vero?
— Non lo nascondo, Maestà.
La Regina si volse al negro che si era arrestato sul limitare.
— Dammi le lettere che son giunte durante la mia assenza.
Il negro le porse inchinandosi un fascio di carte: poi, traendo un plico dalla tasca interna della sottoveste:
— La persona che Vostra Maestà ha mandato in Calabria... quella che io solo conosco, ha lasciato questo plico.