IV.

IV.

Prima d’incominciare questo capitolo, il romanziere sente l’obbligo di dichiarare che cede la penna allo storico come del resto l’ha più volte scambiata in questa narrazione per la quale si è servito di quanto le cronache di quel fortunoso periodo han registrato; giacchè non dice e non fa dire ai suoi personaggi nulla che non sia di una scrupolosa esattezza.

Questa dichiarazione è necessaria quando le cose che si raccontano si oppongono alle cose che sono comunemente adottate. Per esempio, pochi sanno che Carolina d’Austria era una fervida ammiratrice del suo maggior nemico: Napoleone Bonaparte. Il Sainte-Beuve nei suoiNouveaux Lundis, volume X, riporta il brano di un colloquio di Armand Lefebvre che scrisse la «Storia dei Gabinetti di Europa durante il Consolato e l’Impero» e che era stato ambasciatore a Napoli e vi aveva conosciuto da vicino «cette fameuse reine Carolina, fille de Marie-Térèse, notre ennemie jurée, une femme violente, capricieuse, passionée, et qui à laissé dans l’histoire des souvenirs romanesques et sanglants» la quale gli disse un giorno queste parole che riporto dal testo:

«Assurement, il me serait pardonnable de ne pas aimer Bonaparte; eh bien, je ferais volontiers mille lieues pour le voir. Si j’osais me comparer à ce grand homme, je dirais que j’ai un sentimentcommun avec lui, c’est l’amour de la gloire; mais il a poursuit son objet en grand et il l’a obtenu, au lieu que moi, j’ai cherché la gloire dans les buissons, et je ne suis parvenue qu’à me piquer le bout des doigts. Quand vous lui écrivez, dites lui que je ne me lasse pas d’admirer l’adresse avec laquelle il a su profiter d’un temps ou Frederic et Catherine ayant disparu du thêatre des affaires du monde, il n’y a plus sur tous les trônes de l’Europe que des imbeciles».

Va da sè che tra gl’imbecilliMaria Carolina annoverava suo marito Ferdinando IV epour cause, avrebbe detto l’ambasciatore Armand Lefebvre!

Nel salone della villa di Castelvetrano ove la Regina era stata relegata, sedeva ella in attesa che il maggiordomo introducesse l’ufficiale francese che era stato da poco liberato dalle carceri di Messina in cui l’avevano rinchiuso gl’Inglesi poco persuasi ch’egli fosse sbarcato in Sicilia per attendere ad alcuni studi di archeologia. Egli il giorno innanzi aveva chiesto di esser ricevuto dalla Regina alla quale avrebbe arrecato notizie del capitano Amelio da lei mandato in Francia.

Questo nome l’aveva fatta sussultare, che le ricordava la grande umiliazione subita nel saper chiuso nel forte di Vincennes colui che era andato in Francia latore di una lettera per Napoleone. Era dunque curiosa di sapere che le dovesse dire l’ufficiale francese che si era fatto annunziare col nome di colonnello Elbéne.

— Sedete — disse la Regina allorchè il colonnello, che si era profondamente inchinato appena giunto sul limitare della sala, aveva fatto alcuni passi innanzi. — Entriamo senz’altro in argomento. Che cosa dovete dirmi in nome di Bonaparte?

— Bonaparte? — rispose il colonnello con un fine sorriso. — Non conosciamo nessuno in Francia che porti questo nome. Vostra Maestà intende parlare certo dell’Imperatore Napoleone. Bonaparte è morto il 28 fiorile anno XII...

— Dite, dite colonnello; non facciamo questione di parole.

Il colonnello si inclinò, poi riprese:

— Io non sono e non posso essere che un messaggero verbale: le cose che dovrò dire sono troppo importanti per potersi, senza pericolo, affidare alla carta. Il mio imprigionamento a Messina prova abbastanza di quali precauzioni gli Inglesi sappiano circondarsi.

— Comprendo. Ditemi intanto se Bo... se l’Imperatore continua ancora a chiamarmi Fredegonda.

— Giusto, egli mi ha incaricato di chiedere se ancora Vostra Maestà lo chiama il tiranno côrso.

— Ciò dipende — disse la Regina sorridendo per l’arguta risposta del colonnello — dal modo come si condurrà con me.

— In tal caso Vostra Maestà per ragioni di gratitudine lo chiamerà il nuovo Carlomagno.

— Ma come conciliare le vostre parole con le sue azioni? Se avesse prestato orecchio alle mie proposte non sarei ridotta in tanta misera condizione e da tempo la Sicilia sarebbe stata purgata degl’Inglesi. Invece, che ha fatto il vostro Imperatore? Spedisco in Francia un ufficiale della Marina, un mio uomo di confidenza e il maresciallo Marmont, al quale prima si dirige, lo manda al vostro ministro di polizia, Rovigo, Savary, che so io... i vostri alti funzionari hanno tanti nomi oggi che è impossibile distinguerli. Il mio uomo di confidenza espone l’oggetto della sua missionema invece di esser presentato a Napoleone vien gettato in un carcere ove ancora è rinchiuso. Ed è così che Bonaparte mi dà prova delle sue buone intenzioni!

— Ma il vero, l’unico colpevole, mi permetto di far osservare alla Maestà Vostra — rispose il colonnello — fu il suo uomo di confidenza, che ricorse agl’intermediari invece di presentarsi all’Imperatore, come io mi sono presentato a Vostra Maestà. L’Imperatore non dice ai suoi ministri e neanche ai suoi più intimi che ciò che gli garba far loro sapere e qualunque negoziato che passa pel loro tramite prima di giungere a lui è un negoziato venuto meno, perchè egli non soffre che si sappiano prima di lui i segreti di Stato. Del resto, la sua posizione era oltremodo delicata: l’Imperatore non poteva innanzi al pubblico trattare coi nemici della Francia; e dico pubblico perchè egli è del parere dell’adagio: «Qualunque segreto posseduto da più di due, non è più un segreto» e già il vostro emissario lo aveva svelato al maresciallo Marmont, duca di Rovigo, e chi sa a quanti altri. Vostra Maestà comprenderà dunque che l’imprigionamento dell’emissario era imposto dalla ragione di Stato. Tali sono le spiegazioni che l’Imperatore mi ha ingiunto di dare a Vostra Maestà, desiderando egli sinceramente che giungano a scusarlo.

— Tali spiegazioni sono più facili a darsi che ad accogliersi, pure le terrò per buone soltanto se le mie proposte avranno un buon risultato.

— Non debbo nascondere a Vostra Maestà che da principio l’Imperatore aveva delle prevenzioni contro... contro...

— Contro di me! — gridò lei sollevandosi in tutta la persona, superba, sdegnosa, con la maestàdella sua stirpe imperiale e della quasi ieratica sua natura. — Ed io dunque, la figlia di Maria Teresa, io sovrana per diritto divino non ho dovuto lottare e a lungo meco stessa prima di rassegnarmi ad un tal passo di me indegno e che avviliva la mia corona e la mia porpora regale? Pure ho ceduto alla necessità imperiosa della ragion di Stato, immolando la mia dignità di regina scacciata dalla prepotenza dal suo trono, i miei odi di sorella a cui la vostra gente crudelmente e vigliaccamente ha ucciso una sorella, ai supremi interessi del popolo e del regno che Dio, intendetemi bene, che Dio affidò al mio governo. Dissi a me stessa che un uomo, qualunque fosse, chiamato non importa come, a sì alti destini, non poteva che essere uno strumento della Provvidenza, la quale senza dubbio ha i suoi arcani intenti allorchè li fa sorgere in certe epoche, e a lui mi rivolsi per espiare con la mia umiltà le mie colpe, delle quali ora gli uomini mi accusano, per le quali mi avrebbero esaltata se il potere fosse tornato nelle mie mani!

Anelava come sconvolta dall’ira e dall’orgasmo, stupendamente bella di orgoglio e di dolore.

— Si calmi. Maestà — le disse rispettosamente il colonnello. — L’Imperatore l’ammira e s’interessa vivamente per lei, tanto più...

— Tanto più che vagheggia un certo disegno il quale se riuscisse mi farebbe zia di colui che mi cacciò da Napoli...

— Lei stessa l’ha detto, Maestà; la Provvidenza ha degli arcani intenti!

— Nè io voglio forzarle la mano. Perdonerò a Napoleone le sue irrisoluzioni, le sue lentezze, se riparerà il male che poteva impedire. Poichè mi ha precipitato dal trono, il meno che possa fare è di aiutarmi ad ascendervi di nuovo.

— La volontà dell’Imperatore su questo riguardo è ben salda, anche per preparare la via a quell’alto disegno a cui Ella ha accennato. Non esita più che su i modi di attuarlo.

— Che mi lasci fare; quantunque esiliata e sorvegliata dagli Inglesi, ho ancora i mezzi per sbarazzarmene.

— Cotesti mezzi, quali si siano, l’Imperatore l’ignora e vuole ignorarli; ne lascia a Vostra Maestà la scelta e l’uso.

— Le mie proposte sono chiare e le ho già formulate un’altra volta: la presenza degl’Inglesi in Sicilia è per Napoleone un soggetto costante d’inquietudine, un pericolo ed un grande imbarazzo: da qui essi disturbano, inceppano le sue operazioni nel mezzodì di Europa e lo tengono in iscacco. Dunque i nostri interessi su questo punto sono identici.

— Tale è anche l’opinione dell’Imperatore.

— Sarei dunque in diritto, poichè il suo interesse è così legato al mio, di reclamare il suo aiuto per scacciar gl’Inglesi. Tuttavia m’incarico io sola di questa non facile impresa. Le mie misure sono prese in modo che son certa di riuscire e riuscirò. Ma in politica bisogna preveder tutto, anche i rovesci più improbabili; nel caso in cui non riuscissi reclamo un asilo sicuro ed onorevole a Genova o a Milano, a sua scelta.

— L’Impero francese sarà aperto a Vostra Maestà in tutta la sua ampiezza.

— È questa una questione incidentale; non mi ci fermo e riprendo il filo. Liberata dagl’Inglesi ripiglio con Re Ferdinando le redini dello Stato e apro i porti della Sicilia ai bastimenti francesi, tanto da guerra che da commercio.

— E Vostra Maestà domanda in cambio?

— Primo: soccorso di uomini e di navi se mai gl’Inglesi volessero tentare una rivincita.

— Questo va da sè.

— Secondo: che mi si restituisca, per non più ritormelo il mio Regno di Napoli col diritto concessomi da Dio di alta e bassa giustizia sui miei popoli.

— Ecco il nodo della questione — disse il colonnello scrollando il capo. — Testè l’Imperatore ha nominato Re di Napoli suo cognato, il granduca di Berg. L’attuale Regina di Napoli è dunque una sorella dell’Imperatore.

— La regina, l’unica regina di Napoli sono io! — gridò Maria Carolina. — La volontà divina non può essere cancellata dalla prepotenza umana. Al mio cospetto non si deve parlare d’altro re di Napoli, d’altra regina di Napoli!

— Perdono Maestà, ma gli è che...

— Dare un tal titolo — continuò la Regina accendendosi di più — un tal titolo che conferisce una parte della divinità al figlio di un albergatore, ad un palafreniere! Dare un tal marrano per successore a noi!...

— L’Imperatore ha tante corone a sua disposizione che ben potrebbe darne un’altra a suo cognato e restituire quella di Napoli a Vostra Maestà. Ma bisognerebbe che si agisse lealmente anche coi re di... con Gioacchino Murat, il quale ha saputo che financo nella sua Corte... nel suo palazzo vi son degli agenti di Vostra Maestà che lo spiano, e ne sa anche i nomi...

— Chi glieli ha detti, chi? — gridò Maria Carolina confusa, sgomenta da tali parole.

— Indovini.

— Ma non so, non potrei...

— Gl’Inglesi.

— Murat corrisponde con gl’inglesi?

— Con Bentink istesso.

— Ma Bentink non sa nulla.

— Ecco l’inganno, Regina. Bentink sa tutto. Un tal Romeo, confidente di Vostra Maestà, vendeva agl’Inglesi i segreti che Lei gli confidava.

La Regina era rimasta immobile, colpita da tali parole.

— L’infamia, il tradimento — mormorò, mordendosi a sangue le labbra — ovunque, lungo il mio cammino!... Ma — disse poi alzando il capo — stento a credere e a comprendere il perchè Bentink abbia avvertito Murat. Quale interesse a ciò lo induceva?

— Primieramente l’interesse di nuocere a Vostra Maestà, di deludere le speranze e di attraversarne i disegni. Purchè gl’Inglesi siano padroni della Sicilia, non importa che sia Gioacchino o Ferdinando il re di Napoli. La mia opinione è che se fossero chiamati a scegliere, sceglierebbero Gioacchino. Ciò si capisce. I Borboni hanno dei diritti incontrastabili sulla Sicilia. Murat non ne ha, onde gli assicurerebbero volentieri, non vedendo in lui un nemico, e gli garantirebbero il continente napolitano, alla condizione di lasciar loro il libero godimento dell’isola. Del resto, che essi facciano la corte a Murat e che lo mettano in guardia contro la Maestà Vostra poco importa, essendo Ella destinata a rientrare in Napoli non per la via tenebrosa delle cospirazioni, ma per quella in pieno sole della politica e dei trattati.

Tacquero entrambi per prepararsi ognuno dei due alla parte più importante del colloquio che non ancora era stata toccata.

Il colonnello ruppe pel primo il silenzio.

— In contracambio l’Imperatore esige...

— Esige? — gridò la Regina. — Di già delle condizioni? Signor colonnello, prima che ella continui, tengo a dichiararle che se Napoleone vorrà essere per me a Napoli ciò che gl’Inglesi sono a Palermo, se non devo infine che mutar di padrone, preferisco di rimanere nell’abiezione in cui sono, nella quale se tutto è perduto, è rimasto salvo l’orgoglio. Meglio il nulla che il simulacro della grandezza e della potenza, ed è perciò che mi trovo confinata qui senza soldati alla porta, senza cortigiani nell’anticamera. Non sono di quelle menti vanitose che si accontentano dell’apparenza: voglio essere e non parere, io! Che Murat si lasci guidare come un burattino da colui che lo ha spogliato delle vesti di palafreniere per coprirlo di un manto regale: che faccia del trono un palco da saltimbanco e rappresenti col suo mantello preso a prestito il fantoccio coronato, poco importa, non fa che il suo mestiere d’istrione. Ma io, ma io? Han dimenticato chi sono io? Dond’esco io?

— Perdoni, Maestà — rispose il colonnello inchinandosi e con un fine sorriso — sono un soldato e poco esperto nell’adoperar le parole. Quando ho detto che l’Imperatore esige, intendevo dire che l’Imperatore desidera...

— Sentiamo che cosa...

— Che si lascino ai Napolitani le leggi francesi e che si adottino anche in Sicilia.

— Vuole cioè un cambiamento di costituzione? — disse la Regina che si aspettava qualcosa di peggio.

— Ma no, ma no; chi parla di costituzione? La moda delle costituzioni è passata, grazie a Dio; non si tratta che del Codice Napoleonico. Certe baie, la Maestà Vostra lo sa bene, non possonoessere vagheggiate oramai che dalle teste vuote degl’ideologi. La migliore delle costituzioni è un uomo... o una donna di genio. A tal titolo la Francia e le Due Sicilie avran la più ambita delle costituzioni.

Ella aveva ascoltato col viso di chi non solo assente a quel che ascolta, ma che senta dir cose che erano da gran lunga nella sua convinzione.

— Non mi oppongo — rispose poi alzando le spalle come se la richiesta le paresse assai futile — che i miei sudditi sieno giudicati con queste o con quelle leggi: tanto valgono le une come le altre. L’importante non è la legge ma colui che l’interpreta e l’applica. I buoni magistrati fan buono qualunque codice, e il codice più perfetto non è che uno straccio di carta se i magistrati sono ignoranti o corrotti. Povera umanità che si vuol guarire dai ciarlatani or con queste or con quelle nuove e pompose parole... Non avete da dirmi altro?

Il colonnello comprese che la Regina lo accomiatava, onde si alzò.

La Regina si trasse dal dito un anello e porgendolo al colonnello:

— Per ora non mi è concesso dalla prudenza d’insignirvi di uno dei nostri ordini; tenete intanto per mio ricordo questo anello.

Il colonnello si chinò per baciare la mano della Regina e nel rialzarsi disse:

— Esso mi ricorderà fino all’ultimo mio respiro della fortuna che mi è toccata in questo giorno.

— Poichè voi — continuò la Regina — non potrete tornare qui che quando avrò riavuto il trono, manderò io un mio fido all’Imperatore con una lettera per averne la ratifica ai patti stabiliti.

— Che Vostra Maestà stia bene in guardia e non confidi un tal segreto a un possibile traditore.

— Traditore lui, l’uomo che porterà la mia lettera! — esclamò la Regina il cui viso s’illuminò dell’espressione di una fede profonda. — Ah, signor colonnello, se avessi conosciuto un tal uomo leale come un re e valoroso come un paladino, in altri tempi, il tradimento e l’infamia non avrebbero attraversato i miei disegni.

— Sarà il suo amante — pensò il colonnello mentre s’inchinava profondamente.

Nello scendere le scale della villa, preceduto dal maggiordomo che l’aveva introdotto, mormorava scrollando il capo:

— Capisco ora perchè l’Imperatore la chiama Fredegonda. Questa donna è un impasto di tigre e di leonessa, di aquila e di rettile.

La Regina che si era finallora contenuta, diede libero sfogo alla gioia ed all’intima ebbrezza al pensiero della prossima vendetta, e vedendosi sola proruppe nella frase che le era abituale:

— Pesterò Bentinck in un mortaio e con lui tutti questi Inglesi maledetti!

Ripetiamo quel che già abbiamo detto in principio di questo capitolo: tutti i particolari di un tal colloquio sono autenticamente storici. Che Carolina e Napoleone giocassero a chi fosse il più furbo: che accomunando i loro interessi entrambi nutrissero in fondo al cuore il pensiero di gabbarsi dopo la riuscita dei loro disegni è probabile, ma è certo che frattanto camminavano di accordo sui sentieri dell’intrigo come provano le lettere intercalate, alcuna delle quali ci è venuto fatto di leggere.

La Regina rientrando nel gabinetto attiguo alla sua camera vide Alma seduta presso la finestradonde la vista spaziava per l’ampio mare. La giovinetta era così immersa nei suoi pensieri, i quali a giudicar dalla espressione del viso esser dovevano ben tristi, che non si accorse della Sovrana se non quando questa mettendole una mano sulla spalla le disse:

— A che pensi?

Alma si alzò di soprassalto e impallidendo come se temesse che la Regina le leggesse nel cuore:

— A nulla — rispose — a nulla!

— Non è venuto nessuno nella mia assenza, nessuno?

— Che io mi sappia, nessuno.

— Pure son tre giorni omai che egli è partito... Avrebbe dovuto far ritorno.

Sapeva bene Alma che la Regina parlava di Riccardo, il quale la mattina di quella notte, essendo ancora Alma nella sua stanza era partito per la pianura di Segeste con l’incarico di formar due grosse bande dei Calabresi che vi si erano radunati. La Regina lo aveva fornito di vesti e di armi nonchè di un cavallo; e da lei stessa Alma aveva saputo che al ritorno sarebbe stato ricevuto alla villa in forma per dir così ufficiale.

Ora ella si sentiva incerta, confusa, non sapendo a qual partito appigliarsi. Doveva ella continuare a far parte della casa della Regina, rendendosi complice dei rapporti di lei con quel giovane, rapporti che non poteva più oltre fingere d’ignorare e che a parte il turbamento che destavano nel suo cuore, compromettevano la sua dignità di fanciulla? La Regina era la Regina, nè lei si sentiva in diritto di biasimarla anche perchè i tanti sofferti infortuni la facevano meritevole di una certa commiserevole indulgenza.

Ma lei, poteva lei esser testimone di rapporti sconvenevoli, non giustificati o legittimati neanche da una passione vera e profonda; chè ella ben ne sapeva l’origine in un capriccio della Regina, la quale aveva trovato in quell’avventura uno svago?

D’altra parte, come lasciar quella donna, che era la sua Sovrana, che era stata sempre buona ed affettuosa con lei, alla quale ella non avrebbe potuto rimproverare quei rapporti se non svelandole il mistero del suo cuore? Ed anche se l’anima sua non avesse potuto resistere, dove sarebbe andata? A Palermo da suo padre, da suo padre che aveva su lei delle mire così turpemente ambiziose, e che avrebbe voluto col suo assenso ad un matrimonio odioso comprare il favore degl’Inglesi?

In quei tre giorni la giovinetta non aveva avuto pace, funestata da tali pensieri, resi più tristi dal saper Riccardo suo prossimo congiunto e quindi non indegno del suo amore; che almeno se l’avesse come pel passato creduto un misero avventuriero, quella simpatia che a poco a poco era divenuta un sentimento ben celato sì, non confessato neanche a se stessa, ma pur doloroso, avrebbe avuto un freno, mentre ora poteva abbandonarsi a quell’amore, poteva senza arrossire svelarlo, essendo ormai quel giovane un suo pari.

Anzi, più che un suo pari era lui il vero duca di Fagnano, era lui che poteva chiedere a lei ed a suo padre conto di tanti anni di usurpazione, di godimento di un titolo e di una ricchezza che a loro non appartenevano. E avrebbe lei confessato quell’amore che avrebbe potuto credersi un calcolo vile, e avrebbe lei potuto frammettere il suo amore così puro nei rapporti fra lui e la Regina?

Doppiamente dunque il suo orgoglio si ribellava. L’abisso che li aveva separati un tempo era meno profondo e meno insormontabile dell’abisso che ora li separava!

Ella non aveva risposto alle parole della Regina e continuava a vagar con lo sguardo trasognato per la spiaggia deserta, quando vide un cavaliere che di galoppo veniva verso la villa. Quantunque fosse ancor lontano, trasalì avendolo riconosciuto. Era Riccardo.

— Se Vostra Maestà non ha bisogno di me — disse lei dissimulando il suo turbamento — vorrei ritirarmi nella mia stanza.

La Regina si era alzata e avendo volto lo sguardo al di fuori diede un grido di gioia.

— È lui, è lui, è Riccardo! — esclamò.

Poi, sovvenendosi di un tratto delle parole di Alma le si rivolse:

— Non l’avevi visto anche tu, non l’avevi riconosciuto?

Alma non seppe mentire ed accennò di sì col capo.

— Ed è per questo che vuoi andar via?

— Vostra Maestà mi perdoni, ma gli è che una fiera emicrania da stamane mi attenaglia il capo — rispose lei senza osare di alzar gli occhi in viso alla Regina.

Questa la contemplò un istante in silenzio; poi, continuando a fissarla, le disse severamente:

— Andate.

Alma uscì, dimenticando nel suo turbamento d’inchinarsi alla Regina.

— Non vi è più dubbio, non vi è più dubbio, ella lo ama! — mormorò la Regina — ma non oserà contendermelo. Ella ha subito il contagio dell’amore: dovevo prevederlo. Se saprà contenersigliene sarò grata evitando lo spettacolo della felicità mia... altrimenti la stritolerò come ho stritolato tutti coloro che osarono lottar meco.

Però il suo viso si rischiarò e attese impaziente che uno dei valletti venisse ad annunciarle il ritorno di Riccardo. Non era più un capriccio il suo, cominciava ad amare il giovane come forse non aveva amato mai in sua vita. Era quello l’ultimo amore nel quale raccoglieva tutta l’energia della sua anima e del suo cuore, in un ritorno violento alla giovinezza di cui sentiva nel sangue tutte le vampe.

In questo il servo dell’anticamera si fece all’uscio e gridò:

— Il colonnello Riccardo.

Il giovane si era fermato sul limitare, aspettando che la Regina lo invitasse ad avanzarsi. Ella che conteneva a stento la sua gioia gli sorrise a vederlo, e stendendogli la mano:

— Venite, venite signor colonnello, chè vi aspettavo impaziente.

Riccardo vestiva un abito stretto alla vita di velluto nero, con un cappello a larghe falde pur esso nero. Quei pochi giorni erano bastati a far dileguare le tracce dei patimenti sofferti e a ridare mia sua persona il vigore e tutta la sua bellezza.

La Regina lo contemplava con occhi accesi. Poteva ora amarlo senza avvilirsi, chè egli era pur sempre della sua casta: già avrebbe dovuto indovinarlo non solo dall’aspetto, ma anche dai modi; avrebbe dovuto indovinarlo da certe sue delicatezze istintive anche negli abbandoni più deliranti che un nobile sangue gli scorreva per le vene.

Il valletto si era ritirato; il giovine ubbidendoall’invito della Regina, le si era seduto appresso.

— Che nuove mi portate dei nostri campioni? — chiese la Regina.

— Bravi fino all’eroismo individualmente, ma insofferenti d’ogni disciplina. Bisogna che Vostra Maestà si mostri a loro per renderli più docili ed anche per presentarmi ad essi come il loro capo.

— Non sarebbe prudenza; gl’Inglesi mi sorvegliano.

— Lo so, ma è necessario; tanto che ho promesso che dimani l’altro Vostra Maestà li avrebbe passati in rassegna. Ero tanto sicuro del suo assenso che ho già designato gli uomini che dovranno servirle di scorta. Partiremmo a mezzanotte per essere all’alba nella pianura di Segeste. A tal patto, Maestà, io accetto di esserne il capo.

— In tal caso venite a dare degli ordini anche a me, obbligandomi a fare il voler vostro...

— No, non il voler mio — rispose lui freddamente — ciò che esige l’interesse dell’impresa. Bisogna che Vostra Maestà si persuada che la riuscita di un disegno dipende dall’ordine, dalla preveggenza, dalle cure che presieder debbono ai mezzi per attuarlo. Ora io ho trovato quei poveri Calabresi laceri, affamati, randagi per quella pianura deserta ove erano stati diretti e dove non trovarono nessuno per soccorrerli, per guidarli. Vostra Maestà fu bene ispirata nel chiamar qui quei suoi sudditi fedeli, ma...

— Ma appena qui, li ho abbandonati, volete dire. Insomma, se io ho delle iniziative, non so poi ben dirigerle!

— Vostra Maestà ha fatto troppo, anzi, ma gli è che mancano gli uomini.

— E una donna non sa e non può fare quello che sa e può fare un uomo...

— È proprio questo il mio pensiero — rispose il giovane inchinandosi.

— In tal caso — proruppe la Regina — io per la prima dovrò ubbidire alla volontà d’un uomo, io che ho ubbidito solo e sempre alla mia!

— In ciò che è bene, sì — rispose Riccardo senza scomporsi — in ciò che un tale uomo creda necessario al vostro interesse. Un tal uomo vi ha messo per posta la sua vita; è giusto che voi vi mettiate qualcosa delle vostre regali prerogative.

In ciò dire si era alzato.

— Andate via? — disse la Regina tra indispettita e ammirata. — Sapete che una delle prerogative reali è quella di accomiatare coloro che han chiesto udienza?

Egli prima di rispondere si guardò intorno; assicuratosi d’essere soli le si avvicinò e le disse, guardandola fissamente:

— Ero chiuso in carcere ed aspettavo che mi si conducesse al luogo del supplizio, ma non era il pensiero della morte che mi riempiva il cuore di angoscia: era il pensiero che in me perdevate un cuore devoto ed uno spirito risoluto. Mio padre voleva spianarmi la via ad un avvenire di onori e di grandezze degne del titolo che mi avrebbero fatto riconoscere, ed io rifiutai per venir qui, come avevo promesso, per offrirvi il mio braccio ed il mio cuore. In Algeri ruppi le catene, vagai non so per quanti giorni pel deserto, arso dalla sete, affamato, lacero, sfuggendo solo Dio sa come alle fiere, ma sostenuto dal pensiero di mantenere a voi la mia promessa. Ora son qui, disposto a tutto, parato a tutto, ad uccidere e ad essere ucciso, ma ad un sol patto, o Regina, apatto che io sia libero e che non vediate in me nè il cortigiano nè il servo. Questo vi direi anche se aveste il carnefice a lato, pronto ad un vostro cenno a colpirmi con la sua scure; questo vi direi anche se inebbriata d’amore mi stringeste fra le vostre braccia.

Ella aveva ascoltato da prima con una espressione di sorpresa ed insieme di un principio di collera contenuta, ma a poco a poco si era intesa come soggiogata. Nessuno le aveva parlato mai così, i suoi nemici occulti le avevano strisciato alle ginocchia; i suoi cortigiani l’avevano adulata servilmente per carpirne i favori. Solo quel giovane che le dava la vita, che le sacrificava il suo avvenire, a cui doveva per ben due volte la salvezza le aveva parlato in modo così fiero.

Lo contemplò qualche istante in silenzio.

— Voi siete un uomo, voi — disse infine lentamente con una profonda espressione di rammarico. — Perchè, perchè vi ho conosciuto così tardi?

— Vostra Maestà dunque si tenga pronta per mezzanotte. Non vi è qui una porticina segreta donde possa uscire all’insaputa dei familiari?

— Sì, che si apre nel viale dietro la villa. Potrò uscire senza esser vista, ma non all’insaputa della mia lettrice, vostra... cugina.

— È una creatura devota e fedele — disse lui trattenendo un sospiro.

— E dove andrete ad alloggiare? — chiese la Regina che lanciò uno sguardo incerto sul giovane, dolente di vederlo andar via ma comprendendo non esser prudenza che rimanesse.

— Che Vostra Maestà non si preoccupi. A un miglio da qui havvi una casa di campagna il cui padrone mi ha ceduto una stanza.

— Andate — rispose lei divenuta pensosa.

Quando il giovane uscì, ella stette un pezzo in silenzio come in colloquio con se stessa.

— Ah — disse poi — se avessi incontrato un tal uomo, un tale amore nei primi anni del mio regno!


Back to IndexNext