VII.

VII.

Ferdinando IV, che quella mattina era di malumore, perchè appena aveva potuto veder cadere sotto i colpi del suo fucile tre pernici e poche quaglie, se ne era tornato dalla caccia, e aspettando che la colazione fosse servita, passeggiava soletto su e giù pel viale del parco che cingeva la sua villa della Ficuzza.

Discosti da lui, due gentiluomini assunti da poco al suo servizio, il conte di Castelrotto e il marchese di Rovello, discorrevano sottovoce, non perdendo d’occhio il regale padrone.

— Nuvole in aria — disse il conte di Castelrotto accennando con lo sguardo al Re che si era fermato presso una aiuola dalla quale strappava nervosamente i fiori. — La caccia stamane è stata poco fortunata!

— Non è per la caccia — rispose l’altro — gli è che da quando fu qui la Regina, il pover uomo non ha più pace.

— Gli avrà fatta forse qualcuna delle solite scene di gelosia... Ne è ben capace!

Il conte scrollò le spalle.

— Importa assai a lei!

— Credete che non sia punto gelosa di... quell’altra?

— Neanche per sogno. Del resto, se ne rifà ad usura.

— Con chi adesso?

— Corrono delle voci vaghe. Da qualche giornosi vede gironzare per i dintorni di Castelvetrano un certo bel giovane che si vuol sia stato un famoso capobanda, e qualcuno anche l’ha visto entrare di notte nella villa ove dimora la Regina!

— Ma non parmi sì grave la cosa... Uno più, uno meno! In fine è ancora una bella donna, pare impossibile, a quell’età; ma giuro per Santa Rosalia che nell’ultimo ballo a Corte, la sua bellezza matura, anzi più che matura, attirava gli sguardi e i desideri assai più delle tante bellezze giovanili che splendevano alla luce dei candelabri. In quanto poi al famoso capobanda, che dite giovane e bello, non mi meraviglio della scelta; mi meraviglierei se avesse scelto ad amante uno di cotesti nostri giovanotti cachettici e sfiaccolati!...

— Non si tratta di questo... Gli è che van sussurrando di un certo sbarco di Calabresi, di una congiura contro lord Bentink che è il vero Re di Sicilia, congiura della quale l’ispiratrice, l’ordinatrice sarebbe appunto quel demone di donna.

— Uhm! — rispose l’altro quasi distratto, come chi voglia dire meno di quel che potrebbe — che può far lei senza il consenso di quello lì?

E in così dire accennava al Re che si era seduto su una panca e pareva tutto intento a leggere un giornale.

— È vero: ma non venne qui lei una notte, sperando di non esser vista e di poter ripartire all’insaputa di tutti? Chi sa non sia venuta per accaparrarsi l’acquiescenza del marito?! Voi stesso avete detto che da quella sera è turbato come chi abbia pel capo un pensiero molesto. Sapete, io vi parlo così per un comune interesse. Non fummo raccomandati da lord Bentinck allorchè furonoallontanati tutti i gentiluomini che avevano formato per lo innanzi la Corte del Re? E se la congiura scoppiasse e trionfasse, noi...

L’altro che aveva ascoltato col viso di chi non dà molta importanza a quel che gli si dice, sorrise con aria d’uomo che la sa lunga.

— Caro conte — rispose scrollando il capo — a lord Bentinck nulla sfugge, e a tutto provvede. Per ora posso dirvi solo questo, che fra tre giorni sbarcheranno a Palermo altri cinquemila soldati inglesi, capaci di domare i grilli del capo di una vecchia intrigante, parlando col rispetto dovuto alla sua corona di regina.

— Dunque possiamo star sicuri?

— Sicurissimi.

— In verità, caro marchese, non che io tenga a questo affido che già, sia detto fra noi, non è punto onorifico come parrebbe; ma gli è che, è inutile, nasconderlo, ho subìto tanti rovesci che l’offerta di lord Bentinck fu per me una vera provvidenza, quantunque il mio orgoglio ne soffra perchè il Re non mostra di avermi in quella considerazione che meriterei.

— Lasciate correre, caro conte; voi non siete qui pel Re, ma... per voi stesso.

— E... per lord Bentinck!

— Sia pure; il quale lord Bentinck quando è ben servito sa essere riconoscente. Nessuno della nostra casta può lagnarsi di lui, meno s’intende, alcuni capi scarichi sedotti dalle nuove idee che non intendono. Non dobbiamo alla generosità inglese quel che occorre per sostenere degnamente il nostro grado? Ma il popolo soffre, il popolo è oppresso, il popolo è dissanguato! Ma se è nato per questo! Di chi è la colpa? degl’Inglesi? È di Domineddio che l’ha fatto nascere popolo, comeha fatto nascer noi conti, duchi o marchesi. Non è così?

— Proprio così. Sapete che le vostre parole mi han tolto un grave peso? In verità, sono stanco di tanti rivolgimenti e vorrei che tutto il mondo vivesse in pace ora che ho ottenuto anch’io questo cantuccio.

Il Re intanto era immerso in foschi pensieri: dalla notte in cui, in un istante d’ira, non sapendo resistere alla imposizione della moglie, aveva firmato il proclama col quale manifestava l’intenzione di ripigliare il potere, non aveva avuto più pace. In qualche modo si era acconciato a quella vita che conveniva alla sua indole pigra e ai suoi istinti grossolani; infine il potere non gli aveva dato che delle noie, e se avesse avuto ancora il vigor giovanile e a lui vicino il parco di Caserta o di Capodimonte, o la vasta tenuta degli Astroni, non avrebbe chiesto di meglio dell’essere sgravato dei fastidii del potere. Eppoi si sentiva già vecchio, e se negli anni più verdi si era lasciato travolgere dal torrente che lo aveva strappato dal trono di Napoli, non aveva nessuna voglia di resistere ora, dopo aver sofferto tante traversìe.

E come, come si era lasciato indurre dalla moglie che lo aveva messo sempre in gran brutti impicci? Dacchè ne era separato aveva vissuto così sereno e tranquillo in quel suo ritiro della Ficuzza da essere in fondo ben grato agl’Inglesi che a tanto l’avevano costretto, poichè a vero dire, egli non sarebbe stato capace di osar tanto. Valeva bene la perdita del potere l’acquistata serenità per la separazione dalla moglie, istancabile orditrice d’intrighi e di congiure, la quale non nascondeva punto il disprezzo in cui lo teneva e non gli risparmiava i rimproveri, gli amari motteggi,ritenendolo responsabile dell’avvilimento in cui erano caduti.

Come dunque si era lasciato indurre a firmare quel proclama che al certo gli avrebbe procurato di grandi impicci? Per poco, a prevenire e a render vani gl’intrighi della moglie, gli era venuto in mente di denunciarla agl’Inglesi; ma riflettendoci meglio aveva compreso che per evitare un fastidio sarebbe andato incontro ad un altro, avendo egli paura di quella donna che sapeva di tutto capace. Non l’avevano accusata di aver tentato di avvelenare il principe ereditario, suo figlio, Vicario del Regno di Sicilia? Egli non aveva mostrato di dar credito a tal voce, ma in fondo alla sua coscienza si era fatto strada il dubbio, anzi possiamo dire la certezza che non la si accusasse a torto.

Che uso dunque avrebbe ella fatto di quel proclama che gli aveva estorto in un istante d’ira? Quando sarebbe scoppiata la bufera alla quale egli, senza volerlo aveva prestato il nome? Sentiva sospesa sul suo capo quella minaccia e la mattina nello svegliarsi chiedeva a se stesso se sarebbe trascorsa in pace quella giornata, non potendo trattenersi dall’imprecare in cuor suo alla moglie, che non certo nell’interesse di lui s’era data ad ordir congiure, ma per appagare la sua sete di dominio e di vendetta.

Questa perenne preoccupazione, quest’attesa angosciosa lo faceva vivere in un continuo orgasmo che pur cercava di celare ai pochi cortigiani, con l’assenso di lord Bentinck rimasti al suo servizio. E vieppiù l’impensieriva il non aver nuove della moglie da quella notte, segno che tutta data alle sue cabale, ai suoi intrighi, non pensava più a lui, ben paga di averne ottenuto con la demoniaca influenzache su lui esercitava, l’assenso al torbido disegno.

Ah, se gl’Inglesi l’avessero del tutto e per sempre liberato da quella donna, costringendola non solo a star divisa da lui, ma a tornarsene dal fratello suo! Nella sua gratitudine ci era un certo dispetto contro il Governo d’Inghilterra che aveva fatto le cose a mezzo e non aveva mandato via dalla Sicilia quella donna che rappresentava pur sempre un pericolo!

Questo avrebbe fatto lui se l’avesse potuto e l’avesse osato! Ma gli è che la temevano tutti quella donna, come lui la temeva, come sempre l’aveva temuta, pur non osando mai di ribellarsi al predominio che su lui esercitava.

Era in questi pensieri quando sentì di là dal parco che confinava con la via maestra, lo schioccar d’una frusta e il rotear d’una carrozza.

— La duchessa! — disse con un sospiro di sollievo. — Per lo meno avrò con chi annoiarmi!

E fatto un segno ai due gentiluomini che gli tennero dietro, entrò nella palazzina.

La carrozza della duchessa di Floridia si era arrestata a venti passi dall’entrata principale della villa. Un uomo ne era disceso, alto, membruto, coi favoriti rossicci e il viso improntato a una grande energia. Rimase ritto innanzi allo sportello per aiutare a discendere la duchessa che toccò appena la mano che l’Inglese le porgeva e balzò a terra.

Era una bella creatura dagli occhi neri e ardenti, dalla folta chioma corvina che le scendeva ricciuta sugli omeri, bruna di volto, con le labbra rosse e polpute: un tipo di quella bellezza siciliana dalle torride passioni che bruciano il cuore e le viscere.

— Il Re mi ha visto — disse lei appoggiandosi al braccio che l’Inglese le porgeva — e s’impazienterà se mi fo a lungo aspettare.

— Ci si guadagna sempre a farsi aspettare — rispose l’Inglese inoltrandosi per un viale di platani che spandeva una fresca ombra, mentre tutta la silenziosa campagna era inondata di sole.

— Anche coi re? — chiese lei ridendo.

— Innanzi alla bellezza i re non sono che dei sudditi come tutti gli altri uomini.

— Sicchè voi, milord, innanzi a me?...

— Non sono che un vostro amico — rispose l’Inglese con un fine sorriso sulle labbra sottili — un amico a cui sta molto a cuore la vostra fortuna!

L’Inglese e la duchessa tacquero, chè ognuno di essi seguiva un suo pensiero nel quale forse sapevano d’incontrarsi. Infine la duchessa alzò la testa e disse:

— Gli dovrò dire che mi avete accompagnato?

— Sì... nel caso che egli tentennasse... Gli direte anzi che non ho voluto chiedergli un’udienza per non sottrarlo all’incanto della vostra compagnia... Ma... che avete, duchessa? Mi parete assai preoccupata...

Invero la bella creatura aveva chinato la testa e sembrava assorta in un pensiero.

— Ho — rispose dopo un istante di silenzio — che mi avete suggerito un consiglio da dare al Re assai pericoloso.

— Perchè pericoloso?

— Il ritorno di... della Regina vorrebbe dire un divieto a me di porre il piede nella villa reale.

— Sì, per pochi giorni — rispose l’inglese.

Ella lo fissava per comprenderne bene l’ascoso pensiero.

— In compenso — continuò l’Inglese spiccando bene le parole e tenendo gli occhi fissi in quelli della duchessa — potrà divenir forse la vostra stabile dimora.

— Lottar con quella donna — mormorò la bella creatura — con quella donna che non bada ai mezzi, che è capace di ogni insidia e che esercita una tanto sinistra influenza sull’animo del Re il quale la teme per quanto l’odia...

— E perciò noi dobbiamo combatterla con le stesse sue armi. Fu un male, un gran male averla relegata a Castelvetrano; qui la nostra sorveglianza avrebbe potuto essere più assidua e più oculata. Ora a noi fa bisogno di uno scandalo, di uno scandalo pubblico per quanto più sia possibile. Bisogna indurre il Re ad assentire. In fondo è quel che desidera: giustificare l’esilio di quella donna fuori dalla Sicilia per impedire che l’Austria possa far rimostranze e imponga di richiamarla. Avremo così assicurato la pace di questo Regno, la felicità del Re e... e, mia cara duchessa, la vostra fortuna.

— Ma cotesto capobanda così famoso... dicono che sia un gran bel giovane, è vero?

— Son cose che non mi riguardano. La bellezza di un uomo non può esser misurata che dall’occhio di una donna. È però di un coraggio a tutta prova, e contro i Francesi ha fatto prodigi. Si dice anche che sia di nobile stirpe, benchè bastardo. È di un’audacia senza pari: appena sbarcato uccise un soldato inglese, ne ferì due; inseguito, riescì a nascondersi in una vecchia torre abitata dalla Regina.

— Ma perchè non l’avete fatto arrestare?

— Perchè — rispose l’Inglese con un sorriso che scoprì i denti lunghi ed aguzzi — perchè occorrea me, a voi, alla pace di questo Regno ch’ei sia libero, finchè entrambi, lui e la sua regale amasia, non cadano nella trappola!

— Che io dovrò tendere!

— Sì... per la vostra fortuna.

— E perchè l’Inghilterra si liberi di una ben temibile nemica!

— L’Inghilterra — rispose l’altro in tono solenne — non teme che solo Dio. Essa va dritta per la sua strada stritolando sotto il suo carro gli audaci che tentano arrestarla.

— E che combatte con ogni mezzo...

— Con ogni mezzo! — assentì milord. — E che può fare di una duchessa di Floridia... una regina.

La bella creatura ebbe come un fremito; gli occhi lampeggiarono di orgoglio, ciò che non sfuggì a milord, al quale non sfuggiva nulla dell’anima gonfia di ambizione della duchessa.

— Ed ora addio — disse l’Inglese — vi rimanderò stasera la carrozza, se — continuò sorridendo — Sua Maestà non vorrà trattenervi per la sua... partita a scacchi anche stanotte. So che si lagna di me perchè ho allontanato i suoi vecchi amici, ma in compenso gli ho data la più bella creatura che il sole di Sicilia abbia mai irraggiato!

Ella sorrise rispondendo all’Inglese con uno sguardo assai più eloquente delle parole. Giunti presso la carrozza fece segno ad una vecchia cameriera che l’aveva attesa seduta nel fondo dell’ampio cocchio. La cameriera discese mentre milord si apprestava a salire.

— Ma sapete che è un’imprudenza l’avventurarvi così senza scorta, voi che siete il vero Re di Sicilia? — disse la duchessa.

Per tutta risposta lord Bentinck volse intorno lo sguardo. Ella lo imitò.

— Ah! — disse — delle pattuglie di soldati in ogni parte!

In vero qua e là pei colli che fiancheggiavano la strada vi eran gruppi di soldati, le cui rosse divise spiccavano tra il verde degli alberi.

— Osservo però — ella soggiunse — che cotesti vostri soldati son troppo visibili: è facile quindi deluderne la sorveglianza.

— Ne ho altri del tutto invisibili che mi servono per tener d’occhio coloro che meco lavorano per un intento comune. Ecco, per esempio, ier sera, in sulla mezzanotte, uscì dal vostro palazzo un signore che stamattina ho fatto arrestare.

— Il conte di Bucenta! — gridò lei impallidendo.

— Brava! Il conte di Bucenta che macchinava contro di noi e che sperava d’indurvi a cospirare per la libertà e per l’indipendenza della Sicilia.

Ciò detto salutò con un inchino e montò nel cocchio di cui chiuse lo sportello.

La duchessa era rimasta immobile, colpita da stupore a quella notizia che lord Bentinck si era serbato di darle in ultimo, quasi come un ammonimento. La carrozza aveva già svoltato l’angolo del parco, quando infine si risolse di muovere verso la villa reale in cui il Re l’aspettava con impazienza.

— Ho fatto bene, ho fatto bene — mormorava la giovane donna — a respingere le proposte del conte che mi è parso assai diffidente della Regina. Sarei caduta in disgrazia di coloro che servono ai miei progetti, come io servo ai loro, e che sono i più forti. E tanto più debbo fidare in milord in quanto è l’unico che non mi faccia gli occhi dolci. Ma gli affari son gli affari, come ei ripete spesso.

Intanto, seguita dalla vecchia cameriera era giunta innanzi la porta grande della villa, guardata da un vecchio veterano che si appoggiava con aria stanca ed annoiata al fucile, e che al vedere la giovane donna che ei sapeva in intimi rapporti col Re, si raddrizzò per farle il saluto militare, mentre il portinaio gallonato e impennacchiato si teneva immobile sulla soglia.

Ella passò dritta e fiera come se si sapesse in casa sua. Al principio dell’ampia scala incontrò il maggiordomo che dopo essersi inchinato profondamente le disse:

— Sua Maestà il Re, che vide dal parco la carrozza di Vostra Eccellenza, era in gran pensiero e ha dato ordine di rimandare alla di lei venuta la colezione.

La duchessa non rispose e si diede a salire la scala. La vecchia cameriera la lasciò andar sola, poi si rivolse al maggiordomo che era al certo una vecchia conoscenza.

— Cavaliere mio, non ne posso più. Mi raccomando, ho bisogno di ristorarmi.

— La duchessa resterà qui stasera? — le chiese sottovoce il maggiordomo.

— Che ne so? In caso, continueremo la partita interrotta l’altra sera.

— Mentre la duchessa giuocherà la sua!

— Credo che finirà per dare scacco matto.

— Certo, se arriverà a togliergli la regina.

— Giuoca bene di gambitto la duchessa, ed ha al suo giuoco un cavallo... inglese che...

I due si guardarono ammiccando.

— Il Re ha perduto gli alfieri e le torri; non ha che poche pedine oramai...

Discorrendo così sottovoce i due entrarono in una delle stanze a pianterreno ove erano gli alloggi degli ufficiali della Corte.

Il Re non sapeva a che attribuire l’indugio della duchessa, che giungeva opportuna. Aveva deciso di confidarle tutte le sue pene, le sue paure, le sue preoccupazioni per averne consiglio, chè molto fidava sul senno e sull’accorgimento di quella giovane donna, dalla quale si credeva sinceramente e disinteressatamente amato, e che sapeva prenderlo pel suo verso calmandone le ire e divertendone gli ozî. Aveva trovato in lei un carattere pieghevole, rimessivo per un calcolo di accorta furberia femminile, carattere in contrasto con quello imperioso, irriflessivo della Regina, onde l’affetto che sentiva per l’amante era come una conseguenza dell’avversione per la moglie. Ella lo aveva ben compreso e si studiava di trarne il maggior vantaggio, ponendo cura di far risaltare sempre più la differenza dei gusti, dell’indole, dei sentimenti con la Regina, differenza che, a parte la venustà della duchessa, risultava anche dal genere della loro bellezza che ne faceva due tipi affatto opposti.

Se la dignità regale, alla quale però egli aveva fatto tanti strappi in quell’esilio ove viveva come un ricco borghese, glielo avesse consentito, il Re sarebbe disceso per muovere incontro alla duchessa, per sapere almeno perchè tardasse a comparirgli dinanzi.

Bisogna anche aggiungere che da un pezzo era trascorsa l’ora della colazione, e lo stomaco regale, che non aveva punto perduto della sua vigoria nè per l’età, nè per le sventure, aveva fame quanto, se non più, lo stomaco di uno di quei lazzaroni ai quali il Re, nei tempi in cui non aveva altra cura che di divertirsi secondo i suoi gusti, aveva servito i fumanti maccheroni tolti dalla caldaia, il fuoco della quale era alimentato da Sua Maestà la Regina in persona!

Ah, erano bei tempi quelli in cui se i popoli non eran liberi, e non eran liberi neanche sotto coloro che dicevano di avere invaso il Regno per redimerli dalla schiavitù, godevano almeno lo spettacolo del loro Re tavernaio e della loro Regina pescivendola!

— Ma chi diavolo l’ha trattenuta? — borbottava il Re, andando giù e su per la stanza. — Che mi sia sbagliato? No, no, era proprio la carrozza, eran proprio i cavalli che le regalai il giorno della sua festa!

In questo sentì di là dall’uscio un fruscìo di vesti, quindi il valletto che si teneva dritto presso la porta annunziò:

— Sua Signoria Illustrissima la Duchessa di Floridia.

— Finalmente, finalmente! — gridò il Re muovendo incontro alla bellissima creatura.

Ma non volendo più oltre indugiare, si rivolse al valletto:

— Dite al maggiordomo che faccia servire la colezione.

Ella intanto si era arrestata sulla soglia, invece di correre al Re come di consueto per porgergli a baciare la fronte. Le si leggeva il dispetto nel bel viso fiorente che era come illuminato dai grandi occhi neri.

— Ebbene, che c’è? che avete? — le chiese il Re che non osando di abbracciarla innanzi al valletto, il quale dopo aver trasmesso l’ordine regale era tornato a starsene ritto sull’uscio, ne aveva preso le mani tra le sue.

Ella fece un atto di bimbo in collera e rispose stizzita:

— Vostra Maestà dimentica. Vostra Maestà non pensa punto alla sua piccola duchessa che espone al disprezzo dei suoi camerieri.

— Ma che ti salta in testa! — rispose il Re stupito passando dal voi al tu per acquetarla, quantunque non sapesse di che fosse colpevole. — Io ti espongo?... Via, via, piccina: vuoi così forse evitare i miei rimproveri per il tuo inesplicabile indugio? Parla, via: perchè tanto cruccio in codesto bel visetto?

Fece intanto un cenno al valletto che andò via; poi tornando a volgersi a lei e cingendole del braccio il collo bruno e grassoccio l’attirò a sè e baciandola in fronte le disse con voce carezzevole:

— Sentiamo: che cosa ho dimenticato? In che cosa ho potuto dispiacere la mia piccola duchessa?

— No, no, poichè Vostra Maestà dimentica le promesse che avrebbe dovuto mantenere non per me, non per me che io infine ho quanto soverchierebbe l’orgoglio della donna più eccelsa, ma per la dignità stessa del mio Re... Ma poichè il mio Re non mi crede degna, io chino la fronte e... non gliene parlerò più, mai più!

— Insomma, spiegati; ti giuro che non arrivo a comprendere. Ma voglio, intendi? voglio vederti lieta e serena. Se sapessi come fui triste finora, come la noia mi ha oppresso! Quando vidi la tua carrozza sperai che finalmente un raggio di sole brillasse nell’anima mia, il raggio dei tuoi begli occhi! e non voglio no, che sia velato da nubi. Or ora saremo chiamati a colazione: faremo colazione insieme, soli, chè tutta questa gente che mi sta dintorno mi secca maledettamente. Ma per quanto abbia un po’ d’appetito... ier sera, vedi, andai a letto senza toccar cibo... per quanto dunque abbia un po’ d’appetito, il piacere di soddisfarlo mi verrebbe turbato dal vederti così triste. Parla dunque: a quale promessa ho mancato?

Ella piegò la bella testa sul petto del Re e disse sottovoce, ma spiccando bene le parole:

— Non ha sentito Vostra Maestà che il valletto ha anunziato Sua Signoria Illustrissima, invece di Sua Altezza la Duchessa di Floridia?

— Ah, diavolo, ah, diavolo! — esclamò il Re che finalmente ricordò la promessa di concederle un tal titolo.

Veramente, gliel’aveva fatta in un momento di senile abbandono e di tenerezza senile. Poi a mente calma, riflettendo allo scandalo che avrebbe destato e al dispetto della moglie, ma più a questo che a quello, e non volendo fastidi, aveva dimenticato, sperando che anche la duchessa dimenticasse.

In questo il maggiordomo comparve sull’uscio ad avvisare che la colazione era servita.

— Dite ai gentiluomini che li dispenso dal servizio. Andiamo, duchessa — disse poi offrendole il braccio.

Ella tuttora in collera seguì il Re che aveva il viso di chi sia molestato da un pensiero. Attraversarono in silenzio le stanze e il corridoio che metteva nella sala da pranzo ove trovarono servita la colezione. Il Re sedette ed accennò alla duchessa di sedergli vicino.

— Andate via — disse poi ai camerieri che si tenevano dritti dietro le sedie. — Ci serviremo da noi. Verrete quando vi chiamerò.

Indugiava a rivolgerle la parola sperando che ella rompesse il silenzio, e così potesse aver tempo di riflettere su ciò che doveva dirle in riguardo alla promessa. Intanto la veniva servendo dei cibi che lo scalco aveva disposto sulla mensa e che ella svogliatamente mangiucchiava come se il suo pensiero fosse altrove.

— Dio mio — disse infine il Re lasciando cadere coltello e forchetta sul piatto, punto dal contegno affettatamente riservato di lei, — son dunque condannato a veder sempre a me dinanzi degli scontenti? Andiamo, via, sorridi!

— Ma — rispose lei con mia graziosa smorfietta — Vostra Maestà è in collera con me per averle io ricordato una sua promessa...

— No, no, non sono in collera. Gli è che anche ad un Re, per fare certe cose che... che potrebbero destare invidie, gelosie e quindi fastidi... occorre del tempo, occorre trovare un pretesto...

— Ah intendo: la gelosia, non dico l’invidia, si desterebbe nella... nella Regina, e Vostra Maestà tenne di esser messa in castigo!...

— Che vuoi mia cara — rispose il Re che non raccolse l’ironia — quella donna mi fa paura, quella donna esercita su me una strana influenza. I dolorosi avvenimenti che si son succeduti e pei quali fummo ridotti... a quel che ora siamo, hanno acuito le asperità del suo carattere fino al punto che fu necessaria una separazione.

— Pure Vostra Maestà non ne gode i vantaggi.

Il Re la guardò ed era per aprir bocca; ma lei che aveva ben letto nell’anima di lui proseguì:

— Vostra Maestà vuol dire che se io sono qui, è già questo un vantaggio...

— Se ella mi lasciasse in pace — disse il Re sospirando — mi basterebbe. Ma quella lì non cesserà mai dal crearmi fastidi, da impigliarmi ne’ suoi intrighi; ed io che quando la so lontana sento in me la forza di resistere alle sue arti, quando mi è vicino e mi parla e mi confonde con quei suoi argomenti, ai quali non so rispondere, io finisco col far la volontà sua..

— Anche quando la volontà sua riesce dannosaa chi ha consacrato tutta se stessa alla Maestà Vostra, la sua giovinezza, la sua beltà, l’onore del suo nome! — rispose lei con accento di profonda amarezza, vera o finta, nella voce.

— No, no, tu vai troppo oltre, troppo oltre. Ella sa bene che non potrebbe nulla sull’animo mio in questo: che colei che ha sacrificato alla felicità del suo Re la giovinezza, la leggiadria, i pregiudizi sarà sempre la più adorata delle donne.

In ciò dire ne aveva preso le mani che ella gli abbandonò e sulle quali impresse un lungo bacio, mentre la guardava con occhi accesi di desiderio.

— Ma intanto Vostra Maestà per timore di lei rifiuta firmare un decreto che a tal donna, adorata quanto nessun’altra donna, riconosca il titolo di Altezza!

— No, non rifiuto... Ma discorriamo d’altro, via, discorriamo d’altro.

Ella senza badargli proseguì:

— Lei invece non ha paura di dispiacere a Vostra Maestà; lei nella sua villa di Castelvetrano, oltre di impigliarsi in tanti indegni intrighi con avventurieri della peggiore specie, ladri, assassini, sanguinarî che han sulla coscienza i più orrendi delitti, mostra una deplorevole predilezione per qualcuno che fu tra i più famigerati scorridori, anzi i più volgari predoni, i quali fingendo di combattere pel trono e per l’altare soddisfacevano alle più turpi passioni...

Il Re era divenuto pallido e ascoltava con un’espressione fra lo sdegno e il fastidio. Pure rispose come se soltanto per un riguardo a se stesso volesse scusare le colpe della moglie.

— Sono gl’Inglesi che dicono ciò... gl’Inglesi che l’odiano. Ella non può fino a questo punto aver dimenticato la regia dignità, il nome augustodegli avi... Con i suoi anni poi, con i suoi anni...

Comprese però che non gli conveniva d’insistere su tale argomento. Non era lui alla sua età l’amante di una donna giovane e bella? A ben altri amori, a ben altri capricci della moglie aveva egli chiuso gli occhi! E come perdonava a se stesso avrebbe perdonato anche a lei l’erotico capriccio. Lo spaventavano invece gl’intrighi nei quali s’era impigliata e con la firma in quel proclama aveva impigliato lui. Con quel proclama egli si schierava non solo contro gl’Inglesi ma contro suo figlio che aveva nominato Vicario Generale, contro la nobiltà del Regno della quale negava i secolari privilegi: li avrebbe avuti tutti contro, tutti, ciò che forse avrebbe compromesso anche quel poco che gli era rimasto della regia potestà, quel cantuccio povero sì ma tranquillo in cui viveva nella noia, ma almeno nella pace. Or lui che ne aveva passate tante delle traversie, si sgomentava al pensiero delle molestie che avrebbe dovuto sopportare se la Regina si fosse servita di quel maledetto proclama.

— Gl’Inglesi non l’odiano; tanto è vero — rispose lentamente la duchessa fissando gli occhi in quelli del Re — che ad essi non è ignoto ciò che va tramando colei cui dovrebbe stare a cuore almeno la pace della Maestà Vostra e che mescola il regio nome in tutti i complotti che mirano alla rovina di questa povera Sicilia!

— Come, come? — balbettò il Re spaventato — vi mescola il mio nome? E che ne so io, che ne so? Io non ho mai saputo nulla: quella lì ha sempre agito di testa sua: fu lei a rivoltare le Calabrie, lei a soffiar nel fuoco di una guerra così feroce! Che ci entro io, che ci entro?

— È vero, Vostra Maestà non c’entra; ma pure ha firmato un proclama che se comparisse...

— Come lo sai tu, come lo sai? — gridò il Re divenuto livido.

— Sa la Maestà Vostra perchè indugiai a presentarmi a lei, perchè fui costretta a commettere un tal delitto di quasi lesa Maestà?

— No: perchè?

— Perchè nella mia carrozza era un uomo col quale mi intrattenni per circa mezz’ora nella strada che fiancheggia il parco.

— Chi era quest’uomo?

— Lord Bentinck.

Il Re rimase per un pezzo a guardare con la bocca aperta e lo stupore nel viso la giovane donna che scrollava il capo come chi comprenda bene e giustifichi la meraviglia che ha destato con le sue parole.

— Lord Bentinck! — disse infine il Re — lord Bentinck!

— Sì. Venne stamane in casa mia e da lui seppi tutto ciò che la Regina va ordendo e con mia profonda meraviglia e dolore seppi pure che Vostra Maestà, non sapendo resistere alle male arti di Carolina d’Austria, ha firmato un proclama rivoluzionario in cui si parla di diritti del popolo, di sovranità popolare e di altri simili orrori che un nepote di San Luigi e di Luigi il Grande, un cugino del re Martire decapitato dai rivoluzionarî avrebbe dovuto respingere anche a costo di finir sul patibolo. Con quel proclama si vuol sollevare il popolo contro quei generosi alleati i quali mentre Vostra Maestà era abbandonata da tutti vennero qui per proteggerla e per difenderla, e che se furono indotti a consigliare il Vicario di Vostra Maestà l’erede di questo Regno, a sgravarla delpeso della podestà regia e ad allontanare da questa dimora Sua Maestà la Regina, s’ispirarono al bene dei popoli, alla pace di questa isola turbata troppo di sovente dall’indole irriflessiva, dal carattere volubile e leggiero di colei che avrebbe pur dovuto imporsi maggiori riguardi, maggior dignità di sovrana, in omaggio se non a se stessa, ai figli ed al consorte!

— Capperi! — esclamò il Re che aveva atteso un pezzo dopo che ella finì il suo dire e che aveva ascoltato con sempre più crescente stupore — parli come un libro stampato!

Invero, era quella la prima volta che la bellissima donna, tutta vezzi e moine, aveva tenuto al Re un discorso di politica, e che aveva recitato tutto di un tratto come se l’avesse già da un pezzo nella memoria. Il Re, forse senza volerlo, aveva dovuto colpire al segno, perchè la duchessa arrossì e parve un po’ confusa.

Però si riebbe e disse con mal celata stizza:

— Parlo per quell’interesse che m’ispira la Maestà Vostra e pel quale sarei pronta a dare la vita. Se non vuole prestarmi ascolto, se non vuol far calcolo alcuno dei consigli di coloro che vorrebbero evitarle nuove sventure, vuol dire che io non sono l’amica qui, io non sono la confidente del cuore del Re, io non sono che... l’amante.

— Non, dispiacerti, via, non dispiacerti — disse il Re, infastidito in fondo per la brutta piega che aveva preso il discorso, tanto da turbargli le uniche ore di piacere, che erano per lui quelle della mensa. — Se tu sei l’amante...

— Io non arrossirei di un tal titolo — ella continuò, interrompendo il Re — lo porterei fieramente anzi, se mi desse il diritto di vegliare alla tranquillità del mio Re, di additargli i pericoli, disvelargli le male arti di... di certa gente a cui le sventure non han nulla insegnato...

Il Re vedendo che non sarebbe riescito a portare il discorso su un soggetto più allegro, e preoccupato anche dalle parole della duchessa che aveva accennato ai pericoli che egli correva, si risolse al affrontare la tempesta.

— Dimmi un po’ — disse gettando il tovagliolo sulla mensa ed accostandosi alla giovane donna — è lord Bentinck che parla per bocca tua?

— Lord Bentinck è un mio amico devoto ed è un devoto servo di Vostra Maestà. È vero, da lui ho saputo le brutte cose che mi hanno indotto a tenerle un linguaggio sì franco, a costo anche di riuscirle molesta. Ebbene, sappia che se si pubblica il proclama che la Regina le ha estorto, perchè si sa che gliel’ha estorto, si sa tutto...

— Ma come — esclamò il Re — se eravamo soli! Dunque da per ogni dove son circondato da spie invisibili, anche nella mia camera da letto?

— E bisogna esser grati a queste spie che hanno svelato una tale e tanta imprudenza a cui Vostra Maestà si è prestata a malincuore. Anche lor Bentinck lo sa e perciò si è creduto in obbligo di suggerirle che a qualunque costo vi si apporti riparo. Se quel proclama si pubblicasse, se i facinorosi e tutti coloro che si fanno un mestiere della rivoluzione si facessero una bandiera del nome di Vostra Maestà, tanto la loro vittoria come la loro disfatta sarebbe una nuova sciagura per la Maestà Vostra. Una disfatta degl’Inglesi sarebbe immediatamente seguita da uno sbarco dei Francesi che di là dallo stretto tengono pronti navi ed armati; una vittoria... Sa che vorrebbe dire una vittoria? L’annessione della Sicilia al Regno Unito della Gran Bretagna!

— Che si arresti dunque, che si arresti — gridò il Re spaventato — chi mi ha messo in tale imbroglio. E se il mio Vicario Generale non vuol darne l’ordine, firmerò io il decreto, io che sono il Re!

Le parole della duchessa erano state un commento alle preoccupazioni che avevan tenuto oppresso il Re sin da quella notte in cui era stato indotto a firmare quel proclama. Le deduzioni della duchessa erano state di un effetto immediato appunto perchè il Re più volte aveva detto a se stesso che in entrambi i casi, della vittoria e della disfatta degl’Inglesi, le conseguenze sarebbero cadute su lui: una invasione o una annessione; e lui, a cui i re non avrebbero perdonato i principî rivoluzionarî espressi nel proclama, avrebbe dovuto andar ramingo, ramingo alla sua età, in odio a tutti, senza neanche quel po’ di appannaggio reale che gli era rimasto!

— Questo — continuò — questo dovrebbero fare per impedire che quella vipera, a cui si deve in gran parte la rovina del Regno, mi faccia apparire di fronte a tutta Europa indegno della corona che Dio ha posto sul mio capo!

Ella trionfava: pure dissimulando la gioia, scrollava la testa alle parole del Re, afflitta in viso come se appieno comprendesse le pene di lui.

— No, no — disse infine — lord Bentinck che, come ho detto, è assai devoto a Vostra Maestà, non ha voluto ricorrere a un tal mezzo, ben pericoloso. E se lei si difendesse col far pubblicare il proclama, chi non crederebbe Vostra Maestà suo complice? L’Austria offesa in lei, abbandonata da Vostra Maestà potrebbe ricorre a chi sa quali rappresaglie; ed oggi più che mai coloro cui Dio ha affidato la missione di reggere i popoli debbono tenersi saldi e concordi.

— È vero, è vero! — disse il Re sedendo vicino alla duchessa. — Ma in tal caso...

— In tal caso bisogna ricorrere all’astuzia... combattere l’intrigo con l’intrigo...

— Non t’intendo.

— Vostra Maestà mi concede di parlare senza riguardi, unicamente pel bene e per la tranquillità di lei?

— Ma sì, ma sì. Mi pare che non ti abbia mai impedito di dirmi tutto.

— Però deve rispondere francamente a una mia domanda: vuole davvero che la Regina vada via dalla Sicilia?

— Sì, ed al più presto.

— Ebbene havvi un sol mezzo per costringerla ad andar via senza che l’Austria possa farne una colpa a Vostra Maestà.

— Ma a che tanti indugi? Dillo, via un tal mezzo.

— La Regina ha un amante.

— Sarà un confidente, un amico — disse il Re scuotendo il capo, non volendo ammettere per un sentimento di orgoglio e di dignità maritale un tal fatto — un complice delle sue cabale, ma un amante poi!...

— La Regina ha un amante, ripeto. Bisogna dunque coglierla in flagrante e scacciarla dalla Sicilia sotto l’accusa di adulterio.

— Oh, oh! — fece il Re che non si aspettava una tale proposta.

Ella comprese che non doveva lasciarlo nella sua perplessità, che sul carattere tentennante del Re avrebbe potuto influire contro il vagheggiato disegno, e continuò:

— Per quanto il mezzo possa parerle sconveniente e lesivo alla regale dignità, pure è il solo,opportuno per risparmiare a questa povera isola la catastrofe di un’annessione all’Inghilterra o di una invasione dei Francesi con le tristi conseguenze a danno della Maestà Vostra che è inutile io le ripeta.

— Sì, ma gli è che io non credo, non posso e non debbo credere a ciò che i tanti nemici di quella donna dicono...

— In tal caso il nostro disegno non potrà effettuarsi, e Vostra Maestà avrà acquistato la prova che ha per moglie una... Penelope.

Il Re avrebbe dovuto sdegnarsi di tali irriverenti parole che erano un sarcasmo; ma attribuendole a un impeto di gelosia della sua amante ne fu quasi lusingato.

— Ma, sentiamo: qual’è questo disegno?

— Vostra Maestà inviterebbe la Regina con una scusa qualsiasi, una festa, una caccia, a venir qui per qualche giorno. Ella non si rifiuterebbe perchè torna ai suoi disegni di star vicino a Vostra Maestà, ben sapendo quale sia il suo potere e quanta sia la... la...

— La mia debolezza!

— No, la bontà della Maestà Vostra: verrebbe al certo col suo... scudiere, perchè ad onestare la domestichezza con quel giovane, l’ha nominato suo scudiere...

— Ma — esclamò il Re tra scandalizzato e sorpreso — è dunque un nobile, almeno di tre quarti! Non avrebbe commesso una enormezza simile se fosse, come dici, un rozzo capobanda, un villano. Posso ammettere financo che alla sua età... certe debolezze poi sono perdonabili: chi è senza peccato, come dice il Vangelo... Ma nominar scudiere un plebeo? Di questo, no no, non è capace, perchè ricorda fin troppo che è un’Arciduchessad’Austria e Regina di Napoli e di Sicilia!

— Insomma, è certo che l’ha nominato suo scudiere.

— Le chiederò conto di questo, le chiederò conto!

— Vostra Maestà non dovrebbe per tal cosa di secondaria importanza compromettere la riuscita del nostro disegno. Venendo dunque ella qui si troverà il mezzo di coglierli in flagrante, in modo che lo scandalo sia pubblico, e così la Maestà Vostra potrà dormire sonni tranquilli.

— Sì, ma — osservò il Re pensoso, perplesso, che intravedeva i fastidi che gli avrebbe arrecato l’attuazione di quel disegno — è pur sempre una insidia, un tradimento!

— E lei non premedita un tradimento, lei non premedita una insidia contro coloro che vennero qui per difenderla e per proteggerla? — gridò la duchessa stizzita nel vedere che il Re non si piegava, come ella aveva sperato, facilmente ai suoi voleri.

— Ma io non voglio noie, non voglio molestie, non voglio pensieri fastidiosi — esclamò il Re, svelando così la causa vera della sua ripugnanza. — Perciò ho ceduto parte dell’autorità regia a mio figlio; perciò mi sono ritirato in questo eremo, perciò non ho neanche protestato quando mi tolsero il povero d’Ascoli, quando mi limitarono i miei privilegi...

— Ma Vostra Maestà non dovrà darsi pensiero di nulla, di nulla. Saranno i suoi amici che vigileranno, che disporranno le cose perchè tutto riesca pel trionfo della verità e della giustizia.

— Ah, così va bene! Io dunque non dovrò intervenire?

— Sì, ma senza alcun fastidio.

— Piccina mia — disse il Re scrollando il capo — sevi lusingate di trarre in inganno quella lì, di sorprenderla, come voi dite, in flagrante, di lottare con lei in intrighi e in accorgimenti, avete sbagliato i vostri conti. Voi non la conoscete come io la conosco. È uno spirito infernale il suo, capace di ogni eroismo come di ogni bassezza, di volar come un’aquila e di strisciar come un serpe. Con uno sguardo legge nei cuori... È vero però che talvolta si lascia trarre in inganno dal più sciocco dei suoi cortigiani. Ma non vi lusingate di una facile vittoria e badate che se per poco sospetta di un tranello, non sono calcolabili gli estremi cui si può spingere. In tal caso io...

— Non mi difendereste voi in tal caso contro la sua ira? — disse lei gettando le braccia affusolate al collo del Re e stringendosi a lui che, rasserenato in viso perchè in ogni caso gli si sarebbero evitato le molestie, ciò che unicamente gl’importava, si diede a carezzare mollemente la giovane donna che gli si era distesa sulle ginocchia.

— Ma — disse dopo un istante, sollevandola perchè si mettesse a sedere — tu ed io abbiamo appena mangiucchiato qualche cosa. Su, quantunque questo arrosto di pernici sia ben freddo oramai, pure merita di fargli onore.

— E mi amerete sempre così, non è vero, sempre così? — mormorò baciandolo negli occhi e carezzandogli i grigi capelli.

Il Re non rispose ma sorrise guardandola con gli occhi lampeggianti, mentre staccava un’ala di pernice.

— Ah Ferdinando, Ferdinando, quale vita dolce e serena vi avrei fatto vivere io, come avrei saputo comprendere i vostri gusti e il vostro cuore!

— Chi sa! — rispose Ferdinando acceso in volto pel cibo e per le carezze della bellissima duchessa — non sono poi tanto vecchio!


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