CAPITOLO IX.

CAPITOLO IX.Ho differito fin qui a toccare le condizioni interne della Sicilia bizantina, perchè procedettero in parte dalle raccontate vicende dei due continenti tra i quali l'isola è posta. Cominciando la investigazione, dirò, innanzi ogni altra cosa, della schiatta ch'è elemento sì potente nei destini dei popoli. Fermata in Sicilia la dominazione romana, il grosso della popolazione eran Sicoli e Greci; non rimanendo più degli altri che la memoria, e forse un po' di gente punica nelle parti di ponente; la quale par che non tardasse a dileguarsi. Il conquisto portò novelli abitatori italiani, tra colonie e gente spicciolata che venía per faccende e officii; ma poche e sottili le colonie; gli altri spesso se ne tornavano; e parmi che il più potente effetto della signoria romana su la popolazione dell'isola sia stato di ritirare ai costumi e linguaggio dell'Italia i Sicoli, che, sforzati dall'incivilimento greco, stavano perdendo financo l'uso del proprio dialetto, e diremmo anzi che l'avessero abbandonato al tutto, se dovessimo stare alla lettera d'un passo di Diodoro.[284]Le torme poi di schiavi, ragunate da tanteregioni e sparse nelle campagne della Sicilia, se non si consumavano senza prole, al certo il sangue loro, sterile per miseria e diverso, non creò schiatta nuova da poter contare. Gli Ebrei stanziati nelle città principali, segnalavansi meno per lo numero loro, che per lo avere e per l'odio reciproco con le altre schiatte.[285]I popoli settentrionali, come dicemmo, furon turbine passaggiero. Da Giustiniano ai Musulmani il decrepito Impero non potea mandar colonie; se non che ripararono in Sicilia i rifuggiti d'Italia e d'Affrica dei quali abbiam detto nei capitoli precedenti; e inoltre egli è probabile che a stilla a stilla s'accogliesse nell'isola qualche rimasuglio degli ospiti che vi mandava il governo bizantino: officiali pubblici, soldati delle provincie d'Europa o dell'Asia Minore,[286]e relegati per cagion di Stato.[287]Tra gli altri v'ebbe un corpo di mille uomini, avanzo delle soldatesche armene sollevatesi a Costantinopoli il settecento novantadue, che furono mandati nelle isole, sopratutto in Sicilia,[288]ove par che abbiano fatto stanza, poichè troviamo nelle guerre de' Musulmani[289]la espugnazione d'un castello degli Armeni (a. 861). Dal detto fin qui si vede che per lo spazio di mille anni non capitarono in Sicilia tante popolazioni avventizie, che potessero mutare leschiatte esistenti. S'accorda in ciò con le tradizioni storiche il ragguaglio statistico di Costantino Porfirogenito, il quale trattando dei proprii suoi tempi (911-959) o piuttosto di quelli anteriori al conquisto musulmano, scrive essere gli isolani parte Liguri d'Italia, chiamati altrimenti Sicoli, e parte Greci, ossiano Sicelioti.[290]Con denominazione più esatta si direbbero le due schiatte, italica ed ellenica, ciascuna delle quali abbracciava le genti affini a lei, sopravvenute nei due periodi delle dominazioni romana e bizantina.Qual delle due genti prevalesse di numero non si ritrae; e forse erano e si mantennero più uguali che non si è pensato. Aiutandoci con le induzioni, poichè mancano le testimonianze dirette, troviamo, egli è vero, dal principio dell'era volgare infino al sesto secolo, moltissime iscrizioni latine pubbliche o private anco nelle principali città greche dell'isola, e latini negli ultimi tempi i titoli dei magistrati municipali; ma tra ricordi letterarii, epigrafia e nomi proprii si vede la lingua greca non aver ceduto il campo in alcun luogo.[291]Un papiro del quinto secolo che dà i nomi degli affittuali di certi poderi, ne contiene più greci che latini:[292]e alla fine del sesto secolo, San Gregorioci parla degli abitatori greci e latini.[293]Gli annali ecclesiastici poi dell'isola, dal sei all'ottocento, ci mostrano la medesima promiscuità delle due genti: dove monasteri basiliani e dove di regole latine; esaltati alcuni Siciliani alla sede pontificale di Roma, altri a quella d'Antiochia;[294]un dei papi siciliani, Leone II (682-683), lodato per lo eloquente parlare in greco e in latino;[295]e alla fine del sesto secolo la opinione pubblica in Sicilia pendere incerta tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli.[296]Finalmente, sendo stata alla metà dell'ottavo secolo assoggettata l'isola al patriarca costantinopolitano, scomparisce il latino, e torna su il greco negli scritti dei frati siciliani e negli scarsi monumenti d'epigrafia che ci avanzano di quel tempo. Così fatta vicenda non può condurre al supposto che la schiatta e la lingua greca in Sicilia, dopo esser calate durante la dominazione romana e le barbariche, d'un subito risalissero e occupassero tutta l'isola per virtù della dominazione bizantina. È da conchiudere più tosto che i due popoli si pareggiassero con poco divario per tutto il corso degli otto primi secoli dell'era cristiana; che ambo le lingue fossero state più o meno in uso, come ai tempi di Diodoro,[297]se pur il popolo non cominciava a parlarne già una diversa daentrambe e più vicina all'italiana; e che la influenza del governo e della Chiesa facessero prevalere negli scritti il latino prima e il greco dopo di Giustiniano.[298]Nè tra le due schiatte si vide mai differenza di condizione legale: chè nobili e plebei vi furono in entrambe, secondo l'antica riputazione delle famiglie e le vicende della ricchezza e lo splendore delle pubbliche dignità. Della condizione di nobili e plebei non dirò altrimenti, perchè reggendosi l'isola ormai a legge romana si torna a notissime generalità: nè occorre ripetere come da Costantino in poi fosse sostituita all'aristocrazia di nascita la gerarchia dei servidori di corte e officiali dello Stato, innalzati a piacimento del despota; e come fossero al tutto ragguagliati i dritti delle persone, sì che tra gli uomini liberi non rimase che una sola distinzione di poco momento. Dico della curia, nella quale non godeasi altro privilegio che la immunità da certe pene nei casi criminali; e il governo vi ascrivea involontarii i figliuoli di militari quando non fossero validi a portare ancor essi le armi, i proprietarii di venticinque iugeri o più di terreno, e gli affittuali in grande dei poderi del patrimonio imperiale.[299]Donde è manifesto che la curia non va chiamata aristocrazia,ma veramente popolani grassi o borghesi.Dalle città volgendoci alle campagne, veggiamo altresì oscillare le classi della società antica, e posare alfine in una condizione di mezzo tra la libertà e la schiavitù. A ben comprendere i ricordi che abbiamo di tal mutamento, in Sicilia, è mestieri studiarlo prima per generalità. Venne da due motivi d'indole diversa; la coscienza, cioè, e l'interesse: i quali allor s'aiutarono scambievolmente, sì come par che avvenga ad ogni novello passo della civiltà. I principii umanitarii di filosofia pagana, attestati dalle opere di Seneca, Plinio e Plutarco, e messi in pratica negli editti d'Adriano e degli Antonini, cominciavano a temperare i mali della schiavitù, quando sottentrato il Cristianesimo, che si allargava e metteva radici, incalzò la santa opera.[300]Intanto la esperienza mostrava che la infeconda genía degli schiavi scemasse sempre più; e, aggiunta a questo la inefficacia del lavoro comandato coi supplizii, i campi con doppia celerità deterioravano. Ma se la pace dell'Impero togliea di rifornire gli schiavi con altre torme di vinti, la decadenza universale apparecchiava in luogo di quelli torme di poveri, fossero i proprietarii minori spogliati dal fisco imperiale, o le popolazioni industriali, libere e non libere, che fuggivano per miseria dalle città. Cercando ricetto e pane nei poderi dei ricchi, l'otteneano a prezzo di rimanervi da coloni; e par che i proprietarii del suolo, vedendo la utilità che ne ritraeano, s'invogliassero ad emancipare e porre nella medesima condizione gliantichi schiavi.[301]Cotesto mutamento di sorti par che siasi accelerato dal secondo o terzo secolo in poi; perocchè ai tempi di Costantino il Grande si parla dei coloni come di notissima e frequente qualità d'uomini, e si provvede tuttavia con crudeltà a tenere obbedienti gli schiavi, ma nelle leggi dei tempi seguenti a mano a mano il nome degli schiavi divien più raro, e spesseggia ai contrario quel dei coloni.[302]Io non dirò altrimenti della condizione degli schiavi, ch'è notissima; e ognun sa come andasse in meglio da Costantino a Giustiniano. Quella de' coloni era che rimaneano attaccati al suolo essi e i loro figliuoli e i nepoti perpetuamente, e pagavano un tributo annuale per la terra assegnata; che poteano acquistare beni mobili e stabili con la propria industria, ma non alienarli senza permesso del padrone; che, fuggendo dal podere, la legge dava al padrone di ridurli in schiavitù, e concedea di ripigliarli in termine di trent'anni per gli uomini, e di venti per le donne; e che tal prescrizione, assai più lunga diquella fissata per gli schiavi, non si interrompea nè anco per morte, poichè, mancato il colono, correva a pregiudizio de' figliuoli.[303]Tal condizione dunque non differì dalla servitù della gleba dei tempi feudali, se non che per la origine: la romana sempre da contratto, se tal può chiamarsi un patto sì disuguale ed empio; la feudale talvolta da contratto, e talvolta dalla supposta ragion di guerra, che avea generato la schiavitù personale nel mondo antico, e nel mondo moderno si adopera a giustificare la servitù delle nazioni.Or la popolazione rurale della Sicilia durò a un di presso le medesime vicende che abbiamo notato nel rimanente dell'Impero. Tolta una picciola mano di affittuali, chiamati conduttori,[304]i quali nè anco è da supporre liberi in tutti i casi, coltivavano le campagne i coloni[305]e gli schiavi,[306]che sembrano talvolta confusi nell'uso volgare del linguaggio, come di fatto lo erano nella abiezione e nella miseria. Il Cristianesimo, o almeno i Cristiani di quel tempo e di molti secoli appresso, non abborrirono la servitùmen cruenta della gleba; il clero la mantenne più tenacemente che i laici stessi nelle sue proprietà; e un pontefice santo e grande, Gregorio I, lodato tanto per la carità verso gli altrui schiavi nella terraferma d'Italia, ribadì le catene dei coloni dei poderi papali in Sicilia. Smesse, egli è vero, le taglie su i loro matrimonii; smesse i furti che l'azienda pontificia solea fare, frodando que' miseri nel prezzo e nella misura dei grani, obbligandoli a supplire le derrate, che, mandate a Roma, si perdessero per fortuna di mare, e richiedendo il censo pria che si vendessero le raccolte.[307]A tuttociò rimediava San Gregorio: ed era insieme giustizia e prudenza di buon massaio. Ma quando la coscienza gli richiedeva un atto magnanimo, entrò di mezzo la cupidigia che già sedea presso al trono pontificale, e con lei l'altra tentatrice a profanazione, che fu l'ambizione politica. Il sommo vescovo si ricordò soltanto ch'era proprietario; pensò falsamente che la libertà dei coloni di Sicilia potesse scemare le entrate e indi attraversare i disegni suoi a Roma: e vinta dal comodo presente la logica morale, San Gregorio, non solo non disdisse la servitù della gleba, ma vietò ai suoi coloni di maritare i figliuoli con gente d'altri poderi.[308]Non debbo tacere infine che San Gregorio discordò talvolta da' nobilissimi suoi principii in fatto della schiavitù propriamente detta. Nell'atto di emancipazione dei due schiavi romani Montano e Tommaso,dato del cinquecento novantasei, seppe ei ben dire: “Che se il Redentore s'incarnò per spezzare i ceppi dell'umanità, ottima cosa era di manomettere e rendere all'antica franchigia gli uomini, creati liberi dalla natura e sottomessi dal dritto delle genti al giogo della servitù.”[309]Seppe egli ancora, con nobile dispregio della ragion fattizia delle leggi, comandar che si manomettessero gli schiavi de' Giudei.[310]Ma non emancipò nè punto nè poco gli schiavi del patrimonio in Sicilia; e, quel ch'è peggio, talvolta ne donò altrui;[311]fece perseguitare e minacciare di gastighi severissimi que' che fuggivano o si nascondeano in altri poderi;[312]ed è manifesto ch'ei lasciasse non uno nè pochi schiavi, ma torme intere, e che diciannove successori suoi nel pontificato li mantenessero sotto l'abominevole giogo, poichè ottanta e più anni dopo la morte di San Gregorio gli schiavi erano gran parte della ricchezza della Santa Sede. E veramente sappiamo che Giustiniano Secondo, per far cosa grata a papa Conone, gli rimetteva (686) “la famiglia” del patrimonio di Sicilia e di Calabria, ch'era tenuta in pegno per debiti verso il fisco;[313]la qual famiglia non può significare altro che schiavi, poichè si staggiva come gli armenti, e poichè lalegge fiscale permettea di prendere gli schiavi[314]ai debitori, e non pretendea nulla da' lor coloni.[315]Il tardo rivolgimento sociale che in dieci secoli avea fatto men disuguali le condizioni delle persone, mutò anche un poco la proporzione delle possessioni territoriali. Due movimenti contrarii operavano in ciò. Tendea l'uno ad agglomerare: e nascea dal decadimento generale; dalla menomata popolazione; dalla rovina dei proprietarii minori, che non potean durare le gravezze e molestie del fisco; dalla iniqua industria dei ricchi che si pigliavano i rottami di cotesti naufragi, dopo averli affrettato con le usure; dai lasciti alle chiese, che si moltiplicarono in Sicilia ai tempi di San Gregorio; e infine dall'avaro dispotismo, il quale aumentava a dismisura il patrimonio imperiale con le confiscazioni. All'incontro portavano a spicciolare le proprietà, la legge romana su le successioni, e l'utile pratica di dare in proprietà ai coloni le terre che coltivassero, e mutare il tributo personale in canone su la proprietà.[316]L'azienda imperiale avea tentato lo stesso espediente con circostanze alquanto diverse infin dal quarto secolo, quando una parte del patrimonio di Sicilia e di Sardegna fu conceduta in enfiteusi a picciole porzioni insieme con gli schiavi,[317]e poco appresso si accordò ai domini utili di quei poderi la franchigia dalle tasse straordinarie,come la godeano i beni tutti del patrimonio.[318]Qual dei due movimenti prevalesse, sarebbe difficile a provare. Nondimeno nei soli ricordi che abbiamo, che sono dei tempi di San Gregorio, veggiam lasciati a chiese o monasteri di Sicilia i beni di piccioli proprietarii; e par assurdo a supporre che non ve ne fossero molti altri nell'isola.[319]Più oscure e scarse notizie possiamo spigolare intorno l'industria del paese. Il sol fatto che mi sembri certo è che i latifondi non addetti a pascolo si coltivassero a picciole porzioni, e che perciò la cultura in grande fosse finita con la dominazione romana che l'avea recato nell'isola.[320]Principal prodotto del suolo fu sempre il grano.[321]In secondo par che venisse la cultura della vite.[322]Quella dell'ulivo, che ai tempi greci avea arricchito gli Agrigentini, sembra abbandonata, e tornato di fatto agli abitatori dell'Affrica propria il privilegio di fornir l'olio d'ulivo all'Italia e ad altre nazioni occidentali. Perocchè si ritrae che, quando gli Affricani pagaron leprime taglie ai vincitori musulmani, il capitano Abd-Allah-ibn-Sa'd, vedendosi recare un mucchio di monete d'oro, domandava a un cittadino come le guadagnassero, e quegli, postosi a cercare intorno, e trovata un'uliva: “Ecco donde le caviamo,” disse ad Abd-Allah; “i Romani non hanno ulivi, e comperano l'olio nostro con quest'oro.”[323]La denominazione di Romani, che qui significa abitatori d'Italia, è da estendersi nel presente caso anco alla Sicilia; sapendosi che vi si importava olio d'Affrica nel nono secolo, nell'undecimo, e fino al duodecimo.[324]Certo egli è poi che la Sicilia nei principii del nono secolo avea frequenti commerci con lo stato degli Aghlabiti, e che parecchi mercatanti musulmani stanziavano nell'isola.[325]Se questi particolari provano che non fosse spenta al tutto la industria in Sicilia, non mancò al certo per lo governo bizantino. Quell'ingordigia fiscale che spogliò l'Impero prima che il facessero i Barbari, non risparmiò le tre isole italiane poste sotto un solo amministratore, che si chiamò il razionale delle Tre Provincie. Noi le veggiamo sottomesse al sistema generale d'azienda: il tributo diretto su le proprietà e su le persone; le gabelle su le merci e su le industrie; le aggiunte straordinarie alla prima gravezza, o, comechiamavanle, le superindizioni; le leve di soldati che si compensavano in danaro; le leve de' marinaj; infine le estorsioni degli officiali onde si raddoppiava il peso: delle quali maladizioni tutte abbiamo più o meno qualche vestigio nelle memorie della Sicilia.[326]I Goti nel breve dominio loro fecero un novello censimento delle proprietà; rimessero debiti e tasse straordinarie.[327]Tornaron tutti i mali con la signoria bizantina; sì che alla fine del sesto secolo il fisco in Corsica obbligava i debitori a vendere i proprii figliuoli; in Sardegna il giudice avea posto una taglia sul battesimo; e in Sicilia un officiale subalterno staggiva ad arbitrio le possessioni: e ci vorrebbe un volume, scrivea San Gregorio, a divisar tutte le iniquità che ho risaputo di costui.[328]Non pochi imperatori a volta a volta esacerbaron cotesti mali, come abbiam detto di Costanzo e di Leone Isaurico, che aumentò d'un terzo la tassa diretta in Sicilia e in Calabria (a. 733) per punire que' popoli della propensione al culto delle imagini, e della gioia che provavano a veder fallire gli sforzi suoi contro l'Italia di mezzo.[329]Risalendo dal popolo al governo, e lasciati da canto gli altri ordini subalterni, che poco montano[330]e non differivano da quei delle altre provincie, dirò solo dei corpi municipali, elemento di governo proprio del paese, conservato come inoffensivo e comodostrumento d'amministrazione, e sopravvissuto alla dominazione che sì lo spregiava. Le municipalità della Sicilia, avanzo delle repubbliche greche, nei primi tempi che seguirono il conquisto romano, ebbero condizioni disuguali secondo la importanza delle città e i rapporti che avean tenuto con Roma nelle precedenti guerre. Indi ne veggiamo tre maniere: confederate, immuni e vettigali; alle quali poi se ne aggiunse una quarta, che eran le colonie romane: e la differenza principale stava nella gravezza e nome dei tributi che fornivano a Roma. Viveano del resto un po' più o un po' meno largamente, secondo le proprie leggi, e sotto i proprii magistrati, che ritennero le antiche appellazioni, dove greche, di Proagori, Gerapoli, Anfipoli; dove latine, di Quinqueprimi, Decemprimi, e anche di Senati per antica o novella influenza di quel linguaggio. E dissi proprii magistrati, perchè li eleggeano i cittadini, que', s'intenda, delle famiglie privilegiate per ricchezza e antico soggiorno; il qual dritto di suffragio spesso diè luogo a contese e indi a provvedimenti del governo romano che modificava a poco a poco gli antichi statuti e li tirava a uniformità.[331]La decadenza poi delle cittadi e l'accentramento della potestà politica, par che ragguagliassero al tutto la condizione dei municipii siciliani, e certamente mutilarono l'autorità loro. Dopo Costantino, questa era già ristretta a una giurisdizione civile, forse non dissimile da quella de' conciliatori ogiudici di pace dei tempi nostri,[332]alle cure edilizie, e all'ingrato officio di scompartire tra i cittadini il peso delle tasse dirette, delle quali l'erario richiedeva, o per servirci della voce tecnica d'allora,indiceala somma ai municipii, e questi la suddivideano in quote personali secondo i catasti e con l'arbitrio che necessariamente v'entrò, sendo la contribuzione diretta non solo fondiaria ma anco testatica. La gravità del quale officio portò ad affidarlo non ai magistrati municipali propriamente detti, ma alla curia, come chiamossi, ch'era senza dubbio il corpo degli elettori alle cariche municipali:[333]infelici privilegiati, disposti forse ad abusare il dritto loro a danno delle classi povere, ma condannati a pagar caro l'abuso. Perocchè, dovendo sopperire del proprio le quote che non si potessero riscuotere, furono oppressi da così fatto peso, tra la insaziabile avarizia del governo e la universale decadenza che facea abbandonare le terre. Indi, come ognun sa, i decurioni fuggivano il tristo onore; si facean soldati, preti, romiti; e il governo, mettendo tra parentesi quell'ardente e intollerante suo zelo religioso, li facea strappare dall'altare e dal chiostro, e ricondurre per forza a lor sedie curuli.[334]Così lanecessità del fisco portò a mantenere l'ordine fondamentale delle municipalità. Rinforzolle un altro provvedimento, nato sotto l'infausto regno di Valentino dai soprusi della burocrazia. Dico della istituzione dei difensori eletti dalla plebe: ombra di tribunato, o a dire propriamente, avvocati del popolo, che avean dritto a essere intesi dai giudici, dai governatori e dal principe; il quale officio poi si accordò anche all'ordine ecclesiastico; e, occupato infine dai vescovi, accrebbe non poco la loro potenza civile in Occidente. Molti documenti provano che così fatto sistema municipale fosse pienamente osservato in Sicilia, e ci mostrano in varie città i titoli di possessori e curiali, di padri e primi e decemprimi, e di difensori; cioè gli elettori, gli antichi magistrati municipali e il nuovo officio: ai quali collettivamente son indirizzati rescritti dei principi per negozii di giurisdizione municipale. Inoltre un rescritto imperiale, dato alla fine del quarto secolo, attesta che le città di Sicilia, siccome quelle d'altre provincie, ritenessero i beni lor proprii. E come in appresso non v'ha legge che abbia innovato quegli ordini, e li veggiamo andare innanzi bene o male per ogni luogo, non è dubbio che le instituzioni municipali durassero nell'isola fino al conquisto dei Musulmani.[335]Dai corpi intermedii rivolgendoci al principato, non possiam fare che un cenno del sistema generale dell'Impero. Questo, come ognun sa, riteneva i vizii non la forza dell'antico reggimento dei Cesari, spogliato d'ogni avanzo di libertà e contigiato all'asiatica; assicurato dalla compiuta separazione dell'ordine militare dal civile; dalla vastità di quest'ultimo; e infine dall'accordo che Costantino iniziò, e compierono i successori, accordo col clero cristiano che prestò all'Impero il pastorale, e n'ebbe in cambio l'aiuto della borsa e della spada. Il qual congegno di corruzioni, ch'è servito poi di modello a tutti i despoti dell'Europa da Teodorico infino ai giorni nostri, non bastando a resistere all'impeto dei liberi popoli settentrionali, nè poi degli Arabi, e sendo ormai l'Impero scorciato e aperto d'ogni dove agli assalti, convenne riformare alla meglio le divisioni territoriali, e rinforzare l'autorità dei governatori. Smesse perciò le suddivisioni amministrative in prefetture, diocesi e provincie, che furon già convenienti al mondo romano, il principato bizantino, verso l'ottavo secolo, modestamente si scompartì in ventinovetemi, come li disserocon voce nuova: divisione militare che si confuse con la civile, affidandosi entrambi i poteri a unica mano. La Sicilia, la quale ai tempi di Costantino si noverava tra le diciassette provincie d'una delle tre diocesi soggette al Prefetto del Pretorio, diè nome adesso a un tema, in cui andaron comprese anco la Calabria, la città di Napoli e costiera.[336]Il governatore dell'isola, che dopo Costantino avea avuto titolo di Correttore e talvolta di Consolare, poi sotto i Goti di Conte di Siracusa, ripigliò ai tempi di Giustiniano l'antica denominazione di Pretore, e infine fu detto Stratego,novello nome militare, e chiamossi patrizio, quando ei d'altronde avea tal dignità.[337]Il fatto statistico che sovrasta a ogni altro, e che spiega dassè solo tutta la povera storia della Sicilia bizantina, è la qualità delle forze militari raccolte nell'isola. Nella decadenza di quel tempo gli eserciti ogni dì più che l'altro diveniano bande di mercenarii. L'Impero, come aggregato fattizio di varie genti tenute insieme dall'abitudine, dalla religione e dalla forza, non potea spirare ormai ai soldati l'amore d'unapatria, sepolta tanti secoli innanzi. A ciò s'aggiunga che la popolazione della Grecia, cuor dell'Impero, la progenie di que' forti che avean vinto il mondo sotto Alessandro, ora, infeminita nelle industrie e nella superstizione, rifuggiva dalle armi; lasciavale prendere ai Barbari o agli abitatori delle frontiere, ed ella si riscattava con danari dal servigio militare. Il disordine dell'azienda allentava ancora i legami che debbono stringere il soldato al paese; perocchè le entrate pubbliche, menomate insieme col territorio e con la prosperità dei popoli, dilapidate dai ministri, consumate per soddisfare all'orgoglio e spesare i misfatti del principe, non più bastando al mantenimento degli eserciti, vi si trovò un comodo e pericoloso rimedio. Già fin dal quarto secolo veggiamo che i terreni soliti a distribuirsi ai veterani si dessero col carico di far militare i figliuoli.[338]Poscia, aumentandosi le strettezze dello erario e la mollezza dei popoli, e scemando il pregio della proprietà fondiaria, s'ebbe ricorso più sovente a cotesti beneficii militari, e ne fu alterata l'indole. In vece di proprietà ai veterani, accordossi l'usufrutto ai soldati in attuale servigio, e s'affidò l'amministrazione ai capitani loro. Le terre al certo si toglieano dal patrimonio imperiale, impinguato a furia di confiscazioni; e talvolta, senza aspettare la incorporazione, si dava ai soldati il godimento dei beni mobili o stabili staggiti ai debitori del fisco. Così avvenne che pagandosi malvolentieri dal papa le tasse su i patrimonii di Calabria e di Sicilia, gli fu presaanco la famiglia di que' poderi, e data in pegno ai soldati, dice il cronista,[339]cioè conceduto loro l'usufrutto degli schiavi, che poi il crudele Giustiniano Secondo rilasciò gratuitamente al papa (686-7).Il numero dei beneficii militari tanto andò crescendo, che nei principii del decimo secolo la più parte dell'esercito era mantenuta in tal guisa. I capitani intanto s'erano dati ad alienar le terre; a frodare lo Stato, facendo comparir nelle file paltonieri condotti a poco prezzo, in vece d'uomini usi alle armi: donde qual maraviglia, sclamava l'imperatore Costantino Porfirogenito vietando ansiosamente così fatte magagne, qual maraviglia se la repubblica così tosto è ita a precipizio?[340]Ma la viltà dei soldati non sembra il solo inconveniente del beneficio bizantino: forma di amministrazione militare scompagnata da un ordinamento sociale che le desse alcuna virtù, come avvenne nei feudi germanici e nei giund arabici. Il beneficio bizantino mutava i guerrieri dell'Impero in famigliari temporanei dei capitani; cioè peggio che vassalli feudali o socii di tribù; non contrappeso al dispotismo, ma pessimo strumento da fare e disfare despoti; non milizie capaci di abituarsi ad alcuna carità verso le provincie ove stanziavano, ma stranieri sempre rinnovati e disposti ad opprimerle con fresca ingordigia. In fine, la debolezza di tal genía di mercenarii costrinse gli imperatori a condurre con grossistipendii schiere di veri soldati di ventura, che almeno sapessero menar le mani.Sola eccezione tra la corrotta milizia fu il navilio, come affidato a quella classe della popolazione greca e italica, cui l'aspra vita del mare non avea lasciato agio a guastarsi. Mercè cotesta buona schiatta il navilio bizantino mantenne infino al duodecimo secolo la disciplina; avvantaggiossi sopra le altre genti per la pratica del navigare e il maneggio degli ordegni di guerra; rinnovò spesso gli esempii dell'antica virtù, e ne lasciò eredi le repubbliche italiane del Tirreno e dell'Adriatico, e la monarchia di Sicilia. Componendosi l'armata bizantina di due parti, imperiale, cioè, e provinciale, la virtù di quest'ultima fu rinforzata dalla carità del municipio, ch'era ormai la sola patria. Indi ebbero tanto valore fin dall'ottavo secolo il navilio di Venezia e quel di Napoli, città quasi independenti; e par che anco si segnalasse nelle fazioni di cui abbiamo ricordo il navilio siciliano, ancorchè spesso confuso dai cronisti con quello dell'Impero.[341]Or divenuta la Sicilia, infin dal settimo secolo, come baluardo occidentale dell'Impero e fortezza avanzata oltre la frontiera in mezzo a due potenti nemici, i principi bizantini necessariamente vi posero grosso presidio della milizia che abbiamo descritto, e necessariamente dettero larga autorità militare, civile e anco politica al capitano supremo del presidio, o vogliamchiamarlo stratego dell'isola. E perchè coteste armi straniere soverchiavano la sola forza propria del paese, ch'era il navilio provinciale, il popol siciliano non partecipò alle vicende che succedeano nella sua terra, altrimenti che come spettatore o vittima: fece plauso, maledisse, pianse, e non si mosse. Indi veggiamo dopo la raccontata sollevazione militare del seicentosessantotto, l'esercito di Sicilia provarsi tre fiate nel corso di un secolo a dare un despota all'Impero. La prima quando, stretta Costantinopoli dalle armi del califo, Sergio stratego di Sicilia fe' gridare imperatore un Tiberio, che presto fu spento per la virtù e fortuna di Leone Isaurico; il quale mandava a Siracusa Paolo suo fidato ministro: e questi svolgea gli officiali dell'esercito e l'armata di Sicilia; costringea Sergio a rifuggirsi appo i Longobardi; troncava il capo a Tiberio; ad altri il naso, per ignominia, o mozzava i capelli; altri vergheggiava o bandía; perdonava ai rimagnenti; e così ponea fine (718) al pericoloso moto.[342]Meno agevole a reprimere il secondo, che scoppiò mentre la corte era agitata dall'ambizione della ortodossa e snaturata Irene. Elpidio, uom d'alto affare, mandato al governo di Sicilia (781), per allontanarlo dalla reggia, e colpito indi a poco d'una accusa di maestà, cioè di resistere alla usurpazione d'Irene, cercò salvezza nella aperta ribellione. Aiutandolo il malcontento dei Siciliani e del presidio, prese titolo e insegne d'imperatore, e combattè le forze che veniano di Costantinopoli ad opprimerlo: se non che, vinto in parecchi scontri, si fuggì col tesoro pubblicoin Affrica (782); ov'ebbe onori da principe,[343]e le croniche musulmane cel mostrano dodici anni appresso guerreggiante in Asia Minore contro i Greci, sotto i vessilli del califo.[344]La terza rivolta militare portò in Sicilia la dominazione musulmana per opera di un altro condottiero che seguì lo esempio d'Elpidio.La prepotente massa della soldatesca fu cagione altresì che il movimento scoppiato contro gli imperatori iconoclasti nell'Italia di mezzo non si comunicasse alla Sicilia; ancorchè i popoli quivi non meno tenacemente aderissero alle dottrine di Roma, e al culto delle immagini. Anzi nei principii dell'ottavo secolo, prima che s'intendesse parlare degli Iconoclasti, s'era suscitato in Sicilia un nuovo bollore di zelo religioso, che movea dai monasteri comunicanti col clero dell'Italia centrale, e che scoppiò in Catania per provocazioni locali; forse invidia contro gli Ebrei, quivi ricchi e potenti.[345]Levò grido in quest'incontro (725) il vescovo della città, San Leone da Ravenna, detto il Taumaturgo pei molti miracoli che gli si apposero; e tra gli altri d'avere arso vivo un miscredente, tenendol fitto sul rogo con le proprie braccia, senza pur abbronzarsi le vestimenta. Dell'auto-da-fè, sventuratamente, non può dubitarsi; poichèSan Giuseppe Innografo, che visse nel corso di quel secolo, ne lodava a suo modo il Taumaturgo. Oltre la tradizione dell'Innografo, se ne serbò un'altra, che con l'andare dei tempi s'accrebbe di novelle puerili, ma pur vi si scoprono le radici del mito; cioè un'ultima distruzione di monumenti dell'antichità pagana, e la persecuzione di qualche valentuomo che si allontanasse dalle superstizioni comuni: Eliodoro, come si chiamò quella vittima, nobile uomo, candidato una volta alla sede vescovile, poi molesto nemico di San Leone, e fattosi per ambizione discepolo degli Ebrei, negromante e fabbro di idoli.[346]Dopo il conquisto normanno, i frati di Catania lavoraron tanto su quelle fole, che si trovò infine una fattura del mago, un elefante di lava, ch'oggi adorna la piazza della cattedrale: e il popolo puntualmente lo chiama col nome un po' guasto di Diotro.[347]L'elefante d'Eliodoro fin dai principiidel decimottavo secolo regge su la schiena un monumento più prezioso, dissepolto dalle rovine de' tremuoti, un picciol obelisco di granito, ottagono, inciso a caratteri geroglifici, recato al certo d'Egitto sotto la dominazione romana; il quale, con emblemi tanto sospetti, non so come campasse dalle mani di San Leone.Or noi mal possiamo raffigurar nella mente quale tempesta abbia dovuto suscitare in Sicilia, in quella stagione di roghi e di miracoli, lo editto di Leone Isaurico contro le immagini (726). I Siciliani non dissimularono. Affrontaron dapprima la collera di Leone; la quale si sfogò, com'abbiam detto (733), con aggravare i tributi sopra di loro e sopra i Calabresi, che vivevano a un di presso nelle medesime condizioni. Affrontarono indi i supplizii di Costantino Copronimo; chè ci rimangono i nomi delle vittime più cospicue: un Antioco governatore di Sicilia, il quale si vede tra gli ortodossi indegnamente insultati e straziati (766) nell'ippodromo di Costantinopoli;[348]e San Giacomo vescovo di Catania, fatto morir di fame e di sete (772) in quella persecuzione.[349]Ai tempi di Michele il Balbo e di Teofilo, il sapiente Metodio da Siracusa fu lacerato a battiture; infrantegli le mascelle; sepolto per sette anni in un carcere sotterraneo condue masnadieri, un de' quali venuto a morte lasciarono putrefare accanto ai vivi il cadavere (821-836).[350]Giuseppe l'Innografo (820) andò relegato in Creta, e venti anni appresso, in fondo delle Paludi Meotidi.[351]Del rimanente non nacque alcun tumulto nell'isola; poichè il numero dei soldati e delle fortezze vi s'aumentò in questo tempo,[352]non tanto forse per la paura dei Musulmani, quanto degli ortodossi; e poichè i beni confiscati sopra costoro erano argomento da render più che mai leale e iconoclasta il presidio. Il popolo fremendo e sopportando, tirò innanzi più d'un secolo; finchè non piacque agli imperatori di ristorare le immagini: e l'impeto col quale e' festeggiò questo avvenimento,[353]mostra che non fosse rattiepidita in Sicilia l'opinione cattolica. Ma ben lo era ogni zelo per la chiesa di Roma. Si dissipò in silenzio senza lasciar vestigio, come prima gli imperatori[354]confiscarono il patrimonio papale in Sicilia (733), e condussero i vescovi dell'isola, senza far loro troppa forza, a spiccarsi dal primate ribelle, accettare la istituzione d'un arcivescovo, forse metropolitano, nell'isola, e ubbidire al patriarca di Costantinopoli.[355]I quali provvedimenti,presi per vendetta, furono mantenuti per necessità, quando si compose una prima (780) e una seconda volta (842) la lite delle immagini. E veramente il papa occupava in Italia tanti territorii tolti direttamente o indirettamente all'impero bizantino, che a cento doppii compensavano i poderi confiscatigli in Sicilia e in Calabria. Oltre a ciò, cotesti poderi, dati senza dubbio ai soldati, non si potean ritogliere sol che si volesse. Molto meno potea la corte di Costantinopoli rendere ai papi la giurisdizione disciplinare su la Sicilia, cioè una salda catena da tirare il paese alla dominazione dei Franchi. Però i papi invano dissero ch'era mestieri di quelle entrate per accendere i moccolini a San Pietro, e invano ridomandarono la giurisdizione, finchè il conquisto degli Arabi tolse luogo a ogni querela.[356]Dal detto fin qui si vede che per due secoli non occorsero in Sicilia altre vicende che quelle d'una piazza di guerra, ove la popolazione fosse un nulla rispetto al presidio. Perciò anche la Sicilia servì di confino per casi di maestà; chè, oltre gli esempii d'un principe arabo relegatovi nel sesto secolo,[357]e d'una principessa longobarda tenutavi in ostaggio nel secol seguente,[358]sappiamo che Costantino Quinto imperatore, tramando di ripigliare lo Stato (790), avesse disegnato di farvi deportare Irene. E costei, alla suavolta, rassodatasi nella usurpazione, mandava nell'isola, il figliuolo no, che le parve più sicuro partito di accecarlo e tenerlo prigione nel palagio, ma i cortigiani più intinti nella pratica.[359]Non guari dopo (793). erano sbalzati in Sicilia, come dicemmo, da mille pretoriani, scritto pria loro in fronte a caratteri indelebili “Armeno ribelle.”[360]È notevole che narrando questi casi il cronista Teofane ricordi la Sicilia come l'estrema provincia, o diremmo noi, la Siberia dell'Impero. E a tale in vero era condotta; se non che il sole, la fertilità del terreno e la postura in mezzo il Mediterraneo, non si poteano confiscare dai despoti. Sopravvivea con ciò tra quella gente greca e latina dell'isola alcuno effetto di civiltà: avanzi di industrie e commerci, com'abbiam detto; studii ecclesiastici, di che anche s'è fatta menzione; pittura, che vedremo esercitata da soli chierici verso la fine del nono secolo; architettura;[361]e infine le materiali delicatezze della vita, che non mancano nei tempi di decadenza. Ma gli studii, ristretti al clero regolare e secolare, non servian che di ausiliarii alla superstizione; la morale insegnata dal clero, traviante lungi assai dai semplici dettami del Vangelo e intento ai proprii interessi eghiribizzi teologici, turbava le coscienze senza correggere i costumi nè pubblici nè privati; il sentimento della dignità umana, che solo può mantenere i buoni costumi, era soffocato necessariamente in un popolo il cui intelletto gemea tra i ceppi dei frati e dello imperatore, e il corpo sotto la sferza dell'imperatore e dei soldati. In una parola, la Sicilia era divenuta dentro e fuori bizantina; ammorbata dalla tisi d'un impero in decadenza; sì che, contemplando le misere condizioni sue, non può rincrescerci il conquisto musulmano che la scosse e rinnovò.

Ho differito fin qui a toccare le condizioni interne della Sicilia bizantina, perchè procedettero in parte dalle raccontate vicende dei due continenti tra i quali l'isola è posta. Cominciando la investigazione, dirò, innanzi ogni altra cosa, della schiatta ch'è elemento sì potente nei destini dei popoli. Fermata in Sicilia la dominazione romana, il grosso della popolazione eran Sicoli e Greci; non rimanendo più degli altri che la memoria, e forse un po' di gente punica nelle parti di ponente; la quale par che non tardasse a dileguarsi. Il conquisto portò novelli abitatori italiani, tra colonie e gente spicciolata che venía per faccende e officii; ma poche e sottili le colonie; gli altri spesso se ne tornavano; e parmi che il più potente effetto della signoria romana su la popolazione dell'isola sia stato di ritirare ai costumi e linguaggio dell'Italia i Sicoli, che, sforzati dall'incivilimento greco, stavano perdendo financo l'uso del proprio dialetto, e diremmo anzi che l'avessero abbandonato al tutto, se dovessimo stare alla lettera d'un passo di Diodoro.[284]Le torme poi di schiavi, ragunate da tanteregioni e sparse nelle campagne della Sicilia, se non si consumavano senza prole, al certo il sangue loro, sterile per miseria e diverso, non creò schiatta nuova da poter contare. Gli Ebrei stanziati nelle città principali, segnalavansi meno per lo numero loro, che per lo avere e per l'odio reciproco con le altre schiatte.[285]I popoli settentrionali, come dicemmo, furon turbine passaggiero. Da Giustiniano ai Musulmani il decrepito Impero non potea mandar colonie; se non che ripararono in Sicilia i rifuggiti d'Italia e d'Affrica dei quali abbiam detto nei capitoli precedenti; e inoltre egli è probabile che a stilla a stilla s'accogliesse nell'isola qualche rimasuglio degli ospiti che vi mandava il governo bizantino: officiali pubblici, soldati delle provincie d'Europa o dell'Asia Minore,[286]e relegati per cagion di Stato.[287]Tra gli altri v'ebbe un corpo di mille uomini, avanzo delle soldatesche armene sollevatesi a Costantinopoli il settecento novantadue, che furono mandati nelle isole, sopratutto in Sicilia,[288]ove par che abbiano fatto stanza, poichè troviamo nelle guerre de' Musulmani[289]la espugnazione d'un castello degli Armeni (a. 861). Dal detto fin qui si vede che per lo spazio di mille anni non capitarono in Sicilia tante popolazioni avventizie, che potessero mutare leschiatte esistenti. S'accorda in ciò con le tradizioni storiche il ragguaglio statistico di Costantino Porfirogenito, il quale trattando dei proprii suoi tempi (911-959) o piuttosto di quelli anteriori al conquisto musulmano, scrive essere gli isolani parte Liguri d'Italia, chiamati altrimenti Sicoli, e parte Greci, ossiano Sicelioti.[290]Con denominazione più esatta si direbbero le due schiatte, italica ed ellenica, ciascuna delle quali abbracciava le genti affini a lei, sopravvenute nei due periodi delle dominazioni romana e bizantina.

Qual delle due genti prevalesse di numero non si ritrae; e forse erano e si mantennero più uguali che non si è pensato. Aiutandoci con le induzioni, poichè mancano le testimonianze dirette, troviamo, egli è vero, dal principio dell'era volgare infino al sesto secolo, moltissime iscrizioni latine pubbliche o private anco nelle principali città greche dell'isola, e latini negli ultimi tempi i titoli dei magistrati municipali; ma tra ricordi letterarii, epigrafia e nomi proprii si vede la lingua greca non aver ceduto il campo in alcun luogo.[291]Un papiro del quinto secolo che dà i nomi degli affittuali di certi poderi, ne contiene più greci che latini:[292]e alla fine del sesto secolo, San Gregorioci parla degli abitatori greci e latini.[293]Gli annali ecclesiastici poi dell'isola, dal sei all'ottocento, ci mostrano la medesima promiscuità delle due genti: dove monasteri basiliani e dove di regole latine; esaltati alcuni Siciliani alla sede pontificale di Roma, altri a quella d'Antiochia;[294]un dei papi siciliani, Leone II (682-683), lodato per lo eloquente parlare in greco e in latino;[295]e alla fine del sesto secolo la opinione pubblica in Sicilia pendere incerta tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli.[296]Finalmente, sendo stata alla metà dell'ottavo secolo assoggettata l'isola al patriarca costantinopolitano, scomparisce il latino, e torna su il greco negli scritti dei frati siciliani e negli scarsi monumenti d'epigrafia che ci avanzano di quel tempo. Così fatta vicenda non può condurre al supposto che la schiatta e la lingua greca in Sicilia, dopo esser calate durante la dominazione romana e le barbariche, d'un subito risalissero e occupassero tutta l'isola per virtù della dominazione bizantina. È da conchiudere più tosto che i due popoli si pareggiassero con poco divario per tutto il corso degli otto primi secoli dell'era cristiana; che ambo le lingue fossero state più o meno in uso, come ai tempi di Diodoro,[297]se pur il popolo non cominciava a parlarne già una diversa daentrambe e più vicina all'italiana; e che la influenza del governo e della Chiesa facessero prevalere negli scritti il latino prima e il greco dopo di Giustiniano.[298]

Nè tra le due schiatte si vide mai differenza di condizione legale: chè nobili e plebei vi furono in entrambe, secondo l'antica riputazione delle famiglie e le vicende della ricchezza e lo splendore delle pubbliche dignità. Della condizione di nobili e plebei non dirò altrimenti, perchè reggendosi l'isola ormai a legge romana si torna a notissime generalità: nè occorre ripetere come da Costantino in poi fosse sostituita all'aristocrazia di nascita la gerarchia dei servidori di corte e officiali dello Stato, innalzati a piacimento del despota; e come fossero al tutto ragguagliati i dritti delle persone, sì che tra gli uomini liberi non rimase che una sola distinzione di poco momento. Dico della curia, nella quale non godeasi altro privilegio che la immunità da certe pene nei casi criminali; e il governo vi ascrivea involontarii i figliuoli di militari quando non fossero validi a portare ancor essi le armi, i proprietarii di venticinque iugeri o più di terreno, e gli affittuali in grande dei poderi del patrimonio imperiale.[299]Donde è manifesto che la curia non va chiamata aristocrazia,ma veramente popolani grassi o borghesi.

Dalle città volgendoci alle campagne, veggiamo altresì oscillare le classi della società antica, e posare alfine in una condizione di mezzo tra la libertà e la schiavitù. A ben comprendere i ricordi che abbiamo di tal mutamento, in Sicilia, è mestieri studiarlo prima per generalità. Venne da due motivi d'indole diversa; la coscienza, cioè, e l'interesse: i quali allor s'aiutarono scambievolmente, sì come par che avvenga ad ogni novello passo della civiltà. I principii umanitarii di filosofia pagana, attestati dalle opere di Seneca, Plinio e Plutarco, e messi in pratica negli editti d'Adriano e degli Antonini, cominciavano a temperare i mali della schiavitù, quando sottentrato il Cristianesimo, che si allargava e metteva radici, incalzò la santa opera.[300]Intanto la esperienza mostrava che la infeconda genía degli schiavi scemasse sempre più; e, aggiunta a questo la inefficacia del lavoro comandato coi supplizii, i campi con doppia celerità deterioravano. Ma se la pace dell'Impero togliea di rifornire gli schiavi con altre torme di vinti, la decadenza universale apparecchiava in luogo di quelli torme di poveri, fossero i proprietarii minori spogliati dal fisco imperiale, o le popolazioni industriali, libere e non libere, che fuggivano per miseria dalle città. Cercando ricetto e pane nei poderi dei ricchi, l'otteneano a prezzo di rimanervi da coloni; e par che i proprietarii del suolo, vedendo la utilità che ne ritraeano, s'invogliassero ad emancipare e porre nella medesima condizione gliantichi schiavi.[301]Cotesto mutamento di sorti par che siasi accelerato dal secondo o terzo secolo in poi; perocchè ai tempi di Costantino il Grande si parla dei coloni come di notissima e frequente qualità d'uomini, e si provvede tuttavia con crudeltà a tenere obbedienti gli schiavi, ma nelle leggi dei tempi seguenti a mano a mano il nome degli schiavi divien più raro, e spesseggia ai contrario quel dei coloni.[302]Io non dirò altrimenti della condizione degli schiavi, ch'è notissima; e ognun sa come andasse in meglio da Costantino a Giustiniano. Quella de' coloni era che rimaneano attaccati al suolo essi e i loro figliuoli e i nepoti perpetuamente, e pagavano un tributo annuale per la terra assegnata; che poteano acquistare beni mobili e stabili con la propria industria, ma non alienarli senza permesso del padrone; che, fuggendo dal podere, la legge dava al padrone di ridurli in schiavitù, e concedea di ripigliarli in termine di trent'anni per gli uomini, e di venti per le donne; e che tal prescrizione, assai più lunga diquella fissata per gli schiavi, non si interrompea nè anco per morte, poichè, mancato il colono, correva a pregiudizio de' figliuoli.[303]Tal condizione dunque non differì dalla servitù della gleba dei tempi feudali, se non che per la origine: la romana sempre da contratto, se tal può chiamarsi un patto sì disuguale ed empio; la feudale talvolta da contratto, e talvolta dalla supposta ragion di guerra, che avea generato la schiavitù personale nel mondo antico, e nel mondo moderno si adopera a giustificare la servitù delle nazioni.

Or la popolazione rurale della Sicilia durò a un di presso le medesime vicende che abbiamo notato nel rimanente dell'Impero. Tolta una picciola mano di affittuali, chiamati conduttori,[304]i quali nè anco è da supporre liberi in tutti i casi, coltivavano le campagne i coloni[305]e gli schiavi,[306]che sembrano talvolta confusi nell'uso volgare del linguaggio, come di fatto lo erano nella abiezione e nella miseria. Il Cristianesimo, o almeno i Cristiani di quel tempo e di molti secoli appresso, non abborrirono la servitùmen cruenta della gleba; il clero la mantenne più tenacemente che i laici stessi nelle sue proprietà; e un pontefice santo e grande, Gregorio I, lodato tanto per la carità verso gli altrui schiavi nella terraferma d'Italia, ribadì le catene dei coloni dei poderi papali in Sicilia. Smesse, egli è vero, le taglie su i loro matrimonii; smesse i furti che l'azienda pontificia solea fare, frodando que' miseri nel prezzo e nella misura dei grani, obbligandoli a supplire le derrate, che, mandate a Roma, si perdessero per fortuna di mare, e richiedendo il censo pria che si vendessero le raccolte.[307]A tuttociò rimediava San Gregorio: ed era insieme giustizia e prudenza di buon massaio. Ma quando la coscienza gli richiedeva un atto magnanimo, entrò di mezzo la cupidigia che già sedea presso al trono pontificale, e con lei l'altra tentatrice a profanazione, che fu l'ambizione politica. Il sommo vescovo si ricordò soltanto ch'era proprietario; pensò falsamente che la libertà dei coloni di Sicilia potesse scemare le entrate e indi attraversare i disegni suoi a Roma: e vinta dal comodo presente la logica morale, San Gregorio, non solo non disdisse la servitù della gleba, ma vietò ai suoi coloni di maritare i figliuoli con gente d'altri poderi.[308]Non debbo tacere infine che San Gregorio discordò talvolta da' nobilissimi suoi principii in fatto della schiavitù propriamente detta. Nell'atto di emancipazione dei due schiavi romani Montano e Tommaso,dato del cinquecento novantasei, seppe ei ben dire: “Che se il Redentore s'incarnò per spezzare i ceppi dell'umanità, ottima cosa era di manomettere e rendere all'antica franchigia gli uomini, creati liberi dalla natura e sottomessi dal dritto delle genti al giogo della servitù.”[309]Seppe egli ancora, con nobile dispregio della ragion fattizia delle leggi, comandar che si manomettessero gli schiavi de' Giudei.[310]Ma non emancipò nè punto nè poco gli schiavi del patrimonio in Sicilia; e, quel ch'è peggio, talvolta ne donò altrui;[311]fece perseguitare e minacciare di gastighi severissimi que' che fuggivano o si nascondeano in altri poderi;[312]ed è manifesto ch'ei lasciasse non uno nè pochi schiavi, ma torme intere, e che diciannove successori suoi nel pontificato li mantenessero sotto l'abominevole giogo, poichè ottanta e più anni dopo la morte di San Gregorio gli schiavi erano gran parte della ricchezza della Santa Sede. E veramente sappiamo che Giustiniano Secondo, per far cosa grata a papa Conone, gli rimetteva (686) “la famiglia” del patrimonio di Sicilia e di Calabria, ch'era tenuta in pegno per debiti verso il fisco;[313]la qual famiglia non può significare altro che schiavi, poichè si staggiva come gli armenti, e poichè lalegge fiscale permettea di prendere gli schiavi[314]ai debitori, e non pretendea nulla da' lor coloni.[315]

Il tardo rivolgimento sociale che in dieci secoli avea fatto men disuguali le condizioni delle persone, mutò anche un poco la proporzione delle possessioni territoriali. Due movimenti contrarii operavano in ciò. Tendea l'uno ad agglomerare: e nascea dal decadimento generale; dalla menomata popolazione; dalla rovina dei proprietarii minori, che non potean durare le gravezze e molestie del fisco; dalla iniqua industria dei ricchi che si pigliavano i rottami di cotesti naufragi, dopo averli affrettato con le usure; dai lasciti alle chiese, che si moltiplicarono in Sicilia ai tempi di San Gregorio; e infine dall'avaro dispotismo, il quale aumentava a dismisura il patrimonio imperiale con le confiscazioni. All'incontro portavano a spicciolare le proprietà, la legge romana su le successioni, e l'utile pratica di dare in proprietà ai coloni le terre che coltivassero, e mutare il tributo personale in canone su la proprietà.[316]L'azienda imperiale avea tentato lo stesso espediente con circostanze alquanto diverse infin dal quarto secolo, quando una parte del patrimonio di Sicilia e di Sardegna fu conceduta in enfiteusi a picciole porzioni insieme con gli schiavi,[317]e poco appresso si accordò ai domini utili di quei poderi la franchigia dalle tasse straordinarie,come la godeano i beni tutti del patrimonio.[318]Qual dei due movimenti prevalesse, sarebbe difficile a provare. Nondimeno nei soli ricordi che abbiamo, che sono dei tempi di San Gregorio, veggiam lasciati a chiese o monasteri di Sicilia i beni di piccioli proprietarii; e par assurdo a supporre che non ve ne fossero molti altri nell'isola.[319]

Più oscure e scarse notizie possiamo spigolare intorno l'industria del paese. Il sol fatto che mi sembri certo è che i latifondi non addetti a pascolo si coltivassero a picciole porzioni, e che perciò la cultura in grande fosse finita con la dominazione romana che l'avea recato nell'isola.[320]Principal prodotto del suolo fu sempre il grano.[321]In secondo par che venisse la cultura della vite.[322]Quella dell'ulivo, che ai tempi greci avea arricchito gli Agrigentini, sembra abbandonata, e tornato di fatto agli abitatori dell'Affrica propria il privilegio di fornir l'olio d'ulivo all'Italia e ad altre nazioni occidentali. Perocchè si ritrae che, quando gli Affricani pagaron leprime taglie ai vincitori musulmani, il capitano Abd-Allah-ibn-Sa'd, vedendosi recare un mucchio di monete d'oro, domandava a un cittadino come le guadagnassero, e quegli, postosi a cercare intorno, e trovata un'uliva: “Ecco donde le caviamo,” disse ad Abd-Allah; “i Romani non hanno ulivi, e comperano l'olio nostro con quest'oro.”[323]La denominazione di Romani, che qui significa abitatori d'Italia, è da estendersi nel presente caso anco alla Sicilia; sapendosi che vi si importava olio d'Affrica nel nono secolo, nell'undecimo, e fino al duodecimo.[324]Certo egli è poi che la Sicilia nei principii del nono secolo avea frequenti commerci con lo stato degli Aghlabiti, e che parecchi mercatanti musulmani stanziavano nell'isola.[325]

Se questi particolari provano che non fosse spenta al tutto la industria in Sicilia, non mancò al certo per lo governo bizantino. Quell'ingordigia fiscale che spogliò l'Impero prima che il facessero i Barbari, non risparmiò le tre isole italiane poste sotto un solo amministratore, che si chiamò il razionale delle Tre Provincie. Noi le veggiamo sottomesse al sistema generale d'azienda: il tributo diretto su le proprietà e su le persone; le gabelle su le merci e su le industrie; le aggiunte straordinarie alla prima gravezza, o, comechiamavanle, le superindizioni; le leve di soldati che si compensavano in danaro; le leve de' marinaj; infine le estorsioni degli officiali onde si raddoppiava il peso: delle quali maladizioni tutte abbiamo più o meno qualche vestigio nelle memorie della Sicilia.[326]I Goti nel breve dominio loro fecero un novello censimento delle proprietà; rimessero debiti e tasse straordinarie.[327]Tornaron tutti i mali con la signoria bizantina; sì che alla fine del sesto secolo il fisco in Corsica obbligava i debitori a vendere i proprii figliuoli; in Sardegna il giudice avea posto una taglia sul battesimo; e in Sicilia un officiale subalterno staggiva ad arbitrio le possessioni: e ci vorrebbe un volume, scrivea San Gregorio, a divisar tutte le iniquità che ho risaputo di costui.[328]Non pochi imperatori a volta a volta esacerbaron cotesti mali, come abbiam detto di Costanzo e di Leone Isaurico, che aumentò d'un terzo la tassa diretta in Sicilia e in Calabria (a. 733) per punire que' popoli della propensione al culto delle imagini, e della gioia che provavano a veder fallire gli sforzi suoi contro l'Italia di mezzo.[329]

Risalendo dal popolo al governo, e lasciati da canto gli altri ordini subalterni, che poco montano[330]e non differivano da quei delle altre provincie, dirò solo dei corpi municipali, elemento di governo proprio del paese, conservato come inoffensivo e comodostrumento d'amministrazione, e sopravvissuto alla dominazione che sì lo spregiava. Le municipalità della Sicilia, avanzo delle repubbliche greche, nei primi tempi che seguirono il conquisto romano, ebbero condizioni disuguali secondo la importanza delle città e i rapporti che avean tenuto con Roma nelle precedenti guerre. Indi ne veggiamo tre maniere: confederate, immuni e vettigali; alle quali poi se ne aggiunse una quarta, che eran le colonie romane: e la differenza principale stava nella gravezza e nome dei tributi che fornivano a Roma. Viveano del resto un po' più o un po' meno largamente, secondo le proprie leggi, e sotto i proprii magistrati, che ritennero le antiche appellazioni, dove greche, di Proagori, Gerapoli, Anfipoli; dove latine, di Quinqueprimi, Decemprimi, e anche di Senati per antica o novella influenza di quel linguaggio. E dissi proprii magistrati, perchè li eleggeano i cittadini, que', s'intenda, delle famiglie privilegiate per ricchezza e antico soggiorno; il qual dritto di suffragio spesso diè luogo a contese e indi a provvedimenti del governo romano che modificava a poco a poco gli antichi statuti e li tirava a uniformità.[331]La decadenza poi delle cittadi e l'accentramento della potestà politica, par che ragguagliassero al tutto la condizione dei municipii siciliani, e certamente mutilarono l'autorità loro. Dopo Costantino, questa era già ristretta a una giurisdizione civile, forse non dissimile da quella de' conciliatori ogiudici di pace dei tempi nostri,[332]alle cure edilizie, e all'ingrato officio di scompartire tra i cittadini il peso delle tasse dirette, delle quali l'erario richiedeva, o per servirci della voce tecnica d'allora,indiceala somma ai municipii, e questi la suddivideano in quote personali secondo i catasti e con l'arbitrio che necessariamente v'entrò, sendo la contribuzione diretta non solo fondiaria ma anco testatica. La gravità del quale officio portò ad affidarlo non ai magistrati municipali propriamente detti, ma alla curia, come chiamossi, ch'era senza dubbio il corpo degli elettori alle cariche municipali:[333]infelici privilegiati, disposti forse ad abusare il dritto loro a danno delle classi povere, ma condannati a pagar caro l'abuso. Perocchè, dovendo sopperire del proprio le quote che non si potessero riscuotere, furono oppressi da così fatto peso, tra la insaziabile avarizia del governo e la universale decadenza che facea abbandonare le terre. Indi, come ognun sa, i decurioni fuggivano il tristo onore; si facean soldati, preti, romiti; e il governo, mettendo tra parentesi quell'ardente e intollerante suo zelo religioso, li facea strappare dall'altare e dal chiostro, e ricondurre per forza a lor sedie curuli.[334]Così lanecessità del fisco portò a mantenere l'ordine fondamentale delle municipalità. Rinforzolle un altro provvedimento, nato sotto l'infausto regno di Valentino dai soprusi della burocrazia. Dico della istituzione dei difensori eletti dalla plebe: ombra di tribunato, o a dire propriamente, avvocati del popolo, che avean dritto a essere intesi dai giudici, dai governatori e dal principe; il quale officio poi si accordò anche all'ordine ecclesiastico; e, occupato infine dai vescovi, accrebbe non poco la loro potenza civile in Occidente. Molti documenti provano che così fatto sistema municipale fosse pienamente osservato in Sicilia, e ci mostrano in varie città i titoli di possessori e curiali, di padri e primi e decemprimi, e di difensori; cioè gli elettori, gli antichi magistrati municipali e il nuovo officio: ai quali collettivamente son indirizzati rescritti dei principi per negozii di giurisdizione municipale. Inoltre un rescritto imperiale, dato alla fine del quarto secolo, attesta che le città di Sicilia, siccome quelle d'altre provincie, ritenessero i beni lor proprii. E come in appresso non v'ha legge che abbia innovato quegli ordini, e li veggiamo andare innanzi bene o male per ogni luogo, non è dubbio che le instituzioni municipali durassero nell'isola fino al conquisto dei Musulmani.[335]

Dai corpi intermedii rivolgendoci al principato, non possiam fare che un cenno del sistema generale dell'Impero. Questo, come ognun sa, riteneva i vizii non la forza dell'antico reggimento dei Cesari, spogliato d'ogni avanzo di libertà e contigiato all'asiatica; assicurato dalla compiuta separazione dell'ordine militare dal civile; dalla vastità di quest'ultimo; e infine dall'accordo che Costantino iniziò, e compierono i successori, accordo col clero cristiano che prestò all'Impero il pastorale, e n'ebbe in cambio l'aiuto della borsa e della spada. Il qual congegno di corruzioni, ch'è servito poi di modello a tutti i despoti dell'Europa da Teodorico infino ai giorni nostri, non bastando a resistere all'impeto dei liberi popoli settentrionali, nè poi degli Arabi, e sendo ormai l'Impero scorciato e aperto d'ogni dove agli assalti, convenne riformare alla meglio le divisioni territoriali, e rinforzare l'autorità dei governatori. Smesse perciò le suddivisioni amministrative in prefetture, diocesi e provincie, che furon già convenienti al mondo romano, il principato bizantino, verso l'ottavo secolo, modestamente si scompartì in ventinovetemi, come li disserocon voce nuova: divisione militare che si confuse con la civile, affidandosi entrambi i poteri a unica mano. La Sicilia, la quale ai tempi di Costantino si noverava tra le diciassette provincie d'una delle tre diocesi soggette al Prefetto del Pretorio, diè nome adesso a un tema, in cui andaron comprese anco la Calabria, la città di Napoli e costiera.[336]Il governatore dell'isola, che dopo Costantino avea avuto titolo di Correttore e talvolta di Consolare, poi sotto i Goti di Conte di Siracusa, ripigliò ai tempi di Giustiniano l'antica denominazione di Pretore, e infine fu detto Stratego,novello nome militare, e chiamossi patrizio, quando ei d'altronde avea tal dignità.[337]

Il fatto statistico che sovrasta a ogni altro, e che spiega dassè solo tutta la povera storia della Sicilia bizantina, è la qualità delle forze militari raccolte nell'isola. Nella decadenza di quel tempo gli eserciti ogni dì più che l'altro diveniano bande di mercenarii. L'Impero, come aggregato fattizio di varie genti tenute insieme dall'abitudine, dalla religione e dalla forza, non potea spirare ormai ai soldati l'amore d'unapatria, sepolta tanti secoli innanzi. A ciò s'aggiunga che la popolazione della Grecia, cuor dell'Impero, la progenie di que' forti che avean vinto il mondo sotto Alessandro, ora, infeminita nelle industrie e nella superstizione, rifuggiva dalle armi; lasciavale prendere ai Barbari o agli abitatori delle frontiere, ed ella si riscattava con danari dal servigio militare. Il disordine dell'azienda allentava ancora i legami che debbono stringere il soldato al paese; perocchè le entrate pubbliche, menomate insieme col territorio e con la prosperità dei popoli, dilapidate dai ministri, consumate per soddisfare all'orgoglio e spesare i misfatti del principe, non più bastando al mantenimento degli eserciti, vi si trovò un comodo e pericoloso rimedio. Già fin dal quarto secolo veggiamo che i terreni soliti a distribuirsi ai veterani si dessero col carico di far militare i figliuoli.[338]Poscia, aumentandosi le strettezze dello erario e la mollezza dei popoli, e scemando il pregio della proprietà fondiaria, s'ebbe ricorso più sovente a cotesti beneficii militari, e ne fu alterata l'indole. In vece di proprietà ai veterani, accordossi l'usufrutto ai soldati in attuale servigio, e s'affidò l'amministrazione ai capitani loro. Le terre al certo si toglieano dal patrimonio imperiale, impinguato a furia di confiscazioni; e talvolta, senza aspettare la incorporazione, si dava ai soldati il godimento dei beni mobili o stabili staggiti ai debitori del fisco. Così avvenne che pagandosi malvolentieri dal papa le tasse su i patrimonii di Calabria e di Sicilia, gli fu presaanco la famiglia di que' poderi, e data in pegno ai soldati, dice il cronista,[339]cioè conceduto loro l'usufrutto degli schiavi, che poi il crudele Giustiniano Secondo rilasciò gratuitamente al papa (686-7).

Il numero dei beneficii militari tanto andò crescendo, che nei principii del decimo secolo la più parte dell'esercito era mantenuta in tal guisa. I capitani intanto s'erano dati ad alienar le terre; a frodare lo Stato, facendo comparir nelle file paltonieri condotti a poco prezzo, in vece d'uomini usi alle armi: donde qual maraviglia, sclamava l'imperatore Costantino Porfirogenito vietando ansiosamente così fatte magagne, qual maraviglia se la repubblica così tosto è ita a precipizio?[340]Ma la viltà dei soldati non sembra il solo inconveniente del beneficio bizantino: forma di amministrazione militare scompagnata da un ordinamento sociale che le desse alcuna virtù, come avvenne nei feudi germanici e nei giund arabici. Il beneficio bizantino mutava i guerrieri dell'Impero in famigliari temporanei dei capitani; cioè peggio che vassalli feudali o socii di tribù; non contrappeso al dispotismo, ma pessimo strumento da fare e disfare despoti; non milizie capaci di abituarsi ad alcuna carità verso le provincie ove stanziavano, ma stranieri sempre rinnovati e disposti ad opprimerle con fresca ingordigia. In fine, la debolezza di tal genía di mercenarii costrinse gli imperatori a condurre con grossistipendii schiere di veri soldati di ventura, che almeno sapessero menar le mani.

Sola eccezione tra la corrotta milizia fu il navilio, come affidato a quella classe della popolazione greca e italica, cui l'aspra vita del mare non avea lasciato agio a guastarsi. Mercè cotesta buona schiatta il navilio bizantino mantenne infino al duodecimo secolo la disciplina; avvantaggiossi sopra le altre genti per la pratica del navigare e il maneggio degli ordegni di guerra; rinnovò spesso gli esempii dell'antica virtù, e ne lasciò eredi le repubbliche italiane del Tirreno e dell'Adriatico, e la monarchia di Sicilia. Componendosi l'armata bizantina di due parti, imperiale, cioè, e provinciale, la virtù di quest'ultima fu rinforzata dalla carità del municipio, ch'era ormai la sola patria. Indi ebbero tanto valore fin dall'ottavo secolo il navilio di Venezia e quel di Napoli, città quasi independenti; e par che anco si segnalasse nelle fazioni di cui abbiamo ricordo il navilio siciliano, ancorchè spesso confuso dai cronisti con quello dell'Impero.[341]

Or divenuta la Sicilia, infin dal settimo secolo, come baluardo occidentale dell'Impero e fortezza avanzata oltre la frontiera in mezzo a due potenti nemici, i principi bizantini necessariamente vi posero grosso presidio della milizia che abbiamo descritto, e necessariamente dettero larga autorità militare, civile e anco politica al capitano supremo del presidio, o vogliamchiamarlo stratego dell'isola. E perchè coteste armi straniere soverchiavano la sola forza propria del paese, ch'era il navilio provinciale, il popol siciliano non partecipò alle vicende che succedeano nella sua terra, altrimenti che come spettatore o vittima: fece plauso, maledisse, pianse, e non si mosse. Indi veggiamo dopo la raccontata sollevazione militare del seicentosessantotto, l'esercito di Sicilia provarsi tre fiate nel corso di un secolo a dare un despota all'Impero. La prima quando, stretta Costantinopoli dalle armi del califo, Sergio stratego di Sicilia fe' gridare imperatore un Tiberio, che presto fu spento per la virtù e fortuna di Leone Isaurico; il quale mandava a Siracusa Paolo suo fidato ministro: e questi svolgea gli officiali dell'esercito e l'armata di Sicilia; costringea Sergio a rifuggirsi appo i Longobardi; troncava il capo a Tiberio; ad altri il naso, per ignominia, o mozzava i capelli; altri vergheggiava o bandía; perdonava ai rimagnenti; e così ponea fine (718) al pericoloso moto.[342]Meno agevole a reprimere il secondo, che scoppiò mentre la corte era agitata dall'ambizione della ortodossa e snaturata Irene. Elpidio, uom d'alto affare, mandato al governo di Sicilia (781), per allontanarlo dalla reggia, e colpito indi a poco d'una accusa di maestà, cioè di resistere alla usurpazione d'Irene, cercò salvezza nella aperta ribellione. Aiutandolo il malcontento dei Siciliani e del presidio, prese titolo e insegne d'imperatore, e combattè le forze che veniano di Costantinopoli ad opprimerlo: se non che, vinto in parecchi scontri, si fuggì col tesoro pubblicoin Affrica (782); ov'ebbe onori da principe,[343]e le croniche musulmane cel mostrano dodici anni appresso guerreggiante in Asia Minore contro i Greci, sotto i vessilli del califo.[344]La terza rivolta militare portò in Sicilia la dominazione musulmana per opera di un altro condottiero che seguì lo esempio d'Elpidio.

La prepotente massa della soldatesca fu cagione altresì che il movimento scoppiato contro gli imperatori iconoclasti nell'Italia di mezzo non si comunicasse alla Sicilia; ancorchè i popoli quivi non meno tenacemente aderissero alle dottrine di Roma, e al culto delle immagini. Anzi nei principii dell'ottavo secolo, prima che s'intendesse parlare degli Iconoclasti, s'era suscitato in Sicilia un nuovo bollore di zelo religioso, che movea dai monasteri comunicanti col clero dell'Italia centrale, e che scoppiò in Catania per provocazioni locali; forse invidia contro gli Ebrei, quivi ricchi e potenti.[345]Levò grido in quest'incontro (725) il vescovo della città, San Leone da Ravenna, detto il Taumaturgo pei molti miracoli che gli si apposero; e tra gli altri d'avere arso vivo un miscredente, tenendol fitto sul rogo con le proprie braccia, senza pur abbronzarsi le vestimenta. Dell'auto-da-fè, sventuratamente, non può dubitarsi; poichèSan Giuseppe Innografo, che visse nel corso di quel secolo, ne lodava a suo modo il Taumaturgo. Oltre la tradizione dell'Innografo, se ne serbò un'altra, che con l'andare dei tempi s'accrebbe di novelle puerili, ma pur vi si scoprono le radici del mito; cioè un'ultima distruzione di monumenti dell'antichità pagana, e la persecuzione di qualche valentuomo che si allontanasse dalle superstizioni comuni: Eliodoro, come si chiamò quella vittima, nobile uomo, candidato una volta alla sede vescovile, poi molesto nemico di San Leone, e fattosi per ambizione discepolo degli Ebrei, negromante e fabbro di idoli.[346]Dopo il conquisto normanno, i frati di Catania lavoraron tanto su quelle fole, che si trovò infine una fattura del mago, un elefante di lava, ch'oggi adorna la piazza della cattedrale: e il popolo puntualmente lo chiama col nome un po' guasto di Diotro.[347]L'elefante d'Eliodoro fin dai principiidel decimottavo secolo regge su la schiena un monumento più prezioso, dissepolto dalle rovine de' tremuoti, un picciol obelisco di granito, ottagono, inciso a caratteri geroglifici, recato al certo d'Egitto sotto la dominazione romana; il quale, con emblemi tanto sospetti, non so come campasse dalle mani di San Leone.

Or noi mal possiamo raffigurar nella mente quale tempesta abbia dovuto suscitare in Sicilia, in quella stagione di roghi e di miracoli, lo editto di Leone Isaurico contro le immagini (726). I Siciliani non dissimularono. Affrontaron dapprima la collera di Leone; la quale si sfogò, com'abbiam detto (733), con aggravare i tributi sopra di loro e sopra i Calabresi, che vivevano a un di presso nelle medesime condizioni. Affrontarono indi i supplizii di Costantino Copronimo; chè ci rimangono i nomi delle vittime più cospicue: un Antioco governatore di Sicilia, il quale si vede tra gli ortodossi indegnamente insultati e straziati (766) nell'ippodromo di Costantinopoli;[348]e San Giacomo vescovo di Catania, fatto morir di fame e di sete (772) in quella persecuzione.[349]Ai tempi di Michele il Balbo e di Teofilo, il sapiente Metodio da Siracusa fu lacerato a battiture; infrantegli le mascelle; sepolto per sette anni in un carcere sotterraneo condue masnadieri, un de' quali venuto a morte lasciarono putrefare accanto ai vivi il cadavere (821-836).[350]Giuseppe l'Innografo (820) andò relegato in Creta, e venti anni appresso, in fondo delle Paludi Meotidi.[351]Del rimanente non nacque alcun tumulto nell'isola; poichè il numero dei soldati e delle fortezze vi s'aumentò in questo tempo,[352]non tanto forse per la paura dei Musulmani, quanto degli ortodossi; e poichè i beni confiscati sopra costoro erano argomento da render più che mai leale e iconoclasta il presidio. Il popolo fremendo e sopportando, tirò innanzi più d'un secolo; finchè non piacque agli imperatori di ristorare le immagini: e l'impeto col quale e' festeggiò questo avvenimento,[353]mostra che non fosse rattiepidita in Sicilia l'opinione cattolica. Ma ben lo era ogni zelo per la chiesa di Roma. Si dissipò in silenzio senza lasciar vestigio, come prima gli imperatori[354]confiscarono il patrimonio papale in Sicilia (733), e condussero i vescovi dell'isola, senza far loro troppa forza, a spiccarsi dal primate ribelle, accettare la istituzione d'un arcivescovo, forse metropolitano, nell'isola, e ubbidire al patriarca di Costantinopoli.[355]I quali provvedimenti,presi per vendetta, furono mantenuti per necessità, quando si compose una prima (780) e una seconda volta (842) la lite delle immagini. E veramente il papa occupava in Italia tanti territorii tolti direttamente o indirettamente all'impero bizantino, che a cento doppii compensavano i poderi confiscatigli in Sicilia e in Calabria. Oltre a ciò, cotesti poderi, dati senza dubbio ai soldati, non si potean ritogliere sol che si volesse. Molto meno potea la corte di Costantinopoli rendere ai papi la giurisdizione disciplinare su la Sicilia, cioè una salda catena da tirare il paese alla dominazione dei Franchi. Però i papi invano dissero ch'era mestieri di quelle entrate per accendere i moccolini a San Pietro, e invano ridomandarono la giurisdizione, finchè il conquisto degli Arabi tolse luogo a ogni querela.[356]

Dal detto fin qui si vede che per due secoli non occorsero in Sicilia altre vicende che quelle d'una piazza di guerra, ove la popolazione fosse un nulla rispetto al presidio. Perciò anche la Sicilia servì di confino per casi di maestà; chè, oltre gli esempii d'un principe arabo relegatovi nel sesto secolo,[357]e d'una principessa longobarda tenutavi in ostaggio nel secol seguente,[358]sappiamo che Costantino Quinto imperatore, tramando di ripigliare lo Stato (790), avesse disegnato di farvi deportare Irene. E costei, alla suavolta, rassodatasi nella usurpazione, mandava nell'isola, il figliuolo no, che le parve più sicuro partito di accecarlo e tenerlo prigione nel palagio, ma i cortigiani più intinti nella pratica.[359]Non guari dopo (793). erano sbalzati in Sicilia, come dicemmo, da mille pretoriani, scritto pria loro in fronte a caratteri indelebili “Armeno ribelle.”[360]È notevole che narrando questi casi il cronista Teofane ricordi la Sicilia come l'estrema provincia, o diremmo noi, la Siberia dell'Impero. E a tale in vero era condotta; se non che il sole, la fertilità del terreno e la postura in mezzo il Mediterraneo, non si poteano confiscare dai despoti. Sopravvivea con ciò tra quella gente greca e latina dell'isola alcuno effetto di civiltà: avanzi di industrie e commerci, com'abbiam detto; studii ecclesiastici, di che anche s'è fatta menzione; pittura, che vedremo esercitata da soli chierici verso la fine del nono secolo; architettura;[361]e infine le materiali delicatezze della vita, che non mancano nei tempi di decadenza. Ma gli studii, ristretti al clero regolare e secolare, non servian che di ausiliarii alla superstizione; la morale insegnata dal clero, traviante lungi assai dai semplici dettami del Vangelo e intento ai proprii interessi eghiribizzi teologici, turbava le coscienze senza correggere i costumi nè pubblici nè privati; il sentimento della dignità umana, che solo può mantenere i buoni costumi, era soffocato necessariamente in un popolo il cui intelletto gemea tra i ceppi dei frati e dello imperatore, e il corpo sotto la sferza dell'imperatore e dei soldati. In una parola, la Sicilia era divenuta dentro e fuori bizantina; ammorbata dalla tisi d'un impero in decadenza; sì che, contemplando le misere condizioni sue, non può rincrescerci il conquisto musulmano che la scosse e rinnovò.


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