IV.EMILIO ZOLA.
Il nuovo romanzo d’Emilio Zola in men di due mesi è già alla sedicesima edizione.
NelVentre de Parisegli ci aveva messi in contatto col basso mondo della società parigina. Ortolani, fruttaiuoli, pescivendoli, pollaiuoli, pizzicagnoli, ispettori dei Mercati, quanti insomma lavorano da mattina a sera per colmare l’immenso, insaziabile ventre della grande città , e a sorvegliare e regolare l’approvigionamento dei viveri; tutti v’eran dipinti con una potenza di colorito tizianesco che non rendeva soltanto l’immagine delle persone e degli oggetti, ma dava perfino la sensazione degli odori. C’eravamo quasi sentiti soffocare dalle esalazionidegli ortaggi ammonticchiati, dal puzzo acre delle scaglie di pesce e dalle emanazioni particolari alle piume di pollo in fermento. Il lezzo dello strutto, il tanfo dei caci, il sito irritante dei salami, quel che di nauseabondo che fa subito impressione entrando in una bottega di pizzicagnolo per pulita che sia, si sprigionava dalle pagine del libro come dalla diretta realtà , e produceva l’effetto di farci sostar dalla lettura per annusarci le mani e per guardare se i vestiti non avessero preso una macchia d’unto.
V’erano delle pagine proprio esalanti un puzzo di verdura marcita; dell’altre ove il puzzo del cacio olandese, delroquefort, del parmigiano, dellochester, del burro di Bretagna e di Normandia si mescolava al rancido dei budini, dei salsicciotti, delle lingue di Strasburgo, dei zamponi, delle cervellate, delle teste di maiale in gelatina, e davano insieme alla testa.
I personaggi non istonavano su questo fondo di una verità così sorprendente. Bottegaie e bottegai grassi, rotondi, dalla pelle untuosa e lucente; pescivendole dall’ardito e pittoresco linguaggio che lanciano il motto sudicio colla stessa facilità con che si danno addosso co’ pugni; bassi impiegati; comari bracone e speculanti per miseria sul ribasso delle carote e delle interiora di pollo; ragazzi viventi come nomadi nell’immenso edificio dei Mercati; e quindi tutto il meschino viluppo di cupidigie, d’invidie, di maldicenze, di passioni quasi animalesche,suscitato e prodotto dal corrotto ambiente ove quei personaggi vivono e agiscono;... ecco il mondo che lo Zola ci aveva aperto col suoVentre de Paris.
Eppure eravamo in uno strato superiore di quel vastocaosumano che è la capitale della Francia. Nel caffè Labigre, per esempio, ove la sera radunavansi dietro un paravento una dozzina di persone, si beveva tuttavia ilmazagran, o il poncino, o la birra. Il Logre, pollaiolo, vi discuteva cogli altri spoliticanti il discorso del trono. La Rosa e la Clemenza erano bensì delle donnettine, ma leggevano i giornali; e la Clemenza dava perfino delle lezioni a una mantenuta che voleva imparar l’ortografia senza farsi scorgere dalla sua cameriera.
Nell’Assommoirscendiamo ancora più basso.
L’ardito romanziere ci dipinge il triste spettacolo della vita degli operai nei sobborghi parigini, e il suo polso è assai più fermo che non sia stato nel tratteggiare gli altri aspetti della società francese del secondo Impero. NelVentre de Parisl’artista si era abbandonato con vera voluttà a quelle descrizioni dello cose esteriori che dimostravano quasi una sfida, una scommessa, una gara della parola coll’evidenza del pennello. Come il suo pittore Claudio, lo Zola era rimasto estasiato innanzi al mare di legumi su cui il sole nascente gettava un’onda di grigio-dolce, una tinta chiara da acquarello. I cavoli, le lattughe, gli spinaci, i piselli, i carciofi, le cipollechantaientanche per lui tutto il gammabasso e sostenuto del verde: e il giallo delle carote e il bianco lordo delle radici rispondevano, da un’altra parte, il loro gamma acuto assieme al rosso-feccia e al carminio scuro dei cavoli, al rancio delle zucche e al rosso sanguigno dei pomidoro. Pari al suo pittore, a descrizione finita, il romanziere aveva dovuto batter le mani dalla contentezza ed esclamare alla sua volta:c’est crânement beau tout de même!
Lo stesso abbandono a cotestotour de forcedi artista aveva mostrato lo Zola nella suaFaute de l’Abbé Mouret. Nella descrizione dell’immenso parco delParadou, ove Sergio ed Albina tornavano a rappresentare le scene primitive del paradiso terrestre, egli s’era inebriato del suo soggetto fino a spingersi oltr’il segno. Pareva si tuffasse con una sensazione speciale in quell’oceano di foglie che stendevasi a perdita d’occhio facendo pompa al sole della suasacra verginità , della suainnocente solitudine. Le piante arrampicavansi pei muri, allacciavansi agli alberi, pendevano a festoni, inondavano le scalinate, le terrazze, si levavano su come zampilli, si accostavano a masse, a piramidi, si diradavano a guisa di ventagli, si fondevano unite come siepi di bronzo. E poi venivano i fiori, il gelsomino stellato, le clematidi, le cappuccine, le volubili, colle foglie a cuore che tintinnivano come dei sonaglini...; e poi nel frutteto i pomi dai rami contorti e dai tronchi colla corteccia ruvida e screpolata; i peri dai rami lisci, diritti come piccole antenne;i peschi rossastri che si slargavano in giro con aria pacifica...; e poi la foresta, coi suoi alberi silenziosi, immobili, coperti di licheni, coi suoi tronchi atterrati, sopraffatti dalle erbe e da un popolino di piccole foglie parassite; e così via via, fino a quel trionfale coro d’amore cantato dall’intiero parco quando l’Albina abbandonavasi nelle braccia di Sergio. «Le jardin entier s’abîma avec le couple, dans un dernier cri de passion... Et c’était une victoire pour les bêtes, les plantes, les choses qui avaient voulu l’entrée de ces deux enfants dans l’éternité de la vie. Le parc applaudissait formidablement!»
Quello che innanzi tutto sorprende nell’Assommoirè la completa assenza di cotesta velleità di fare del colorito quasi pel solo gusto di farlo. Il tocco è di una sobrietà incredibile, proprio scultoria, e dà una nettezza di rilievo e di contorni meravigliosa davvero. Entrati appena nell’ambienteappestatoove si annodano e si sciolgono i terribili drammi della vita operaia, che cominciano coll’amore illegale in una catapecchia e finiscono coldelirium tremensall’ospedale, ci sentiamo come legati da un fascino maligno che ci fa provare gli stessissimi effetti della lenta degradazione dei personaggi messi in azione dall’artista.
Lo Zola ha avuto ragione di dire ai suoi detrattori: «io non penso a difendermi, mi difenderà il mio libro, un libro di verità , il primo romanzo che dipinga il popolo senza mentire o che abbia l’odoredi popolo.» Egli ha studiato così profondamente il suo soggetto, si è talmente connaturato coi pensieri, colle passioni, col linguaggio dei suoi operai, ch’anche quando parla per conto proprio continua ad usarne la parlata vivace, espressiva, insolente, becera, diremmo noi, e fino alla sguaiataggine, e fino all’indecenza. Questo ha scandalezzato gli schifiltosi, gli amanti delpress’a pocotanto nella vita quanto nell’arte. Ma lo Zola gli ha lasciati urlare al sordo, convinto che in una opera d’arte la forma sia tutto, e che quella sia la forma più appropriata al suo soggetto; convinto che senza quella lingua piena di rigoglio, di novità , ricca d’imagini e di libera poesia, il quadro non avrebbe raggiunto nemmeno un terzo della sua efficacia; convinto finalmente che qualunque indecenza, qualunque nudità della vita non è più nè indecente nè nuda quando giunge a penetrare nella sublime atmosfera dell’arte.
Che tipi! Che scene!
La povera Gervasia è fuggita da Plassans pei cattivi trattamenti del padre. Il Lantier, un lavorante da cappellaio di diciott’anni, l’aveva resa madre quando ella n’aveva appena quattordici. Un altro figliolino era venuto quattr’anni dopo, senza che nè il vecchio Macquart nè la madre del Lantier pensassero a farli sposare. Poi la madre del Lantier era morta lasciando al figliuolo un’eredità di mille e settecento franchi, e questi pensò subito di andare a Parigi. La Gervasia che non poteva più vivere in casa perchè il vecchio Macquart le allungavatoujoursdes giffles sans crier gare, s’accompagnò al Lantier coi due bimbi. A Parigi presero una stanza all’albergo Montmartre. Vetture, scarrozzate, teatri, un orologio per lui, una veste di seta per lei: in due mesi i quattrini erano già bell’e andati.
Il Lantier e la Gervasia furono costretti a rincantucciarsi in una stanzuccia nell’albergoBoncoeur.
Fannullone, egoista, egli da qualche tempo in qua non rientrava in casa che per dar la via a quel po’ di stracci rimasti ancora.
La povera Gervasia l’aspettava delle intere nottate, alla finestra, tremante di freddo, in camicia, dormicchiando, piangendo, disperandosi, mentre i due bimbi dormivano tranquilli sullo stesso guanciale, l’uno col braccio passato sotto il collo dell’altro, il sorriso sulla bocca e respirando dolcemente.
Un giorno finalmente il Lantier non ritornò più. Aveva messo in tasca gli ultimi soldi ricavati al Monte di Pietà da uno scialle bucherellato e da un par di calzoni tutti rosi dal fango, ed era scappato con una brunitrice da parecchie settimane sua nuova amante.
Per la Gervasia fu un gran dolore, ma anche una liberazione. Si mise a lavorare presso la stiratrice lì accanto e guadagnava giusto quanto occorreva per non morir di fame coi due bimbi. Bastava. Oramai era rassegnata; non voleva pensare ad altro. Si riteneva già vecchia; non intendeva più fare delle sciocchezze. Aveva avuto una gran lezione, ella rispondeva al suo vicino Coupeau, un lavorante in zinco, che le insinuava la proposta di far vita insieme.
Il Coupeau era un buon giovane. Lavorava come un bue, non beveva, e poi le voleva proprio bene. Ma la Gervasia non sapeva decidersi; aveva paura d’incappar peggio, con tutte le belle promesse. Il giorno che il Coupeau le fece la proposta di sposarsi, ella gli parlò con una gravità ed una serietà proprio insolite: riflettesse, maturasse bene la cosa. Ma alle insistenze dell’operaio finì per dire di sì.
Passarono quattro anni tranquilli, laboriosi. Ella lavorava dodici ore al giorno presso la stiratrice; egli presso uno stabilimento del suo mestiere di stagnaio. Guadagnavano insieme quasi nove franchi al giorno; spendevano il puro necessario e accumulavano dei risparmi. Il Coupeau non si dava altro svago fuori di quello d’una fumatina alla finestra prima d’andare a letto; marito e moglie facevano una girata ogni domenica nei pressi diSaint Ouen; ed era tutto. Una bimba venuta dopo un anno cementava più solidamente la pace della famiglia e rischiarava d’un nuovo raggio la loro vita.
I risparmi continuavano ad accumularsi. La Gervasia che già aveva soddisfatto la sua ambizione di massaia comperando dei mobili di mogano nuovi e perfino un orologio a pendolo da mettere sul marmo del cassettone, ora non dormiva più pensando a una bottega di merciaiuola in via dellaGoute-d’Orche era sempre d’affittarsi. Avrebbe potuto stabilirvi un amore di bottega da stiratrice, con delle ragazze ai proprî ordini, con una larga clientela. I quattrini eran pronti; il libretto della Cassa di risparmio stavariposto sotto la campana di cristallo dell’orologio a pendolo. Il Coupeau, vedendo la smania ch’ella ne aveva, la spingeva a decidersi combattendo le finte esitanze di lei che, facendo e rifacendo i conti, pareva restasse ancora incerta. Il fatto era che, se il marito si fosse opposto,elle en serait tombée malade.
Ma il giorno in cui la Gervasia e il Coupeau dovevano andare a visitar insieme il locale della bottega, ecco una terribile disgrazia! Egli aveva terminato di saldare le ultime lastre di zinco sul tetto di una casa nuova a tre piani, e stava per adattare un capitello ad una canna da camino quando, nel voltarsi per ischerzare colla sua bimba che gli gridavapapà !dalla strada, scivolò, s’imbrogliò, ruzzolò e cadde giù dal tetto col sordo rumore d’un fagotto di panni! Gervasia diè un urlo, istupidita, piangendo a stento.
Ella non volle permettere che suo marito fosse portato all’ospedale. Lo curò in casa, e siccome la malattia fu lunga e la convalescenza più lunga ancora, i risparmi del libretto sparirono. Ma il peggio fu che il Coupeau, stato due mesi a letto bestemmiando e facendo arrabbiar tutti, risanato non trovò più un gran gusto al lavoro. Era diventato parolaio, filosofante. — Che mestiere! Passar la giornata, come un gatto, su pei tetti, sempre col pericolo di fiaccarsi l’osso del collo, mentre i borghesi se ne stanno in panciolle a scalducciarsi al fuoco! Bella giustizia! Han paura di bagnarsi? O che vadano asaldarsi le lastre di zinco da per loro! — La povera Gervasia lavorava per quattro, scusava il marito, e gli metteva qualche franco in tasca perchè si svagasse un pochino e si rinforzasse bene prima di riprendere il mestiere. Il Coupeau andava attorno a veder lavorare gli altri, entrava in qualche bettola, beveva un mezzo litro di vino, finchè un giorno, bevi di qua, bevi di là , ritornò a casa, per la prima volta,émeché. La Gervasia perchè i vicini non se ne accorgessero, chiuse l’uscio colla scusa ch’ella aveva un gran mal di capo!
Il suo bel sogno della bottega da stiratora non si era però dileguato. Ella calcolava, sommava, rifaceva il conto; ci volevano per lo meno cinquecento franchi. Un giovine operaio, certo Goujet (onesto, buono, laborioso, un cuor d’oro che amava segretamente la Gervasia) indovinato perchè ella stesse così sovrappensiero, si offerse a prestarle la somma occorrente; gliel’avrebbe resa in rate mensili di venti franchi ciascuna. Alla Gervasia non parve vero. La bottega fu affittata. La clientela non si fece aspettar troppo; il benessere affluì in casa sua, e in men d’un anno ella ingrassava, prendeva un’andatura di dolce lentezza, diventava un po’ ghiotta. Intanto il Coupeau fingeva d’essersi rimesso al lavoro; ma, in verità , bazzicando tutto il santo giorno con Mes-Bottes ed altri di simile risma, per le bettole e gli spacci di bibite e di liquori, tornava a casa cotto, ogni sera, e si metteva subito a letto. La Gervasia, felice del suo sogno avverato, non badava molto ai conti. Gli arretraticol Goujet s’accumulavano. Le mesate del fitto non erano più pagate con puntualità . Per soprammercato ecco riapparire il Lantier. Lo avevano visto nelle vicinanze; ronzava lì attorno: meditava qualche colpo! La Gervasia era atterrita. Le pareva che il Coupeau già ne sapesse qualcosa e che la minacciasse quando bestemmiava e dava dei pugni nel muro mentre, avvinazzato, si spogliava per andare a letto.
Era un terrore infondato. Un giorno che la Gervasia dava il suo pranzo di compleanno (un pranzo famoso; l’odore inondava il quartiere; la gente si affollava sulla panchina per guardare; il fruttaiolo, la trippaia del canto facevano l’acquolina e si leccavan le dita; l’intiera viacrêvait d’indigestion) quei giorno lo stesso Coupeau introduce il Lantier in casa sua, stringendogli la mano, senza accennare al passato, senza timori per l’avvenire. Dov’è stato il Lantier tutti quegli anni? Di che è vissuto? Non si sa. Ma è ben vestito, ha l’aria signorile, e parla a mezze frasi. Ha dei progetti! Ha degli affari! Ed ecco che con la sua faccia tosta s’installa in casa del Coupeau prendendo in affitto la stanzuccia dove la Gervasia teneva i panni sudici, promettendo di pagare, non pagando mai, mangiando, bevendo, spadroneggiando senza parere, togliendo ad imprestito dalla cassa della Gervasia, aiutando così anzi accelerando il crollo di quella povera casa. La Gervasia non aveva più la forza di lottare contro la tentazione del Lantier. Il marito, ubbriaco fradicioun giorno più che l’altro, la stomacava. Nei primi momenti d’auge, appena istallata nella bottega, ella s’era consolata di quella triste realtà con un po’ di luce serena che le scendeva nell’anima al sapersi voluta bene, senza secondo fine, dal buon Groujet. Arrossiva pudicamente sentendolo nominare; provava un gran piacere al vedersi amatapareillement à une sainte vierge. Quella tenerezza savia, tranquilla non avrebbe mai pensatoaux vilaines choses! Ma il Coupeau diventava più bestiale di settimana in settimana; gli affari andavano a rotta di collo; la clientela, mal servita, si dileguava; il Lantier dominava in casa di lei con una franchezza eguale alla mancanza d’ogni senso morale del marito; ed ella soprafatta, istupidita, inorridita della rovina che vedeva già arrivata dietro all’uscio, non si sentiva più forza per resistere e lottare.
Una sera, rientrando sul tardi da un caffè ove era stata col Lantier, trovò il Coupeau steso per terra, annegato in un mar di sconcezze che il vino gli aveva fatto vomitare. «Il s’était vautré comme un porc, une joue barbouillée, soufflant son haleine empestée par sa bouche ouverte, balayant de ses cheveux déja gris la mare élargie autour de sa tête.» Fu quello il momento che il Lantier scelse per vincerla. Ma ella si dibatteva, pregava: la lasciasse andare; la bimba dormiva lì accanto;... avrebbe potuto svegliarsi!... E cercava coll’occhio il marito perchè la salvasse anche dalla fiacchezza della sua carne. Il marito giaceva lì come morto, ruttando ilsuo vino. —C’est sa faute!balbettò la infelice! — E mentre il Lantier l’attirava nel suo stanzino, dietro un cristallo dell’uscio appariva la testa della Nana, la bimba della Gervasia, che si era svegliata al rumore. In camicia, pallida dal sonno, diè un’occhiata a suo padre sdraiato in mezzo al vomito, e poi zitta, col viso incollato al cristallo, stette a guardare, tinche la veste di sua madre non sparve entro l’uscio del bugigattolo del Lantier. «Elle était toute grave. Elle avait des grands yeux d’enfant vicieuse, allumés d’une curiosité sensuelle.»
La catastrofe precipita. La Gervasia è costretta a cedere la bottega diventata già un peso, e il Lantier rimane nella sua stanzuccia per rifare colla nuova inquilina quel che aveva fatto colla Gervasia. Per la famiglia Coupeau comincia allora una vita di miseria, di stenti, di rancori, di bisticci, di letichii accompagnati da qualche calcio... Il Coupeau, che si avvelenava all’AssommoirdelColombecon dei litri di acquavite, ha i primi tocchi deldelirium tremens. La Gervasia, che da padrona di bottega era stata costretta a mettersi operaia, si fa rimandare per la trascuratezza con che guasta la roba: e per istordirsi, beve anch’essa; e per vivere, fa viaggiare quel po’ rimasto in casa o al Monte di Pietà o dal rigattiere. Il Coupeau, ricaduto parecchie volte, muore finalmente della sua terribile malattia all’ospedale. La Gervasia, invecchiata, imbruttita innanzi tempo, sudicia, stracciona, vive facendo i più vili servigi agli inquilini di casa; va perfino a lavare ilpavimento della bottega ch’era stata il suo trono, pur di guadagnare qualche soldo. Poi, patendo il freddo, la fame, ogni avvilimento, cacciata dalla misera catapecchia che non può pagare, e alloggiata per carità in un sottoscala sur uno strame di paglia, si consuma lentamente. Un giorno vien trovata morta e quasi in putrefazione. —Elle creva d’avachissement!— Fu la sua orazione funebre! La portarono via colla bara dei poveri.
Ma questo è appena lo scheletro del libro dello Zola. I particolari sono un miracolo d’osservazione, d’analisi, di potenza di stile.
Quel pranzo di nozze a un tanto per testa! E quella visita al Museo e alla colonna Vendôme! E il battesimo! E il pranzo onomastico nella bottega della Gervasia! E il terribile episodio della piccola Rosalia di cui si è tanto parlato, cara figurina che insieme al bravo Goujet fa penetrare un fil di luce, soave nella sua tristezza, su questo quadro dalle vaste dimensioni e dalle tinte forti e violente!
L’impressione che si prova alla lettura è straordinaria davvero. L’opera d’arte sparisce: rimane una sensazione immediata. Si vive la vita di quella gente ci si sente viziare con essa. Giacchè ilrealismodello Zola (diciamo pure questa brutta parola) non è precisamente quale l’intendono irealistidi progetto. Del particolare, del colore, delle minuzie egli non si serve per uno scopo puramente esteriore, ma soltanto perchè gli giovano a far penetrare il lettore nell’intimo spirito dei suoi personaggi. Infatti nonresta indifferente, freddo o ironico e canzonatore come, per esempio, ilFlaubertinnanzi al soggetto del suo studio; anzi n’è tocco, n’è commosso. La sensazione non rimane in lui al semplice stato di sensazione, ma s’innalza, si purifica, diventa sentimento, poesia.
Poesia! Pare una parola fuori di proposito quando si parla dello Zola. Eppure il sentimento elevato, quasi sdegnoso, che si sprigiona in ogni pagina da quelle descrizioni inappuntabili per verità e per colorito, da quell’analisi minuta, inesorabile, d’un’esattezza quasi scientifica; questo sentimento, vero soffio di vita delle sue opere, è schietta e profonda poesia.
Ed ecco perchè egli non indietreggia innanzi ad alcun spettacolo della vita, di qualunque natura esso sia; ecco perchè lo vediamo egualmente commosso, della bella, della nobile commozione artistica, tanto innanzi l’incesto di Renata (La Curée), quanto innanzi il misticismo cattolico di Sergio (La faute de l’Abbé Mouret), soggetti i più disparati che si possano imaginare; ecco, in ultimo, perchè in questoAssommoirha cercato (e trovato, e non era facile impresa) la frase viva, cruda, imaginosa, quasi impudente dell’operaio, e perchè si è vantato di aver dato al suo libro l’odor di popolo! Ma la folla non bada a queste distinzioni e mette in un fascio lo Zola, il Flaubert, lo Champfleury; intendo dire la folla dei critici, specialmente fra noi. Giacchè in quanto alla folla dei lettori, nemmeno quest’Assommoirè un libro che possa, letterariamente, venir gustato da loro. L’eccellenza della forma rendendolo un’opera d’arte elevata, lo riduce nello stesso tempo un lavoro destinato alla più eletta aristocrazia intellettuale. L’arte, checchè se ne voglia dire, è roba assolutamente aristocratica.
11 Marzo 1877.
Elena Mouret e sua figlia, la piccola Giovanna, appartengono alla famiglia deiRougon-Macquart, famiglia tragica che lo Zola ha incaricato di dipingerci la storia del secondo impero. L’ambiente di questo nuovo episodio (l’ottavo) è la borghesia parigina. C’è in tutto il volume un silenzio raccolto, una calma che dopo le terribili scene dellaCuréee dell’Assommoirsembra fin troppa. Le stesse passioni, anche lì dove il turbamento attacca i sensi, non hanno nulla che rassomigli neanche dalla lontana ai furori della Renata nellaCurée, o alle indolenti rilassatezze della Gervasia nell’Assommoir. Elena Mouret cede, quasi inconscia, ad un’ebbrezza passaggiera. Trascorso quel momento fatale, ella non saprà rendersi ragione della sua debolezza erammenterà i tre anni da lei vissuti in una stanza della via Vineuse come il passato di un’altra persona, la condotta della quale le ispirasse sorpresa e disprezzo.
E coll’ambiente, è anche mutata l’intensità dell’influenza ereditaria, la chiave del vasto edifizio deiRougon-Macquart. In Elena è accaduta la rassomiglianza fisica del padre e quella che i fisiologi chiamano l’elezione paternapel carattere. La nevrosi originaria, che inficierà tutta la razza da Adelaide Fouqué a Carlo Rougon, è stata provvisoriamente attenuata per le mescolanze avvenute col Macquart e col Mouret. Ed ho detto provvisoriamente perchè nella piccola Giovanna abbiamo già il caso d’unaeredità di ritorno. L’eccessiva sensibilità di questa bimba d’otto anni, senza tali precedenti, sarebbe proprio inesplicabile. Quando si sa e si tiene a mente che la sua strana gelosia per l’affetto della mamma è un vero caso patologico, il carattere di quella piccina, stavo per dire isterica innanzi tempo, non solamente non sorprende ma diventa interessantissimo.
Non si meravigli il lettore di tutto questo tecnicismo fisiologico; iRougon-Macquartsono un trattato di fisiologia in azione. L’autore lo ha annunziato con la più esplicita chiarezza sin dal primo volume: «Io voglio spiegare come una famiglia, un piccolo gruppo di esseri si comporti in una società , svolgendosi per dar vita a dieci, a venti individui che sembrino, a prima vista, profondamente differenti,ma che l’analisi scopre legati intimamente gli uni agli altri.... La famiglia che mi propongo di studiare ha per caratteristica gli strabocchevoli appetiti, il largo ribollire dell’età nostra avida di godimenti materiali. Fisiologicamente, essa è la lenta successione d’accidenti nervosi e sanguigni, che sviluppansi in una razza in seguito ad una prima lesione organica, e determinano, secondo gli ambienti, i sentimenti, i desiderî, le passioni, tutte le manifestazioni umane, naturali ed istintive, i prodotti delle quali prendono i nomi convenuti di virtù e di vizio.»
Par di leggere l’introduzione d’una monografia scientifica, o una delle rigide prefazioni del Taine dove la razza, l’ambiente, il momento storico, ecc., formano un sistema di critica che porta nello studio delle cose letterarie il metodo d’investigazione delle scienze naturali.
Questo infiltrarsi dell’elemento scientifico nell’opera d’arte è un verosegno del tempo. L’arte tende a ritemprarsi, a rinnovellarsi per mezzo della osservazione diretta e coscienziosa. Il difficile sta nel mantenere la giustezza delle proporzioni fra gli elementi della scienza e quelli della fantasia, in guisa che la libera natura dell’arte non ne sia tarpata, e il processo della creazione artistica si sottometta a tutte le esigenze del metodo positivo. Bisogna confessarlo: l’arte, in questo connubio, ha perduto qualcosa della sua fresca e virginea spontaneità . Ha già un’aria severa, quasi trista. Non può presagirsenenulla che rassicuri per la sua esistenza nell’avvenire.
La cosa non è di data molto recente. Il Balzac, nella sua celebre prefazione allaComédie humaine, ne diede il primo accenno sin dal 1842. Il suo immenso lavoro doveva essere un saggio della futurastoria naturale dell’uomo. Ma questo concetto che, per la sua vastità , presentava qualcosa d’indeterminato, nei particolari dell’opera avvertivasi appena. Tutti quei romanzi legati poi insieme sotto il gran titolo diComédie humaine, dapprima erano stati scritti senza nessuna preoccupazione di un metodo scientifico qualunque. Unica cura dell’autore era stata il soffiare nel personaggio e nell’azione lospiraculum vitae, il farconcurrence, com’egli diceva,à l’état civil; il resto diventava un mezzo per raggiungere più facilmente quel supremo scopo dell’arte.
Nello Zola, che discende in linea retta dal Balzac, passando alcun poco pei fratelli De Goncourt, la teorica scientifica si annunzia con tutta la precisione del vocabolo tecnico. E quasi non sentisse tranquilla la sua coscienza di scrittore nemmeno dopo la così esplicita dichiarazione citata, eccolo con una Nota messa in testa a questaPage d’amoure coll’albero genealogico deiRougon-Macquartad affermare più risolutamente il vero carattere del suo lavoro.
IRougon-Macquartsaranno, innanzi tutto, quello che vogliono essere, un’opera d’arte, un vero monumento che, meno vasto dellaComédie humaine,avrà su questa il pregio d’una più rigorosa unità di concetto; e il valore dell’esecuzione certamente non se ne rimarrà inferiore all’idea scientifica che ne forma l’ossatura. I criteri dunque coi quali iRougon-Macquartvanno giudicati sia nei particolari, sia nel loro insieme debbono esser precipuamente dei criterî d’arte. Però non è possibile tagliare in due un’opera d’arte e mettere da un canto la forma e dall’altro il concetto, specie poi in un lavoro grandioso e complesso dove la creazione artistica, per decisa volontà dell’autore, è perfettamente subordinata al concetto fisiologico dell’eredità naturale.
Infatti, fuor della cerchia deiRougon-Macquart, questaPage d’amournon avrebbe quasi ragion di essere o dovrebbe essere altrimenti. Parrebbe un capriccio, una bizzaria d’artista per provare una volta di più che l’ingegno, colla prepotenza della forma, può riuscire a rendere accettabili anche le cose più assurde. Nell’insieme deiRougon-Macquartessa diventa una nota che non era lecito di sopprimere.
Questastoria naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo imperosi comporrà di venti volumi dei quali otto soltanto hanno visto la luce. L’albero genealogico dà il filo per raggirarsi con facilità in mezzo al labirinto di tante azioni e di tanti personaggi, e delinea il cómpito che ancor rimane allo scrittore. Con esso si scorge chiaramente l’intima ragione dei caratteri finora studiati, e il grado daessi occupato nella grande scala ereditaria, e il perchè della maggiore o minore loro importanza nell’azione di ciascun romanzo. Dei caratteri da studiare già s’indovinano all’ingrosso i principali lineamenti. Dagli uni e dagli altri ricavasi tanto da misurare con anticipazione il complicato disegno che l’autore segue strettamente. «Il est, egli scrive, en même temps, ma force et mon régulateur.»
Sono state mosse all’autore molte obbiezioni su di esso. Gli si è detto: Volete voi fare un lavoro scientifico? Ma qual valore possono avere le vostre deduzioni se fondansi sopra fatti che sono soltanto una realtà nella vostra immaginazione? Obiezione, in verità , più speciosa che solida. La legge dell’eredità naturale non è inventata dallo Zola. Si trova nettamente formulata in moltissimi volumi di solida scienza che il dottor Lucas ha riassunto nel suo famoso libro sull’Hérédité naturelle. Le varie modificazioni organiche o spirituali di diverse razze sono state studiate con la scrupolosa esattezza della moderna scuola fisiologica, e i fatti sono risultati così abbondanti che se n’è già ricavata unalegge.
Che accade nella natura? Data una lesione organica nel sistema nervoso o nel sanguigno, date queste o quelle circostanze che ne attenuiscano, ne sviluppino, ne sviino il processo, le conseguenze sono inevitabili, infallibili: si potrebbero prevedere, se fosse possibile stabilire anticipatamente l’ambiente entro cui dovrebbe raggirarsi un individuo. L’importante, l’incontestabile è lafatalità della leggeereditaria. Ammessa questa, il compito dell’artista diventa meno arduo e meno illusorio di quel che sembri a prima vista.
I germi ereditarî inoculati in un organismo si sviluppano (e possono anche non svilupparsi) a seconda dell’intensità della loro forza e delle varie circostanze fra le quali esso può vivere e crescere. Quando le circostanze sono favorevoli, il resultato non fallisce. Anzi, allorchè la virtù germogliativa del male ereditario è molto forte, le più piccole circostanze sono sufficienti per favorirne il rapidissimo svolgimento. Nella vita reale la legge ereditaria spesso vien attraversata dall’accidente; o vi si attua a sbalzi; o non compie sempre il suo processo. In questo caso è innegabile la superiorità dell’arte. Raccogliendo attorno ad un individuo tutte le possibili circostanze per produrre inesorabilmente lo scoppio della forza fatale dell’eredità , l’arte non mentisce rimpetto alla scienza. La suapossibilità diventa quasi più vera della stessarealtà . Eliminando il cieco accidente, creando una serie di circostanze simili a quelle che in altricasi realihanno prodotto questo o quel resultato, l’arte raddoppia di valore; acquista un valore scientifico.
L’albero genealogico deiRougon-Macquartsi è uniformato alle esigenze della scienza con straordinaria severità . Lanevrosi originariad’Adelaide Fouqué, a seconda degli ambienti, della mescolanza e della fusione d’altri elementi (i Macquart e i Mouret), prende tutti gli aspetti possibili di rassomiglianzefisiche o morali, di salti di generazioni, di equilibrî, di saldature che la scienza ha constatato in migliaia di casi.
La pazzia della Fouqué riappare in Marta Rougon (La Conquête de Plassans) sotto l’aspetto di esaltazione mistica che finisce colla tisi, col delirio e colla morte. Saltando due generazioni, torna a riapparire nella piccola Giovanna Grandjean, sotto la l’orma d’un precoce esaltamento nervoso, che termina anch’esso colla tisi e la morte (Une page d’amour). Col Macquart entra nella famiglia l’eredità dell’ubbriachezza e del vizio; fa le prime prove in Gervasia (L’Assommoir) si ripresenterà sotto l’aspetto d’isterismo in Nana, la figlia di Gervasia che abbiamo un po’ conosciuta; e in forma di pazzia omicida in uno dei figli che la Gervasia ebbe dal Lantier (episodio ancora inedito). Finalmente la nevrosi originaria assumerà la forma digenionel pittore Claudio Lantier, l’altro figlio della Gervasia, che ha già fatto una breve apparizione nelle prime pagine delVentre de Paris(episodio anch’esso inedito). Marta, Gervasia, la piccola Grandjean sono state poste nell’ambiente più scientifico mai ideato da un artista. Ammesso che le particolarità dei romanzi potessero ripetersi esattamente nella vita reale, il resultato sarebbe preciso quale è stato dipinto dall’autore con mano sicura ed ardita.
Come vittoriosa obiezione contro il suo sistema scientifico è stato detto allo Zola: Ma i vostri personaggi più importanti, Silverio dellaFortune desRougon, l’abbate Faujas e sua madre dellaConquête de Plassans, Renata dellaCurée, non hanno nulla che fare coll’eredità naturale, e sono dei caratteri di prim’ordine![6]— Ma forse l’autore aveva promesso che i personaggi della famigliaRougon-Macquartterrebbero assolutamente un posto principale nell’azione dei suoi romanzi? Il sistema scientifico richiedeva soltanto ch’essi fossero al loro posto; e nessuno, mi sembra, potrà provare che non ci siano. Silverio (il Topin si inganna) è un figlio dell’Orsola Macquart ed entra direttamente nella cerchia del sistema; l’abbate Faujas è la causa efficiente dell’esaltazione religiosa della Marta; Renata è la causa efficiente dello sviluppo del fiacco carattere di Massimo. L’artista non ha voluto presentare soltanto dei personaggi nudi, stecchiti, diseccati per servire ad un’esposizione da museo. Ha voluto darci tutta la ricchezza del mondo ove i suoi personaggi vivono, s’appassionano, agiscono; e in questo egli ha fatto bene di rammentarsi unicamente della sua precipua, della sua essenziale qualità di artista, alla quale già dobbiamo due capolavori:Le Ventre de Parise l’Assommoir.
È ridicolo il credere che lo Zola voglia dare al carattere scientifico del suo lavoro un’importanza maggiore di quella che gli se ne può accordare in un’opera d’arte. S’egli insiste sul concetto scientifico, lo faper non venir frainteso (precauzione che non gli è valsa); lo fa perchè spesso è il concetto scientifico quello che può somministrare il giusto criterio con cui giudicare esattamente un avvenimento o un carattere. Concesso anche che lo Zola su questo punto esageri un poco, tale esagerazione si trasforma in un solido pregio del suo lavoro. Scrittore che ha dell’arte un’idea nobilissima, la convinzione di fare nello stesso tempo un lavoro d’arte e di scienza, lo porta a dare alle proprie creazioni la minuta e meticolosa esattezza d’uno studio scientifico. Ed ecco perchè lo vediamo rimpetto al suo tema compreso di una severa imparzialità che i così dettirealistinon sanno nemmeno ideare. Coupeau che rece e si rivolta nel brago della sua ubriachezza; l’abate Mouret che dice la messa e si esalta in estasi mistiche innanzi alla statuina della Madonna; l’Elena di questaPage d’amourche assiste alle sacre funzioni del mese di Maria, per lui, innanzi tutto, sono dei fatti da osservare e da studiare; e la sua prima cura è di renderli tali o quali essi dovettero, o avrebbero dovuto esistere in rapporto a loro medesimi ed agli altri personaggi. La stessa eccessiva compiacenza dello scrittore nelle lunghe descrizioni, è la conseguenza (non sempre giusta) del suo scrupolo di scienziato. Non difendo, ma spiego.
Ilrealismodel Zola è assai ben diverso da quello che una certa scuola si sbraccia a predicare in Italia, dando così buono in mano agli strilloni della morale nell’arte. Lo Zola non cerca le nudità ad ogni costo,non se ne compiace. Ma quando il suo soggetto gliele presenta, non volge gli occhi a terra e non li chiude per non vedere. Anche qui, principalmente, è il suo concetto scientifico che gl’impedisce di esserprude. Si confrontino però due identiche situazioni nellaCuréee nellaPage d’amour. Ecco due donne che cedono in un momento di abbandono preparato di lunga mano da un seguito incalzante di circostanze: Renata a Massimo nello stanzino riserbato del caffè Riche; Elena Mouret al dottor Deberle nella stanza della via Raynouard, ove un’imprudenza l’ha condotta. Che differenza di tinte e d’intonazione! «Derrière eux l’autre rideau de la portière s’échappa de son embrasse!» Egli lascia cadere un velo su quest’ultima scena! Tutti ricordano l’inesorabile nudità della scena dell’incesto al caffè Riche. Ilrealismo, inteso a questo modo, ha un senso: è un processo. I campioni della morale avranno un bel dire, ma non riusciranno a fargli fare un sol passo indietro. Inteso nel modo che mostrano di propugnarlo a parole ed a fatti molti fanatici tra noi, sarà artifizio(per non dir altro), ma arte no davvero!
LaPage d’amournon ha suscitato le strida, gli urli, le maledizioni che certi critici cacciarono fuori contro le terribili pitture dell’Assommoir. «Une oeuvre intime et de demi-teinte» per confessione dell’autore! Eh, via! Non c’era da emettere nessungrido, non c’era da arrossire per conto delle pudiche lettrici e dei lettori di fibra delicata. Si può dire chequei signori abbiano tenuto broncio allo Zola per aver tolto ad essi il pretesto (e l’aspettavano!) di sciorinare al sole le tante frasi bell’e fatte contro ilrealismoe i suoi fautori! Un’occasione mancata! Datevi pace, signori! Potrete rifarvene fra otto o dieci mesi quando apparirà in pubblico il vizio in persona,Nana!
20 Giugno 1878.