CAPITOLO VIII

Una sera (la quinta dal giorno della rotta) Ugo era nella sua cappella parata a lutto, da tre ore cogli occhi fitti nella croce, colle membra invase da una febbre crudelissima.

Finiva appunto di parlarsi così:—Il martirio m'ha addoppiato! Finalmente! Stanotte istessa vedranno i miei nemici chi è Ugo, quando vuole e dev'essere il figlio di Oldrado!—Ed ecco ad un tratto, nello spessore delle pareti, come un rumore di ferri scossi e di ruote scorrenti: certo indizio che si calava al di fuori il ponte levatoio, senza squillo di corno e senza parola data e ricambiata. Che era mai?

Ugo si accigliò: pure continuando ne' suoi pensieri:—Non è giorno di sabato, nè ora da tregenda…. Giuoco d'imaginazione, via!… Chiamerò Bonello: ch'egli faccia apparecchiare gli uomini, e, questa notte istessa vedranno i miei nemici! Ugo ama ed odia una cosa sola: la sua spada!—e se la cercò al fianco, e non avendola, si morse le labbra. Impazientissimo andò verso la porta: ed ecco si abbattè con Bonello che veniva innanzi lentamente e colle mani nascoste dietro le reni.

—Messere,—disse Bonello:—siete disarmato?

—Debbo temere i traditori nel mio castello?—rispose fieramente Ugo, e comandò:—Bonello, fate alzare subito il ponte.

—Ah voi sapete?—e lo scudiero s'avanzava strisciando sulla parete che la lampadetta dell'altare lasciava al buio, e vedendo sull'altra l'ombra della sua persona barcollare gigante, continuava:—Sapete: tante cose le paiono, ma non sono?

—Come a dire?

—Io fui sempre sicuro e fedele.

—Bonello!

—Ma sapete quanto vale la vostra testa? Oggi fu triplicato il prezzo. E voi sapete com'io sia povero diavolo, ad onta dei servigi che ho fatto ad Oldrado.

—Tu! tu ami l'oro! Bonello, questo è castigo d'Iddio! Tu puoi! Ma io ti risparmio il delitto! Ti amò messer Oldrado!—ed Ugo diedesi a chiamare:—Aimone! Aimone!

—È inutile, messere. Ho preveduto, è spacciato, e non risponde più.

—Io non consento, Bonello, che tu perda l'anima in modo così vile! A me!—e prima che Bonello si muovesse di un passo, Ugo tolse un candelliere dall'altare e lo rotò come una mazza:—Potrei ucciderti! Ma nemmanco voglio!—e lo balestrò sul pavimento.

—Messere, colla taglia che avete sul capo c'è tanto da pagare tutti gli uomini del castello. Avete pensato? Noi abbiamo pensato.

—Bonello! m'ammazzi un ribaldo anche pagato da te, ma tu no, no!

E Bonello, come preso da un rimorso:—Ho giurato a messer Adalberto!

—Morire così? Voglio vivere per combattere! Scellerato!—ruggì il cavaliere, e con un lancio balzò all'uscio della cappella, e furiosamente prese giù per il corritoio:—In questa chiesetta dunque così mi si pagherebbe il tradimento di Oldrado!

L'altro sempre a cinque passi gli era dietro bestemmiando:—Ho giurato!

Ugo venne nella corte. Tutto era buio, e poco mancò non inciampasse e fosse trucidato. L'unico luogo che fosse illuminato da una fiaccola era l'androne della porta: Ugo vi si diresse, cogli occhi invano cercando un'arma qualunque: vide aperto il portone e calato il ponte, come era stato fatto per preparare la fuga a Bonello nel caso di colpo fallito, o per preparare il peggio. Ad un camerotto si affacciarono gridando dieci o dodici uomini, e minacciando. Ugo ne atterrò due in un baleno, ma, mentre stava per strappare loro la spada, eccogli vicinissimo quel grido di condanna:—Ho giurato!—Ugo, abbrividendo, si scagliò contro Bonello, e in un fascio tutt'e due stramazzarono sul ponte, e ruzzolarono innanzi sette od otto passi, sì che dalla tavola di legno vennero al ciglione del fossato. Bonello tentava di adoperare il pugnale, ma sotto la stretta del signore non poteva: la lotta divenne accanita per le percosse menate alla cieca. Alla fine Ugo abbrancò il pugnale. Bonello si svincolò, sorse, e prese a fuggire giù da una stradetta. Ugo corse, corse, giù, a fiaccacollo per balze, giù, perdette la traccia dell'altro, precipitò, e cadde rotoloni…. Non ascoltò più…. Quando si drizzò gridando:—Voglio tornare al mio castello!—ascoltò dietro, all'insù, già, lontano, queste grida ubriache:—Viva messer Adalberto!—Ugo si rivolse e vide moltissime fiaccole che giravano intorno alle sue mura e sparivano a poco a poco entrando nel portone.—Adalberto è padrone del mio castello!… Il tradimento era preparato!—disse Ugo, ed imprecò:—Che mi resta? Il mio odio e il mio amore!—e a vece di scheggiare la testa contro un masso per finire il martirio, l'alzò superbissima al cielo.

Due o tre fiaccole venivano giù dalla porta verso la stradetta, e una voce gridava:—Bonello! Bonello!—e poi:—Si accresce la taglia di due mucchietti d'oro…. O vivo messer Ugo o morto….

Ugo scese senza una direzione per la valle, nella notte oscurissima, poi s'arrampicò ad un monte, sempre alla cieca, percuotendosi nelle piante, molte volte cadendo, affondando, squarciandosi i piedi e legando le gambe nei rovai, e spiando cogli occhi intentissimi, coll'odorato, colle mani….

Camminò, camminò. Ad un tratto gli parve che qualcuno parlasse di lontano. Egli si protese a terra, ficcò gli occhi nella tenebra, e scorse tra il nero degli abeti una striscia più chiara che montava, montava, si perdeva: era una stradetta. Dio sa per dove! Ugo nulla conosceva. Concentrò tutta l'anima nel senso dell'orecchio: capì che due uomini armati venivano su parlando tra loro.

Ugo incominciò ad afferrare queste sole parole:—…. quello che dite voi è un cavaliere valoroso. Ma l'altro è da sgozzare.

Avvicinandosi i due interlocutori, Ugo rattenne il fiato: e sentì distintamente il colloquio: ed eccolo:

—Chi disse che Ugo era morto per ferro, chi per sasso. E compare a menar così la scure, rompendo l'uscio della cappella, una cosa sacra.

—Perdono d'Iddio!

Ugo, per tacere, si cacciò un pugno in bocca.

Diceva l'uno:—Adesso c'è su scomunica per tutti. Ohe, non ditelo, fratello, a mamma Agnese, se no ci troviamo giuntati anche di quel po' di cena, dopo una giornata d'arme come questa.

E l'altro:—Messer Oberto non parlò con noi? Si è spento l'incendio, per grazia della Vergine: perciò fu pubblicato un bando dal duomo di Saluzzo: con cui Ugo è scomunicato, sette volte sette, noi solo una…. ed è di troppo! Ma lodiamo Dio! sarà levato il peso dell'anime nostre solo quando madonna potrà sposare un cristiano leale che paghi il papa.

—Dicono d'Oberto.

Ugo quasi si sgangherò le mascelle.

Continuava l'uno:—Ed ha di già fatto sacramento al vescovo messerOberto. Hai veduto la croce sulla pergamena?

Diceva l'altro:—Oberto è un cavaliero valoroso.

E i due si allontanavano. Ugo guardava ed ascoltava. Solo tenebra e silenzio. Ugo fece per alzarsi e seguire i due uomini, ma non potè! Così disteso a terra com'era, si cercò alle reni il pugnale per appuntarselo al petto e poi pregare con religiosi e suicidi contorcimenti: l'atto della supplicazione, credeva, avrebbe celato a Dio il delitto. Non trovò l'arma: allora disse:—È volere del cielo ch'io non muoia così orrendo!—e potè rizzarsi, e salire la montagna.—O Signore—scongiurava:—fammi capitare a Malandaggio! C'è un buon romito nella grotta…. Ch'egli mi ribattezzi coll'acqua del Chiusone!… Nella valle giù…. c'è…. Imilda…. Imilda!… E voglio fuggirla!… Su, su, su, t'arrampica!… Imilda!—e vaneggiando:—Su, su!… È pur triste la strada al paradiso!… Sulla cima m'attende la morte!…

L'eremita era lontanissimo, oltre la valle del Pelice, nella valle delChiusone, sul Malandaggio, tra le Porte e il Villaro.

In questi pensieri, smarrita ogni traccia di sentiero, errò tutta la notte….

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Torniamo a Rupemala.

Oberto e Ildebrandino erano divenuti nemici, come si vide, e i nemici in casa sono peggiori di quelli coll'armi alla mano. Ildebrandino pensava:—L'ho colmato di benefizi, come se fosse mio figlio, e speravo tanto d'Oberto! L'avevo bene cresciuto! "Voglio Imilda!" Dopo ch'io gliela avevo concessa' Non doveva, non poteva dire così…. Ma v'è un'offesa maggiore!—Sì, Ildebrandino aveva udito amarissimamente rinfacciarsi la sua mala fortuna di un tempo, e fu trafitto da quel dubbio villano: "Fate che, morendo voi, io abbia un castello o la memoria…." E che aveva soggiunto Oberto? Le esequie? Ildebrandino aveva capegli grigi: pensò e ripensò, e si sentì come maledetto…. Quel giorno in cui Oberto tornò da Saluzzo chiedendo d'Imilda, Ildebrandino rispose:—Èmiafiglia!—e veramente provò addoppiato l'amore per lei, già lontana, ma sicura. Oberta domandò a tutti per sapere qualcosa, ma invano. Allora lodò lo zio, finse di volersi pacificare con lui, forse per acconciargli più traditora una certa sorpresa che meditava pel dimane, escì con lui a cavallo per vedere dove fossero appiattati i nemici; si rappattumarono un poco, ma sulle loro labbra c'era sempre un'ironia velenosa, sempre quell'espressione—Lascia fare a me—che si mostrava più e più, quand'essi volevano ricacciarla.

All'indomani entrò un frate nel castello e parlò con Oberto, perchè lo zio era uscito coi balestrieri ad apparecchiare una offesa contro Adalberto, che continuamente faceva scorrazzare della cavalleria. Oberto parve assai dimesso, ricevette un rotolo di pergamena dal frate, e lo accommiatò:—Che messere il vescovo ne faccia grazia! Speriamo nella Vergine di Saluzzo. Sì, farò ancora limosina al convento, copiosissima….—Poi tra sè:—Se il papa mi sapesse dire dov'è Imilda?

Ad Ildebrandino nulla fu detto. E quel giorno il cavaliero volle combattere, combattè fino a sera, cessò, e, meditando una certa impresa per la notte, tornò al suo castello, e sembrò riconciliato con Oberto, perchè questi gli fu allato sempre, come un prode. Ildebrandino, cogliendo il momento che Oberto non vedesse, chiamò a sè, in una torre, i figli del vecchio Federigo e di Agnese, e loro disse:—Ritornate su alla montagna e portatemi per domani le nuove di Imilda.

Oberto che era nella corte, da un pezzo meditabondo, vedendo partire i due fratelli, credette che si recassero dai vassalli cogli ordini per la notte: domandò loro:—Dove andate?

E quelli:—Dove vuole messere.

—Vuole lui? Non sempre si è obbligati a obbedire noi—istigòOberto:—Vuole?

—Come?

Oberto mostrò loro la pergamena che aveva in petto, parlò sommessamente, rivelando una gran cosa accaduta, e concludendo:—Siete sciolti da ogni giuramento verso lo zio. Obbedite a me che posso salvar tutti! Ditelo ai soldati. Io voglio comandare a tutti loro, se ad essi preme il nome di cristiani e la salute dell'anima.

—Che mistero!—disse uno dei fratelli, avviandosi.

E l'altro:—Non ditelo a mamma Agnese. E se stanotte il dimonio ci gioca!—e fece l'atto di segnarsi colla croce, ma si arrestò lamentando:—Non si può più, e mi trema la mano!

—Che cosa! Quando gli altri la sapranno!

I due uscirono dalla porticella di soccorso, e s'incamminarono, taciti e compunti, alla montagna: e furono proprio quegli armati che Ugo ascoltò con tanto amore.

Quella sera, appena Oberto vide Ildebrandino:—Zio—gli disse:—Ho da parlarvi e da senno.

—Senti chi vuol parlare da senno!—interruppe lo zio, egli stesso suonando un corno:—Dobbiamo fare una sorpresa, devo farla. So che una congrega di demonii deve passare non lontano di qui, colle fiaccole, per tentare un tradimento al castello di Ugo, so…. Che hai? Orvia, parla.

Oberto voleva che maggiore solennità accompagnasse la rivelazione che aveva a fare, perciò si morse la lingua, dicendo:—A tempo migliore parleremo. L'auguro per me e per voi.

Uscirono, trovarono i nemici e combatterono: nullameno i traditori proseguirono il loro viaggio. Ildebrandino guadagnò una ferita alla gola, leggera, lo credette, una graffiatura, ma con un certo bruciore…. Oberto pensò:—Quella proprio che ci voleva per tenermelo quieto—accompagnò lo zio al castello, lo sdraiò sul suo letto e lo guardò. Quegli si smarriva negli occhi, borbogliava sordamente, dicendo:—Niente!—e cominciava però a contorcersi.

—Messer Ildebrandino,—prese a dire il nipote:—debbo annunziarvi che il vescovo di Saluzzo…. Non mi ascoltate?

Non lo ascoltava davvero.

—Debbo annunziarvi che il vescovo di Saluzzo…. Svegliatevi!… Ma, ma, zio! Che avete?… Non posso pregare per voi, mi spiace…. Svegliatevi! Ah, ma com'è questa scalfittura? Che ei si vada addormentando come un ghiro?… Zio, ditemi, ov'è Imilda?—finì per comandare:—Ditemi!

Ildebrandino era assopito: la ferita, d'arma avvelenata, si faceva livida e gonfia.

Oberto prorompeva:—Ah la mia vendetta! Perchè cadrà a vuoto? Zio, zio! Ho tanto fatto, e sì bene!… Ascoltatemi! per poco…. Che mala fortuna!… S'egli morisse?… Zio!

Per tutta la notte Oberto trepidò, senza chiamare aiuto d'uomo. All'alba tolse su lo zio, lo denudò, lo portò nel corritoio, nella corte, lo pose a terra dinnanzi alle finestre della cappella, e lo coperse del drappo nero dei morti, ma senza croce, senza un ramoscello d'olivo, senza una goccia d'acqua, lasciandogli sporgere i piedi unghiuti e i capegli irti. Poi prese una mazza, e tra una finestra e l'altra inchiodò la pergamena che aveva avuto il giorno prima, gettò sullo zio un po' di cenere, e dicendo:—Almeno è morto scomunicato!—lo stette a guardare un pezzo.

Ad un tratto il drappo nero si mosse, e dalle pieghe sporse una mano che ne ghermì la frangia, la strappò, la strappò: apparì fuori il volto di Ildebrandino, paonazzo, furente, soffogato: gli occhi si ficcarono sulla pergamena segnata di croci e di grossi caratteri: si spalancarono, ma furono accecati dalla cenere che vi cadeva dal drappo sempre più scosso dalle mani febbrili.

—Zio!—disse Oberto:—è inutile che chiamiate il becchino. Gli scomunicati come noi giacciono insepolti.

—Ah sei tu? Oberto!—incominciò Ildebrandino, svegliandosi per poco dal lungo sopore:—Perchè non so leggere, come un frate? La vedo lì la condanna, la vedo! Ma nemmeno tu sai leggere: sono contento!

Oberto si piantò sotto la pergamena, esultando:—Non so leggere, ma io l'ho dettata al vescovo di Saluzzo. Ugo è scomunicato sette volte sette: noi una sola: sarà levato il peso all'anime nostre solo quando un cristiano leale sarà padrone di questo castello.

Ildebrandino si contorse tutto, gettò il drappo, e fece per rizzarsi: ma ricadde:—Perchè sono qui?—domandò, e tacque.

—Voi morite così?

—Ah Oberto!

—Morite scomunicato, insepolto? Pensate qual castigo orrendo!Scomunicato, insepolto!

—E che a me?—delirò il moribondo:—Vedi tu questo drappo? Nera è la morte e senza speranza. Nulla sento, nulla ricordo più!

—Voi dunque morite così?

—Solo i frati veggono i demoni, solo le donne veggono gli angioli.

—Le donne? Pensate che Imilda è scomunicata! Dice la pergamena: sarà levato il peso dell'anime appena ch'ella possa sposare un cristiano leale che faccia molta limosina.

—Imilda?—A quel nome Ildebrandino si tirò addosso la coltre col massimo rispetto: e comandò:—Lasciami, Oberto!… Mi manca la lena…. Non gettarmi nel pattume!

—Che bel momento per cercarvi la sposa! È venuto!…

—Lasciami!… Mia figlia non è qui?… Come si muore senza fede!—e il vecchio quasi pianse:—Imilda!… Nulla sentivo, nulla ricordavo più!

—Desiderereste che Imilda fosse qui?

—Tu la vuoi sposa?… Ma no!

—Imilda che dirà di suo padre, che tutti ci volle dannati! Dannati per lui che moriva! Imilda deve vivere.

—E volevo vivesse felice!—Ildebrandino era straziato in modo ineffabile: e pregava:—Dammi la mazza sul capo! No? Dio, fammi morire!… Morire?… Nella morte c'è un mistero che mi pesa! Sento adesso: no, no…! Oberto, lasciami: tristo, vituperato, ingratissimo….

—De profundis clamavi ad te, Domine.

Infine Ildebrandino disse:—Va alla casa di Agnese e di Federigo: là è Imilda…. Affrettati, affrettala!… Prima ch'io muoia!… Fa limosina coi gioielli di Adelasia mia, prega, fa pregare! Affrettati! Sposa Imilda, prima ch'io muoia, ah!… O Signore, dammi un po' d'ore di vita, a costo di qualunque spasimo! Carità! Credo nel Signore!… Affrettati!

Oberto corse al monte.

D'Ildebrandino parliamo per l'ultima volta. Prima che Oberto giungesse alla casetta di Agnese, egli moriva supplicando:—Carità! carità!—raggomitolandosi nel drappo, e trascinandosi fino a toccare una pietra della cappella. Come nel castello si svegliarono gli armati e come le sentinelle calarono dalle torri, la novella trista passò di bocca in bocca; tutti si spaventarono orrendamente. Pare che Adalberto tosto sapesse qualcosa, perchè investì il portone, con pochi fanti, e s'impadronì del castello.

Oberto che andava cercando la sposa, perdeva in pochi momenti gli averi. Pure si sentiva contento, e chiamava:—Imilda!

Giunto alla casetta potè chiamarla per un bel pezzo:—Imilda, Imilda!Dov'è Imilda? Voglio!

Nessuno rispondeva. Che nuovo mistero.

Come abbiamo detto, Ugo, smarrita ogni traccia di sentiero, errò tutta la notte.

Appena l'alba imbiancò i colmi dei tettucci alle capanne inerpicate su per le saluzzie Alpi, Ugo si trovò, spossatissimo e irrigidito, buttato sotto una grotta formata da una rupe stillante.

Com'egli si era ricovrato là? Non sapeva. Sapeva che intorno c'era una pace, un silenzio, una tranquillità! Che Dio sia benedetto, sulle alte cime, lontano dagli uomini, Dio padre della natura!… A venti passi vedevasi sorgere su uno sfondo di vapori perlacei l'assito posteriore di una casetta dalle gronde ospitali, dalla povera finestra, dal fumo lentissimo sfuggente, quasi incenso mattiniero alla crocetta guardiana del colmo. Chi abitava là dentro?… O gente fortunata, che non conosci i tormenti dell'anima, vivi lieta, e fai che le tue fanciulle si levino sempre, cantando, dai giacigli innocenti! Qual pace, sì, quale silenzio, quale tranquillità!

—Dove sono?—si domandò Ugo, ma non potè rispondersi. Egli non conosceva quel luogo: guardò ancora attorno, e sospirò con invidia quasi religiosa: vide sulla grotta vicino a lui una rozza statuina di Madonna, vide un abbeveratoio coll'acqua traboccante, vide sette od otto agnellini. Da un uscio che si aperse nel fianco della casetta venne sulla gradinata di ciottoloni rotondi una figura di fanciulla, colla foggia montanara, il volto coperto da un panno: guardò giù la montagna, poi, non col passo della massaia che solerte si dà alle bisogne del mattino, andò all'abbeveratoio, cautissima nella rugiada e fastidiosa. Un agnello venne, ritroso e saltellante, bebbe e s'allontanò con graziose tresche: ella si diede ad inseguirlo, corse, venne quasi sotto alla rupe, senza veder Ugo.

Ugo in quel momento proprio pensava:—Che vita incomincia per me?

La montanina guardò ancora giù dalla montagna, stette un pezzo come pensierosa, e, piegando le ginocchia, disse:—Perdonami, madre! Io devo fuggire!—e stava per muovere il piede: si lasciò scappare questo lamento:—Non ho ancora pregato stamattina!—e si volse in due passi alla grotta, verso la statuetta.

Vide Ugo, si avventò su di lui, supplicando ansiosissima e dolorosa:—Siete ferito? Siete salvo?—e buttò via il panno dal capo, lo raccolse per farne una fascia, sollevò la faccia a Dio. Era madonna Imilda! Quella lì vicino la casa di Agnese.

Ugo non credette e lanciò innanzi le mani, come per stracciare una nebbia, gridando:—No! È crudeltà questa illusione! Lasciatemi morire!

—Morire? morire voi!—ruggì Imilda. Così in lei, straziata sul subito la gioia affannosa del riabbraccio dalle parole deliranti di lui, l'amore cupido dell'infinito volle vincere il tempo, soperchiandolo colla intensità dell'anima. Non si può amare tutta una vita? Si impazzisce un'ora nella ebbrezza più prepotente e si muore. L'amore diventa furore.—Ugo! Ugo!—e la vergine se gli gettò in braccio, ammaliandolo con un modo procacissimo che sfidava Dio e gli uomini:—Se sapeste che tormento! E vi trovo quassù! Chi ve lo disse ch'ero qui? E voi volete morire! Ugo mio, io non credevo che tu avessi a dirmi così!

—Ma sei proprio tu?—Ugo si storceva come sotto un incubo.

—Sono io! Non mi senti? Ti bacio, ti mordo, ti voglio!

—Imilda, la tua faccia è fiamma!

—E voglio che bruci la tua. Ti discaccio la morte!

—Io ti strappai al fuoco: tu al fuoco mi rigetti!—E poi, come se Ugo acquistasse coscienza:—Imilda, fuggimi, per carità! Perchè incominciare un nuovo tormento? Va!

—Io fuggivo alla valle—sorrise Imilda:—per te!

—Che ti dissi? Non dobbiamo vederci più! Se muoio, tu non devi saperlo: se vivo, ho un giuramento a compiere! Ti supplico: fuggimi!—Ed Ugo, rizzatosi, spingeva Imilda su quella stessa stradicciuola per cui Oberto doveva venire, e veniva, per condurre a Rupemala la sposa a vedere il padre per l'ultima volta:—Fuggimi! Tu non sai che cosa ho pensato di te!

Ella trepidò.

Ed egli:—Affrettati!

—Non m'ami?

—…. T'amo, sì! Ma tu qui vedresti un grande tormento! Oldrado eGuidinga verranno a ghermirmi tra poco!—ed Ugo barcollò.

—Ugo!—gridò Imilda.

E fu così potente la voce di lei, che il cavaliere si scosse, rattenendola e lamentando:—Questa è voce di paradiso! Imilda, non fuggirmi! Sono nell'affanno immenso! Non fuggirmi dalla terra!

—Ugo, sono qui avvinghiata a te! Nessuno può rompere questo nodo fatale!

—Nessuno? E chi ti dicesse chi io sono?

—Nessuno! E nessuno lo può dire perchè tu sei Ugo!

—Io devo dirlo. Sono vinto e vituperato.

—T'amo!

—Scomunicato e fuggente.

—T'amo, e sono tutta tua!

—Perchè m'ami? Che t'ho fatto per condannarmi così?

—Ed io che t'ho fatto?

—Ricordati Guidinga.

—È così disperato l'amore! Chi ci resiste?

Imilda nascose Ugo nella grotta, andò nella casetta e fu lietissima che mamma Agnese non ci fosse, perchè la stava stendendo dei pannilini in un pratello: i figli di Federigo dormivano ancora, colle membra rotte dal combattimento: Imilda tolse su del pane, dei cibi, delle vesti, e con gran cura involò da un pancone un suo cofanetto prezioso.

Ritornò da Ugo, lo fece rifocillare, lo animò tutto, gli domandò:—Ugo, sei pronto?

—A tutto, purchè tu mi baci!—rispose Ugo.

—Ancora e sempre.

—Ora mi trovo saldissimo.

—Dunque decidi di me.

—Dai morti non ebbi che strazio. Da te viva voglio la felicità! E qual'è? quella degli agi, dell'ambizione, del potere? Tu non sai com'è l'anima mia! come amore, memorie, gelosia, impotenza, strapotenza, come tremendi uragani l'abbiano squassata! Dammi un poco di pace! Io non so dirti…! Prima di tutto, per la salvazione nostra! andiamo dal romito di Malandaggio che non ci conosce….

—E quegli benedica le nostre nozze.

—Poi…. O Imilda, ci abbiamo pensato?—Ugo fu come ghermito da un pensiero.

—E di che temi dopo? Dio sa che tu sei mio, ch'io sono tua. Se così volle per tormentarci, questi istanti audacissimi di vita vincono tutti gli anni!

—Imilda—dubitava fieramente Ugo:—non posso! non devo!

—Come mi ami poco! Ma non vedi? Io fuggo anche da mio padre per te!

—Se vuoi ch'io comandi, comando: fuggiamo!—esultò Ugo.

—Sì, andremo lontano da Adalberto….

—Da Oberto!

—Da tutti! Senti: ho pregato tanto. Oh lo sa la madre mia. Ugo, in questo cofanetto ho i suoi gioielli, fuggiamo lontano…. "Chi siete?" domanderanno. "Siamo esuli." "Di che terra?" E diremo: "Il saracino Alzor disertò le nostre castella sulla riviera ligure." Fuggiamo lontano. O mio Ugo, vivremo lontano da tutti! Ci benedica il romito.

—Affermano i boscaiuoli ch'egli è profeta: ci predirà l'avvenire.

—Ma chi più profeta del mio cuore? Ascolti, Ugo? Morremo d'amore!

Tra le vesti Imilda aveva trafugato anche quelle dei figli di Agnese: Ugo si coperse con quei rozzi panni: Imilda si strinse a lui, dicendo:—Tu hai pane nella bisaccia? Quando sarà finito, lo domanderemo ai boscaiuoli, per pietà d'Iddio.—E s'incamminarono sulla montagna: nel primo torrente in cui s'abbatterono Ugo gettò il suo saio da cavaliero, e le calze, e gli usatti, esclamando:—Mi sento buono!

E montanaro e montanara s'arrampicarono sempre più, sempre più obliando che c'era un mondo basso nel quale la gente viveva in tanta guerra, inconsci affatto che c'era un castello con un morto maledetto e vituperato dai nemici, che c'era una strada sulla quale camminava Oberto, ringhiando:—Che vita sarà la mia con Imilda?

Quella di Imilda con Ugo doveva essere…. felice?

Dal dì che Imilda è fuggita con Ugo è passato un anno, due…. Nulla più nelle valli, nè a Saluzzo, si seppe di loro….

Solo il romito di Malandaggio ci tramandò su certi foglietti certe notizie, che mi venne fatto rintracciare nell'archivio di Saluzzo. Ma a che pro? Voi non ci credereste. Ebbene?

Sulle cime che dominano le valli di Fenestrelle, in cui si sbalza il torrente Chiusone, il rovaio, spezzandosi nelle forre dagli acuti ciglioni, dalle frementi profondità, stride cogli spiriti della mezzanotte, abbattendo, indiavolando, storcendo. È nero il tempo…. Una donna appare! Chi è?… Ella rompe il lenzuolo nei vepri: ecco svolazzano i brandelli sibilando. Si squarcia i piedi nei radiconi: vaporano le pozzette di sangue col verde fumoso delle meteore. Cade: ghignano le cortecce degli abeti colle boccacce rugose. Si lamenta collo strido della lupa trafitta: l'alito suo, uscendo dalle labbra, fuma come torcia di funerale notturno. Fanno tresca allo spettacolo spirti glauchi, spirti bigi, spirti scialbi. I brandelli sono lacerati, il vapore turbinato, le cortecce agghiacciate, l'alito diffuso in nebbia inargentata. Ecco la tormenta!

Ecco la valanga! La donna ancora rompe il lenzuolo e si scopre l'oscenissimo fianco…. Chi è? È Guidinga, la morta senza croce fra le mani. Guidinga rotola le valanghe al Monviso, sghignazza al Meidassa, le rotola al Glaisa, sghignazza al Genèvre, le rotola al Chalierton, sghignazza al colle dell'Assietta…. Fanno tresca gli spirti.

Prega il buon romito di Malandaggio che veglia tutte le notti e tutte, perchè sono l'ultime di sua vita, ed a ogni parola di lui ecco un castigo inflitto da Dio agli spiriti del male: quello colle aliuzze crepitanti fu impegolato alla resina gocciante da un troncono, quello punzecchiato colle foglie aghiformi di un pino, l'altro legato colla coda ad un roveto, l'altro propagginato in una buca di calabroni…. O Guidinga, omadonna perduta, se tu fischi verso qualche casetta di montanari, è indizio di sventura!

Su, su, su: là nell'opaca foresta, che si distende a falde scendenti, come un calderotto di pece riversato dalla montagna su si vede un lumicino. Pare una favilla minutissima addormentata sull'immensa fuliggine di una cappa ne' castelli. Può essere un fuoco acceso dai folletti colle pergamene rubate al vecchio di Malandaggio, o un voto fatto alla Madonna santissima, da qualche pastore: lume di finestretta no, perchè le cime dei monti già sono nevose e i boscaiuoli già sono calati nelle valli: eppure!

Giù tra i dirupi d'una frana s'ode una voce che dice:—Com'è lontano!

È voce d'uomo: non è grido di fiera, nè fragore d'acqua travolta, nè rotta, nè corsìa di vento.

Chi può essere?… Oh vedi, un pellegrino!

O pellegrino della notte nera, ove t'inerpichi? Quegli cammina, cammina. O pellegrino che cammini, perchè t'inerpichi e dove? Forre, di qua, spaccate boscaglie di là, sentieri taglienti, tempo da lupi, ora da spiriti: ritorna alla valle. O pellegrino che non ritorni alla valle, dimmi chi sei?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Cammina e cammina. Il pellegrino è arrivato ad una capanna, su, nell'opaca foresta.

La finestretta quadra gli sbatte addosso un po' di luce e lo mostra qual'è, un alpigiano inferraiolato: la portella si apre sollecitamente: ma oh! questa che spinge la robusta tavola di quercia non è mano di montanara!… Qua nella stanzuccia di legno ecco appese le scuri del boscaiuolo, qua due giacigli, una culla di poverissime lane e nella culla un bambolino, qua entro quattro lastre di pietra ecco un focolare vampeggiante.

L'uomo e la donna sfogano nei cupidissimi baci e negli abbracci potenti la desolazione delle lunghe ore già deserte.

—Lodato Pio e i santi! O Silverio!

—Sono qui, o Maria!

—Tu non venivi mai!

Egli, pigliando a ciocche i capegli della donna e con quelli facendo fascia maliarda d'amore al volto irrigidito, egli esclama:—Perchè così sorridi?

Ed ella:—Perchè sospiri così?

—Mia Imilda!

—Ugo, ti aspettavo tanto!

Ecco adunque, come racconta il vecchio di Malandaggio, uniti il cavaliero ardente e la promessa sposa di Oberto, un boscaiuolo e una montanara, Silverio e Maria.

Ugo in due anni era cresciuto di corpo, dimagrato di volto, ma sempre contento, come marito, come padre, senza più gli ardentissimi tormenti pei deliri d'amante e di figlio. Ugo si volgeva al suo passato, come tentava di specchiarsi nei rapidi torrenti dell'Alpi: un gran tumulto che si perdeva, ecco il passato. Imilda a tutte l'ore ringraziava Iddio: dalla cappella ardente era venuta alla placidissima casetta della massaia! Imilda attendeva alla sua creaturina, alla capretta, alla bisogna del pranzo e della cena, cantava sempre fissando il cielo: e alla sera aspettava il suo Ugo che tornasse dai boschi. Due anni erano scorsi in pace'.

—Ugo—dice Imilda, cambiando tutta quella, festa in una scena placidamente dolorosa:—Dio sa come, anche oggi, fu affannato il tuo viaggio, con questo gelo, sulle scoscese rive del torrente, senza di me! Ma la mia solitudine! Oh sei qui: non voglio saper altro, tra le mie braccia tenaci! Ugo!—E ad un tratto:—Perché dunque stasera sospiri così? E perché non mi domandi della bimba?

—Perché non me ne parli?—Ugo tenta quasi schermirsi da tanto amore.Ugo è triste e combatte per infingersi.

—Oh come io ti aspettavo, e come t'aspettava anche lei! Non voleva chiudere gli occhi senza il bacio del babbo.—Imilda, gentile e sagace interprete, vuole snebbiar la fronte del suo Ugo colle sante labbra dell'angiolo custode.

—Dorme?

—Meglio che se posasse in culla d'oro. Non dici il tuo scherzo d'ogni sera?

—Sì….—Ugo sorride, beato e tormentato da quella soave violenza:—Lascia ch'io la baci, la mia castellanina.

—Messere, non siate scortese colle belle. Voi la svegliereste a bacioni….—dice Imilda col tono di una gran dama, regina di venti damigelle e cento paggetti, sporgendo il labbro inferiore, facendo un inchino alla culla di legno e porgendo al cavaliero, perchè lo baci, un lembo della sua gonna di pelli cucite: gioca fanciullescamente e amorosissamente deridendo il passato: ma poi, fissando Ugo che non l'asseconda, o l'asseconda come smemorato, poi con dispiacere e quasi offesa:—A bacioni? No: è lo scherzo d'ogni sera, ma non l'abbiamo detto…. Tu non l'hai detto celiando, come sempre….—Infine incertissima:—Che cos'hai, Ugo?

Ugo con voce addolorata:—Baciala tu per me!

—Ugo?

—Imilda, prega il tuo angiolo che nel sonno dica a Dio una parola per me!—Ugo, pentito di quel lamento che gli è prorotto, piomba in un silenzio desolato.

E Imilda meravigliata e trepidante:—Ugo, che c'è? Tu guardi la cuna e non sorridi? Tu sei pensieroso? Tu m'hai stretto a te, celandomi un dolore—E con stringicore ineffabile, quasi a scongiurare un pericolo:—Non sono la tua sposa? E perché l'angiolo nostro preghi per noi, forse vuoi dire che le nostre orazioni non sono più quelle?

Ed Ugo affannato, ma sempre più facendosi forza, quasi per non tradire un segreto:—Le tue sì, le mie….

—Che vuoi nascondermi?

—Lo sai…. Da un pezzo…. Sempre: c'è nelle mie orazioni un rimorso!

—C'è nelle mie una dolcezza ineffabile!

—Imilda, rammenti quel giorno, dopo quello in cui ci sposò il romito?

—E non ci vedeva Iddio?

—Senti: quel giorno io spiai i tuoi piedi insanguinati nella corsa ruinosa, il delicatissimo petto ansante di fatica, gli occhi spossati, più che d'amore, di travaglio! Io ero vinto, vituperato, scomunicato, fuggente, e potevo io dirti mia? Ecco il mio rimorso!

—E sapevo io resistere? Ecco la mia gioia!

Ed Ugo, titubando:—Ahi da quel giorno ad oggi!—e combattuto:—Non posso dirti, e come! Mi tormento!—Poi ad una stretta di lei:—T'ho detto…. il mio rimorso!

Ma Imilda:—No, no! Tu mi celi qualcosa! È un altro il segreto. E lo so: stamane sei partito più presto, con un pensiero….—e pregando:—Dimmi! Fu tanta la pace, che anche il dolore ci giunge benedetto!

Ed Ugo risoluto e tremante:—Ebbene ti dirò. Sì, stamane sono partito prestissimo, sì con un pensiero, una febbre, che mi tormentavano da due notti. In questi mesi ho obliato, lo sai, ma l'anima talora mi rigurgitava in petto, e volevo sapere qualcosa! Ressi a lungo, penai, penai, poi non ressi più. Stamane, scendendo giù per le valli coi boscaiuoli, boscaiuolo io pure, volli richiedere novelle di coloro che abbiamo lasciato giù… Dopo due anni!

—Ah! perchè?—freme Imilda con rimprovero grave:—Perchè? Non ti bastava il mio amore?

—O mia donna! passai il Chiusone, venni a Inverso, a san Germano, aTorre di Luserna.—Ed Ugo rimane, palpitando dolorosamente.

Sospira Imilda:—La valle del Pelice ov'è il castello di mia madre!—e china la testa, come pronta a subire il castigo della disubbidienza del suo Ugo.

—A Luserna. Più oltre non osai! E come un rozzo villano, indifferente, per il solo amore di un po' di pane, feci questa domanda: "O buona gente, volete braccia? Vi è un signore potente, non lontano di qui, il quale abbisogni di scuri per apparecchiare le travi alle macchine di guerra? C'è forse quel signore? E come si chiama?" Oh lo strazio di quella simulazione!

A questo punto gli accenti divengono procellosi,

—Hai saputo dunque d'Adalberto? di mio padre!

—Adalberto è vinto: Oberto è vincitore: Ildebrandino è morto.

—Morto?—così domandando, Imilda rompe in uno scoppio di pianto.

—Di altri non seppi. So che il mio tormento è grande, e tu piangi. E so che Oberto….—Ugo ripete astiosamente, quasi aizzato dalle memorie:—Oberto!

—Ebbene?

—Rizzi il capo a sentire il nome di colui? Oberto è nel mio castello…. signore potentissimo!—Ed Ugo è straziato dalle sante lagrime d'Imilda:—E la sposa? mi domandai. Non ha sposa. O Imilda, s'io non ero il tuo dimonio, tu ora saresti madonna di grande stato, moglie di Oberto, in belle sale, fra gentile corteo di damigelle. Ma sei qui, con me!… Perche ho valicato oggi il Chiusone?—e con forza gioiosa:—Ugo ritorna in me!

—Ugo!—rimprovera solennemente la donna:.—Dovevi lasciarmi nel fuoco quel giorno! Non avrei oggi ascoltato questo!… Ugo!… Mio padre!

—Questo ti grava?—minaccia tristamente Ugo: poi sogghignando:—E sei serbata ad ascoltare di più! Sappi dunque: che i traditori giungono dappertutto: e Bonello che un dì fu pagato da Adalberto contro di me, contro di noi può essere pagato da Oberto….

—Oh quel valente, no! Voi che dite così non siete cavaliere!—Imilda pavida e sdegnosa dell'immenso pericolo ribatte il dubbio col cuore:—No, no, Ugo!

E a quest'altro punto la procella si scatena tremenda, e Ugo si percuote il petto, si rizza furiosissimo, immenso nell'amore e nell'odio. Imilda si spaventa, e più è spaventata, più subisce il fascino di lui.

—Ma sono padre!… Perché ho valicato il Chiusone?… Vedete quella cuna? Che c'è, che c'è, Dio mio, nel destino perchè la maledizione debba pesare su quella creatura? e su voi? Tormenta me, se godi di questa atroce potenza: io faccio sacramento di rendere un giorno agli uomini quello che essi mi hanno fatto, col furore addoppiante della vendetta! Ma una donna, una bimba! Ad esse fu dato il cuore per amare, non per odiare!

—Ugo, tu bestemmii! Senti: castigo d'Iddio! il vento vuol sfasciare la capanna! O Signore, la mia cuna!

—Non temere! Il tristo dono della vita non si ritoglie mai a tempo. Gioisci? Muori. Ti strazii? La morte invocata non VIENE. Tutto è martirio!

—Ugo! Ugo, tu piangi?

—Se Bonello venisse quassù?

—Tu hai la scure: io so pregare Iddio.

—Tu non temi l'ira del cielo, perché tu sai che in cielo Dio è l'amore: io temo quella degli uomini, perché in terra Dio è l'oro!

—Ti dissi io: "Ugo, fuggiamo! I boscaiuoli già sono tutti al piano: qui temo la bufera, la valanga, la morte" ti dissi?

—Ed io devo supplicarti: fuggiamo! Oggi lo seppi, sì; fu scoperto che noi siamo quassù: fu giurato il nostro martirio, lo scempio della tua creaturina, il tuo vitupero, la mia prigionia!

Bonello, forse domani, o solo col tradimento, o violentissimo con cento armati, verrà su queste cime, a guadagnare la taglia! Io ho udito il bando e la promessa in oggi stesso! Fuggiamo, Imilda!

Imilda è già soggiogata, non si lamenta, non si dibatte, non si stringe ad Ugo, non prega Dio, ma solo geme col sospiro più profondo:—E la nostra poverina?

Quel sospiro soffia in un grande inferno: perché Ugo bestemmia:—Sempre un rimorso nella mia preghiera!

Ma Imilda se lo stringe a sè. Quando il boscaiuolo era entrato nella capanna era Silverio, ora il cavaliero era Ugo. Con Silverio Imilda amava la pace, con Ugo adorava il passato, il presente, l'avvenire.

—No, Ugo! Io ti seguii! Non ti seguii: ma ti volli, ti trascinai, ti inebbriai! Oh com'era il tuo amore? Ch'io non ti abbia poi conosciuto mai in tanti mesi? Che tu non sii forte come me?

—Imilda!

—Come sarà il tuo amore?

—Sarà come adesso! Ardente, santo, santissimo, pronto a tutto!

L'indomani mattina era tempo assai sinistro. Nelle valli di Fenestrelle stagnava un morto nebbione: i torrenti scrosciavano colle note basse della loro più tetra solitudine, direcciando dai picchi squallidissimi, o tra le rupi invetrate di gelo rotando colla schiuma cinericcia: pendevano secchi e scarmigliati dai ciglioni a squarci gli arbusti selvatici: gli abeti davano le loro tinte fosche a quell'immenso cimitero della natura: cadevano foglie e cortecce e rami e poveri uccelli migranti che non vedevano più cielo: il cielo era una caligine sola e le montagne, che v'immergevano le cime, mostravano le loro ossature di macigni profilate di nevi, disegnandosi come bigi carcami raccosciati o caduti. Era forse il dì de' morti…. La notte prima era dirupata la valanga? dove? come? Chi l'ha detto? Alla luce scialba di questa tristissima mattina si sono fugate le imaginose poesie del giullare della notte…. Dov'è Guidinga? Chi attende?… I lividi pinnacoli del Monviso, del Meidassa, del Glaisa, del Genèvre, del Chalierton, dell'Assietta, non conoscono donna alcuna!

Qual freddo deserto! Eppure non è deserto per Ugo e per Imilda, che lentamente aprono la porta della loro capanna: quello curvo sotto un fascio di povere robe, con pochissimi cibi, colla sua scure pesante: la donna rimbaccuccata in dieci pelli di agnello, non a proteggere lei, ma la creaturina, che amorosissimamente si aveva al petto.

Imilda trepidante guarda giù al sentiero per la valle, e, stringendosi ad Ugo, mostra il viso affannato da una veglia tormentosa, come quella che, cogli apparecchi non mai decisi, coi dubbi, coi rimpianti, precedette il tristo giorno di un viaggio verso l'ignoto. Quale veglia!—Ma è proprio vero che fuggiamo? Che mio padre è morto? Quante cose con noi si dovrebbero portare! Quali? Ma il fardello sempre cresce! Questa veste è necessaria? proprio? Se il freddo, se la bimba…. Eravamo tanto tranquilli! Non si può pensare! Che succederà? Abbiamo preso tutto. Tutto? Quell'oggetto qualunque è lì nella casetta: non c'è fatica a staccarlo, aumenta di poco il peso al fardello, lo porterò io, e potrebbe divenirci il più necessario: lo portiamo sì o no? Lo abbiamo lasciato! Torniamo: si va: si ritorna…. Quell'oggetto è forse inutile. Se si potesse avere una culla! Dove andremo, o Dio? Che abbiamo fatto?… Quale figlia fui rispetto a mio padre?… Uno spavento grandissimo stringe sempre d'attorno la casetta: i nemici, i pugnali, il tradimento! O Dio Signore! Passerà la notte. Ma che non passi! Qui l'ore un giorno erano felici: di qui dobbiamo esulare! Non passi e sia l'ultima in pace!—Fra l'angoscia, i dolori dell'amore e l'amore dei dolori, è passata! Ebisognafuggire. Imilda ha la mano tremante sulla porta, la tocca, e, come se quella fosse di legno benedetto, la bacia, si fa segno di croce: esce, e guarda giù. Sospira quasi liberata da un gran dubbio, il peggiore, dicendo:—Bonello non viene!

Ugo tace. Ugo stette per tutta la notte senza pronunciare una parola.

La capanna aveva al suo lato posteriore l'orticello e una stalletta con un finestrino a terra. Ugo e Imilda, uscendo per la porta dinnanzi, senza nulla più vedere, incominciarono a salire il monte…. Si udì un belato…. La capra della massaia sporgeva dal finestrino sull'erba il muso gemmato di brina, cogli occhioni sbarrati, col campanaccio che suonava con grave lamento: levò la testa…. Addio!

I fuggitivi sentirono quel belato: ma nessuno ebbe tanta forza da aprir bocca…. Addio, santa e tranquilla casetta dell'amore! Da te ancora esce una voce per noi! E noi ritorneremo?… O travi, cui recise e inchiodò la mano del boscaiuolo nelle lucenti mattine di primavera, o travi, quanti ricordi ci sorridono nell'anima!… Due anni prima, dopo il tormentoso esulare di giorni e di notti, dopo la benedizione del romito di Malandaggio, dopo mille paure e troppe gioie, al primo giungere su quelle cime sicure, Imilda era caduta affannosissimamente nelle braccia di Ugo, aveva avuto da lui tanti baci, quant'erano stelle nel cielo, a salutarli felici, ed aveva incominciato a susurrare:—Ti ricordi com'erano fiacche le corde del mio liuto?… Sai, non sento più suoni, nè più vedo…. Eppure la mia mamma Adelasia anche lei mi diceva di volermi bene!… Ugo, che cosa sono le stelle? Fuochi o anime che si adorano? Bisogna proprio morire per diventar stelle? Quei fuochi palpitano, quell'anime baciano, ma non hanno braccia per stringere forte forte…. Stringi!… L'edera e la quercia sono cose di questa terra, e come sono felici!… Ugo, che cosa dirà la Madonna santissima? Ma io l'ho sempre pregata: e, pregandola, non sapevo che lei, una notte, la dovesse arrossire!… La Madonna è su, su, su, lontana! Tu sei qui! Stelle, Madonne, baci, fiori, sorrisi…. tutto io sogno. Tu non sei un sogno?… Un giorno ti sognai bello, arcangelo mio, e coll'ali fiammanti e colla lancia del trionfo…. Ora ti sento mio: e ti strapperei l'ali, per paura che tu mi fuggissi! Ed ora sei vinto!… Ieri, l'altrieri, mi pareva di morire nell'imaginarmi le gioie del tuo amore, ora vivo di vita addoppiata!… Tu mi credi moribonda perchè ho il seno discinto e ansante?… Voglio dirti…! Ricominciamo… il pellegrinaggio dove vuoi, per giungere ancora qui, alla prima notte di nozze, per non veder più stelle, nè cielo, nè sante protezioni, per cadere ancora qui, e dirti ancora che sei mio!… Ricominciamo il pellegrinaggio…. Su, su…. Eppure! mi alzo, dò un passo, non ho più forza e ripiombo!—Aveva finito a susurrare così, e aveva dormito sotto un padiglione di frasche, avvinta alla persona del suo cavaliero, odorando l'effluvio dell'erbe aromatiche su cui posavano l'api: la luna l'aveva vestita come d'una coltre di serico bianco, e, fra i mille bisbigli del vastissimo silenzio, lì vicino il gemitìo d'un ruscelletto le preparava nella schiuma iridescente le fuggitive perle alle sue nozze. S'era svegliata, più stanca, soffogandosi gli occhi leziosamente e domandando:—Dove sono?—per sentirsi rispondere:—Sei ancora sul mio petto!—E sul petto di Ugo ella, che nel castello d'Ildebrandino aveva vissuto dei giorni solitari e freddi come una monaca, ella ad ora diveniva poetessa gentile, ad ora fremente, come una sibilla, insaziata di baci e audace nelle profezie, ad ora bambina, ingenua, tranquillissima, secondo i sonni della notte. Quando Ugo, felice e infelice, le aveva detto:—O Imilda, qui su queste rupi è morto tutto il mondo per noi! Qui siamo soli, e possiamo esser soli per un secolo! Io scenderò giù giù coi boscaiuoli al lavoro….—No, no!—ella aveva supplicato:—Rimani sempre con me!—poi aveva sorriso sprezzantemente al cofanetto dei gioielli, soggiungendo:—Sì, tu lavorerai e avremo il pane de' montanari, e lavorerò anch'io.—Ti grava la solitudine? Monti e monti, e cielo e silenzi e voli d'aquile superbe: intorno a te è il deserto.—Il deserto? Ugo, facciamo un mondo, siamo creatori: monti e monti, e cielo e silenzi e Dio sparso dappertutto: tra questo mistero facciamoci una casetta; vuoi nominarla castello, romitorio, reggia, monistero, o mondo? Sia come vuoi: da questi picchi noi pregheremo e regneremo…. Che? Ameremo! ecco la idea della divinità.—Imilda aveva scelto il luogo per la casetta, con grande importanza ciarlando della maggiore o minore probabilità dei venti molesti, prevedendo l'inverno col caldo dell'amore (ma non l'inverno vero!), occupandosi della comunicazione col ruscello, con un prato fiorito per la preghiera del mattino, e col sentiero che conducesse giù alla prima vallicella, e giù ancora e giù e giù a qualche lontana capanna d'anima viva: e pel luogo aveva tratto placido augurio da un sogno che aveva fatto…. Era sposa da tre o quattro giorni e già amava le cose piccine, i fiorelli, le erbucce, simulava la vocina capricciosa e la pronuncia ingenua, temeva le api; poi riposava molto, cantava un'antica canzone, tutt'altro che cavalleresca, lenta, sempre a ritornello, affrettava sempre più l'opera della casetta, senza più chiamarla colle voci poetiche ma volendola sicura e bella e pulita, desiderava una capretta da mungere, con tanto latte e tanto pelo, pregava a notte, arrossiva dinnanzi a Ugo. Spesso, quand'egli lavorava a tagliare, ad inchiodare, a connettere, ella sedeva silenziosa, e finiva con un rimorso castissimo:—Mi spiace ch'io non possa aiutarti!—e temeva l'inverno…. Con scrupolo delicato si toglieva di collo la medaglia della madre, dicendo:—Tu assisterai al battesimo…. Ma che? l'acqua che ne manda Iddio nei ruscelli è tutta benedetta!—In quei primi mesi dell'idillio il cielo era azzurro con cento azzurri, splendido, diafano, e colla vita del suo sole, colla poesia della luna e delle stelle, pioveva smeraldi alle selve, porpore alle rupi d'occidente, diamanti all'acque, paci alle vallee, e amore a tutta la natura: tutto bisbigliava, tutto si incoloriva, tutto scaldava, tutto fremeva…. Ugo calava giù alle capanne dei boscaiuoli a lavorare, a guadagnarsi le provvisioni, mostrava la crocetta che gli aveva dato il romito di Malandaggio, si spacciava come uno che fosse tornato a' propri monti dopo avere lavorato in Francia, senza parenti, solo, solissimo: giù l'aria gli pareva più greve: i pochi aspetti degli uomini lo conturbavano: quando risaliva alla sua donna non si volgeva più a fissare la direzione delle sue terre, del suo castello, de' suoi nemici. Dopo tanta passione, la pace sola aveva padroneggiata l'anima sua desiosissima! Ugo si ricordava d'avere visto nascere il sole da un'alta vetta, quando si sentiva rozzo, villano, cattivo, crudele, fortissimo, libero: ma Ugo non rammentava più quello che aveva operato.—Ho fatto il mio dovere, ed ecco la mia pace!—si diceva, non cercando l'eccelse cime per indovinare coll'anima cupida di mistero, per indovinare affannosamente il vasto sogno de' suoi deliri, l'infinito! Egli, nato da un Oldrado che era precipitato nel nulla e sempre aveva taciuto all'evocazione del figliuolo spronato, e da una Guidinga che, colla potenza dei mali spiriti, aveva centuplicato l'anima perversa dopo morte, unamadonna perdutache aveva ascoltato, ascoltava, e doveva ascoltare fino al dì dell'universale giudizio le supplicazioni dei montanari:—Non rotolate la valanga!—Ascoltava, ma non esaudiva. E doveva essere castigata, dopo quel giorno ultimo dell'uman genere, nei secoli dei secoli dei secoli! Che cos'è la morte? Come si posa? Come si rivive? Oldrado aveva finito? Perché Guidinga sghignazzava sempre? Cos'è l'anima? il mistero? la condanna in vita e nell'avello? l'occulto delitto che si sconta? Ma pure vi sono i gaudenti, i tripudianti, gli epuloni?—Ugo non sapeva leggere, e poi allora c'erano pochi libri che sapessero persuadere alle belle cose. Ugo parlava male, pensava male, senza legame, senza logica, e soffriva peggio; di questo si accorgeva. Aveva patito e patito! Che importava a lui dei grammatici e dei logici paffuti? Ugo aveva avuto poca vita per la sua anima procellosa: eppure era già stanco: amava ed odiava!—In questa prima parte del nostro racconto il carattere d'Ugo l'abbiamo tracciato sconnesso, a sbalzi, tristamente indecifrato, come i foglietti dell'archivio di Saluzzo volevano, riferendo quelli unicamente le date e poche parole di quegli avvenimenti descritti da noi: la colpa non fu nostra: l'analisi ci avrebbe ghiacciato la penna fra le mani: né il romito di Malandaggio fu più felice di noi: confessiamo che, seguendolo passo passo e colorendo il nostro Ugo sul suo, dovemmo gettare il calamaio e la carta. Nella seconda parte del nostro racconto, dopo di averci ben pensato, speriamo di accontentare quei pochi che a ragione ci domandano:—Chi è questo Ugo?—Ugo non cercava più l'eccelse cime per indovinare il mare, ma si chinava dimesso alla sua donna per sentirsi replicare:—Ho bisogno…. Abbiamo bisogno di poco: tanto così! Guarda: una casettina!—e Imilda diceva cose che uscivano da una bocca, si ascoltavano da un orecchio, e domandava altre cose che si misuravano colle mani, si toccavano, si mangiavano…. La vita reale!—Nell'infinito sognato nelle notti temporalesche dell'anima, o Dio o il mare o il mistero, c'è lo squallore del silenzio e sempre nel povero cuore l'insoddisfatto bisogno dell'ali: ma invece, sotto quattro travi lontane da tutti, se c'è Imilda che dica:—Ti amo!—c'è nell'uomo, che anche creda Imilda immortale, il dovere sacrosanto di domandarle:—Siamo soli. Hai fame? hai sete? Dimmi che vuoi! Il mio amore starà nel risparmiarti, più che mi sarà dato, i sacrifici. Tu devi vivere! Ti darò da mangiare, da bere, da difenderti dal freddo; io sarò il tuo servo.—Alla poetica baldanza, solitaria, indagatrice, spossatrice, per la vita del pensiero, succede per la vita del cuore, per cagione della donna, una catena di obblighi concreti, santi, prosaici e poetici, legata alla terra: una catena che avvince due amanti di carne ed ossa, ma pure amantissimi. Vedendoleiche morde un frutto procuratole da noi, noi esultiamo di pienissima gioia. Dio-mistero ha troppo inghiottito l'anima nostra: troppo la disperse il mare: noi non siamo più noi…. Ma Imildavolevauna casetta. E fu fatta…. O travi, sì ripeto, o travi cui recise e inchiodò la mano del boscaiuolo nelle lucenti mattine di primavera! O finestretta, che parevi fatta apposta per la castellanina nascitura! Panca di bianco abete, su cui gli sposi sedendo, ai loro desideri avevano per calendario i fiori del pratello e per gnomone i fusti eretti dei pini! Addio! O porta, che sì ti chiudevi gelosamente anche in certe ore di giorno, e contro cui veniva importunissima a battere la testa la capretta: o porta, che eri aperta da una manina fattasi tremante! Addio!… E tu, scure, che spaccavi i tronchi, che carezzasti le assicelle a connettere la culla, che là alla parete di legno baciavi l'ulivo della pace! Voi, pietre del focolare, su cui posava a tradimento quel piedino, liscio come cigno! Voi, misteri divinissimi di gaudi, di tripudi, d'amore, di baldanze, di sfinimenti! Addio!… Imildavolevauna creaturina, a cui rendere placidissimi i baci, ch'ella, roventi, riceveva da Ugo. Imilda fu beata: sentì il dolce peso, i cari sussulti, la vita addoppiata da una vita arcana, il rigoglio del seno, i santi dolori e il premio di gioie: Imilda fu superba…. O capretta, capretta pezzata di bianco e di nero, che al vagito della bimba rispondesti col belato tremulo e insistente! Addio!

I fuggitivi mossero pochi passi e si rivolsero…. O bambinella, là dentro alla capanna tu saresti cresciuta la figlia di Maria la montanara e di Silverio il boscaiuolo. Ugo e Imilda avevano presi questi nomi. Senti, bella innocente, sì, saresti cresciuta e il massimo tesoro sarebbe stato l'oro de' tuoi capegli, baciati da mamma e da babbo. Senti, bellissima ritrosa: un dì, col grembiale della festa, col viso sorridente di tutti i giorni, tu saresti andata giù alla chiesuola della valle. Oh qual pace!… Ti colori in volto? Dillo alla mamma che non lo vedi quel giovinetto che cantava, cantava nei boschi, e non canta più!… Ma sì! sì, n'è vero che canterete insieme? La ninnananna accanto ad una culla…. Chi è nato? Se è un maschietto mettetegli in nome Silverio: s'è una piccina, Maria…. E con voi la famiglia dei boscaiuoli si continua nella casetta che fece il nonno di sue mani, davanti al focolare che segnò la nonna colla croce… Il nonno? la nonna? Non ci son più. Dio li abbia in pace. Sì, ma è un pezzo che son morti…. I nonni diventano bisnonni, e i bisnonni gli arcavoli, e…. Passarono gli anni, gli anni, gli anni, eh! Non passò l'acqua del torrente? Non le nevi sulle cime? Passarono le gioie e i dolori…. E poi?… Noi poveri morti preghiamo Dio che ci lasci tornare un minuto ai nostri cari: e torniamo alla capanna, che ci pare quella sì e no, e domandiamo alla gente che c'è:—Chi siete?—Boscaiuoli.—Lui come si chiama?—Enzo si chiama.—Lei?—Agnese.—Non si chiamano Silverio e Maria?—No.—….Oh come? Anche il nome si è perduto! E noi vogliamo raccontare di noi, e incominciamo a raccontare, ma siamo interrotti: così:—O buona gente, voi non sapete l'istoria? C'era una volta in questa casetta….—Le si è rifatto ancora il tetto l'anno scorso.—C'era una massaia che aveva in nome Maria….—L'uscio vecchio schiodato dall'uragano s'è messo nuovo con tavole robuste.—E un boscaiuolo c'era chiamato mastro Silverio, e una piccina. E dovete sapere che lui…. Vi dico l'istoria di un conte, di un capitano, di un famoso che ha patito tanto e….—Quanti anni sono passati? Che ci importa?… O buoni vecchietti che veniste su a cantare le vecchie storie, volete le limosine? Chi siete?

Quanti anni sono passati? È venuto l'oblìo!… Io non so quanti anni, ma sono passati in pace, in pace, in pace!… O bimba, saluta la nostra casetta! Noi fuggiamo! Addio!,.. Addio!…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

I fuggitivi si rivolsero ancora. Valicato un torrente profondo e rabbiosissimo su un ponticello di legno, che Ugo aveva gittato un giorno dall'una all'altra dell'aspre rive, un unico troncone barcollante, Ugo e Imilda s'allontanavano più che potevano lentamente, tenendo alle alture di sinistra, inverso Francia! Oh la capanna presentava il lato più bruno, su cui s'appoggiava la stalletta di strame bigio e l'abbeveratoio muscoso: dinnanzi a quello, ed era il più caro perché aveva un balconcino di quattr'assi a buchi tondi, fatto apposta e apposta ornato di un prunello selvatico per la massaìna, c'era l'orto ricinto da tanti scheggioni ammucchiati…. Dalla stalletta chiusa, per la finestruccia, come prima, la capra sporgeva la testa…. S'udì ancora un belato….

Imilda, che seguiva Ugo alla lontana, colla testa chinata, stringendo la bambina, non resse più allo schianto del cuore, si arrestò, volse indietro la faccia, e chiamando:—Ugo! Ugo!—lamentò due volte:—Quella povera bestiuola pare la ci saluti!… Perché non l'abbiamo condotta con noi? Ella forse cerca la padroncina….

Ugo per tre passi finse di non intendere: quando udì il sospiro dì Imilda e un nuovo belato gemebondo, dovette fermarsi: e disse:—Quando troverà la casa vuota!

Incominciò Imilda con un dolce rimprovero, ma pure felicissima di sgroppare a lui colla parola il muto dolore di quei momenti:—Volgiamoci indietro!… Ugo, io credevo che tu la conducessi con noi, e perciò stamane non me ne ho preso pensiero… ma….

—Non la volle venire—rispose Ugo forse per iscusa.

—Perchè? Se è così obbediente! Se è la nostra amica da due anni! Con me, Ugo, la verrà: le mostrerò un poco di fieno nelle mie mani.

—Tu vuoi che noi torniamo ancora là? Oh, Imilda, risparmiaci il dolore!

Pensò Imilda un poco, e poi timidamente:—Ebbene ci andrò sola: tu attendimi qui.

—Lasciala!

—Poverina!

—Sul cammino ci sarà d'impaccio; di qua, di là sbandandosi…. Dove trovare un filo d'erba?

—Ella ci sarà sempre accosto, e poi….—Imilda si scosse vivamente a un tratto, giungendo le mani sopra la sua creaturina:—Sì, Ugo, questo pensiero me lo manda la provvidenza! Senti: per due, per tre giorni… forse più… io non so dove e come andremo… e tu non m'hai detto….—e la gentilissima s'affisava in Ugo, collo sguardo quasi dicendogli:—Perchè hai taciuto tutta la notte? Che amore il tuo nei tristi momenti?

—Dove andremo? Imilda!—Ugo si compresse fieramente il cuore, come se in esso sentisse il serpe di un rimorso. Non sapeva quale passo; quale cima, quale direzione scegliere: dappertutto squallore, ostacoli, morte! E bisognava fuggire! Un pensiero gli era venuto: scendere diritto alle sue valli, al suo castello per pietà d'Imilda, e….

—La nostra piccina potrebbe domandarci…. Le nostre provvisioni nella capanna erano già troppo scarse: ora che abbiamo con noi?… Ugo, se il mio seno si inaridisse?—e Imilda straziata nell'anima sua, ma coll'aria rassegnata sul volto, e quasi umile da chiedere perdono:—Ugo, forse per lo spavento di questa notte…? Oh no, il Signore è buono!—e, già fidente, si scoperse il seno: se diede un brivido, fu brivido d'amore: perché la baciò la bimba, le sorrise con invito soave di madre e se la strinse: la bimba aprì gli occhi, sembrò spaurata di non trovarsi nella sua culla, ma in quella grigia solitudine, agitò le manine, posò la testina, tentò suggere le mammelle, e vagì.—Sono già inaridite!—pianse Imilda, volgendosi a Ugo, alla bimba, a Dio. Poi, già fidentissima, ricorse al primo pensiero:—Ugo, questa è ispirazione della provvidenza! Conduciamo con noi la capra: almeno la nostra creaturina avrà del latte, non morrà di fame.

All'atroce dubbio s'era mescolato un raggio di speranza. Almeno per un giorno, o due, la bimba non morrà di fame! E poi?

Imilda incalzava:—Tu, Ugo, deponi il fardello. La capra sarà la sua vita.

—Sì—disse Ugo: e il suo volto a un tratto s'illuminò d'immenso affetto.—Andrò alla capanna. Voglio quella povera bestiuola.

E Imilda con dolce violenza:—No! Con te non la volle venire e non verrà. E poi tu vedresti ancora quelle pareti!—e, sorridendo, con tutta l'aureola santa di una mamma:—Io voglio ancora baciare quella culla. Sì, Ugo: tu non sai. Staccando la creaturina dal mio seno, ho fatto un voto. Per questo Dio ci vede e tu devi sperare.

—Un voto?

—Credi tu in me? Ho pregato il cielo, e noi ritroveremo un tetto, una culla, del pane, e i nostri giorni felici!

—Imilda! E il tuo voto?

—Devo pregare in luogo santo. Ebbene? Nella capanna abbiamo abbandonato un altare di gioie e di memorie…. Ugo, lasciami tornare là….

—Se hai speranza!

—Speranza e fede. Deponi il fardello, pigliati la bimba, ma non farle prender freddo, ve'—e la mamma si spogliò delle pelli con studio d'amore soave, e fra esse avvolse la bimba, e gaiamente scherzando:—Sta qui. La mamma? Sai, è andata a prenderti la nutrice. Tu sei figlia di gran signori e i signori sono allevati da petti venduti. Noi ti diamo una nutrice da imperatori e da regine…. Fammi un bacio, inviziatella, un altro, un altro, un altro. T'ho scaldata a baci?

Ugo da tanto amore si lasciò soggiogare: disse di sì, depose il fardello e la scure: si trovò la bimba sul petto. Quell'alito innocente, tranquillo, purissimo, come l'olezzo dei fiori, parve gli penetrasse al cuore, refrigerando la piaga che v'aveva, più e più squarciata dall'immensa passione: la mente sua che prima in un caos tumultuante rifletteva, per così dire, quel cielo uggioso, quella natura squallida, senza avere un pensiero distinto, tutta presentimenti e tristezze, la mente accolse una idea di pace. Imilda l'aveva guardato negli occhi, e nelle pupille della donna c'era più che lo sguardo della madre e della moglie. Ugo fremette dolcissimamente, e, quasi meravigliato di sè, vezzeggiò la bimba, con garbi fanciulleschi, come nei giorni felici, e sorridendo spiò Imilda che si allontanava…. Quante memorie, sì, ma quante speranze rinate! Quando l'uomo, anche perseguitato dal più perverso destino, ha con sè i suoi tesori, una donna, una creaturina, che gli hanno ridato una pace e una fede gentile! Sì, quali e quante speranze! Ugo in quello sterminato deserto si sentì a un tratto contento….

—Bada al ponte!—Ugo gridò dietro a Imilda. Imilda era al ponte: la si volse, come dicendo:—Sta tranquillo!—si fece il segno della croce, passò al di sopra delle acque fragorose, e lesta lesta fu alla capanna. Quanto avrà pianto e sorriso! Quanto avrà pregato per Ugo, per la figlia, per lei! E, solissima, finalmente avrà supplicato—O padre! o padre, mi perdona!… Padre, ero nata da te, ma ero nata per l'amore!… Non mi guardi più?

Ugo, non trovandosi per un momento Imilda al fianco, provò d'amarla doppiamente.—O mia donna!—proruppe:—La mia grande sventura è la mia ventura! Sì, se gli uomini mi condannarono alla fuga, alla solitudine, all'esiglio, la mia stella mi concesse la ferma, la piena, l'unica vita dell'affetto! Come ho amato! Come amo! Laggiù in mezzo agli uomini, all'armi, alla potenza, avrei provato tutto lo squallore del deserto! Trista era l'anima mia più che l'avello dei morti! Volevo vivere e morivo, volevo morire e vivevo! L'odio e l'amore!… In poco tempo s'era squassata l'anima mia…. Quassù ho dimenticato i miei nemici, i miei più fieri, Oldrado e Guidinga, il mio fìerissimo Ugo ho dimenticato, e sono Silverio…. O mia donna! Che cos'è Dio? l'anima? il bene? Io non so: so che tu sei il mio Dio, l'anima mia, il mio bene! Tu il mio riposo!… Vieni, ch'io ti voglio: e con un ardentissimo bacio voglio sul tuo cuore suggellare le care speranze che ti allietano questi dirupi dell'esiglio!… Quando in me vedi il boscaiuolo, eccomi pronto a sfidare la valanga, fosse pure per coglierti un solo filo d'erba che ami: quando in me ricordi e compiangi e susciti il cavaliere, eccomi, armato come vedesti, audace senza l'elmo, insignito di sproni d'oro, tremendo figlio d'una traditrice e di un tradito, non quale fui, meschino in confronto alla tempesta che mi ruggeva in petto, ma quale avrei voluto essere, eccomi…. come un paggio a' tuoi piedi…. e tu comanda! Tu non comandi mai, Imilda! Tu desideri, tu guardi, tu baci…. Tu mi hai donato una bimba…. O fanciullina mia, non sai come si chiami tuo babbo? Silverio? Ugo? Si chiama felice: e ti basti. E qual vita ebbe? Nessuno mai te lo racconterà, perché andremo in terra straniera: noi taceremo gli strazi di un dì, perchè non turbino le famigliari gioie della nostra povertà!… C'è Bonello? c'è Oberto? c'è Adalberto laggiù? Io, fuggendoli, li oblìo!… O fanciullina, che so del mio ieri, del nostro domani? So che ti amo, ti bacio, e ti supplico:—Tu chiuderai gli occhi a tuo padre!—O mia donna! o mia bimba!… È triste momento questo, ma io non so perché provo nell'anima unicamente l'amore! Perché? Imilda ha fatto un voto. E per quello sento d'amarvisette volte sette, come porta la mia scomunica! Ed ecco il mio premio!

Imilda dall'orticello tornava colla capretta. Quali erano i suoi pensieri? La capretta le era dinnanzi irrequieta di contentezza: lei dietro tenendole fanciullescamente una funicella al collare e canterellando, quasi per dire al suo Ugo:—Ho veduto quelle pareti: senti, ma non soffro! Sii contento, Mio Ugo, ti voglio tanto bene!—e quasi ancora per dire alla bimba:—Odi la mia canzone? Ti voglio tutto il mio amore!—

Imilda giungeva al torrente. Ugo guardò sorridendo…. Imilda e la bestiuola erano a mezzo del ponte: Imilda si fece il segno dì croce: la capretta in quel momento, ravvisando la bimba, per molta gioia diede un lancio all'innanzi, saltando sul ciglione diruto. La donna fu trascinata da quella con troppa furia su quel tronco stretto e vacillante. Ugo vide due braccia agitarsi, rinculare la capra, poi sollevarsi un turbinìo di schiuma…. E il ponte era deserto!

In quell'attimo Ugo tese spaventosamente le mani, sforzo d'aiuto inutile e pericolo per la bimba, la quale poco stette gli sfuggisse e cadesse: poi s'avventò, rugghiando, al torrente…. La capra e la donna erano scomparse per sempre!

Giù, giù, al basso, là dove le acque sbalzate a piombo si travolgevano, diguazzandosi nella spuma occhiuta, là i massi rattenevano come un fascio sanguinoso. L'ingorgo avvenuto in quella orrenda chiusura faceva rigurgitare le nuove acque cadenti, finché queste ebbero forza di spazzare: allora quel fascio, trafitto, affondato, aggirato fu spinto sull'orlo, straziato, poi di nuovo giù di balza in balza, di scheggione in scheggione, ora per diritto, ora per traverso…. Avrà avuto la mollissima quiete del galleggiare addormentata solo alla valle, dove il torrente si spiana e bisbiglia d'amore prima di mescersi all'ondoso Chiusone. Imilda!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

L'immensa pietà fece sì che Ugo avesse l'immensa ferocia della belva.

Perché la capra con lei? Perché non la bimba? Non era sua madre quella? Ugo fu per travoltolarsi furiosamente nella forra imprecando—Sia con suo padre!—ma in quel momento il dimonio dello scherno costrinse le pupille del tormentato a guardare la santissima casetta dell'amore….

—Che mi resta?—domandò Ugo con disperazione atroce.

Ugo credeva d'avere in vita sua già sorriso e già sghignazzato! Ma verissimamente allora per la prima volta sorrise e sghignazzò….


Back to IndexNext